Mondo. Conflitti in aumento

 

Gli studiosi dell’istituto indipendente Peace research institute Oslo (Prio), analizzando i dati pubblicati annualmente dall’Uppsala conflict data program, hanno pubblicato il report Conflict Trends. A Global Overview, 1947-2023 sullo stato dei conflitti nel mondo.

Il 2023 è stato identificato come il terzo anno più violento dalla fine della Guerra fredda, superato solo da 2021 e 2022. Le numerose vittime provocate dai conflitti, negli ultimi tre anni, sono riconducibili soprattutto a tre contesti: la guerra civile nel Tigray in Etiopia, l’invasione russa dell’Ucraina e gli attacchi di Israele contro Gaza.

Conflitti statali
Nel corso del 2023, i ricercatori hanno individuato 59 conflitti statali – scontri dove almeno una parte era governativa – in 34 Paesi del mondo. In un apparente controsenso, lo scorso anno è stato registrato il maggior numero di conflitti dal 1946, ma in un numero minore di Stati. In realtà la spiegazione è semplice: è aumentato il numero di Paesi con due o più conflitti. Nel 2023, dieci Stati ne registravano due, mentre otto, tre o più.

Il già elevato numero di decessi del 2023 (122mila), secondo i ricercatori, aumenterà ulteriormente nel 2024 a causa del conflitto israelo-palestinese (che già lo scorso anno ha provocato 23mila vittime in soli tre mesi) e della prosecuzione della guerra tra Russia e Ucraina (71mila decessi nel 2023). Si aggiungono poi le 5mila morti per la guerra civile sudanese, che ha generato anche una delle peggiori crisi umanitarie mondiali.
I tre conflitti appena citati sono annoverati anche tra le nove guerre in atto nel mondo nel 2023, assieme alle violenze in Burkina Faso, Etiopia, Myanmar, Nigeria, Somalia e Siria. Perché un conflitto sia classificato come guerra è infatti necessario che in un anno causi almeno mille vittime.
Come si può intuire già dall’elenco delle guerre, l’Africa è la regione mondiale con il maggior numero di conflitti statali (28, in aumento rispetto ai 15 di dieci anni fa), seguita da Asia (17) e Medio Oriente (10).

Conflitti non statali
Se negli scontri non sono coinvolti attori governativi, i conflitti sono classificati come non statali. Per la prima volta dal 1946, le Americhe hanno registrato il maggior numero al mondo di questa tipologia di conflitti, scalzando l’Africa dalla testa della classifica.
Un incremento dovuto soprattutto alla crescente violenza tra i cartelli della droga in Messico e Brasile dove si sono verificate 19mila delle 21mila morti registrate in tutto il mondo. Il Messico, in particolare, continua a essere il Paese più violento del globo per questa tipologia di conflitti.

Violenza unilaterale
L’ultima forma di conflitto che i ricercatori hanno analizzato è la violenza unilaterale, cioè atti di violenza realizzati unilateralmente – sia da attori statali che da gruppi formalmente organizzati – nei confronti dei civili.
Nel caso dei governi, è stato individuato un netto declino nei decessi tra il 2021 (5.600) e il 2023 (2mila), dovuto soprattutto alla fine della guerra civile nel Tigray. Al contrario, sono invece aumentate le morti causate da attori armati non statali: 8.200, il picco dal 2015.
Buona parte della violenza unilaterale avviene in Africa subsahariana. In particolare, nell’Est della Repubblica democratica del Congo – dove operano numerosi movimenti armati – e in Africa occidentale – a causa della presenza di diversi movimenti jihadisti.

Conflitti senza fine
La fotografia che emerge è abbastanza drammatica, soprattutto se si volge lo sguardo al futuro. Lo scoppio del conflitto israelo-palestinese infatti rischia di far impennare il numero di morti nel corso del 2024, rendendolo l’anno più violento dalla fine della Guerra fredda. Anche perché la guerra russo-ucraina è ancora ben lontana da una risoluzione, così come le violenze in Sudan.
In un mondo sempre più complesso – dove le potenziali micce di conflitto sono estremamente diffuse – il rischio è che la violenza possa solo aumentare, con un impatto drammatico sui civili.

Aurora Guainazzi




Israele-Palestina, Russia-Ucraina. La giustizia è una chimera

Karim Khan è un giurista inglese di origini pachistane. Dal febbraio 2021 è il procuratore capo (prosecutor) della Corte penale internazionale (Icc, nell’acronimo inglese), organo di giustizia internazionale con sede a l’Aia, nei Paesi Bassi. Lo scorso 20 maggio Khan ha chiesto l’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità dei tre capi di Hamas (Yahya Sinwar, Mohammed al-Masri e Ismail Haniyeh) e di due leader israeliani, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant. Spetterà ai diciotto giudici della Corte emettere un mandato di arresto o una citazione a comparire.

Il giudice inglese di origini pachistane Karim Khan è – da febbraio 2021 – il procuratore capo della «Corte penale internazionale» (Icc).

Ciò che fa più discutere della richiesta di Khan è di aver posto sullo stesso piano accusatorio Hamas e il governo israeliano. Entrambe le parti in causa hanno respinto con sdegno le (pesanti) imputazioni del procuratore. Per parte sua, il mondo si è diviso evidenziando una volta di più le enormi fratture che caratterizzano questo periodo storico.

D’altra parte, le decisioni della Corte penale internazionale hanno risonanza mondiale, ma scarse conseguenze pratiche. La questione principale nasce dal fatto che essa è riconosciuta soltanto dalle 124 nazioni che hanno sottoscritto il Trattato di Roma del 1998. Non vi aderiscono paesi importanti tra cui Cina, Russia, ma neppure Stati Uniti e Israele.

Pertanto, al di là delle sue decisioni, l’efficacia della Corte è scarsa. Un esempio recente: nel marzo 2023, con riferimento all’aggressione dell’Ucraina, essa ha (giustamente) dichiarato Vladimir Putin «criminale di guerra», ma il presidente russo ha continuato a governare e a viaggiare senza problemi.

Nella stessa città olandese ha sede la Corte internazionale di giustizia (Icj, in inglese), organo delle Nazioni Unite che giudica le dispute tra gli Stati. Il 29 dicembre del 2023 il Sud Africa ha presentato alla Corte una denuncia contro Israele accusando lo stato ebraico di genocidio nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza. Lo scorso 24 maggio la Corte, presieduta (da febbraio) dal giudice libanese Nawaf Salam, con 13 voti contro due ha ordinato a Israele di fermare immediatamente l’offensiva su Rafah e di aprire il valico. Finora sono state parole al vento.

Il giudice libanese Nawaf Salam è da febbraio 2024 il nuovo presidente della «Corte internazionale di giustizia» (Icj).

Nel febbraio 2022, subito dopo l’aggressione di Mosca, l’Ucraina aveva fatto al Icj la stessa denuncia contro la Russia. A oggi, nessun verdetto è stato emanato.

Si tratti del conflitto tra Israele e Palestina o di quello tra Russia e Ucraina, al momento entrambe le Corti sembrano, dunque, confermare che una giustizia internazionale giusta e super partes rimane una chimera.

Paolo Moiola