Ucraina. In viaggio tra Fastow e Kherson

Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha compiuto diversi viaggi nel Paese in conflitto dall’inizio dell’invasione russa. Ogni volta per portare tutto l’aiuto che gli è possibile, anche grazie alla generosità di molti amici della Consolata.
A inizio novembre è stato a Fastow, vicino alla capitale Kiev, e a Kherson, sul fronte Sud della guerra.

«Ti auguro la pace dal cielo», è il saluto che spesso ci si scambia in Ucraina salutandosi alla fine di un incontro.

È un augurio con un significato concreto: ti auguro che nessun missile o drone cada dal cielo. In tempo di guerra, è un augurio essenziale.

Ma è anche un’invocazione: il Signore che sta nei cieli ci aiuti ad avere la pace.

Dal marzo 2022, quando compimmo il nostro primo viaggio nell’Ucraina invasa dalla Russia, siamo tornati nel Paese diverse volte. I Missionari della Consolata e la Chiesa polacca non smettono di portare il loro aiuto alle popolazioni colpite dal conflitto.

Charkiv. Nelle cantine della città, trasformate in rifugi sotterranei a causa dei bombardamenti. Novembre 2022.

In questi ultimi mesi siamo tornati in Ucraina diverse volte. L’ultima pochi giorni fa. Un viaggio iniziato nella comunità dei Domenicani a Fastow, non lontano dalla capitale Kiev, proseguito a sud fino alla città di Kherson e conclusosi con il ritorno a Kiev.

A Fastow c’è una vivace comunità di Domenicani impegnati non solo nel guidare la parrocchia locale e alcune chiese limitrofe, ma anche, con l’aiuto di numerosi volontari, in molte opere sociali.

Tra queste, l’accoglienza di bambini che qui possono stare sotto un tetto sicuro e caldo, e ricevere istruzione.

Poco lontano è stato aperto un centro di riabilitazione con una nuova cappella benedetta domenica 3 novembre dal Nunzio apostolico.

Benedizione della cappella del centro di riabilitazione per bambini non lontano dal convento domenicano.

Dopo aver partecipato alla giornata di festa, allietata anche da diversi cori, tra cui un coro di giovani non autosufficienti e un gruppo musicale di soldati, ci siamo diretti ancora una volta nella città di Kherson, posta a sud del Paese, sulla riva occidentale del fiume Dniepr.

Padre Luca Bovio (il primo a sinistra) una famiglia di Słoneczne che prende l’acqua.

In questi giorni la città celebra il secondo anniversario della liberazione, avvenuta l’11 novembre del 2022, quando, dopo una breve occupazione russa, è ritornata sotto il controllo ucraino.

Da quel momento non si può dire che la città viva in pace, anzi di fatto è un fronte di prima linea. Il fiume, in questo momento, determina il confine naturale tra i due eserciti: gli ucraini a ovest, i russi a est.

Le condizioni di vita in questo luogo sono difficili a motivo dei continui lanci che da una sponda all’altra si scambiano gli eserciti giorno e notte.

Fumo dopo un bombardamento.

La città che contava quasi 300mila abitanti prima dell’invasione, si è vista ridotta a 30mila. Oggi si assiste a un timido ritorno, e oggi si calcola che in città vivano circa 70mila abitanti. Alcuni, infatti, nonostante il pericolo, hanno deciso di tornare non avendo la possibilità di vivere per un lungo periodo da altre parti.

Don Massimo con il suo vicario, anche lui don Massimo, e un catechista che vive con loro, Sergio, stanno nell’unica parrocchia latino cattolica della città, dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù, posta non lontano dalla riva del fiume.

Sono impegnati a tenere viva la piccola comunità cristiana che ogni giorno si ritrova nella chiesa per celebrare la santa Messa, ma anche nel distribuire aiuti umanitari.

Don Massimo nella sua parrocchia dedicara al sacro Cuore a Kherson.

Don Massimo si reca quasi ogni giorno nei villaggi attorno alla città per portare acqua potabile. Qui l’acqua è abbondante nel sottosuolo, tuttavia, a motivo della guerra, le falde sono inquinate. Le esplosioni di magazzini di fertilizzanti usati dai contadini hanno causato un doppio  danno: la perdita dei concimi e l’inquinamento delle falde.

La fonte di acqua che si trova sotto la parrocchia è ancora pura, e con essa viene riempita una cisterna di 1000 litri che va settimanalmente nei villaggi.

Al mattino, passando i vari check point dei militari, arriviamo nel piccolo villaggio di Sloneczne dove lasciamo la cisterna.

Da Sloneczne ci dirigiamo verso la città e visitiamo la nuova lavanderia che i Domenicani hanno aperto affidandola ad alcune donne del posto.

Da poche settimane qui sono messe a disposizione 10 lavatrici e 10 asciugatrici dove chiunque, soldati compresi, possono gratuitamente lavare i panni.

Nel pomeriggio ritorniamo a visitare il piccolo ospedale di Bylozerka, per consegnare i medicinali che abbiamo portato.

Ritroviamo la giovane chirurga Natalia, l’unica rimasta a lavorare qui. È molto contenta di ricevere i medicinali che portiamo. Le condizioni di lavoro in questo piccolo ospedale che serve una grande regione, sono molto difficili. Ogni giorno il villaggio, e, a volte, l’ospedale stesso, sono colpiti dai droni o dall’artiglieria russi.

I segni delle esplosioni sono visibili. Tutte le finestre sono coperte con i sacchi di sabbia per attutire i colpi.

Ospedale di Bylozerka.

Delle quattro ambulanze disponibili prima della guerra, ne è rimasta una sola. Le altre sono state tutte distrutte.

Purtroppo, ha perso la vita anche una equipe medica che era a bordo di una di esse. Ultimamente è stata distrutta anche la caldaia dell’ospedale.

La caldaia (distrutta dai russi) dell’ospedale di Bylozerka.

I medicinali che consegniamo erano esauriti. Tra questi, ci racconta Natalia, mancano anche gli antidolorifici. L’incontro con lei è breve. La stessa dottoressa ci incoraggia a tornare in città perché fra poco calerà il sole e potrebbero di nuovo iniziare le esplosioni.

Una volta tornati, riusciamo a fare ancora una breve passeggiata nei dintorni della Parrocchia in una città completamente al buio. I parchi sono tutti chiusi, ed è pericoloso attraversarli. Tra le foglie abbondanti che coprono i giardini e i marciapiedi in questa stagione autunnale, sono mischiate alcune mine a forma di foglia lanciate dai droni, pericolose perché difficili da riconoscere.

Mercato di Kherson.

Notiamo la presenza di tanti cani randagi che girano per le strade deserte. Soprattutto nelle ore serali. È meglio evitarli. Il loro abbaiare è l’unico suono che si sente nel profondo silenzio di questa citta, alternato solo dai rumori degli spari che rimbombano da lontano.

Finita la visita a Kherson, torniamo a Kiev e da lì di nuovo in Polonia. Pensiamo che, nonostante la lunghezza del conflitto e la stanchezza che tutti sentiamo di avere, in primis coloro che abitano in Ucraina, la situazione richiede ancora molta preghiera e molto aiuto. E affidiamo questo Paese all’intercessione del nostro santo fondatore Giuseppe Allamano.

Luca Bovio, Imc




Finlandia. «La guerra ha cambiato le nostre vite»

 

La quotidianità è stata stravolta dalla guerra: non solo in Ucraina e in Russia, ma anche in Finlandia.

Qui il conflitto si fa sentire per la sua vicinanza, per le nuove scelte politiche del Paese e per le conseguenze concrete nella vita di tutti i giorni, inimmaginabili solo due anni e mezzo fa.

«Prima della guerra, il rapporto con i russi era buonissimo. I finlandesi vivevano di turismo russo, ora la situazione è cambiata totalmente». Lo dice monsignor Raimo Ramón Goyarrola Beldanato, nato il 20 luglio 1969 a Bilbao, in Spagna, nominato vescovo di Helsinki il 29 settembre 2023. La voce si fa dolente: «Pensiamo sempre che le guerre siano lontane, in altri continenti, questa è in Europa. A casa nostra c’è tensione ma anche la fiducia che questa guerra prima o poi finisca».

Monsignor Goyarrola parla anche del dramma dei profughi ucraini. A gennaio del 2022, dopo otto anni di un conflitto tra Russia e Ukraina definito «a bassa intensità», alla vigilia dell’escalation, i fedeli greco-cattolici di origine ucraina presenti a Helsinki erano circa cinquecento. «Secondo gli ultimi dati, oggi sono sette-ottomila persone. La nostra parrocchia di Sant’Enrico ne ha cinquemila», e comunque un numero importante rispetto ai circa ventimila cattolici di rito latino che ci sono in tutta la Finlandia. «È come una “parrocchia”, ma è senza chiesa e senza pastori. E quindi stiamo facendo di tutto per essere vicini. È questo uno dei miei impegni principali oggi».

Monsignor Raimo ha negli occhi la sofferenza di queste persone che da due anni non possono tornare a casa: «Le famiglie non sono complete: manca il papà, manca il marito, il fratello. È molto triste, ma almeno hanno un posto dove stare, molti stanno cercando un lavoro, anche il governo li sta aiutando».

«C’è un lavoro pastorale da fare – presegue il vescovo -, ma c’è anche l’aspetto più umano: trovare appartamenti, trovare da mangiare. La Chiesa non è solo anima e spirito. Gesù nei primi miracoli ha dato da mangiare, siamo corpo e anima, questo è il lavoro della Chiesa».

Abbiamo incontrato monsignor Goyarrola a Roma, in una pausa del corso in Vaticano per i nuovi vescovi. Nominato da Papa Francesco pastore della diocesi di Helsinki («che poi è l’unica di tutta la Finlandia, i miei vicini sono il vescovo di Stoccolma e il vescovo di Mosca», dice sorridendo), appena un anno fa, è uno dei volti più giovani tra i vescovi della Chiesa cattolica.

Nato a Bilbao nel 1969, è medico, professione che non ha del tutto abbandonato perché sta per prendere il dottorato in «cure palliative». Nell’Opus Dei dal 1987, è sacerdote dal 2002. Chiamato nel 2006 a servire una Chiesa alla «fine del mondo», come lui stesso dice, è una persona positiva e gioiosa. Dice di essersi «innamorato subito della Finlandia». Lui, spagnolo, non si lamenta del freddo, della poca luce, della lingua difficile. «Io sono un ottimista, mi fido di Gesù».

Sta di fatto che la diocesi di Helsinki «è la più povera d’Europa. Lo so che può sembrare strano in un Paese ricco, ma è così. I fedeli sono pochi, molti sono immigrati che vivono già tanti problemi. Dallo Stato abbiamo 6 euro per ogni fedele, io li ringrazio sempre i ministri ma è l’equivalente di un caffè e un biscotto e io invece ho tanti sogni, li chiamerei tanti progetti»: una scuola cattolica, centri per il catechismo, una casa per gli anziani, un seminario, chiese nelle città per celebrare le prime comunioni.

«Oggi, in venticinque città dove non abbiamo le nostre chiese, ce le prestano i fratelli luterani e i fratelli ortodossi – prosegue mons. Goyarrola -, perché da noi l’ecumenismo è bellissimo, siamo davvero amici. Anche per il Vaticano siamo un modello, quando si parla di un cammino ecumenico positivo si parla di “finnish way”».

Lui stesso è stato ordinato vescovo in una chiesa luterana, quella di San Giovanni, perché la cattedrale cattolica di Sant’Enrico era troppo piccola per ospitare un evento così importante e partecipato.

In mezzo a tanti problemi, l’amicizia tra i cristiani di diverse confessioni è dunque la via per condividere le sfide del mondo, ma anche «quelle dottrinali».

Una Chiesa che guarda ai migranti, che da oltre un secolo ha capito l’importanza dell’ecumenismo e che oggi fa da apripista anche sulla sinodalità: «Nell’organismo di governo della diocesi, un terzo sono donne, un terzo uomini e un terzo sacerdoti. Quindi i laici sono la maggioranza, ed è bene così». Perché la Chiesa, in fondo, dice il vescovo Raimo Ramón è come «un peschereccio, ognuno ha il suo compito ma per andare avanti devono remare tutti».

Manuela Tulli




Mondo. Conflitti in aumento

 

Gli studiosi dell’istituto indipendente Peace research institute Oslo (Prio), analizzando i dati pubblicati annualmente dall’Uppsala conflict data program, hanno pubblicato il report Conflict Trends. A Global Overview, 1947-2023 sullo stato dei conflitti nel mondo.

Il 2023 è stato identificato come il terzo anno più violento dalla fine della Guerra fredda, superato solo da 2021 e 2022. Le numerose vittime provocate dai conflitti, negli ultimi tre anni, sono riconducibili soprattutto a tre contesti: la guerra civile nel Tigray in Etiopia, l’invasione russa dell’Ucraina e gli attacchi di Israele contro Gaza.

Conflitti statali
Nel corso del 2023, i ricercatori hanno individuato 59 conflitti statali – scontri dove almeno una parte era governativa – in 34 Paesi del mondo. In un apparente controsenso, lo scorso anno è stato registrato il maggior numero di conflitti dal 1946, ma in un numero minore di Stati. In realtà la spiegazione è semplice: è aumentato il numero di Paesi con due o più conflitti. Nel 2023, dieci Stati ne registravano due, mentre otto, tre o più.

Il già elevato numero di decessi del 2023 (122mila), secondo i ricercatori, aumenterà ulteriormente nel 2024 a causa del conflitto israelo-palestinese (che già lo scorso anno ha provocato 23mila vittime in soli tre mesi) e della prosecuzione della guerra tra Russia e Ucraina (71mila decessi nel 2023). Si aggiungono poi le 5mila morti per la guerra civile sudanese, che ha generato anche una delle peggiori crisi umanitarie mondiali.
I tre conflitti appena citati sono annoverati anche tra le nove guerre in atto nel mondo nel 2023, assieme alle violenze in Burkina Faso, Etiopia, Myanmar, Nigeria, Somalia e Siria. Perché un conflitto sia classificato come guerra è infatti necessario che in un anno causi almeno mille vittime.
Come si può intuire già dall’elenco delle guerre, l’Africa è la regione mondiale con il maggior numero di conflitti statali (28, in aumento rispetto ai 15 di dieci anni fa), seguita da Asia (17) e Medio Oriente (10).

Conflitti non statali
Se negli scontri non sono coinvolti attori governativi, i conflitti sono classificati come non statali. Per la prima volta dal 1946, le Americhe hanno registrato il maggior numero al mondo di questa tipologia di conflitti, scalzando l’Africa dalla testa della classifica.
Un incremento dovuto soprattutto alla crescente violenza tra i cartelli della droga in Messico e Brasile dove si sono verificate 19mila delle 21mila morti registrate in tutto il mondo. Il Messico, in particolare, continua a essere il Paese più violento del globo per questa tipologia di conflitti.

Violenza unilaterale
L’ultima forma di conflitto che i ricercatori hanno analizzato è la violenza unilaterale, cioè atti di violenza realizzati unilateralmente – sia da attori statali che da gruppi formalmente organizzati – nei confronti dei civili.
Nel caso dei governi, è stato individuato un netto declino nei decessi tra il 2021 (5.600) e il 2023 (2mila), dovuto soprattutto alla fine della guerra civile nel Tigray. Al contrario, sono invece aumentate le morti causate da attori armati non statali: 8.200, il picco dal 2015.
Buona parte della violenza unilaterale avviene in Africa subsahariana. In particolare, nell’Est della Repubblica democratica del Congo – dove operano numerosi movimenti armati – e in Africa occidentale – a causa della presenza di diversi movimenti jihadisti.

Conflitti senza fine
La fotografia che emerge è abbastanza drammatica, soprattutto se si volge lo sguardo al futuro. Lo scoppio del conflitto israelo-palestinese infatti rischia di far impennare il numero di morti nel corso del 2024, rendendolo l’anno più violento dalla fine della Guerra fredda. Anche perché la guerra russo-ucraina è ancora ben lontana da una risoluzione, così come le violenze in Sudan.
In un mondo sempre più complesso – dove le potenziali micce di conflitto sono estremamente diffuse – il rischio è che la violenza possa solo aumentare, con un impatto drammatico sui civili.

Aurora Guainazzi




Israele-Palestina, Russia-Ucraina. La giustizia è una chimera

Karim Khan è un giurista inglese di origini pachistane. Dal febbraio 2021 è il procuratore capo (prosecutor) della Corte penale internazionale (Icc, nell’acronimo inglese), organo di giustizia internazionale con sede a l’Aia, nei Paesi Bassi. Lo scorso 20 maggio Khan ha chiesto l’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità dei tre capi di Hamas (Yahya Sinwar, Mohammed al-Masri e Ismail Haniyeh) e di due leader israeliani, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant. Spetterà ai diciotto giudici della Corte emettere un mandato di arresto o una citazione a comparire.

Il giudice inglese di origini pachistane Karim Khan è – da febbraio 2021 – il procuratore capo della «Corte penale internazionale» (Icc).

Ciò che fa più discutere della richiesta di Khan è di aver posto sullo stesso piano accusatorio Hamas e il governo israeliano. Entrambe le parti in causa hanno respinto con sdegno le (pesanti) imputazioni del procuratore. Per parte sua, il mondo si è diviso evidenziando una volta di più le enormi fratture che caratterizzano questo periodo storico.

D’altra parte, le decisioni della Corte penale internazionale hanno risonanza mondiale, ma scarse conseguenze pratiche. La questione principale nasce dal fatto che essa è riconosciuta soltanto dalle 124 nazioni che hanno sottoscritto il Trattato di Roma del 1998. Non vi aderiscono paesi importanti tra cui Cina, Russia, ma neppure Stati Uniti e Israele.

Pertanto, al di là delle sue decisioni, l’efficacia della Corte è scarsa. Un esempio recente: nel marzo 2023, con riferimento all’aggressione dell’Ucraina, essa ha (giustamente) dichiarato Vladimir Putin «criminale di guerra», ma il presidente russo ha continuato a governare e a viaggiare senza problemi.

Nella stessa città olandese ha sede la Corte internazionale di giustizia (Icj, in inglese), organo delle Nazioni Unite che giudica le dispute tra gli Stati. Il 29 dicembre del 2023 il Sud Africa ha presentato alla Corte una denuncia contro Israele accusando lo stato ebraico di genocidio nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza. Lo scorso 24 maggio la Corte, presieduta (da febbraio) dal giudice libanese Nawaf Salam, con 13 voti contro due ha ordinato a Israele di fermare immediatamente l’offensiva su Rafah e di aprire il valico. Finora sono state parole al vento.

Il giudice libanese Nawaf Salam è da febbraio 2024 il nuovo presidente della «Corte internazionale di giustizia» (Icj).

Nel febbraio 2022, subito dopo l’aggressione di Mosca, l’Ucraina aveva fatto al Icj la stessa denuncia contro la Russia. A oggi, nessun verdetto è stato emanato.

Si tratti del conflitto tra Israele e Palestina o di quello tra Russia e Ucraina, al momento entrambe le Corti sembrano, dunque, confermare che una giustizia internazionale giusta e super partes rimane una chimera.

Paolo Moiola