I Perdenti 29: Don Giuseppe Rossi, martire della carità e della libertà
Martire della carità e della libertà, così è definito don Giuseppe Rossi, parroco della frazione di Castiglione Ossola, facente parte del Comune di Calasca – Castiglione nella provincia di Verbania. La sua figura di sacerdote e martire, s’inquadra nel fosco scenario del declino del regime fascista in Italia, in cui prese a brillare la luce della Resistenza. In quel periodo sia i partigiani, sia i nazifascisti in ritirata, negli scontri armati che ebbero, subirono rilevanti perdite. In mezzo finirono comunità innocenti decimate dalle rappresaglie, alcune di grande efferatezza come a Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, ecc. dove le vittime si contarono a centinaia.
In questo martirologio di donne, bambini, vecchi, bisogna includere tanti sacerdoti e parroci delle zone coinvolte, che perirono insieme ai loro fedeli che non vollero abbandonare. Cercarono anzi di difenderli invitandoli a trovar «asilo» nelle chiese, cosa che però non fermò la ferocia dei nazifascisti.
Fra tanti eroici sacerdoti e parroci, ci è caro ricordare don Giuseppe Rossi.
Egli nacque il 3 novembre 1912 a Varallo Pombia (Novara), studiò nel Seminario diocesano e fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1937 a 25 anni. Era un prete alto e magro con occhiali rotondi, all’ordinazione scelse una frase di San Paolo come motto del suo ministero sacerdotale, che si rivelerà profetica: «Darò quanto ho, anzi darò tutto me stesso per le anime vostre».
Dopo qualche incarico come vice parroco, nel 1939 il vescovo lo nominò parroco di Castiglione Ossola. Un anno dopo, il 10 giugno 1940, l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania di Hitler. Negli anni che seguirono don Giuseppe Rossi, come pastore e guida di quella comunità, fece quello che poteva per gli angosciati fedeli della sua parrocchia, fino all’offerta totale della sua vita.
Caro don Giuseppe, noi generazione che vive in tempi lontani dalla seconda guerra mondiale, guardando la tua fotografia vediamo un «pretino» magro e asciutto, con tanto di talare, che incarna il modello dei sacerdoti della tua epoca…
Quelli erano tempi difficili, portare la talare era normale, ma in certe circostanze significava assumere degli atteggiamenti che mettevano bene in luce da che parte si stava.
Nominato parroco di un paese di montagna in età abbastanza giovane, che iniziative prendesti quando arrivasti a Castiglione Ossola?
Cominciai a girare in bicicletta tutto il paese, visitando famiglia per famiglia, in questo modo mi accorsi subito che a causa della mancanza di generi alimentari, legata alla guerra in atto, molta gente viveva in povertà. Decisi di comprare il riso alla borsa nera per sfamare la mia gente. Mia sorella Maria cucinava diverse minestre che poi alla sera, approfittando del buio, io stesso distribuivo nelle case dei più bisognosi.
E a livello di azione pastorale quali furono le attività che mettesti in atto?
Organizzai l’Azione Cattolica per i ragazzi, la Conferenza di San Vincenzo per i più poveri. Con le poche risorse che riuscivo a racimolare cercavo di dare una mano alle missioni e nonostante il triste periodo della guerra mi impegnavo nell’attività catechetica. Attraverso la celebrazione della santa messa quotidiana, per quanto mi era possibile, cercavo di alimentare la speranza fra la mia gente.
Già, la guerra. Chi non l’ha vissuta non riesce a immaginare come essa ti sconvolga la vita, anche se non sei al fronte a combattere…
Infatti i giovani partiti per il servizio militare mi scrivevano lunghe lettere dai diversi fronti e io, parroco della loro comunità, rispondevo a ciascuno, cercando di far sentire la mia presenza accanto a loro assicurando la mia umile preghiera.
Dopo l’8 settembre del 1943, seguì un periodo di generale sbandamento e di grandi eventi politici e purtroppo anche tragici, molti dei giovani della Val d’Ossola, salirono sui monti dell’alta valle e si arruolarono nelle formazioni partigiane.
Nell’agosto-settembre 1944 nel territorio dell’Ossola fu istituita una Repubblica partigiana. Pur avendo chiaro da che parte stare, pubblicamente non presi posizione per nessuno, anzi cercai di mantenere una condotta il più prudente possibile per non far correre inutili pericoli alla mia popolazione.
L’episcopato piemontese del resto si era espresso molto chiaramente invitando il clero a non schierarsi per nessuna delle parti in causa, ma rimanere al di sopra di esse, proprio per offrire a tutti indistintamente un servizio come «Buoni pastori».
Per questo volli essere un riferimento per tutti quegli uomini di ambo le parti che cercavano testimoni che incarnassero valori morali e religiosi per i quali valesse la pena di vivere e non morire, ma nel contempo soffrivo nel profondo del mio cuore nel vedere i sacrifici che i miei giovani facevano per conquistare la libertà e abbattere la dittatura.
In questo senso è rimasta famosa fra la tua gente una tua frase: «Chiunque bussa alla mia porta perché ha bisogno, io lo aiuto».
Ne avevo coniato un’altra che esprimeva lo stesso concetto: «Io aiuto chiunque si rivolge a me, perché per me tutti sono figli di Dio».
E il 26 febbraio 1945 fu il giorno del dolore. I partigiani furono informati che una colonna di fascisti della brigata «Muti» stava salendo la Valle Anzasca da Pieve Vergone per stabilire un presidio proprio a Calasca-Castiglione. Si appostarono sulle rocce vicino al paese. Erano in pochi, ma una strozzatura della valle dava loro un enorme vantaggio naturale.
Nell’attacco morirono due fascisti e altri 15 rimasero feriti. I partigiani si dileguarono, ma i fascisti organizzano una feroce rappresaglia, bruciando le case delle frazioni più vicine al luogo degli spari e rastrellando quanti trovano in strada per gli interrogatori. Tutti gli abitanti maschi fuggirono dal paese, mentre le donne si chiusero in casa. Alcuni parrocchiani mi invitarono a seguirli nella loro fuga, ma io non mi mossi, preferendo restare al mio posto.
I militi della «Muti», non contenti di aver bruciato case e rastrellato una cinquantina di persone fra vecchi, donne e bambini, presero anche te – il parroco – accusandoti di aver fatto suonare le campane per segnalare ai partigiani il passaggio della colonna militare.
I fermati, o meglio gli ostaggi, furono trattenuti fino a sera dopo un intero giorno di interrogatori. Stando con loro, a tutti raccomandavo di avere fiducia e calma, perché si faceva largo nella mia coscienza il pensiero che se la sarebbero presa solo con il pastore del gregge, ovvero io, loro parroco. Infatti dissi loro: «Prima di voi ci sono io. Sarò solo io a essere ammazzato».
E andò proprio così?
Verso sera fummo tutti liberati e tornammo alle nostre case e io in canonica, dove mia sorella mi scongiurava di scappare in montagna; ma non ci fu il tempo, infatti dopo pochi minuti si presentarono quattro Camicie Nere che mi arrestarono senza darmi nemmeno il tempo di infilare le scarpe e mi portarono via.
Don Giuseppe da quella sera sparì, lo trovarono alcune settimane dopo in un vallone sotto il paese, sepolto in una fossa che era stato costretto a scavare con le proprie mani. Il cranio gli era stato spaccato dal calcio di un fucile, aveva ricevuto una pugnalata alla schiena ed era stato finito con un colpo sparato in viso. Non si seppe mai chi lo uccise. Il comandante del presidio fascista di allora fu condannato nel 1946 per crimini di guerra, poi dopo aver chiesto perdono alla mamma di don Giuseppe e al parroco don Severino Cantonetti suo successore, scontò solo qualche anno di carcere.
A cento anni dalla sua nascita, il gesuita novarese Francesco Occhetta, in un articolo su «Civiltà Cattolica» dell’agosto 2014, che illustrava i motivi dell’apertura della sua causa di beatificazione, scrisse chiedendosi se il suo sia stato un vero martirio: la risposta è più che ovvia, in quanto la sua «testimonianza di vita evangelica» – in greco, martyrion – va ben oltre la sua drammatica esecuzione e rimanda a un modo di appartenere a Cristo nascosto nell’anonimato nonostante le crisi. La fedeltà di una promessa è portata al sacrificio di sé per la salvezza degli altri. È quanto la Scrittura riassume in un versetto: «Sii fedele fino alla morte, e ti darò la corona della vita» (Ap 2,10).
La vita di don Giuseppe Rossi, tramanda alle generazioni future la grandezza della missione sacerdotale nel cruento sacrificio del martire.
Don Mario Bandera
Don Giuseppe Rossi, un sacerdote «per tutto e per tutti»
Mons. Franco Giulio Brambilla (Vescovo di Novara, diocesi che territorialmente comprende anche tutte le Valli dell’Ossola) nella messa di chiusura dell’anno centenario della nascita di don Giuseppe Rossi, celebrata il 22/09/2013 nella sua parrocchia di montagna, con il successore don Severino Cantonetti, sacerdote quasi centenario, decano del clero novarese e intrepido custode della memoria del predecessore, si era chiesto in che cosa e perché il modello di prete incarnato da don Giuseppe Rossi fosse ancora di attualità. Aveva dato tre risposte.
Anzitutto perché «il sacerdote, che don Rossi incarnava, era “per tutto e per tutti”, egli era un prete che ha vissuto, oltre alla vicinanza, la dimensione della prossimità. La parrocchia potrà cambiare le forme, ma non dovrà mai perdere questo elemento decisivo, che caratterizzò il tempo di don Rossi: dovrà sempre essere “per tutto e per tutti”. La porta della chiesa deve avere la soglia più bassa; cioè la porta deve essere la più accessibile a tutti».
Il secondo motivo – disse Mons. Brambilla – è la cura personale verso ogni parrocchiano. Quel sacerdote modello ha fatto sì che la parrocchia tradizionale fosse anche «per ciascuno». Non era, cioè, riferita solo «al quantitativo, ma anche al qualitativo»: sapeva valorizzare la storia, la vocazione, l’intuizione di ciascuno, e curare le persone con uno sguardo personale. Don Giuseppe era un parroco che proprio grazie alla sua grande umanità ha costruito la sua storia, insieme alla storia delle famiglie della piccola porzione di terra che era chiamato a servire, il suo essere prete fu un servizio totale e gratuito alla sua gente fino all’offerta della propria vita.
Infine la terza dimensione – aveva concluso il vescovo – è quella di aver avuto a cuore «il privilegio dei poveri, quelli che hanno la vita che fa fatica ad andare avanti nelle relazioni. Le relazioni sono oggi quelle che vengono più penalizzate».
In un luogo dove meno te lo aspetti, alle porte di una cittadina amazzonica, sorge una scuola molto particolare. I suoi studenti provengono da sperduti villaggi e hanno vissuto la guerra civile. Vi si insegnano materie tecniche, ma soprattutto si vuole ricostruire il tessuto sociale. E far crescere negli studenti quella cosa stupenda chiamata autostima.
Fa caldo umido a San Vicente del Caguán. Siamo nel Caquetá, uno dei dipartimenti amazzonici della Colombia. San Vicente è anche noto per essere «il comune più deforestato dell’America Latina», dicono alcuni. Il vasto dipartimento, con una superficie pari a poco meno di un terzo di quella dell’Italia, si estende dalle pendici della cordigliera orientale all’Amazzonia profonda. Qui vivono meno di mezzo milione di persone, e ben quattro milioni di vacche. Parte della foresta ha infatti lasciato il posto ad ampi pascoli. Esistono tuttavia ancora molte zone e comuni raggiungibili solo via fiume, perché non ci sono strade.
San Vicente è anche uno dei comuni colombiani che più sono stati colpiti dalla guerra civile durata 52 anni. Oggi, all’indomani degli accordi di pace firmati tra il governo del presidente Juan Manuel Santos e le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) il 26 settembre 2016 (si veda MC novembre 2016 e maggio 2017), si respira un’aria diversa. Da un lato c’è speranza per questa nuova opportunità di costruire e vivere in pace, ma dall’altro è forte la preoccupazione per una situazione inedita ed equilibri che stanno rapidamente cambiando. La gente, in generale, ha poca fiducia nel governo ed è sospettosa. Per questo motivo non è troppo propensa a parlare della situazione e di quello che potrebbe succedere.
Nel frattempo Álvaro Uribe Vélez, il precedente presidente (di cui Santos fu ministro della Difesa), e il suo gruppo di destra hanno fatto una massiccia propaganda anti accordi di pace, sostenendo che, grazie a Santos, le Farc hanno guadagnato molti privilegi, e saranno presto in parlamento ed eleggibili alle varie cariche amministrative.
I combattenti delle Farc stanno smobilitando (a metà giugno era già stato consegnato il 60% delle armi) e si concentrano in 23 zone e 8 accampamenti in tutto il paese. Occorre prevedere per loro un programma di reinserimento sociale, ovvero formazione, educazione secondaria e talvolta primaria, in quanto molti di loro sono nati e cresciuti nella guerriglia e quindi lontano dalle città e dai centri di educazione formale. Il «post conflitto» è ormai il termine sulla bocca di tutti gli addetti ai lavori (enti statali, Ong, organismi ecclesiali e religiosi), e la sua gestione è la sfida più importante per stabilizzare il paese con una pace vera e duratura.
Il Vicariato
A San Vicente, e nell’ampio territorio di sua competenza, il Vicariato apostolico è la struttura con maggiore autorevolezza e credibilità. Al suo capo c’è da 18 anni monsignor Francisco Javier Múnera Correa, missionario della Consolata colombiano. Durante i lunghi anni di guerra sacerdoti, suore e laici sono stati gli unici a poter intervenire sempre e ovunque nel Vicariato. Una vasta area, che nel febbraio 2013 si è divisa con la creazione del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano, e oggi si estende per 31.000 km quadrati (come Piemonte e Liguria insieme). Il Vicariato, grazie alla sua pastorale educativa e alla pastorale sociale, è oggi il più importante attore di sviluppo di tutta l’area del Caquetà.
«Oggi una delle grandi preoccupazioni – ci confida un operatore del Vicariato – è la cosiddetta “dissidenza”, ovvero quelle frange delle Farc che non hanno accettato gli accordi di pace, e restano in armi nella selva». In particolare, il comune di Cartagena del Chairà, sembra influenzato da questa dinamica. «Altre forze, inoltre, si affrettano a occupare i territori fino a ieri controllati dalle Farc, che ora se ne stanno andando. Qui ci sono narcotrafficanti, criminali comuni e fuoriusciti dalla guerriglia che si riciclano». Incontriamo il responsabile della pastorale sociale, padre Juan Pablo de los Rios, anche lui missionario della Consolata: «Nei prossimi anni vogliamo concentrarci su tre aree di lavoro principali: la cura della Casa comune, ovvero dell’ambiente, il cammino di perdono e riconciliazione nel post conflitto e la democrazia partecipativa. Questa è una terra di grandi profitti economici: caucciù, legname. Poi la coltivazione estensiva (illegale) della coca. E sopra tutti la deforestazione per l’allevamento estensivo di bestiame. Ma nei pressi di San Vicente c’è anche una zona di estrazione petrolifera (oggi ferma perché il prezzo del greggio a livello internazionale è troppo basso e non conviene pomparlo, ndr). Tutti fattori questi che hanno contribuito alla distruzione ambientale.
Vogliamo lavorare per formare quelli che chiamiamo “artigiani del perdono” e, inoltre, non meno importante, far assumere alla gente il ruolo che le conferisce la Costituzione, in termini di partecipazione attiva e godimento dei propri diritti».
La scuola della cittadella della speranza
A pochi chilometri da San Vicente, sulla strada per Neiva, con il fiume Caguán da un lato e circondata da una macchia di foresta dagli altri, sorge la Ciudadela Juvenil Amazonica Don Bosco. Qui le suore della Consolata stanno realizzando un’opera molto particolare.
Ci accoglie la dinamica suor Blanca Rubiela Orozco Gomez, colombiana. Una vera forza della natura.
«La Ciudadela è nata nel 1994 per volere dell’allora vescovo monsignor Luis Augusto Castro come scuola primaria e secondaria per i contadini, fondata dai salesiani – ci racconta -. Nel 2013 questi consegnarono la struttura al Vicariato, che decise di affidarlo a noi, suore della Consolata».
Da allora la Cittadella è cambiata: «La nostra missione è formare i giovani che provengono dall’ambiente rurale, ovvero quelli più emarginati e con meno possibilità di studiare». La struttura offre due corsi superiori completi, da tecnico agrario e di allevamento e trasformazione di alimenti e tecnico in programmazione di sistemi con approfondimento in umanità. Quest’ultimo corso, di avanguardia, insegna ai giovani l’utilizzo dell’informatica applicata all’agraria e all’allevamento, con lo scopo di renderli più competitivi. Per accedervi, i criteri sono molto particolari: «Essere contadino o di famiglia contadina, vulnerabile (diremmo di basso reddito, ndr) e accettare la condivisione e il desiderio di lavorare nei campi».
Mentre visitiamo la scuola, che pare un vero campus, suor Rubiela snocciola fiera i dati sulle ultime promozioni, facendo notare come si sia passati il primo anno da una trentina di studenti maschi a 50 di cui circa la metà ragazze.
Oltre alle lezioni pratiche, nella fattoria didattica i ragazzi hanno la possibilità di cimentarsi con diversi tipi di colture e allevamenti. Spicca per originalità la coltivazione del camu-camu (myrciaria dubia), frutto amazzonico ad altissimo contenuto vitaminico che viene utilizzato per produrre succhi. Gli allevamenti didattici di polli, maiali e pesci sono anche produttivi e utili per generare entrate economiche per la scuola.
Tutta una sezione è occupata dai laboratori di trasformazione alimentare, utilizzati dagli studenti per imparare a produrre formaggio, dolce di goiaba, dolce di latte, succhi e yogurt.
Cambio di livello per la scuola
Attualmente è in corso il processo di trasformazione della scuola da istituto tecnico a centro di educazione universitaria: «Stiamo facendo accordi con diverse università sia del Caquetá sia nazionali, e con il ministero dell’Educazione per elevare il livello dei nostri corsi e omologarli a programmi universitari di medicina veterinaria, ingegneria agricola e ingegneria degli alimenti».
«Qui gli studenti non pagano i corsi, perché, tranne pochissimi, non ne hanno le possibilità», racconta ancora suor Rubela. «Esistono diverse possibilità, come le borse di studio dei municipi».
Ma, spiega la suora, questa non è solo una scuola tecnica, «qui vogliamo ricostruire il tessuto sociale. Facciamo formazione umana, etica e puntiamo a sviluppare l’autostima dei nostri studenti. Per questo lavoriamo molto sull’ambiente umano e sul post conflitto».
«Ricordo un ragazzo che ha terminato l’anno scorso. Un campesino di 22 anni. Arrivò alla scuola in ritardo di due settimane. Veniva da lontano. Io lo accolsi e non gli chiesi perché. Gli chiesi se era interessato ai corsi e gli dissi di andare a lavarsi che avrebbe cominciato il giorno seguente. Mentre gli parlavo non mi guardava neppure negli occhi. Alla fine dell’anno era stato uno degli allievi migliori. Al momento di salutarci mi abbracciò forte e mi ringraziò. In quell’anno era cresciuto soprattutto il modo di vedere se stesso».
Contadini digitali
Suor Rubela è al colmo della soddisfazione quando ci presenta Alberto, un giovane (18 anni) istruttore di uno dei corsi delle «Scuole digitali contadine (Escuelas digitales campesinas)».
Il progetto è in linea con l’Action cultural popular, nata molti anni fa, che utilizzava le trasmissioni radio per l’alfabetizzazione e la formazione nelle zone più remote. «Questo è un plus fornito dalla scuola: corsi brevi per piccoli gruppi di studenti. E si svolge in parte con insegnamento in sede e in parte a distanza grazie a una piattaforma informatica». Così corsi come: alfabetizzazione digitale, leadership, conoscenza dell’ambiente, associazionismo per creare impresa, pace e convivenza, adattamento al cambiamento climatico e comunicazione e giornalismo rurale sono un fiore all’occhiello della scuola. Presto saranno anche disponibili i corsi di pesca responsabile, diritti umani nelle comunità rurali e progetto di vita in campagna.
Si tratta di corsi di perfezionamento frequentati da giovani dai 16 ai 35 anni. «Esistono accordi con i direttori di diverse scuole nel dipartimento, che ci mandano studenti meritevoli per questi corsi della scuola digitale», annuisce soddisfatta suor Rubela. La ricaduta è anche sulle comunità da cui arrivano i ragazzi, perché la metodologia prevede di coinvolgere le famiglie. Nell’anno 2015-2016 sono stati circa 2.000 gli studenti formati con le scuole digitali.
Anche monsignor Francisco Javier Múnera, amministratore apostolico del Vicariato di San Vicente del Caguán è molto soddisfatto del lavoro tecnico e umano svolto alla Ciudadela. Guarda ancora più avanti e ha in mente nuovi sviluppi. «C’è un evidente interesse del governo – ci dice -, in particolare dei ministeri dell’Educazione e del Postconflitto nella creazione di centri di formazione per gli ex combattenti». Un progetto in linea con il livello universitario, ma con corsi specifici per i guerriglieri smobilitati, in un luogo strategico dove la guerriglia ha avuto un ruolo importante e molto vicino alla realtà rurale dalla quale arrivano le ex Farc».
La pace ha molti nemici
Mentre scriviamo arriva la notizia dell’ignobile attentato realizzato con una bomba in un centro commerciale di Bogotà in un affollato sabato pomeriggio. La prima sensazione è che si tratti di gruppi che vogliono destabilizzare l’attuale governo e quindi l’importante processo di pace che ha intrapreso. L’anno prossimo in Colombia ci saranno le elezioni presidenziali. Né Alvaro Uribe né Manuel Santos si potranno ricandidare. Ma i loro gruppi rispettivi si fronteggeranno e, a seconda di chi vincerà, il processo degli accordi di pace potrebbe avere una battuta d’arresto (nel primo caso) oppure andare avanti, pur nelle molte difficoltà di una realtà così complessa.
Marco Bello
Dalla «Zona di distensione» al viaggio del Papa
Adesso occorre voltare pagina
A San Vicente del Caguán la guerra ha colpito duro. Ma è stato anche un municipio di sperimentazione sociale. Qui i missionari della Consolata sono presenti dal 1951. Incontro con il vescovo mons. Múnera.
Monsignor Francisco Javier Múnera Correa è missionario della Consolata da oltre 40 anni e da 18 è vescovo nel Vicariato apostolico di San Vicente del Caguán. Ricorda sempre con passione e nostalgia gli anni trascorsi in missione, nel Nord del Kenya. Ci accoglie sulla terrazza di casa sua, circondata da alcuni lussureggianti alberi e ci ricorda che i missionari della Consolata compiono oggi 70 anni di presenza in Colombia.
Monsignor Múnera, San Vicente è stato (un posto) molto strategico durante il conflitto armato, perché?
«Voglio precisare che io sono il secondo vescovo di San Vicente, dopo mons. Castro, che è stato padre fondatore di questo vasto Vicariato. Lui si è impegnato molto sul tema della pace, anche in prima persona per la liberazione di militari e poliziotti sequestrati dalla guerriglia. È sempre stato un uomo chiave per avvicinare le parti, anche nella negoziazione che ha portato ai recenti accordi di pace.
All’inizio del 1999, quando presi il suo posto, in quest’area stava iniziando una esperienza particolare: la cosiddetta “Zona di distensione”. Un territorio grande quanto la Svizzera che comprendeva oltre a San Vicente altri quattro comuni nel dipartimento del Meta. Erano in corso delle trattative di pace e questa regione fu lasciata sotto il controllo politico e militare delle Farc-Ep. Esercito, polizia e stato si erano ritirati. Rimase solo il sindaco tra le autorità statali. C’era una polizia civica, formata da elementi della popolazione civile e uomini della guerriglia. Questo ha consentito alle Farc di sentirsi sicure per portare avanti il negoziato con il governo del presidente Pastrana.
Ma dopo tre anni, il 20 febbraio 2002, il presidente dette un ultimatum, dicendo che finivano i dialoghi e i guerriglieri avevano 24 ore per andarsene. Mons. Castro spiega questo fallimento dicendo che erano dialoghi tra orbi: le Farc vedevano solo le loro richieste di giustizia, ma non fecero niente per la pace; il governo voleva la pace ma senza fare concessioni per la giustizia. In quegli anni le Farc erano ancora molto forti. Il governo, che aveva avuto delle batoste sul piano militare, utilizzò quel periodo per rafforzare l’esercito e la sua strategia.
Con la Zona di distensione, per un tempo lungo si è mantenuto un territorio senza conflitto, ma nel resto del paese era terribile. La stessa Zona di distensione si era convertita in una specie di rifugio per i guerriglieri. Quegli anni sono stati più calmi qui perché non c’erano scontri. I guerriglieri gestivano anche la giustizia. Abbiamo subito alcune arbitrarietà, ma la gente ha imparato a convivere con loro e viceversa. La Chiesa ha appoggiato il processo di pace come presenza morale, ma molti settori sociali non erano favorevoli alle Farc perché avevano subìto maltrattamenti da parte loro».
Poi c’è il cambio di presidenza … e di marcia.
«A maggio del 2002 Alvaro Uribe vinse le elezioni e da agosto fino allo stesso mese del 2010 sono stati otto anni molto duri. Il piano del governo era portare le Farc ad arrendersi. Scontri, bombe, sofferenze, uccisioni, sfollati e rifugiati. Io ho aiutato persone a uscire dalla zona per andare ad esempio in Canada. Chiunque la guerriglia riteneva collaboratore dell’esercito diventava obiettivo militare, e con lui la sua famiglia. Intanto parte della popolazione si era messa ad appoggiare la guerriglia. Erano molte le violazioni dei diritti umani da entrambe le parti.
L’esercito riduceva l’accesso dei viveri a San Vicente e qui eravamo isolati. La strategia era duplice: lotta anti guerriglia e lotta anti narcos. Perché in gran parte del territorio c’era la produzione della coca, appoggiata dalla guerriglia. Il conflitto armato è durato molto tempo proprio perché ha trovato nel narcotraffico i soldi per finanziare le armi.
La Chiesa ha cercato di mantenere sempre un posizionamento vicino alle vittime.
Con Uribe il rapporto di forza si è invertito. Gli Usa hanno appoggiato il governo colombiano con gli ingenti finanziamenti del Plan Colombia. Le Farc facevano rapimenti, anche eccellenti, ma Uribe li ha colpiti duramente, con grandi costi».
Come si è arrivati agli accordi di pace?
«Le posizioni delle parti si erano indurite. Quando è arrivato Santos alla presidenza (2010), ha subito cercato una via per la pace. Nonostante fosse stato lui a infliggere duri colpi alle Farc nella veste di ministro della Difesa di Uribe. Nel 2012 sono iniziati i colloqui. Quattro anni di negoziati. Durissimi ma molto più seri, con due principi: negoziare anche durante il conflitto e “nulla è accordato finché tutto non sia accordato”.
Le Farc si sono rese conto che militarmente non avrebbero vinto. Inoltre la pressione della comunità internazionale è stata molto grande sia su di loro sia sul governo. A quest’ultimo faceva ricatti di tipo economico minacciando l’azzeramento degli investimenti. In primo luogo l’Unione europea e poi gli Usa, che con l’arrivo di Barak Obama al potere sono stati decisivi. Lo scenario politico internazionale era cambiato, il governo avrebbe avuto meno appoggi per la guerra.
Gli accordi di pace non risolvono tutto ma aprono la strada per la soluzione a tanti altri problemi che erano stati messi in secondo piano. Ad esempio per la prima volta, dopo 50 anni, il budget per l’educazione ha superato quello della guerra. Avevamo un esercito con più di 500mila uomini, in un paese con grandissime disuguaglianze. Ad esempio il livello di infrastrutture per l’educazione di questa regione è molto basso».
Ma il no al referendum ha segnato una battuta d’arresto?
«La vittoria del no è stata costruita suscitando l’indignazione, mettendo paura. È servito per modificare certe cose degli accordi, perché alla gente sembrava che le concessioni del governo alle Farc fossero troppo generose. Alcuni dicevano: se vince il sì diventeremo un’altra Venezuela o un’altra Cuba. La destra più dura, diceva che eravamo quasi al punto di vincerli militarmente, quindi per loro è stata una sciocchezza arrivare a una trattativa, con la quale le Farc hanno ottenuto di più con una via politica, rispetto a quello che avrebbero ottenuto militarmente. Questo è vero, ma è il prezzo della pace.
Anche per la chiesa è stato molto difficile: vescovi, preti e popolazione si sono divisi sulle due posizioni. Molti vescovi dicevano: “La pace sì ma non così”. Come Conferenza episcopale abbiamo deciso di aiutare la gente a formarsi e informarsi e dare un voto per il futuro del paese. Ma non potevamo schierarci per votare sì o no. Alcuni membri della chiesa e gruppi ecclesiali si sono invece sbilanciati e hanno fatto apertamente campagna, per uno dei due campi.
Per molta gente c’è sfiducia e risentimento nei confronti delle Farc, ma anche sfiducia verso il presidente, che sembrava avesse concesso loro tutto.
In realtà riforme come quella agraria, che le Farc chiedono, sono necessarie al di là della guerriglia».
Quali sono i maggiori problemi del paese oggi?
«Adesso che non c’è più il conflitto (c’è ancora con il gruppo Eln con il quale esiste una trattativa), viene fuori la corruzione terribile di questo paese. A tutti i livelli, della classe politica ed economica. Dagli anni ‘70 – ‘80 in poi il narcotraffico ci ha rovinati. Siamo un paese che era costruito su valori molto forti. Poi è arrivata una classe politica con mentalità del denaro facile, abbondante, a qualsiasi costo. Questo ci ha rovinato la testa, la cultura, i valori, creando quella che mons. Castro chiama la “narco mentalità”. Adesso c’è anche un effetto boomerang, ovvero un gran consumo interno di droga. Ma con speranza diciamo che sperimentiamo già giorni diversi. Anche se questa nazione non si rallegra con gli accordi, perché per le grosse città non cambia molto. È in questa periferia che sentiamo il cambiamento».
Le Farc controllavano territori, adesso ci sono altri soggetti che cercano di entrare?
«Sì, è terribile. I dissidenti e i gruppi criminali si sostituiscono alle Farc. Molti hanno paura che si rafforzi il paramilitarismo, che in alcune zone, come nel Cauca è appoggiato dai grandi latifondisti.
La Colombia è una nazione con più territorio che stato. Le frontiere non son controllabili. Riempire con le istituzioni il vuoto che lascia la guerriglia è una delle grosse sfide. È il passo dall’illegalità alla legalità. In alcune aree il riferimento erano le Farc, tramite l’imposizione con le armi. Passare a un esercizio di democrazia vera, partecipativa, sarà difficile sia per la guerriglia, sia per le comunità che sono state sempre sottomesse. Molta gente preferiva che le Farc non smobilitassero: “Chi ci salverà poi?”. La popolazione non ha mai avuto fiducia nello stato perché ha solo conosciuto la repressione militare a causa di narcotraffico e guerriglia. Occorre un processo educativo».
Nel 2018 ci saranno le elezioni presidenziali. Cosa succederebbe se vincesse qualcuno contrario agli accordi?
«Se vincesse la destra potrebbe ostacolarli. Le Farc hanno avuto fiducia. Loro fanno i conti, sono strategici. Entreranno in politica e la sanno pure fare, sono abili a costruire le alleanze. Questi sono periodi in cui otterranno rappresentanti in camera e senato e punteranno a consolidare il partito».
Cosa vi aspettate dal viaggio del Papa, che verrà tra il 6 e l’11 settembre?
«Papa Francesco ci ha sempre invitati a fare un passo per costruire un paese riconciliato. Credo che se noi fossimo capaci di fare politica senza le armi, da entrambe le parti, sinistra e destra, potremmo farcela.
È un paese che ha bisogno di ricostruirsi, di costruire un concetto di nazionalità, con tutta questa ricchezza che ha, plurietnica e multiculturale. Penso che il papa ci spingerà verso una cultura dell’incontro, della fratellanza. Scoprire la grandezza del riconoscerci cittadini, compatrioti, avere un orizzonte comune, in un paese in cui possiamo stare bene tutti, andando oltre alle diseguaglianze. Il papa ci aiuterà a girare questa pagina dolorosa, tragica, macondiana (irreale, ndr) per essere una nazione sostenibile, progredendo in un livello di democrazia partecipativa, e costruzione del bene pubblico».
Marco Bello
Liberia:
Cronache dal paese «inventato»
La Liberia ha una storia singolare. È stata fondata da ex schiavi afroamericani. Grande un terzo dell’Italia, non ha mai avuto una storia facile. Dopo due sanguinose guerre civili, è il paese che nel 2014 ha subito più vittime a causa dell’ebola. Ma è anche il primo stato africano con una donna presidente. Oggi i giovani chiedono un futuro che valorizzi la bellezza della loro terra.
Dall’ultimo piano del Ducor Palace Hotel, il grande albergo a 5 stelle di Monrovia, abbandonato dal 1989, il panorama è letteralmente mozzafiato: la capitale della Liberia si snoda a perdita d’occhio ai piedi del fatiscente stabile che sorge su una collina nei pressi della città vecchia. Dopo un primo entusiasmante sguardo, a colpire, però, è un’enorme «macchia» malconcia che occupa il lembo di terra che si affaccia da un lato sull’Oceano Atlantico e dall’altro sul fiume Mesurado. «Quella laggiù è la baraccopoli di West Point, conta circa 70.000 abitanti. I politici sono corrotti e se ne fregano della maggior parte della popolazione che vive in condizioni di povertà estrema. Tra l’altro, quando l’ebola nel 2014 è arrivato in quello slum è stata la fine per il nostro paese che era già in ginocchio», racconta il guardiano dell’albergo con sconforto.
Devastata da due guerre civili (1989-1995 e 1999-2003), la Liberia è una nazione che arranca, da sempre spaccata in due. Da un lato la miseria, dall’altro la ricchezza. La morfologia di Monrovia parla chiaro: l’enorme e caotica baraccopoli, i quartieri popolari, le discariche frequentate da uomini e donne in cerca di cibo e il grande cimitero centrale abitato dai senzatetto, contrapposti alle zone residenziali con vie asfaltate sulle quali si affacciano ordinati compound che, con alti muri e filo spinato, proteggono gli uffici delle tante Ong presenti nel paese e le case della borghesia locale. Ricchissimi e poverissimi, niente classe media.
Ad aumentare il divario vi è l’elevato costo della vita dovuto principalmente alla mancanza di energia elettrica. Ricco di ferro, oro e diamanti, il sottosuolo della Liberia è povero di risorse energetiche. «La poca elettricità che abbiamo la otteniamo con il petrolio d’importazione. I prezzi dei prodotti dei supermercati così aumentano perché devono coprire le spese dei generatori», sospira un tassista alle prese con il caotico traffico. E se si pensa che lo stipendio di un insegnante liberiano si aggira intorno ai 200 dollari al mese, si comprende come per la maggior parte della popolazione sia impossibile accedere ai negozi di alimentari. Si ricorre così ai mercati di strada e si mangia carne proveniente dalle foreste: scimmie, iguane… Ed è anche per questo che l’ebola ha trovato terreno fertile.
Il governo ha vietato il consumo di selvaggina. Un decreto difficile da rispettare soprattutto adesso che il costo della vita si è alzato ulteriormente proprio per il fatto che, per più di un anno, durante l’epidemia, tutto si è bloccato: imprese chiuse, attività ferme, scuole sprangate, ospedali governativi in tilt, confini serrati.
Ricostruzione necessaria
«Dobbiamo provvedere a una difficile ricostruzione del paese su tutti i fronti. Abbiamo perso due anni», spiega l’attuale vicepresidente Joseph Boakai, candidato alle elezioni presidenziali del prossimo ottobre, mentre siede composto nel suo ufficio.
Oggi più di prima, quasi tutti i prodotti vengono importati e i prezzi sono alle stelle. Le perdite stimate dalla Banca mondiale in termini di Prodotto interno lordo sono pari a 240 milioni di dollari. Molti ragazzi che dovevano diplomarsi nel 2014 hanno potuto sostenere gli esami solo nel 2016 e il sistema sanitario è da ricostruire.
«Durante l’epidemia sono morte tantissime persone anche di malaria e altre malattie, perché tutte le forze erano concentrate sulla cura dell’ebola. Ora dobbiamo lavorare per garantire agevolazioni sanitarie a chi ce l’ha fatta per effettuare controlli periodici e curare i lasciti fisici della febbre emorragica», racconta Neima Nora Candy, responsabile della sanità pubblica per la Croce rossa liberiana.
Del resto l’epidemia, direttamente o indirettamente, ha colpito tutti e la Liberia deve fare i conti con le conseguenze lasciate dal virus, imparando dai suoi sbagli. Dopo essere stata dichiarata «ebola free» l’11 maggio 2015, la Liberia ha dovuto affrontare altri tre casi immediatamente isolati. Solo in questa nazione sono 4.809 i morti dichiarati (dati Organizzazione mondiale della sanità, Oms). Le persone all’inizio faticavano a credere al virus. Le usanze tradizionali, la diffidenza nei confronti degli operatori sanitari occidentali, il ritardo con cui è stata dichiarata l’emergenza (l’8 agosto 2014), un governo e un sistema sanitario non pronti: tanti sono stati i fattori che hanno permesso all’epidemia di uccidere le persone come mosche nei villaggi e di arrivare in men che non si dica nella capitale.
«Una volta giunta in città e penetrata a West Point è stato un disastro. Così qui in Liberia si è registrato il più alto numero di morti rispetto alle vicine Sierra Leone (3.955) e Guinea (2.536). I risultati? Oltre ai cadaveri, quasi 6.000 sopravvissuti e altrettanti orfani di madre, padre o di entrambi», afferma Tolbert Nyesmah, attuale viceministro della Salute.
L’eredità dell’epidemia
L’emergenza non è quindi terminata anche se, come dice Amr Nugy, a Monrovia per conto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), «essendo stata dichiarata la fine della crisi arrivano meno fondi, nonostante i problemi siano ancora tanti, tra emarginazione e povertà». Le conferme si trovano camminando per la città, parlando con le persone, con i sopravvissuti che lottano ogni giorno contro dolori fisici e disturbi psicologici. «Sono diventata sorda ad un orecchio e cieca ad un occhio. Appena sono uscita dal centro di trattamento di Medici senza frontiere (Msf), le persone della mia comunità mi emarginavano: avevano paura». Lela Glay ha 45 anni e vive ad Harbel, la contea nei pressi dell’aeroporto. È depressa, uno stato emotivo a lei sconosciuto prima di contrarre il virus. Ha sei figli e a stento riesce a tirare avanti. «Chi ce l’ha fatta si porta dietro uno stigma difficile da cancellare», spiega con sconforto suor Anna Rita Brustia, missionaria della Consolata impegnata in Liberia dagli anni Settanta.
Innumerevoli sono anche gli orfani dell’ebola: solo ad Harbel se ne contano 614. Tra Liberia, Sierra Leone e Guinea sono 16.600 secondo i dati Unicef. Non esistendo la cultura dell’orfanotrofio, i bambini sono per lo più stati presi in carico da parenti. Si sono create così famiglie allargate enormi, difficili da gestire. «Mi prendo cura dei miei quattro nipoti. Non riesco però a mandarli a scuola tutti», ammette con sconforto un giovane tassista.
Inoltre, ad aggravare la già difficile situazione, vi sono le più giovani vittime dell’ebola: bambini di pochi mesi che dovrebbero essere il futuro della Liberia e che invece, colpiti indirettamente dal virus, si trovano a lottare per la sopravvivenza. Nel Bardnesville Junction Hospital, l’ospedale pediatrico aperto da Msf nel 2014 per curare anche i pazienti affetti da altre patologie, i letti sono occupati da piccoli appena nati. «Sono malnutriti e molti sono vittime dell’abuso di paracetamolo. Durante l’ebola si è infatti registrato un enorme innalzamento del consumo del farmaco che le mamme spaventate somministravano ai figli senza conoscere i dosaggi. Dal momento che i piccoli non guarivano gliene davano sempre di più. Questa brutta abitudine è rimasta tutt’ora», spiega l’infermiera Kathy Beuve di Msf Francia. È infatti necessario continuare a sensibilizzare la popolazione su diversi fronti perché, purtroppo, non sono da escludersi nuovi casi. «Il governo adesso è preparato se scoppiasse un’emergenza. Però sappiamo che il virus persiste nello sperma maschile per qualche mese. Quindi dobbiamo stare sempre allerta e monitorare soprattutto le comunità più isolate», ammette il viceministro.
Verso le elezioni
Nel frattempo la Liberia si prepara alle elezioni che si terranno il prossimo 10 ottobre, quando la popolazione si recherà alle urne per votare sia per il nuovo presidente che per il rinnovo della camera dei rappresentanti. Al potere dal 2006, 78 anni, prima presidente donna dell’Africa, vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2011, l’attuale capo di stato liberiano Ellen Johnson Sirleaf non si ricandiderà, nel pieno rispetto della Costituzione che prevede due mandati. A rappresentare il partito al potere (Unity Party) sarà infatti l’attuale vicepresidente Joseph N. Boakai.
«La Liberia ha le risorse per diventare una grande potenza. Dobbiamo certo provvedere a migliorare le infrastrutture per favorire i commerci e il turismo. Fuori Monrovia, per esempio, le strade sono tutte sterrate e per raggiungere alcune bellissime località che potrebbero attirare turisti ci vogliono ore. Fondamentale per la nostra economia è inoltre l’agricoltura, sulla quale intendo puntare», spiega Boakai osservato dal ritratto della Sirleaf appeso al muro alle sue spalle. L’agricoltura in Liberia occupa infatti il 70% della forza lavoro e il 44,7% del Pil totale che si aggira intorno a poco più di 2 miliardi di dollari. Tra le colture per l’esportazione prevalgono quella di caucciù, cacao, caffè e palma da olio. Però, come afferma un contadino che abita nella zona di Harbel (dove si trovano le coltivazioni di caucciù della statunitense Firestone), «i giovani faticano a trovare lavoro. Prima le guerre civili, poi l’ebola. Per noi è un periodo davvero difficile e la popolazione ha perso la fiducia nella classe politica e nella Sirleaf alla quale all’inizio tutti abbiamo creduto con entusiasmo».
«Molti di noi non sanno chi votare», ammette un giovane studente davanti all’Università di Monrovia. Il principale partito dell’opposizione è il Congress for Democratic Change, cappeggiato dall’ex calciatore George Weah: vincitore del Pallone d’oro nel 1995 e già candidato alle presidenziali nel 2005, quando perse proprio contro la Sirleaf. Inoltre nel 2011 partecipò, con scarsi risultati, alla corsa per diventare vicepresidente e attualmente ricopre la carica di senatore. «Alcuni di noi lo ammirano perché rappresenta riscatto e forza di volontà, però a livello politico molti hanno dei dubbi», prosegue il ragazzo.
Il paese «inventato»
Fondata nel 1822 dall’American Colonization Society (una società umanitaria statunitense che propugnava la liberazione degli schiavi afroamericani e il loro reinserimento in Africa), la colonia proclamò l’indipendenza il 26 luglio 1847 e adottò una Costituzione su modello di quella degli Usa.
Oggi il paese si trova ad attraversare un delicato momento di transizione con molti drammi alle spalle.
Nel frattempo la missione Onu, stabilitasi in Liberia il 19 settembre 2003 con il compito di mantenere pace e sicurezza, viene progressivamente ritirata.
A guardare avanti, per fortuna, ci sono i giovani di Monrovia, quelli cresciuti nei quartieri più poveri. Come i cantanti Hip Co (hip hop liberiano) che durante l’epidemia hanno continuato a riunirsi per creare canzoni che, in lingua locale, spiegassero alle persone le misure di sicurezza da adottare. Oppure i giovani surfisti di Robertsport (cittadina a 120 km da Monrovia) che nonostante il già scarso turismo sia calato definitivamente, oggi si battono per rivalutare le meravigliose spiagge che sorgono a Nord della capitale. E, come dicono loro con speranza e convinzione, «arriveranno tempi migliori anche per la nostra nazione». Sono sopravvissuti alla guerra e all’ebola, ora non hanno più paura di niente.
Valentina Giulia Milani
Cronologia essenziale
Dal «back to Africa» all’«ebola free»
1821 – l’American Colonization Society acquista una porzione di territorio della Sierra Leone per fornire agli schiavi afroamericani una terra dove poter tornare.
1822 – il territorio dell’attuale Liberia inizia a essere popolato da ex schiavi che fondano Monrovia.
1836 – abolizione dei lavori forzati.
1839 – la colonia si trasforma in Commonwealth autonomo.
1841 – il Congresso americano chiama il territorio Liberia, ossia «terra dei liberi».
1847, 26 luglio – il Congresso liberiano, che rappresenta solo gli americani espatriati e non i nativi, proclama l’indipendenza.
1958 – la discriminazione razziale è messa fuori legge.
1980 – il sergente Samuel Doe s’impossessa del potere con un golpe militare.
1985 – Doe vince alle elezioni presidenziali.
1989 – il Fronte nazionale patriottico della Liberia (Fnpl), guidato da Charles Taylor inizia la guerriglia contro il presidente Doe.
1990 – Doe viene ucciso dai ribelli.
1995 – accordi di pace di Abuja (Nigeria).
1997 – Taylor vince le elezioni presidenziali e impone un regime autoritario e corrotto.
1999 – Ghana e Nigeria accusano Taylor di appoggiare il Fronte rivoluzionario unito (Ruf) in Sierra Leone, mentre Gran Bretagna e Usa minacciano di sospendere gli aiuti alla Liberia.
2000– le forze liberiane attaccano i ribelli del Lurd (Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia) nel Nord.
2003– l’offensiva del Lurd e l’arrivo delle truppe americane costringono Taylor a cercare rifugio in Nigeria. Vengono firmati gli accordi di pace ad Accra. Inizia la missione di pace dell’Onu.
2005– a novembre Ellen Johnson-Sirleaf vince le elezioni. È la prima donna a essere eletta presidente di uno stato africano.
2006– Taylor viene arrestato. Verrà condannato a 50 anni di carcere nel 2012 dalla Corte Speciale per la Sierra Leone.
2011 – la presidente Johnson-Sirleaf riceve il Premio Nobel per la pace e a novembre vince di nuovo le elezioni contro l’ex calciatore George Weah.
2014– il virus ebola dilaga nel paese.
2015, 11 maggio– la Liberia viene dichiarata «ebola free».
2017, 10 ottobre – sono in programma le prossime elezioni presidenziali.
Va.Mi.
Sudan: La speranza sottile
La guerra in Sud Sudan non si è fermata. Anzi, è diventata più cruenta e caotica. Con il moltiplicarsi dei gruppi guerriglieri e lo strapotere dell’esercito «regolare». Milioni sono le persone in fuga dalla propria terra. Anche a causa della fame che uccide. Il governo lancia un dialogo, reputato da molti di facciata. I responsabili di tre chiese chiedono aiuto al papa.
È il 28 ottobre 2016 quando tre capi religiosi del Sud Sudan giungono in Vaticano per incontrare papa Francesco. Sono monsignor Paulino Lukudu Loro, vescovo di Juba, il reverendo Daniel Deng Bul Yak, vescovo anglicano e il reverendo Peter Gai, moderatore della chiesa presbiteriana. Il papa li ha convocati qualche giorno prima, preoccupato dell’inasprirsi del conflitto nel paese. Nel luglio 2016, il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace si era recato in Sud Sudan per verificare la situazione.
Il paese più giovane dell’Africa (e del mondo), indipendente dal luglio 2011, è scosso da una guerra civile che sta assumendo connotati disastrosi (si veda MC agosto-settembre 2016).
Una guerra tra fratelli
Dal dicembre 2013 l’esercito governativo del presidente Salva Kiir, di etnia Dinka, fronteggia i ribelli dell’ex vicepresidente (lo è stato fino al luglio 2016) Riek Machar, di etnia Nuer. La situazione sul terreno è andata complicandosi e la guerra ha assunto connotazioni etniche. Delle 64 etnie presenti nel Sud Sudan, la quasi totalità si è schierata contro i Dinka. «Stanno nascendo nuovi gruppi guerriglieri – conferma padre Daniele Moschetti, fino a dicembre scorso superiore dei missionari Comboniani nel paese -. Poche settimane fa è nato un gruppo ribelle legato all’etnia Bari e comandato da Thomas Cyrillo». Giovanissimo, Cyrillo, vice capo dell’esercito regolare, ha disertato ed è subito stato accusato di corruzione. Poco dopo ha annunciato la nascita del suo gruppo guerrigliero. Altri gruppi, come quello intorno alle etnie Zande, Shilluk, stanno nascendo.
«L’esercito regolare invade le terre ancestrali dei vari popoli. Le donne e i bambini scappano, i giovani si organizzano per difenderle. In questo senso la guerra è etnica». Ma a loro volta i nuovi gruppi si macchiano di crimini efferati, perché devono sostentarsi, spostarsi. Per cui saccheggiano e usano ogni forma di violenza contro la popolazione civile (si veda box).
«Così oggi abbiamo oltre un milione e mezzo di sud sudanesi fuggiti all’estero, in Ciad, Etiopia, Kenya, Uganda. Altrettanti, su una popolazione totale di 12,5 milioni, sono sfollati interni, ovvero fuggiti dalle loro terre. Circa 300.000 sono in campi profughi nelle varie città sud sudanesi», continua padre Moschetti. E le uccisioni sono sempre più a sfondo etnico: la gente viene divisa per etnia e quindi massacrata per il solo fatto di appartenere a un dato gruppo.
Le Chiese unite per la pace
In questo contesto le chiese sono unite in una iniziativa ecumenica, sotto il South Sudan Council of Churches, e lavorano per il dialogo e la pace con programmi comuni e singole iniziative.
Lo scorso 26 febbraio papa Francesco, in visita alla parrocchia anglicana All Saints di Roma per le celebrazioni dei 200 anni della stessa, ha confermato di voler fare un viaggio nel paese. E, soprattutto, di volerlo fare insieme a Justin Welby, arcivescovo di Canterbury e capo della chiesa anglicana. Questo per dare un segnale forte.
Nonostante le numerose indiscrezioni di smentite, nel momento in cui scriviamo il Vaticano conferma questa possibilità. «Potrebbe svolgersi a ottobre – dice speranzoso padre Moschetti – dopo il viaggio in Colombia di settembre, probabilmente una visita lampo, una mezza giornata, ma sarebbe molto importante». E continua: «Però se penso ai mesi che ci separano da ottobre, con un conflitto che si sta allargando a macchia d’olio e può portare davvero a un’ecatombe, potrebbe addirittura essere tardi».
Dialogo «governativo»
Nel frattempo il governo di Salva Kiir ha lanciato il «suo» dialogo. Se ne parlava a dicembre ed è stato ufficializzato il 10 marzo scorso. Sono previsti incontri, conferenze. «Ma lui invita chi vuole. Non è stata un’operazione consultativa, ma nominativa. Il governo non si è consultato, ha invitato alcune personalità sud sudanesi che reputa rappresentative della società». Padre Daniele è scettico su questa iniziativa, dalla quale alcuni importanti esponenti si sono già defilati per evitare ogni strumentalizzazione. «Ad esempio monsignor Paride Thaban vescovo emerito di Torit, ha 81 anni e fa molto per la pace, ma ha preferito star fuori da questo dialogo organizzato dalle istituzioni».
Il dialogo sarebbe un paravento per il governo dietro cui nascondersi dalla comunità internazionale, Usa e Gran Bretagna in testa, che vorrebbero una stabilizzazione del paese. «Dovrebbe portare a far rispettare gli accordi del luglio 2015 di cui i governativi non hanno mai tenuto conto». L’accordo non piaceva, soprattutto ai cosiddetti «Dinka helders», personaggi influenti che stanno dietro o intorno al presidente. Uno di loro è il generale Paul Malong, potente capo dell’esercito, dinka ma di un clan diverso da quello di Kiir.
Machar fuori gioco?
Gli scontri sono iniziati a Juba e si sono estesi in diversi stati, a cominciare da quelli in cui c’è petrolio, che sono anche quelli a maggioranza nuer: Unity, Jonglei e Upper Nile. Ma è Unity il più colpito per morti e devastazione. È lo stato di cui è originario Riek Machar, l’altro signore della guerra.
Ma dove si trova oggi Machar? Fuggito nella foresta con 700 uomini dopo lo scoppio di violenti scontri a Juba, seguiti alla firma dell’accordo nell’estate 2015 e all’insediamento del governo provvisorio (aprile 2016), riparato in Congo, malato è stato poi curato a Khartum, capitale del Sudan. Ristabilito, ha fatto un appello a tutti i sud sudanesi di imbracciare le armi contro l’esercito governativo dei Dinka. «È in quell’occasione che abbiamo visto un cambiamento brusco della comunità internazionale rispetto all’appoggio a Machar, perché la sua chiamata alla guerra non è piaciuta». Andato in Sudafrica (dove peraltro ha delle proprietà) per farsi curare, ha tentato di organizzare un ritorno sul campo, ma è stato bloccato ad Addis Abeba (Etiopia). «Lontano dal terreno non riesce a comandare le truppe, ed ecco che stanno venendo fuori nuovi gruppi e nuovi leader militari, come Cyrillo, appunto».
Morire di fame
Il paese è in ginocchio anche per la fame. Una fame causata dalla carestia, ma soprattutto dalla guerra, dalla fuga della popolazione, dall’impossibilità di coltivare. «Oggi nell’Unity State si muore di stenti e di fame. Sono bambini, donne e vecchi che muoiono per primi. Gli altri sono nelle milizie o sono scappati. Il papa è cosciente della situazione, per cui vuole intervenire. Anche le Nazioni Unite non riescono a soddisfare tutte le esigenze. Il governo non lascia creare i corridoi umanitari per portare il cibo. E la gente ha iniziato a morire».
Il Sud Sudan è anche al collasso dal punto di vista economico. La moneta ha visto una svalutazione dell’850% nel 2016. «La banca centrale deve farsi prestare la valuta dalle banche commerciali ugandesi e keniane, perché non ha riserve e paga gli interessi.
Molti stranieri dei paesi confinanti dell’Africa dell’Est (Uganda, Kenya, Etiopia, ecc.), che mandavano avanti attività di tipo economico se ne sono andati. Tutto si è paralizzato».
Alleanze e risorse
I pozzi di petrolio rimasti attivi sono pochi. La strategia dei ribelli era di impedire le estrazioni per bloccare l’economia e i finanziamenti al governo. Nonostante questo, però, l’esercito di Kiir ha armi nuove come gli elicotteri da combattimento con i quali bombarda. È appoggiato da Russia, Ukraina, Israele. La Cina compra il petrolio. I ribelli sono molto meno armati, ma riescono comunque ad ottenere dei successi sul terreno. «Bisogna capire chi sponsorizza i ribelli. Gli interessi in campo sono molti: acqua (il Nilo), minerali, foreste. E poi il transito del petrolio, che porta soldi e prestigio. Attualmente gli oleodotti vanno tutti verso Nord, verso il Sudan, ma il Kenya sta costruendo un porto a Lamu, che sostituirà quello di Mombasa e vorrebbe farci arrivare un oleodotto dal Sud Sudan dal Jonglei, passando per Isiolo. Anche l’Etiopia vorrebbe che il petrolio sud sudanese passasse sul suo territorio, per andare al porto di Gibuti. Sono progetti enormi, del valore di diversi miliardi di dollari. L’Uganda invece è da sempre alleata di Salva Kiir». Così i capi guerriglieri fanno accordi con i governi interessati e ottengono armi in cambio di promesse di vantaggi futuri. Padre Daniele ha visto le varie fasi della storia del Sud Sudan. Oggi ha poche speranze.
«Non si vedono grandi sbocchi. Speravamo che questa nuova iniziativa del governo fosse sincera. Siamo all’assurdo: miseria, fame, insicurezza generale, fuga dal paese. Tutti segni negativi.
Un’iniziativa positiva darebbe una speranza alla gente. Il governo ha fallito e non vuole ammetterlo. Anche i ribelli saccheggiano, rubano, stuprano. Nel paese si ha paura dei propri giovani, un abbrutimento di chi dovrebbe proteggere i cittadini ed è diventato fautore di violenze continue. Ora la speranza è rappresentata solo dalle chiese. Spero davvero che papa Francesco vada in Sud Sudan il prima possibile».
Marco Bello
Testimonianza di un operatore umanitario
Il mio consiglio? Andatevene!
Le statistiche snocciolano freddi numeri. Mentre caldi ragazzi soldato devastano il proprio paese. La gente viene uccisa in base all’etnia. Gli occhi delle donne sfollate sono svuotati dalla fame e da ciò che hanno visto. E alcuni (pochi)?leader diventano ricchissimi. Racconto di un cooperante dal Sud Sudan.
Juba. «La sicurezza alimentare in Sudan del Sud continua a deteriorarsi con 4,9 milioni di persone (circa il 42% della popolazione) a rischio di grave fame prima dell’estate, e una prospettiva di crescita fino a 5,5 milioni di persone a luglio 2017, nel pieno della stagione delle piogge. Si afferma che la portata di questa insicurezza alimentare sia senza precedenti» (Ipc – Integrated Food Security Phase Classification in South Sudan gennaio – luglio 2017). Questo indica il bisogno, anzi il dovere, di intervenire subito, attraverso aiuti umanitari, sia in termini di distribuzioni di sementi e attrezzi agricoli – prima che inizi la stagione delle piogge (aprile-maggio) per riuscire ad avere un raccolto in un paio di mesi -, sia, e soprattutto, di distribuzione di cibo, cosa che non è assolutamente sostenibile e, probabilmente, fattibile, se consideriamo quante emergenze umanitarie ci sono nel mondo in questo momento.
Gli sfollati interni sono 1,89 milioni, più di 1 milione e mezzo i rifugiati nei paesi confinanti, e non solo a causa del conflitto cominciato nel dicembre 2013, ma anche per la mancanza di cibo. Possiamo però cominciare a contare anche chi ritorna dai campi rifugiati in Kenya (Kakuma) e da quelli ugandesi, visto che le condizioni di accesso al cibo lì non sono migliori, come pure all’educazione e alla salute.
Sono 7,5 milioni le persone che necessitano di assistenza e protezione umanitaria, su una popolazione stimata in 12 milioni, quindi più della metà (dati Ocha febbraio 2017 e Unhcr febbraio 2017).
Numeri freddi
Numeri, solo numeri, che potrebbero non dire molto, e in effetti come possiamo figurarci di quanta gente si sta parlando? Restano cifre e appelli, in attesa che qualcuno mobiliti qualcosa per rispondere a questa ennesima emergenza. Tutto questo è il risultato di più di tre anni di conflitto, di cui probabilmente nessuno sa la ragione, perché forse la conosce solo chi sta al potere. Motivi che non sono certo quelli di migliorare le condizioni della gente, fosse anche solo della propria etnia. Ormai chi va al governo ci sta giusto il tempo necessario per mettere da parte qualche soldo e prepararsi un rifugio all’estero, lontano da questo paese in cui più nessuno vuole vivere (nemmeno gli operatori umanitari). Ormai è un gioco noto.
I leader
Mentre i leader non si sa più chi siano, visto che ogni giorno nasce una nuova fazione etnica e politica, e, cosa ancora più grave, che ormai non hanno più il controllo delle forze armate, si moltiplicano i gruppi armati senza uniforme e senza bandiera. Nessuno sa più chi è colui che ha di fronte.
A questa gente ormai triste, spenta, senza speranze, con le case bruciate, distrutte, saccheggiate, chi ci pensa? Ma questi gruppi non sono stanchi di combattere inutilmente? Sì, perché fanno la guerra contro qualcuno che si sta arricchendo di denaro e di potere, mentre la gente continua a non avere nessuna prospettiva di miglioramento.
Le donne sanno solo che ogni giorno, dal momento in cui si alzano al momento in cui andranno a dormire, dovranno andare alla ricerca di cibo da dare ai propri figli e di acqua. Le case bruciate rimangono così per mesi, nonostante il materiale per la ricostruzione delle abitazioni sia disponibile localmente, perché per tutto il giorno le persone sono nella foresta a cercare cibo. Il wild food, ossia piccoli frutti degli alberi, è ciò che mangiano una volta al giorno, nient’altro. Per avere l’acqua occorre salire la montagna dove c’è la sorgente e rimanerci tutta la notte per riempire un secchio da 20 litri, perché scende goccia a goccia. E poi non è consigliato per le donne camminare ore a cercare cibo e materiale da costruzione, visto che i dintorni rigurgitano di gruppi armati informali e il rischio di violenza è altamente diffuso.
Alla domanda «qual è il maggiore problema?», è dura sentirsi dire «la mancanza di cibo», «la fame». Come è dura vedere gli occhi spenti e le espressioni vuote di ragazze adolescenti che non hanno nemmeno energia e forza per capire quello che dici, per rispondere.
Quale futuro?
La frequenza scolastica ormai è bassa, sia perché le mense sono senza cibo, sia perché le famiglie non hanno soldi per pagare la scuola. A questo si somma l’esodo dal paese, dei bambini e degli insegnanti, a causa di insicurezza e fame. Tra i molti sfollati interni sono tante le famiglie nelle quali i figli sono separati dai genitori. La gente del villaggio si occuperà dei minori non accompagnati, ma quale impatto psicosociale avrà il conflitto su questi bambini e su un’intera generazione (se non due generazioni)? Un conflitto che non vede una fine, mentre ogni giorno si apre o si riaccende un focolaio di scontri. E non si sa più tra quali parti. I gruppi contrapposti non sono più due, ma decine o centinaia. E forse l’etnia è la variabile che c’entra di meno. Oltrettutto gli operatori umanitari sono ormai un bersaglio comune, sia staff locale, sia internazionale, come pure le loro abitazioni e uffici, continuamente saccheggiati.
Crimini contro l’umanità
Esiste un sistema giuridico internazionale e un sistema penale internazionale, e ancora crediamo nella loro efficacia. Ormai è noto a tutti che qui le diverse fazioni si stanno macchiando di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. È visibile il genocidio, come denunciato dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, rimasto inascoltato. Quando si avvicinano a un’auto e chiedono se all’interno c’è gente della tale etnia per uccidere e bruciare solo quelli e far passare gli altri, cos’è? Perché non si possono fermare, attraverso azioni legali, coloro che stanno commettendo quotidianamente questi crimini?
Non si intravede nessuna svolta, si contano invece centinaia di persone lasciare ogni giorno la propria casa, per cercare rifugio in un paese confinante o un villaggio più pacifico all’interno del Sud Sudan, dove però si diventa facilmente vittime della fame, ormai diffusa anche nelle regioni che producevano per l’agricoltura interna, come le tre regioni del Sud. Lo scorso luglio, poi, il conflitto si è esteso pure a quelle zone. L’insicurezza diffusa ha progressivamente impedito l’accesso alla terra, la mancanza di sementi e attrezzi agricoli (spesso saccheggiati o abbandonati perché le famiglie sono state costrette a scappare) e la siccità, che ha colpito l’area lo scorso anno bruciando i raccolti, hanno fatto il resto. Se qualcuno mi chiedesse cosa consiglio, direi «andatevene», lasciate al più presto questo paese dove i politici fanno i loro giochi di potere e di denaro, mentre la gente resta loro sottomessa, perché, secondo la loro cultura, si abbassa la testa e si annuisce di fronte all’autorità.
Antonio La Torre* * Nome di fantasia di un cooperante che vive e lavora in Sud Sudan ormai da mesi e preferisce mantenere l’anonimato.
Colombia: La pace bussa due volte
I guerriglieri delle Farc hanno lasciato i loro rifugi per andare nei «campi di normalizzazione». Dopo il referendum del 2 ottobre 2016, la fine di 52 anni di conflitto interno sembrava in pericolo. Invece, la pace ha bussato due volte. Il 24 novembre è stato firmato un nuovo accordo e il processo di pace ha avuto inizio. Di questo e altro abbiamo parlato con mons. Luis Augusto Castro Quiroga, presidente della Conferenza episcopale colombiana e mediatore nelle lunghissime trattative tra il governo di Manuel Santos e le Farc.
L unedì 3 ottobre tutto sembrava sfumato, volatilizzato: quattro anni di negoziati, la possibilità di porre fine a 52 anni di guerra civile, la speranza di un nuovo inizio per il paese. Il referendum sull’accordo di pace tra governo?Santos e le Farc – peraltro disertato dalla maggioranza dei colombiani – aveva visto prevalere, per poche migliaia di voti, il «no». Invece di perdersi d’animo, le parti si sono subito rimesse attorno a un tavolo per ascoltare le voci dissenzienti e per rinegoziare i punti più controversi.
In poco più di 40 giorni si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo, che il 24 novembre è stato firmato dal presidente Manuel Santos e dal comandante Rodrigo Londoño, alias Timochenko, leader delle Farc. Pochi giorni dopo il testo è passato al vaglio del Senato e della Camera dei rappresentanti, che lo hanno approvato. Alla votazione non ha partecipato lo schieramento dell’ex presidente?Álvaro Uribe Vélez, contrario all’accordo per definizione (oltre che per precisi calcoli politici).
Considerata la lunghezza e difficoltà del percorso, è ancora troppo presto per dire se la pace arriverà per davvero. Quello che però si può dire con certezza è che le Farc (a parte piccole frange isolate) stanno rispettado gli impegni sottoscritti. A gennaio e febbraio migliaia di guerriglieri – tra cui 87 donne incinte e 65 madri allattanti – hanno lasciato montagne, foreste e accampamenti per andare nei 27 «campi transitori di normalizzazione» (Zonas veredales transitorias de normalización e Puntos transitorios de normalización) dislocati sul territorio del paese. Qui, al momento stabilito, consegneranno le armi nelle mani dei rappresentanti delle Nazioni Unite e cominceranno la preparazione per il loro reinserimento nella vita civile e il passaggio alla legalità.
«È cominciata l’ultima marcia delle Farc», ha annunciato l’Alto Commissariato per la pace (Alto Comisionado para la paz). Una frase ad effetto, ma fedele a ciò che sta accadendo.
Il prossimo settembre papa Francesco visiterà la Colombia. Al suo viaggio è stato dato un titolo significativo: «Demos el primer paso», «Facciamo il primo passo». Ad accogliere il papa non ci sarà mons. Luis Augusto Castro Quiroga, attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), che a luglio concluderà il suo mandato. Uno scherzo del destino considerando quanto, fin dagli anni Ottanta in Caquetá, mons. Castro si è speso per la pace e il suo ruolo di mediatore (non sempre compreso e sostenuto anche all’interno della stessa Chiesa cattolica colombiana) nei colloqui tra il governo?Santos e le Farc.
Abbiamo incontrato mons. Castro per parlare non soltanto del processo di pace, ma anche di tutti i problemi che pesano sulla Colombia a partire dalle diseguaglianze e dal narcotraffico.
Dal «no» al nuovo accordo
Mons. Castro, al referendum del 2 ottobre ha vinto il «no» all’accordo di pace. Si è trattato di una sconfitta o semplicemente di uno stop temporaneo sul cammino verso la pace?
«È stata innanzitutto una sconfitta che però si è convertita in un passaggio interlocutorio. È stata una sconfitta sì, ma in una partita giocata tra due minoranze estreme perché la grande maggioranza dei colombiani non ha votato. E non ha votato soprattutto perché non aveva inteso di cosa si trattasse, cosa fosse in gioco.
Continuamente, direi tutti i giorni, io ripetevo al governo: fate un po’ di pedagogia, spiegate questa domanda bene e con semplicità.
Non da avvocato ad avvocato, ma a una persona semplice per aiutare a capire l’importanza di tutto questo. Non lo hanno fatto. Quindi, quelli del no invece di spiegare hanno iniziato a instillare terrore nei colombiani. Sembrava che il processo di pace fosse un processo di guerra. Sembrava un processo contro i colombiani e non a loro favore. Questa propaganda piena di terrore ha fatto sì che molti colombiani abbiano votato per il no.
E alla fine, per pochissimo, quelli del no hanno battuto quelli del sì.
Fin qui, dunque, è stata una sconfitta. Questa è però servita affinché sia quelli del sì come quelli del no s’incontrassero. E soprattutto s’incontrassero quelli del no e il governo per vedere quali fossero le modifiche che essi chiedevano per poter essere soddisfatti e dire sì al processo. Per molti giorni si sono riuniti e alla fine si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo».
Le Farc come hanno reagito alla bocciatura dell’accordo iniziale, quello di agosto?
«La guerriglia è stata molto responsabile. Ha accettato tutte le osservazioni acconsentendo che esse entrassero nel nuovo schema d’accordo. Io stesso sono rimasto tutto un giorno con loro, mostrando le debolezze che c’erano nel testo di agosto e dicendo che avrebbero dovuto considerarle. E così hanno fatto.
Non si è tornati a votare con un referendum. Tutto è passato al Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti, ndr), che è l’organo naturale di un paese, e questo ha iniziato a studiare e votare tutti i punti. E a votare le leggi necessarie affinché i punti si traducano in misure legalmente operative».
Mi permetta di insistere sul referendum di ottobre. Pur lavorando da sempre per la pace, come presidente della Conferenza episcopale, lei non si era dichiarato chiaramente a favore del «sì». Come mai?
«È stata una decisione della Conferenza episcopale, assunta tutti insieme.
Ci siamo dichiarati a favore del voto: che tutti i colombiani e tutti i cattolici andassero a votare. Però non abbiamo dato un’indicazione: né a favore del “no”, né a favore del “sì”. Doveva maturare nella coscienza dei cittadini ciò che a essi appariva come la scelta migliore. E così hanno fatto. Liberamente. Così abbiamo proceduto. Certamente a molti non è piaciuto quello che abbiamo fatto, neppure ai sostenitori del no. Tuttavia, il comportamento era corretto: fare appello alla coscienza di ogni colombiano, invitare a studiare la questione e quindi prendere una decisione. Questo è stato il nostro suggerimento».
Il post conflitto e le «nuove stanze» della Colombia
Lei parla continuamente di «pedagogia della pace». Cosa intende?
«È cercare di far capire alla Colombia il significato di questo processo. Soprattutto il post conflitto. Io mi sono dato un compito: disegnare un’immagine che la gente semplice capisca. Il post conflitto è come la costruzione di una casa nuova. In cosa consiste la novità delle diverse stanze? Che ognuna ha qualcosa che prima non esisteva. Per esempio, la stanza della politica. Essa necessita dell’elemento dell’inclusione, un elemento sempre assente in questi anni. Tutti coloro che erano esclusi dalla politica presero le armi contro lo stato. Prendiamo l’economia. In Colombia essa dà vantaggi solamente a un gruppo molto piccolo di colombiani. È un’economia a cui manca l’elemento della solidarietà. Se si firma la pace, occorre inventarsi un’economia solidale, come sempre richiesto dalla Chiesa. E così per gli altri settori: l’istruzione, la cultura.
Tuttavia, una casa senza cemento cade. Ci sono tre tipi di cemento. Quello etico, che naturalmente ha a che vedere con l’onestà. Come in qualsiasi parte del mondo la corruzione è un elemento molto dannoso. Essa danneggia profondamente la vita di ogni colombiano. Ecco perché è necessario un cemento etico. In secondo luogo, è necessario un cemento spirituale. Esso è il perdono e la riconciliazione. Infine, c’è il cemento culturale. È necessario avere una cultura della vita, dei diritti, delle relazioni umane. L’elemento culturale è molto importante per costruire questa nuova società.
Bene, questa è la pedagogia che può entrare facilmente nella testa di qualsiasi persona, perché tutti sappiamo come si costruisce una casa. Secondo me, questa immagine aiuta a capire il futuro della Colombia in termini di pace».
Monsignor Castro, ci spieghi perché le vittime dovrebbero perdonare.
«In Colombia, le vittime comprovate ufficialmente sono 8 milioni. Però per ognuna di loro ce ne sono almeno due in più: un figlio con mamma e papà, un padre con moglie e figli. Se per ogni vittima ce ne sono altre due coinvolte, arriviamo alla cifra di 24 milioni di vittime. Questo significa il 50% della popolazione. Se non ci sarà il loro perdono, mai smetteranno di essere vittime.
Non esiste la vittima felice. Una vittima sarà sempre infelice. Per questo è importante passare dalla condizione di vittima a quella di sopravvissuto. “Con l’aiuto di Dio io sono stato capace di superare l’odio e il sentimento di vendetta e costruirmi un futuro differente”. Questa è la speranza per ogni vittima. Per questo si insiste sul perdono. E sulla riconciliazione».
Le Farc non sono un cartello
Secondo rapporti internazionali e reportage, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terrorista, per alcuni) in un cartello del narcotraffico che guadagna milioni di dollari. Questa interpretazione è realistica o è manipolata per motivi politici?
«Io direi più la seconda ipotesi che la prima. Le Farc sempre hanno negato di essersi convertite in un cartello della droga.
I guadagni che avevano venivano dalle imposte: se un narcotrafficante voleva droga, doveva pagare alla guerriglia una tassa. Il business rimaneva però nelle mani dei narcotrafficanti.
Per non essere troppo radicale direi che la gran parte delle Farc ha vissuto di questa imposta, nota come vacuna. Non possiamo scartare l’ipotesi che qualcuno si sia messo nel narcotraffico. Però non a livello di organizzazione.
Alcuni guerriglieri non hanno accettato il processo di pace e si sono staccati (sarebbero circa 100 uomini del Frente Primero, di stanza in Guaviare, guidato da Iván Mordisco e Gentil Duarte, e alcune decine appartenenti ad altri fronti, ndr). E credo, come tanti, che lo abbiano fatto perché si sono messi in questa attività. A costoro interessa il denaro e non la pace in Colombia. Sono delinquenti comuni. Però nelle Farc non c’è mai stata una scelta ufficiale di trasformarsi in trafficanti di droga veri e propri. L’hanno usata per ottenere risorse. Come lo hanno fatto con altri strumenti – orribili! – tipo il sequestro (le cosiddette «pescas milagrosas», ndr).
Naturalmente, in questo momento, le Farc cercano di dimostrare che mai sono state dei mercanti di droga. Allo stesso tempo ammettono che chiedevano soldi ai narcotrafficanti per autofinanziarsi».
Con quali esponenti delle Farc lei ha avuto modo di parlare?
«Con molta gente. Con i dirigenti. Con Iván Márquez, per esempio. Una delle ultime volte mi ha sorpreso. Durante una conversazione, a l’Avana, venne fuori una espressione latina. “Mi ricordo ancora qualche frase in latino”, disse lui. “E dove lo ha imparato?”, chiesi. “In seminario”, rispose. “E chi glielo insegnò?”, continuai io. Non so se posso dirlo in questa intervista, ma i padri della Consolata erano stati quelli che gli avevano insegnato il latino.
Un giorno egli decise di lasciare il seminario, ma chiese al vescovo se avesse potuto dargli un lavoro. Lui lo nominò professore in una struttura educativa. Il problema di Iván Márquez era che credeva che quel vescovo fossi io. Invece era mons. Cuniberti. In ogni caso, l’uomo ha maturato un grande rispetto per i missionari della Consolata che sono stati suoi formatori in filosofia, latino e altre discipline.
Questo lo racconto per dire che il dialogo fluiva in maniera molto facile, tranquilla e sincera. Quando il mio collaboratore portava una lista di richieste della gente, Márquez le prendeva e le distribuiva tra i suoi uomini affinché se ne occupassero. Con lui si dialogava. Con Timochenko, il leader maximo delle Farc, ci siamo incontrati solamente una volta. Verso la fine, quando capimmo che loro erano realmente decisi a fare il passo dalla guerra alla pace. E che non c’erano possibilità di tornare indietro».
Le cause economiche e sociali che, nel 1964, portarono alla guerra sono tuttora presenti: concentrazione della terra in poche mani, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione pubbliche. Lei non crede che senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace non potrà mai diventare effettiva?
«La prima causa della ribellione delle Farc contro lo stato fu la loro esclusione dalla politica. Non fu per la povertà né per altri motivi. Il fatto è che, essendo esclusi dalla politica, non potevano lavorare sugli altri aspetti dell’esistenza. Oggi l’obiettivo è integrarsi nella politica. Detto questo, l’accordo di pace non è tanto sugli elementi politici, dati per acquisiti, quanto su tutti gli altri aspetti della vita colombiana. In primo luogo, l’aspetto della terra, una terra superconcentrata in poche mani che non sono certamente quelle dei poveri. E poi il problema agricolo. Tutto è stato studiato nell’accordo di pace che è stato approvato. Una cosa è deciderlo, un’altra è metterlo in pratica. Per fare questo si richiedono ingenti quantità di denaro. Per fortuna molti paesi hanno iniziato ad aiutare».
L’applicazione di cui lei parla ha avuto inizio?
«È iniziata il primo dicembre del 2016. È iniziata con la definizione delle aree dove si concentrerà la guerriglia per le varie fasi del processo. La prima fase è quella del disarmo. Poi la formazione per integrarsi positivamente nella società. Formazione anche dal punto di vista lavorativo, apprendendo elementi che servano per aprirsi le porte nel mondo del lavoro. In generale, la implementazione di un accordo è più difficile della sua approvazione» .
Uribe, il grande oppositore
Mons. Castro, la sua opinione su Álvaro Uribe e sulle Autodefensas unidas de Colombia (Auc).
«Mettere questi due soggetti nella stessa domanda è una cosa… maliziosa… Sono due cose differenti. Io credo che il presidente Uribe
sia stato ferito quando Santos, già ministro sotto la sua presidenza, fu nominato presidente e prese una linea totalmente autonoma rispetto alla sua. E lo fece fin dal suo discorso iniziale. Questo ha fatto sì che Uribe sia diventato un grande oppositore.
Quando papa Francesco ha invitato Santos in Vaticano ha chiamato anche Uribe per cercare un riavvicinamento tra i due, ma non vi è riuscito (a dicembre 2016, ndr). Naturalmente Uribe ha molti nemici e si dice che, in passato, egli abbia avuto rapporti con i gruppi paramilitari come le Auc, composti da delinquenti. Su questa cosa però io non dico nulla perché non ho elementi per giudicare».
Chiudere il «ciclo del dolore»
Abbiamo visto che i numeri delle vittime sono impressionanti. Cosa può dire a una persona che ha perso un familiare o a un profugo?
«A queste persone si possono dire due cose. In primis, che esse hanno la possibilità di fare reclamo contro lo stato per i danni e le conseguenze sofferte perché la guerra era contro lo stato. Questo c’è negli accordi di pace.
In secondo luogo, come ho già spiegato, nel Tribunale per la pace ogni guerrigliero è obbligato a dire ciò che sa in termini di sparizioni, morti, sequestri. Se vuole avere degli sconti di pena, deve dire tutto quello che sa. Come successe in Sudafrica dove la commissione di conciliazione diceva: “Se dice la verità, lo favoriremo. In caso contrario, la giustizia cadrà su di lei con tutto il peso della legge”.
Le vittime, molte vittime possono ottenere risposte in termini di verità, che poi è quello che chiedono. “Che è successo a mio figlio?”, “Che è successo a mio marito?”, “Dove sta il cadavere? Se lo hanno ammazzato, che si possa almeno fare il funerale”. Tutto questo per chiudere il ciclo del dolore. Se esso non si chiude, lascia tutti nell’incertezza continuando a soffrire tremendamente.
Pertanto, da un lato ci sarà l’azione del Tribunale per la pace (organo giudiziale, ndr), dall’altro la Commissione della verità (organo extragiudiziale, ndr).
Da ultimo, l’ho già detto, bisogna invitare le vittime a fare un atto di coraggio: perdonare per non essere più vittime, perché il futuro che meritano non deve essere questo. Non cioè una triste vittima, ma una persona che si è conquistata un progetto di vita, un futuro differente. Una persona che, con l’aiuto di Dio, riconquista la tranquillità e serenità che merita».
Dunque, possiamo riassumere tutto in tre parole: verità, giustizia, perdono. È così?
«Sì, è corretto. Tutte e tre sono parole importanti. Verità per le vittime. Giustizia perché la guerriglia deve rispondere di quello che ha fatto. E perdono che è la motivazione interna di una persona per essere nuovamente felice».
Gli indigeni e il conflitto
L’oltre mezzo secolo di conflitto interno come ha influenzato la vita delle minoranze etniche?
«Le minoranze non sono state colpite in quanto minoranze, ma in quanto colombiane. Tutti siamo stati colpiti dalla guerra. Anche le minoranze etniche. Una delle conseguenze della guerra è stata la confisca della terra principalmente ai contadini e appunto agli indigeni. Sono stati soprattutto i gruppi paramilitari a farlo per beneficio di alcuni. Questo ha prodotto grandi sofferenze. Ci sarebbero molte cose da dire sulle minoranze indigene».
Per esempio?
«Per esempio che la Costituzione della Colombia afferma che esso è un paese multietnico. È un’espressione che a me provoca vergogna. Dire multietnico significa dire che è un paese di diversi, dove ognuno vive e lascia vivere e nulla di più. Mi sembra che sia troppo poco. Noi abbiamo bisogno non di un paese multietnico ma plurietnico. Anzi, ancora meglio sarebbe la parola interetnico in cui la maggioranza e le minoranze si relazionano, imparano le une dalle altre, crescono in un contatto mutuo. Invece, dicendo multietnico è come dire: “Io sono qui e tu là”, “Io non ti disturbo e tu non mi disturbi”. Una minoranza etnica che si chiuda (come succede in Colombia) poco a poco va a sparire perché le culture non crescono per intra-fecondazione ma per inter-fecondazione. Tutte le culture, tutti i popoli si arricchiscono. Se, al contrario, uno si chiude, va a debilitarsi.
Ricordo che, in questo momento, c’è un problema molto grave nel Nord della Colombia, tra i Guajiros: i loro bambini stanno morendo. Morendo di fame» (sono stati oltre 60 i bimbi morti nel 2016, ndr).
La coca e la narcoeconomia
È difficile non ricordare che la Colombia è nota in tutto il mondo per la droga. Oggi, nel suo paese, qual è il peso della narcoeconomia?
«Io non definirei assolutamente così la nostra economia. È un fatto che ci sia un lavaggio di dollari. Tuttavia, da parte dello stato c’è una coscienza ben chiara che esso non può funzionare con questo tipo di denaro. Il contrasto di questo business è molto grande. Le tonnellate e tonnellate di droga che si individuano ogni mese e anno testimoniano che stiamo lottando contro questo problema. Che è molto grande e che è internazionale.
All’interno dell’accordo di pace si stabilisce di aiutare a chiudere con la coltivazione della coca. Prima si era pensato di farlo attraverso la cosiddetta fumigazione (disinfestazione con glifosato, un erbicida probabilmente cancerogeno, ndr). Ci furono molte proteste, alcune corrette, altre meno».
La fumigazione avveniva anche tramite il Plan Colombia degli Stati Uniti…
«Sì, esso aiutava anche in quel senso. Comunque, ci furono proteste e dunque si decise di sradicare le piante manualmente. In tal modo non si contamina l’aria e non si causano problemi addizionali. Adesso anche le Farc andranno a distruggere le piantagioni di coca e lo faranno assieme all’esercito. Questa mi pare una buona cosa».
Però i cocaleros, i piccoli produttori, coltivano la coca perché non hanno alternative…
«No, non direi questo. Per 13 anni io sono stato vescovo del Caquetà, un dipartimento con una notevole produzione di coca. In quel momento – erano gli anni Ottanta-Novanta – la coltivazione della coca si poteva “giustificare”, detto tra virgolette. Cioè si potevano trovare ragioni sul perché si faceva: non c’erano strade, non c’erano aiuti per i campesinos; c’era un’assenza dello stato. Non c’erano né assistenza tecnica, né risorse. Da fuori arrivarono dunque i narcotrafficanti che dissero ai campesinos: “Vi invitiamo a seminare un altro tipo di semi che noi vi daremo”. Erano semi di coca. “Vi offriremo assistenza tecnica. In tre mesi ci sarà il raccolto che noi compreremo”. Insomma, tutto ciò che dovrebbe fare uno stato. “Voi – spiegavano i narcotrafficanti – guadagnerete 10 volte di più di quello che guadagnate in questo momento”. Che campesino poteva resistere a un’offerta di questo tipo? Individualmente, nessuno. Per fare una lotta adeguata contro questo occorreva formare comunità, come nell’esperienza di padre Franzoi (missionario della Consolata, ndr). Comunità unite che si opposero alla coca, avendo però delle alternative. Era il programma “No alla coca, sì al cacao”. Però, lo ripeto, erano attività comunitarie. Un individuo da solo non aveva la capacità di opporsi alla coca.
Questo per spiegare che, a causa dell’assenza dello stato, in quel momento le coltivazioni si giustificavano. Oggi no».
Cosa è cambiato oggi rispetto a un tempo?
«Oggi lo stato non è quello di allora. La Colombia è un paese molto diverso. Con strade, metodi di coltivazione.
La coca è un prodotto miracoloso: in tre mesi la semini e la raccogli. Se un professore può chiedere tre mesi di licenza, va, semina la sua coca e ritorna. Questo è un esempio ironico per spiegare che è una coltivazione molto rapida. Per questo genera molti profitti.
Tutti i produttori di qualsiasi cosa lottano sempre perché non trovano consumatori in numero sufficiente. Al contrario, per la coca i consumatori abbondano e stanno tutti negli Stati Uniti e nel mondo industrializzato. Ogni volta chiedono di più e chi maneggia il business sa che più produce, più venderà.
Questa è la situazione. Però, lo ripeto, c’è tutto un programma per sradicare le coltivazioni di coca e per controllare questo businness».
Lei ritiene che ciò sia possibile?
«Io credo di sì. Credo sia possibile. Perché oggi c’è più volontà, più forza. Non c’è un gruppo che favorisca la produzione come le Farc che da lì traevano le imposte. Anzi, adesso andranno a lavorare per il suo sradicamento. Pertanto, io credo che, se si vuole, si può fare».
La Colombia e Francesco
La prossima visita del papa in Colombia potrà aiutare il processo di pace?
«Per prima cosa va detto che il papa già ha aiutato in maniera importante il processo di pace nel paese. Ogni volta che c’era un evento speciale lui faceva un intervento speciale. Quando visitò l’Avana fece un intervento illuminante per il paese. Tutto il tavolo delle trattative e specialmente la guerriglia chiedeva di incontrarsi con il papa. Questo non fu possibile. Fummo a l’Avana. Ci spiegarono la richiesta. Parlammo con il cardinal Ortega per capire che possibilità ci fossero. Ci rispose che non c’era alcuna possibilità perché era già tutto programmato e non si poteva cambiare. Allora si chiese non di variare il programma, ma che il papa dicesse qualcosa nell’ambito degli eventi previsti. Il papa accettò e disse parole importanti sulla pace, parole che aiutarono moltissimo.
In ogni caso, il suo interesse per il processo di pace è stato continuo. Tanto che, dal presidente Santos agli altri protagonisti, tutti gli sono grati».
Se dovesse fare un appello finale, lei che direbbe?
«Direi, prima di tutto, che Dio ci illumini per continuare a lavorare per la pace. Per una pace che sia integrale, che non si riduca solamente a lotta di forze per ottenere il potere, che sia veramente la costruzione di relazioni sane tra tutti i colombiani, tra i colombiani e la natura, tra i colombiani e Dio. Una pace completa, insomma.
Come Chiesa, in questi anni di conflitto e di polarizzazione, abbiamo un compito molto difficile da perseguire. Però, poco a poco, tutti stanno cominciando a capire l’importanza e il valore di questo sforzo per la pace».
Paolo Moiola
Bangui, Centrafrica: sono tornati a casa!
Cari amici
vi scrivo per comunicarvi una notizia importante: tutti i profughi sono rientrati a casa! Sì, avete letto bene: proprio tutti. Dopo tre anni e tre mesi termina qui la nostra avventura iniziata il 5 Dicembre del 2013. E questa è l’ultima puntata della storia del nostro convento diventato improvvisamente un campo profughi.
Dal mese di gennaio, infatti, un progetto finanziato dall’Alto Commissariato per i profughi dell’ONU, in collaborazione con il Governo Centrafricano e altri partner, ha permesso a tutti i nostri profughi (e a quelli, molto più numerosi, ancora accampati nei pressi dell’aeroporto di Bangui) di poter rientrare finalmente nei quartieri della città e di riprendere una vita normale. Ogni famiglia ha ricevuto un piccolo sostegno economico alle sole condizioni di trasportare tutte le proprie masserizie nella nuova residenza, smantellare la propria tenda e abbandonare definitivamente il campo. La partenza era libera e nessun è stato obbligato ad abbandonare il campo; ma, di fatto, tutti hanno accettato volentieri di partire. Tutto si è svolto in modo ordinato e senza particolari intoppi. Anzi: siamo rimasti stupiti della maniera rapida, serena e disciplinata con la quale il nostro campo profughi si è svuotato e ha terminato la sua esistenza. Ovviamente tutto questo è stato possibile non solo grazie al piccolo incentivo economico, ma soprattutto per la situazione di tranquillità e sicurezza che ormai si è creata nella capitale. Questo nuovo clima ha incoraggiato i nostri profughi a compiere il grande passo e a iniziare una nuova vita nel quartiere di origine oppure in un altro quartiere della città.
Per giorni, al Carmel, è stato un via vai di carretti stracarichi, che ritornavano vuoti per essere ancora caricati e ripartire; poi un risuonare di colpi di martello per smontare i pali delle tende: una musica che non dimenticheremo mai. Erano arrivati correndo, scappando dalla guerra, con la paura sul volto e poche cose in mano o sul capo, raccolte di corsa, per sopravvivere chissà come e chissà fino a quando. Ora, invece, ripartivano con più calma, quasi come convinti dalla pace, con la speranza sul volto, qualche figlio in più e spingendo carretti carichi di sogni e progetti. I profughi erano contenti di partire. E anche noi eravamo contenti; ma, inevitabilmente, c’è stata anche un po’ di tristezza per non averli più tra noi. C’eravamo così abituati e affezionati alla loro presenza, alle loro esigenze e a loro rumore che, i primi giorni, abbiamo tutti percepito un senso di vuoto e un silenzio a cui non eravamo più abituati. Ma questo capitolo intenso e straordinario della storia del Carmel doveva comunque concludersi. Il sindacato dei bambini ha protestato un po’; ma poi anche i più piccoli hanno dovuto arrendersi alle decisioni dei grandi. Non si cresce bene in un campo profughi; lo capiranno da grandi. Ma è vero che abbiamo faticato un po’ a uscire dal portone senza essere più attesi, circondati e quasi spiati da frotte di bambini. Alcuni di loro erano poi fedeli e puntuali alla nostra preghiera della sera. Quanto ci mancheranno!
Osservare adesso la zona in precedenza occupata dai profughi, ormai deserta e disabitata, è po’ impressionante. Sembra quasi sia passato un tifone. Soltanto dopo la partenza dei nostri ospiti ci siamo accorti di quanto il nostro campo profughi fosse vasto e popolato (e di quante cose, per evitare i saccheggi nei quartieri, erano state raccolte e accumulate nelle loro tende). In questi giorni alcune persone stanno lavorando per rimettere tutto in ordine, raccogliere l’immondizia, colmare i solchi creati per il drenaggio dell’acqua piovana, riempire le buche delle latrine e delle docce, disinstallare l’impianto e i serbatorni per la distribuzione dell’acqua potabile… in attesa che arrivi la stagione delle piogge per rivedere l’erba che c’era un tempo, dove ora c’è solo terra rossa, dura come il cemento. Di quanto c’era prima è rimasto soltanto il mercato (con bar, cinema e una piccola officina meccanica), notevolmente ridotto rispetto ad un tempo, situato all’ingresso della nostra proprietà e ormai frequentato soltanto da clienti provenienti dai quartieri limitrofi.
L’8 Gennaio abbiamo celebrato una Messa di ringraziamento al Signore per tutti i benefici di cui ci ha colmato in questi tre anni e per non averci mai fatto mancare la sua protezione e la sua provvidenza. Abbiamo anche ricordato tutti i bambini nati al Carmel come anche tutte le persone che qui hanno terminato – per vecchiaia o per malattia – la loro vita. Sono venuti anche vecchi amici che erano già partiti nei mesi precedenti. Anche molti profughi di confessione protestante hanno voluto unirsi alla celebrazione. Abbiamo terminato la Messa sulla collina al centro della nostra proprietà con la benedizione della città di Bangui e l’implorazione del dono della pace per tutto il paese. In effetti, non bisogna dimenticare che, se la situazione è nettamente migliorata in capitale, non è così in altre zone del paese come Bocaranga o Bambari. Piccoli gruppi di ribelli – non sempre ben identificabili, spesso divisi tra loro e poco chiari nelle loro rivendicazioni – continuano purtroppo a compiere azioni criminali causando vittime innocenti, seminando paura e costringendo la popolazione ad abbandonare i centri abitati. Con molta fatica la missione dell’ONU cerca di arginare questi fenomeni che, si spera, dovranno assolutamente essere sradicati per permettere a tutto il paese – non solo alla capitale – d’imboccare risolutamente il cammino della pace e dello sviluppo.
Prima di lasciarci, davanti a tutti, il presidente dei profughi ha fatto un discorso brevissimo, rivolto alla comunità dei frati, dicendo: “Vi ringraziamo di non averci abbandonati. Non lo dimenticheremo mai”.
E anche noi non li dimenticheremo mai. Come sarebbe possibile? Quasi di ognuno conoscevamo il volto, talmente ci erano divenuti familiari. Quasi ad ognuno – impossibile il contrario in più di tre ani di convivenza – era successo qualcosa che ci aveva permesso di incrociare la nostra vita con le loro vite. Al Carmel, in questi tre anni, c’è chi è nato e chi è morto, chi si è ammalato e chi è guarito, chi ha trovato un lavoro e chi l’amore della sua vita o chi ha ritrovato la fede, o semplicemente la forza di perdonare, perdute nei meandri della guerra…
Quando la mattina del 5 Dicembre 2013 avevamo accolto le prime centinaia di profughi pensavamo che fosse questione di qualche giorno; poi pensavamo che saremmo andati avanti fino a Natale… e poi abbiamo smesso di pensare fino quando sarebbe durata l’avventura, comprendendo che quel pezzo di strada andava fatto insieme. Fuggire o cacciarli sarebbe stato da vigliacchi. Perché lasciarsi sfuggire un’occasione del genere? Accoglierli ci è sembrata da subito la cosa giusta da fare; anche se una cosa del genere, e di tali proporzioni, nessuno di noi l’aveva mai fatta e nessuno di noi poteva prevedere come e quando sarebbe finita o dove ci avrebbe portato. Se quel giorno ci avessero detto che i profughi sarebbero diventati poi migliaia e che si sarebbero installati per tre anni… forse ci saremmo spaventati e avremmo rifiutato. E invece ci siamo solo un po’ spaventati… Ma non c’è dubbio che quanto abbiamo vissuto sia stato dal punto di vista umano e cristiano un’esperienza che ci ha profondamente segnato e che ricorderemo tra le più belle e intense della nostra vita. Non c’è stato tra noi un eroe; e, tanto meno, quell’eroe sarebbe il sottoscritto. Ognuno ha fatto la sua parte, giorno dopo giorno, permettendo di dare il cambio a chi era un po’ più stanco.
Il sottoscritto ha semplicemente cercato di raccontarvi un po’ cos’è una guerra – una delle tante di cui è purtroppo ammalato il nostro pianeta – e di come un convento possa convivere con 10.000 profughi… con qualche difficoltà logistica, ma anche con una buona dose di divertimento, non poche soprese e qualche soddisfazione. Un buon lavoro di squadra ci ha permesso di venirne sempre a capo, anche nelle situazioni più difficili o imprevedibili.
Devo, infine, riconoscere che è anche grazie a questa guerra se i miei lettori e gli amici del Carmel sono aumentati. È proprio vero che non tutto il male vien per nuocere! Mi sia permesso dirvi ora il mio grazie più sincero per la passione, l’interesse e la generosità con cui ci avete seguito. La nostra missione alla periferia di Bangui ha avuto una visibilità che non abbiamo cercato e la nostra avventura una risonanza che neppure potevamo immaginare, ma che ci hanno permesso di allargare il cerchio delle nostre amicizie e di scoprire quante persone facevano il tifo per noi e perché il Centrafrica vincesse la guerra contro la guerra.
Ora il vostro corrispondente da Bangui avrà probabilmente cose meno interessanti da raccontarvi. Ma non è questo il momento d’abbandonare il Centrafrica che ha ancora bisogno della vostra simpatia e della vostra amicizia. C’è un paese non da ricostruire, ma da costruire per la prima volta e non possiamo farcela senza il vostro contributo. L’Africa è un continente in fermento e che riserva sempre grandi sorprese. Anche al Carmel nuovi cantieri stanno per essere aperti. Non mancherò di aggiornarvi.
Un abbraccio, ancora grazie e alla prossima!
padre Federico, i frati del Carmel di Bangui e tutti i nostri ex-ospiti
Centrafrica: «so molengue ti mo», questo è tuo figlio
Dalla lettera di Natale di Padre Federico Trinchero da Bangui
Cari amici,
sono quasi certo d’indovinare la vostra prima domanda: “Quanti sono adesso i profughi al Carmel?”. Prima di rispondere a questa legittima domanda, vi dirò invece quanti sono i frati. Quest’ultimi, per fortuna, sono infatti aumentati più dei primi.
Da settembre la nostra comunità ha raggiunto quota 21: 4 padri, 11 frati studenti, 1 postulante e 5 prenovizi. Non eravamo mai stati così tanti. C’è innanzitutto un padre in più. Si tratta di padre Arland che, dopo aver terminato gli studi in Italia, è venuto in aiuto alla nostra comunità. Gli studenti sono invece quasi raddoppiati con l’arrivo di ben 6 giovani frati che, dopo aver terminato il noviziato a Bouar, ci hanno raggiunto al Carmel per iniziare gli studi. L’età media è di 26 anni e siamo probabilmente una della comunità più giovani dell’Ordine. Per fortuna che ogni tanto viene a trovarci padre Anastasio, il fondatore del Carmel, la sua missione più amata. Con i suoi quasi 80 anni alza un po’ la media dell’età… ma quanto ad entusiasmo, iniziative e amore per l’Africa nessuno riesce ancora a batterlo!
Questo improvviso aumento della famiglia, e la prospettiva che in futuro il numero potrebbe aumentare ancora, ci ha costretto a fare qualche lavoro e alcuni acquisti per accogliere i nuovi arrivati: 6 stanze nuove, letti, armadi, tavoli in refettorio, sedie per la sala del capitolo e per la ricreazione. Un grande grazie a chi ci ha aiutato a sostenere queste spese. Siamo consapevoli – e la cosa ci fa ovviamente soffrire – che in Europa conventi e seminari hanno problemi ben diversi. Qui, invece, capita che siamo costretti a mettere due frati per stanza. È, per il Carmelo centrafricano, un momento fortunato e di particolare benedizione del Signore. Oserei dire che essere qui, in questo momento, è un grande privilegio. Ma anche e soprattutto una grande responsabilità. La formazione di questi giovani è e resta la nostra prima missione in questo giovane cuore dell’Africa e della Chiesa; una missione che ci occupa ogni giorno e che richiede pazienza… ma che ci diverte anche!
La situazione del paese è ancora precaria, soprattutto in alcune città. Tuttavia in capitale, almeno negli ultimi due mesi, non ci sono stati scontri particolari. Non è stato così nei mesi precedenti, quando quella tregua, miracolosamente iniziata dopo la visita di Papa Francesco, è stata fortemente minacciata con ancora morti, troppi morti, per quello che ci era sembrato l’inizio della pace.
Il quartiere del Km 5 di Bangui resta ancora un’enclave da cui i musulmani escono molto raramente e per la quale i cristiani passano solo frettolosamente, quasi chiedendo scusa del disturbo. Attoo a questa enclave si estende un grande anello disabitato, una sorta di terra di nessuno, dove i segni della guerra sono ben visibili. Qui, poco più di tre anni fa, cristiani e musulmani vivevano in pace. Ora, invece, ognuno sembra ostaggio dell’altro. Ci sono soltanto case sventrate o bruciate, tetti diroccati, erba alta, carcasse di macchine. Della parrocchia di Saint Michel restano più soltanto le mura. Al Km 5, un tempo, ogni centrafricano si sentiva come a casa sua: ora, invece, sembra quasi necessario chiedere il permesso prima di potervi entrare e la gente si saluta con un sorriso di reciproca diffidenza. Anche un campo di calcio, quasi un termometro inequivocabile di quanto sia ancora alta la febbre delle guerra, resta ancora deserto senza giocatori e spettatori.
Nel frattempo si è conclusa l’operazione Sangaris, dei militari francesi, con il grande merito di aver evitato una carneficina – a dicembre 2013 il rischio di un genocidio era più che reale – e di aver portato il paese ad elezioni quasi perfette. Di fatto nessuno ha contestato il risultato o ha messo in discussione la legittimità del nuovo presidente. Non è una cosa da poco, considerando la situazione difficile nella quale il paese era precipitato e facendo un confronto con altre realtà africane.
Ora il testimone è passato nelle mani dei 12.000 soldati dell’ONU, provenienti da diversi paesi del mondo e dislocati con grandi mezzi – e ingenti spese – su tutto il territorio. Purtroppo i caschi blu sovente sono criticati di inerzia, se non addirittura di complicità con i ribelli ancora attivi al nord. E quindi non sono mancate le manifestazioni di protesta per chiedere la loro partenza e la costituzione di un vero esercito centrafricano (praticamente inesistente da ormai tre anni). Personalmente, pur non essendo particolarmente competente in materia, ritengo che, se l’ONU non ci fosse, la situazione sarebbe peggiore e che un esercito nazionale efficiente e affidabile non si crea in tempi brevi. Ci vorrà quindi del tempo perché la situazione del Centrafrica si stabilizzi in modo duraturo: basta poco per iniziare una guerra, ma per conquistare la pace ci vuole tempo, pazienza e coraggio. E anche personalità capaci di convogliare le forze e le ambizioni migliori del paese. Purtroppo il nuovo presidente Touadera non è riuscito ancora ad operare quella svolta che si sperava. Ma è ancora presto per un bilancio e nessuno può onestamente ritenere che l’impresa sia facile. Sono tuttavia visibili, almeno nella città di Bangui, due importanti segnali di pace: la regolarità delle lezioni nelle scuole e l’apertura di diversi cantieri per la costruzione o la riparazione di edifici, strade e ponti. Decine di giovani, prima disoccupati, sono fortunatamente impegnati a studiare o a lavorare (percependo per la prima volta nella loro vita un vero salario). Scuole e cantieri sottraggono masse di giovani che, prima e durante la guerra, erano il bacino di malcontento da cui le ribellioni reclutavano facilmente del personale per destabilizzare il paese. Detto in modo più semplice: pare che se uno studia o lavora abbia meno voglia e tempo di fare la guerra. Lo stesso arcivescovo di Bangui lo ha detto in modo alquanto chiaro: “ Un giovane che non va a scuola è un futuro ribelle”.
E i profughi rimasti al Carmel quanti sono? Nell’ultimo censimento che abbiamo effettuato abbiamo registrato circa 3.000 persone. Decisamente di meno rispetto alle 10.000 del 2014… ma ancora tante, ormai un vero e proprio villaggio attorno al convento. Un giornalista di passaggio al Carmel ha definito il nostro campo profughi un ‘microcosmo emblematico della drammatica crisi ancora in corso nella Repubblica Centrafricana’.
Molti profughi sono riusciti a rientrare nelle loro case oppure ad acquistae o ricostruie una altrove. Questo significa che per i quartieri di Bangui ci sono circa 7.000 persone – forse anche di più – che hanno trascorso al Carmel qualche settimana, qualche mese o anche uno, due o tre anni. Spesso, quando percorro le strade in centro oppure al Km 5, mi capita di essere interpellato da qualcuno che, vedendo il mio volto, mi riconosce e grida: ” Bwa Federico, mbi lango na Carmel! Zone ti mbi 7. Padre Federico, ho dormito al Carmel! La mia zona era la numero 7 “. È anche capitato che qualcuno, in un impeto di eccessiva riconoscenza, abbia orgogliosamente sollevato un bambino, dicendo: ” So molengue ti mo! E questo è tuo figlio!”. Per fortuna, grazie al colore scuro della pelle del bambino, riesco sempre a scagionarmi da interpretazioni maliziose… Ma, inevitabilmente, il pensiero corre, con un po’ di nostalgia, ai quei fantastici giorni in cui un’efficiente sala parto aveva preso dimora nel nostro refettorio e tanti bambini dormivano in chiesa o giocavano nella sala del capitolo.
Ovviamente i bambini sono sempre la maggioranza degli abitanti del nostro campo profughi. Tenete conto che tutti quelli che hanno meno di tre anni sono nati qui, mentre quelli che ne hanno solo qualcuno in più – e sono arrivati ben legati sul dorso della loro mamma in fuga – qui al Carmel hanno imparato a camminare e a parlare. Per tutti questi bambini – che forse non hanno ancora visto la città – il mondo, di fatto, coincide con il Carmel: un villaggio di tendoni di plastica e legno, palme e terra rossa, attorno ad un Convento in mattoni dove abitano degli uomini che non hanno né mogli e né figli, ma ai quali ci si rivolge quando c’è qualche problema per trovae la soluzione.
Sempre a proposito di bambini vi annuncio – ma, mi raccomando, acqua in bocca, altrimenti ci rovinate la sorpresa – che domani pomeriggio scatterà, sempre dalla Francia (ma con la collaborazione della Svizzera) l’operazione Toblerone. L’operazione Sangaris era per calmare i grandi, questa invece è per fare contenti i bambini. Alcuni giorni fa 150 kg di barrette di cioccolato (sani e salvi, nonostante la temperature decisamente non svizzere!) sono sbarcati al Carmel e saranno il dono di Natale di quest’anno per tutti i nostri bambini. Questo è infatti il quarto Natale che festeggiamo in compagnia dei nostri amici. Ho sempre manifestato il sogno di poter regalare, almeno una volta, qualcosa di buono e di mai visto e gustato a tutti i bambini del Carmel… che hanno perso una casa e molte altre cose, ma non il loro appetito. Un grande grazie a chi mi ha permesso di togliermi questa grande e dolce soddisfazione.
Concludo con un altro sogno che è anche il mio augurio per voi e soprattutto per il Centrafrica.
Ketenguere, che significa ‘piccolo prezzo’, è uno degli incroci più frequentati di Bangui per la vendita degli alimentari e per trovare una moto-taxi. Si trova molto vicino al Km 5 e a soltanto 3 km dal Carmel. Qui, nelle fasi più drammatiche della guerra, venivano immancabilmente bruciati dei pneumatici e innalzate barricate. Ketenguere è diventato più volte una sorta di confine invalicabile: da una parte la guerra, dall’altra la paura. A pochi metri da questo incrocio è stato abbandonato, e ormai quasi incagliato nella terra, un pulmino di colore verde (che potete ben vedere nella foto in allegato). Non ha più le ruote ed è in pessimo stato. Ma – come spesso capita sui mezzi di trasporto pubblico a Bangui – porta una scritta davvero impegnativa: “Savoir pardonner. Saper perdonare”. Da quando è incominciata la guerra il motore si è spento, nessuno ha mai più provato ad accenderlo, nessuno ha mai più avuto il coraggio di salirci sopra… e, inevitabilmente, pochi hanno raccolto la sfida di ‘saper perdonare’. La stato in cui si trova questo mezzo di trasporto mi sembra molto simile alla situazione in cui si trova il Centrafrica.
Allora, ecco il sogno.
Ho sognato che questo pulmino, rimasto senza gasolio, senza ruote, ma sopratutto senza autista e passeggeri, all’improvviso venga rimesso in moto. Ho sognato che al volante si sieda il nostro coraggioso arcivescovo, il neo Cardinale Dieudonné Nzapalainga, sicuramente la persona che, più di ogni altra, non si è mai stancata di chiedere ai centrafricani di ‘saper perdonare’ supplicandoli di uscire dal vortice della vendetta. A bordo ho sognato che possano sedersi i bambini di Bangui. E dietro, siccome le batterie saranno sicuramente scariche, dopo così tanto tempo, e ci sarà bisogno di una buona spinta per far partire il motore, ho sognato che si mettano a spingere, con tutta la loro forza ed energia, i giovani di Bangui. E, una volta acceso il motore, ho sognato che questa simpatica carovana possa attraversare il Km 5… per poi proseguire fino a Bambari, Bocaranga, Bria… e poi, se ne avete bisogno, anche fino a voi.
Questo è il mio biglietto di auguri da Bangui: che ognuno di noi abbia l’audacia di salire su questo pulmino e chiedere come destinazione di condurci là dove sappiamo qualcuno sta aspettando il nostro perdono. C’è gasolio abbastanza per arrivare fin dove non abbiamo ancora avuto, almeno per ora, la forza e il coraggio di andare. Con l’umile consapevolezza che Qualcuno, pur di saperci irrimediabilmente perdonati, non ha temuto di vestirsi della nostra carne e di salire per primo su questo pulmino del perdono e della pace.
Buon Natale!
Padre Federico Trinchero
Qui sotto il link della puntata del 22 Dicembre del programma Today (TV 2000) dedicata al Centrafrica e al Carmel:
La maggioranza dei colombiani (votanti) ha deciso di dire «no» agli accordi di pace siglati il 24 agosto tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep. La guerra civile, iniziata nel 1964, ha causato almeno 220mila morti e prodotto danni immensi. Ora inizia una nuova e terribile sfida: tornare al conflitto o continuare sulla strada della pace. In un paese ingiusto e ancora più diviso.
Nel referendum del 2 ottobre il quesito era semplice e chiaro: «Lei approva l’accordo finale per la fine del conflitto e la costruzione di una pace stabile e duratura?». A questa domanda, la maggioranza dei votanti – pochi, appena il 37,4% degli aventi diritto – ha risposto con un «no»: 6.431.376 contro 6.377.482, una differenza di soli 53 mila voti. L’accordo del 24 agosto tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep («Forze armate rivoluzionarie della Colombia – Esercito del popolo») adesso è in bilico, anche se i protagonisti si sono affrettati a ribadire che il dialogo e la pace sono le sole opzioni.
Il risultato ha premiato lo schieramento del «no», capeggiato dall’ex presidente Álvaro Uribe Vélez, politico tuttora con molto seguito nel paese, anche all’interno della Chiesa. Va ricordato che, durante il suo mandato, Uribe aveva firmato un accordo con i paramilitari delle Auc, ma si era ben guardato dall’indire una consultazione popolare che lo confermasse.
Un conflitto di 52 anni, con 220 mila morti, 6,7 milioni di desplazados, immensi danni morali e materiali, non si cancella con alcune firme su un accordo. Tuttavia, una vittoria del «sì» sarebbe stato un viatico per la speranza.
Se non ci fosse la guerra
La guerra è la peggiore delle situazioni create dall’uomo. È altresì vero che l’assenza di guerra non significa automaticamente – lo vediamo tutti i giorni – un’esistenza pacifica e men che meno felice. Lo scrive chiaramente l’organizzazione colombiana Somos defensores, che pure si è battuta senza tentennamenti per il «sì» al referendum del 2 ottobre.
Nell’introduzione al suo rapporto Este es el fin?, uscito a giugno, la Ong scriveva: le autorità colombiane sostengono che senza guerra «termineranno molti problemi che affliggono il paese poiché esse attribuiscono al conflitto armato gran parte di queste problematiche. Niente di più lontano dalla verità, dato che fenomeni come la corruzione, il clientelismo, la diseguaglianza, il saccheggio delle risorse naturali, la morte quotidiana per mancanza di attenzione medica, l’esclusione, la povertà, tanto per citare alcuni dei molti problemi, non sono effetti del conflitto armato, ma al contrario ne sono la causa, allora perché tutto questo dovrebbe sparire?».
Per dipingere meglio la situazione generale vale la pena ricordare qualche dato, desunto non da organi di sinistra o antigovernativi ma da strutture istituzionali. Secondo cifre della Banca mondiale (anno 2015), la Colombia è il settimo paese più diseguale del mondo e il secondo dell’America Latina: viene dopo l’Honduras, ma prima del Brasile e del Guatemala. Secondo il terzo Censimento agrario (Dipartimento nazionale di statistica, Dane, 2015), lo 0,4% dei proprietari terrieri detengono quasi la metà della terra coltivabile in Colombia e il 44,7% dei contadini vive nella miseria. Sempre secondo statistiche ufficiali riferite al 2015, la povertà riguarda il 27,8% dei colombiani, ma nel Caquetá e del Cauca, dipartimenti caratterizzati da guerra e narcotraffico, arriva al 41,3% e al 51,6%.
Questi pochi dati bastano per due deduzioni, banali ma difficilmente smentibili: la guerra civile non è nata per caso e le coltivazioni di coca non si sono diffuse tra i campesinos per sete di denaro ma per pura sopravvivenza.
L’accordo per «una pace stabile e duratura»
È vero che le quasi 300 pagine dell’accordo de L’Avana sembrano un libro dei sogni, un’utopia di difficile realizzazione, soprattutto dopo il risultato del referendum. Tuttavia, il fatto che le parti, alla fine di 4 anni di dibattito, abbiano raggiunto un’intesa su tante questioni delicate è già di per sé un grande successo.
Il paese aveva già avuto esperienze simili con il disarmo delle Autodefensas unidas de Colombia (Auc), avvenuto a partire dal 2005. Nel caso dei paramilitari furono approvate due leggi: la Ley de justicia y paz (legge 975 del 2005) e la Ley de victimas y restitución de tierras (legge 1448 del 2011). Lo smantellamento dei gruppi paramilitari è stato però relativamente più semplice, in quanto essi erano nati con il supporto delle stesse forze al potere e dello stato colombiano. Tra l’altro, una parte importante di essi sono rapidamente confluiti in svariate bande criminali (Bacrim, acronimo di bandas criminales).
L’accordo del 24 agosto comprende vari punti e relative intese, tutto al fine di «porre le basi di una pace stabile e duratura». Pur nell’incertezza causata dal «no» del 2 ottobre, vediamo rapidamente i suoi punti salienti.
Come abbiamo già sottolineato, la terra e il suo possesso costituiscono una delle cause fondanti del conflitto. Non per nulla il primo punto dell’accordo riguarda la «riforma rurale integrale» che si prefigge la distribuzione di terra ai contadini senza terra o con terra insufficiente, investimenti pubblici per infrastrutture e sviluppo sociale e, come obiettivo finale, lo sradicamento della povertà tra la popolazione delle campagne.
Il secondo punto riguarda la «partecipazione politica», che significa aprire lo scenario colombiano all’entrata di nuove rappresentanze, portatrici di differenti visioni e interessi. Alla ex guerriglia dovrebbero essere garantiti 10 seggi al Congresso.
Il terzo punto riguarda «il cessate il fuoco bilaterale e definitivo e l’abbandono delle armi». I membri delle Farc sarebbero anche distribuiti in 23 zone e 8 accampamenti. Questo dovrebbe essere anche il punto di partenza per la reincorporazione dei combattenti nei diversi ambiti – economico, sociale e politico – della vita civile del paese.
Il quarto punto è dedicato alla «soluzione del problema delle droghe illecite». Esso prevede un programma di abbandono delle colture illegali e una sostituzione volontaria con colture alternative che garantiscano sostenibilità economica, sociale e ambientale e un’esistenza degna alle famiglie.
Il punto 5 è dedicato alle vittime del conflitto e crea il cosiddetto «Sistema integrale per la verità, la giustizia, la riparazione e non ripetizione». Esso prevede organismi e misure per scoprire la verità e soddisfare il diritto delle vittime alla giustizia. Vengono esclusi amnistia e indulto per i delitti di lesa umanità. Sono inoltre comprese misure per la ricerca delle persone e per la riparazione dei danni.
Il sesto e ultimo punto contiene le intese sui «meccanismi di applicazione e verifica» dell’accordo, inclusa una commissione formata da rappresentanti del governo nazionale e delle Farc.
Artigiani della pace e artigiani della guerra
Da tempo monsignor Luis Augusto Castro, missionario della Consolata, arcivescovo di Tunja e attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), lavora per porre fine alla guerra civile, tanto da essersi meritato l’appellativo di «artesano de la paz» (artigiano della pace).
Per anni missionario prima e vescovo poi nei dipartimenti del Caquetá e Putumayo ad alta presenza guerrigliera, mons. Castro è noto per la sua azione di mediatore con le Farc, anche in favore delle persone da esse sequestrate. Il fatto più noto è la liberazione, nel giugno del 1997, dei soldati catturati dalla guerriglia nella base militare di Las Delicias (Puerto Leguízamo, Putumayo).
Fondamentale ancorché lontano dai riflettori è stato il suo apporto ai colloqui di pace tra il governo Santos e le Farc, con grande disappunto dell’ex presidente Álvaro Uribe, con il quale il prelato ha sempre avuto rapporti piuttosto freddi. A giugno, dopo la firma del cessate il fuoco, Uribe ha rilasciato un duro comunicato in cui parlava di «pace ferita». Ad esso ha risposto, per via indiretta, mons. Castro parlando di «pace rafforzata».
Peccato che anche in seno alla Conferenza episcopale non tutti siano dalla parte dell’arcivescovo di Tunja. Fuor di metafora, la decisione della Cec di non suggerire il «sì» per il quesito referendario del 2 ottobre è stata una evidente presa di distanza dall’azione del suo presidente. D’altra parte, è risaputo, anche se spesso detto sottovoce, che molti vescovi sono schierati con Álvaro Uribe. Sul dibattito intorno alla tematica dell’accordo è molto istruttiva la lettura di un sito – www.votocatolico.co -, che ha fatto una campagna durissima per il «no».
Tra gli interventi pubblicati, c’è quello di padre Mario García Isaza, formatore del seminario arcidiocesano di Ibagué. Padre Isaza parte dalla bocciatura linguistica del testo per passare a quella della riforma agraria che, a suo dire, metterebbe a rischio la proprietà privata, per finire con la condanna dell’aberrazione (testuale) di includere nell’accordo anche le persone omosessuali. Sullo stesso sito, mons. Libardo Ramírez vede negli accordi un futuro con ancora più guerre. Opinione però non condivisa dalla diocesi di Quibdó (Chocó), pubblicamente espressasi per il «sì».
Dietro la guerra c’è…
Il referendum del 2 ottobre ha abbattuto il muro dell’ipocrisia. Come ci ha confessato più di un colombiano, la realtà può essere letta anche in questo modo: «La guerra significa soldi, la pace significa incertezza e può significare anche miseria». L’affermazione contiene elementi di verità, ma è altrettanto vero che chi ci guadagna dal mantenimento dello status quo sono principalmente i ricchi o comunque i potenti.
Vale la pena di concludere con le parole di mons. Castro, parole di speranza ma anche di sano realismo, pronunciate prima del referendum del 2 ottobre: «Quello che è decisivo è ciò che verrà dopo, nel post conflitto. Questo significa costruire una Colombia nuova che corregga gli errori che diedero inizio al conflitto».
Errori che adesso, dopo la vittoria del «no», sarà ancora più difficile correggere.
Paolo Moiola
L’esperienza /1
Gli indigeni Nasa e il «sexto frente»
Il Cauca è stato un teatro di guerra importante. Qui si sono fronteggiati gruppi guerriglieri (non soltanto delle Farc-Ep), esercito nazionale e indigeni. Per vent’anni padre Antonio Bonanomi ha convissuto (e dialogato) con tutti gli attori. Ecco il suo racconto, le sue critiche, le sue speranze.
Padre Antonio Bonanomi è stato per 19 anni, dal gennaio 1988 a giugno 2007, a Toribío, nel Nord del Cauca, Colombia Sud occidentale, sulla cordigliera centrale delle Ande. Il Nord del Cauca è un luogo strategico per la comunicazione fra il Sud e il Nord del paese e per la sua vicinanza alla città di Cali. Fin dall’inizio del conflitto armato, nel 1964, le Farc-Ep si sono stabilite in questo territorio, formando il «sexto Frente» (sesto Fronte). Sono poi arrivati altri gruppi armati, come l’M-19 (Movimiento 19 de abril, sciolto nel 1990), il Quintin Lame (discioltosi nel 1991), il Prt (Partido revolucionario de trabajadores, sciolto nel 1991). In risposta, oltre alla polizia nazionale, è arrivato l’esercito. E così il territorio si è progressivamente convertito in uno dei principali teatri di guerra con gravissime conseguenze per la popolazione civile, formata al 95% da persone appartenenti al popolo Nasa. A Toribío padre Antonio Bonanomi ha lavorato come cornordinatore della équipe missionaria, formata da sacerdote, suore e laici. Legatissimo a quella terra, con lui abbiamo parlato del passato e del possibile futuro dopo le firme dell’Accordo del 24 agosto e l’inatteso «no» del 2 ottobre.
La nuova Colombia deve attendere
Padre Bonanomi, con il voto al plebiscito un’esigua maggioranza dei colombiani (poco più di 6 milioni sui 13 che hanno partecipato) hanno detto «no» agli accordi tra governo Santos e Farc-Ep. Perché questo risultato e cosa succederà ora?
«Il voto mostra un paese fortemente diviso, con una maggioranza (il 66%) che non ha votato. Ha vinto l’ex presidente Álvaro Uribe Vélez contro l’attuale presidente Juan Manuel Santos. Dopo l’esito del referendum tutti, vincitori e vinti, dicono di volere la pace. Con una sostanziale differenza: i vincitori affermano di volerla senza l’intesa che era stata firmata.
Per quello che si può capire diversi sono i motivi del “no” all’accordo: alcuni hanno detto “no” per ragioni economiche, perché si sentono toccati nei loro interessi; altri per ragioni politiche, perché temono di perdere un po’ di potere; altri ancora hanno detto “no” per ragioni “religiose”, perché pensano che l’accordo apra le porte a un gruppo comunista, ateo e favorevole ai diritti civili dei “diversi”.
La vittoria del “no” è la vittoria di un progetto di paese, culturalmente neo-conservatore, economicamente e politicamente neo-liberale.
Non è facile dire cosa può succedere ora. Con il voto del 2 ottobre un momento “storico”, che poteva significare la nascita di una nuova Colombia, si è convertito in un momento “drammatico” con uno scontro fra due progetti di paese differenti.
Ad ogni modo è importante accettare la sfida e continuare a lavorare senza stancarsi e senza perdersi d’animo per una nuova idea di paese: un paese più umano, più giusto, più aperto alle minoranze e quindi più inclusivo».
Le Farc e il narcotraffico
Se si leggono i rapporti inteazionali e i reportage dei grandi media, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terroristica, a seconda delle diverse interpretazioni) in un cartello di narcotrafficanti che incassa milioni di dollari. Questa rappresentazione è vicina alla realtà o è esagerata per motivi politici?
«Più volte ho avuto occasione di parlare di questo tema con alcuni responsabili del “sexto Frente” e mi hanno spiegato che a metà degli anni Ottanta del secolo scorso i principali gruppi guerriglieri (Farc-Ep e Eln) pensavano che fosse giunto il momento della lotta finale per la vittoria della rivoluzione… e per questo avevano bisogno di altri uomini armati. Si prese pertanto la decisione di aprire le porte a tutti coloro che si presentavano e di arruolare il maggior numero possibile di combattenti. Questa decisione ebbe come conseguenza l’aumento delle spese economiche per armare e finanziare i nuovi arruolati. Per questo ricorsero al sequestro e al narcotraffico».
Pertanto, padre, la guerriglia è diventata anch’essa un attore del narcotraffico?
«Mi spiego meglio. Normalmente le Farc-Ep si limitavano a mettere una tassa sulla produzione e la commercializzazione delle droghe, approfittando del fatto che esse erano coltivate principalmente nelle zone dominate da loro. Quindi normalmente le Farc-Ep non erano produttori e commercializzatori di droghe (coca, marihuana, amapola). Anzi, dove avevano potere, obbligavano i contadini a destinare parte del loro terreno alla produzione di alimenti. Sembra che, in qualche caso, ci siano anche stati gruppi delle Farc-Ep che si siano dedicati al commercio delle droghe creando così di fatto un “cartel” del narcotraffico.
Per quello che mi hanno spiegato persone del “sexto Frente” la decisione di arruolare tutti coloro che si presentavano e la conseguente decisione di entrare nel mondo del narcotraffico è stata motivo di contrasti all’interno del movimento, perché queste due decisioni avevano creato un clima di sfiducia reciproca e la tentazione della corruzione.
Va infine notato che, nella Colombia degli ultimi 30/40 anni, tutti gli uomini del potere (politico, economico, militare, giudiziario, e in alcuni casi anche religioso) hanno goduto dei benefici del narcotraffico. Pochi insomma possono lanciare la prima pietra».
Mons. Castro e la Chiesa colombiana
Da molti anni mons. Castro lavora per il dialogo tra le parti in conflitto. Tuttavia, il suo operato non trova consenso unanime all’interno della Chiesa colombiana. Questo è un fatto evidenziato anche dal mancato appoggio al «sì» nel referendum del 2 ottobre. Come stanno le cose?
«Non è facile parlare della Chiesa cattolica colombiana perché è una realtà molto amplia e complessa. Non sono mai mancate voci e gesti profetici, però nella sua maggioranza la gerarchia e il popolo cattolico hanno assunto posizioni conservatrici e si sono opposti al cambiamento. Molto significative sono state, in questo senso, le figure dei cardinali Alfonso López Trujillo, Dario Castrillón e dell’attuale arcivescovo di Bogotá, card. Rubén Salazar Gómez. In generale si tratta di andare d’accordo con chi detiene il potere e di respingere ogni progetto di modificazione. Al punto che molti pongono anche la Chiesa fra i responsabili della violenza in Colombia.
Questo ha spinto molti cattolici ad appoggiare il “no”, non perché siano contrari all’intesa, ma perché sono contrari alle proposte di cambiamento, soprattutto quello culturale, conseguenti all’accordo.
Credo che questo abbia portato mons. Luis Augusto Castro, come presidente della Conferenza episcopale, a non pronunciarsi apertamente a favore del “sì”, ma piuttosto a promuovere un processo educativo, o meglio una pedagogia che porti la gente alla conversione del cuore, al perdono e alla riconciliazione».
L’attualità delle cause del conflitto
Dopo 52 anni di conflitto interno, si cerca finalmente di parlare di pace. Tuttavia, le cause economiche e sociali che hanno portato alla guerra sono ancora tutte in piedi: concentrazione della terra, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione, tanto per citare le principali. Non pensa che, senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace, qualsiasi pace, non potrà diventare effettiva?
«È verissimo che le cause del conflitto armato che ha accompagnato tutta la storia della Colombia, non solamente gli ultimi 52 anni, sono tutte ancora in piedi, però è anche vero che i rappresentanti del governo nazionale e delle Farc-Ep, che hanno lavorato a Cuba per la definizione dell’accordo, hanno preso in seria considerazione le cause del conflitto e hanno cercato di proporre delle soluzioni. Si sarebbe dovuto aprire un lungo e difficile periodo di lavoro per mettere in pratica le riforme contenute nell’accordo. Oggi, in una Colombia resa più polarizzata dal voto, il cammino verso una pace giusta si è trasformato in una sfida se possibile ancora più grande».
I guerriglieri e le vittime
Come si fa a reinserire nella società, nella vita civile e nella politica migliaia di persone che, per anni, hanno vissuto da guerriglieri? La storia colombiana parla già di due fallimenti, quello dell’Unione patriottica (i cui esponenti furono tutti eliminati in pochi anni) e quello delle milizie Auc (i cui membri sono andati a ingrossare le fila della criminalità organizzata).
«Il problema è reale: negli anni vissuti a Toribío ho visto la difficoltà di coloro che decidevano di lasciare la guerriglia a reinserirsi nel cammino della loro famiglia e della loro comunità, e allo stesso tempo la difficoltà delle famiglie e delle comunità a riceverli di nuovo. Era evidente un clima di estraneità da entrambi le parti. Già con la vittoria del “sì” non sarebbe stato facile il reinserimento (anche perché il conflitto ha lasciato strascichi di odio, di risentimento e di voglia di vendetta), con la vittoria del “no” sarà ancora più difficile. È necessario percorrere un duplice cammino: un paziente lavoro psicologico e spirituale per la conversione della mente e del cuore; un processo di formazione e di preparazione a un lavoro concreto».
I numeri delle vittime sono impressionanti. Che cosa si può dire a una persona che ha perduto un familiare o a uno sfollato?
«Se consideriamo chiuso il conflitto armato, rimangono però le sue conseguenze: migliaia di morti e feriti, di scomparsi e di sfollati. È una piaga aperta nella memoria nazionale e un mare di dolore nel cuore di molti. Nel quinto punto dell’accordo si prevedevano misure per dare una risposta a questa situazione. Sarà necessaria una azione psicologica e spirituale per la cura delle ferite. Oltre che di parole di consolazione, c’è bisogno di gesti concreti che aiutino le persone a guardare e a costruire il futuro con speranza».
Lei parla di un lavoro a livello psicologico e spirituale. Ha qualche esempio concreto in mente?
«L’esempio più famoso è quello delle “Scuole di perdono e riconciliazione” (Escuelas de perdón y reconciliación, Es.Pe.Re.), fondate da padre Leonel Narváez Gómez, un missionario della Consolata colombiano specializzatosi in Inghilterra e Stati Uniti. A livello locale ricordo anche il consultorio psicologico che un altro missionario della Consolata, padre Renzo Marcolongo, aprì a San Vicente del Caguán».
Toiamo alla dura realtà. La narcoeconomia ha radici profonde nella società colombiana. Come fare per ridurre i danni che provoca?
«La narcoeconomia è una realtà globale, non solo colombiana. È parte della cultura mafiosa che ha invaso tutto il mondo. Per questo sono necessarie risposte globali, specialmente da parte dei paesi più ricchi, dove più alta è la commercializzazione e il consumo di droghe. Una delle proposte è la liberizzazione del commercio e del consumo di queste sostanze. Per tornare alla Colombia, l’accordo fra il governo nazionale e le Farc-Ep, al quarto punto, prendeva in considerazione il tema del narcotraffico e proponeva la creazione di alternative concrete, come progetti produttivi, piani alimentari, possibilità di accedere a servizi speciali di educazione e di salute, affinché i coltivatori possano abbandonare le coltivazioni illecite, senza ricadere nella povertà».
I popoli indigeni e le Farc-Ep
Lei ha vissuto per quasi 20 anni tra i Nasa. Questi 52 anni di conflitto cosa hanno significato per i popoli indigeni della Colombia?
«Fin dall’inizio le Farc-Ep si sono ubicate nei territori dei popoli indigeni, sulla cordigliera o nella selva. Normalmente le relazioni fra le due realtà sono state ambigue. Da una parte vi era una certa sintonia perché i popoli indigeni, come le Farc-Ep, lottavano per la terra e contro lo stato e il governo nazionale. Dall’altra parte vi era un certo antagonismo perché i popoli indigeni si consideravano gli unici legittimi proprietari del loro territorio ed esigevano il rispetto della loro cultura.
I popoli indigeni in generale hanno accettato la guerriglia come alleata però non come padrona. Proprio per questo negli anni Ottanta, nel Nord del Cauca, il popolo Nasa aprì le porte al M19 e creò un gruppo guerrigliero proprio, il Quintín Lame, contro le Farc-Ep, perché queste volevano essere padrone del territorio e non rispettavano la cultura indigena».
Ecco il punto, padre Bonanomi: cultura indigena e cultura della guerriglia sembrano molto distanti.
«È vero. C’è sempre stata una forte opposizione fra la cultura marxista e materialista delle Farc-Ep e la cultura spiritualista dei popoli indigeni, fra la lotta per il potere delle Farc-Ep e la lotta per l’autonomia dei popoli indigeni.
Quando nel 2012 iniziarono le trattative in Cuba, molti leaders indigeni espressero dubbi e perplessità sull’accordo e chiesero di essere ascoltati. Fortunatamente il testo definitivo dell’accordo riconosce i diritti e le esigenze delle minoranze etniche, e quindi anche dei popoli indigeni, e questo ha spinto le loro organizzazioni e autorità a promuovere il voto per il “sì” al referendum del 2 ottobre.
Io credo che l’accordo, ove attuato, sarebbe un’opportunità per i popoli indigeni della Colombia nella loro lunga lotta per l’autonomia territoriale, socioeconomica, politica e culturale».
Paolo Moiola
L’esperienza / 2
L’attesa si prolunga
Nella valle del fiume Caguán, in Caquetá, la guerra e la coca sono di casa. Giacinto Franzoiricorda i suoi anni trascorsi in quei luoghi sperduti e pericolosi. E non tace la sua delusione per un «no» che, come minimo, prolungherà un insostenibile «status quo». Trent’anni di vita missionaria lungo il fiume Caguán, prima a Cartagena del Chairá e poi a Remolino, a contatto diretto con il conflitto colombiano, mi inducono a fare alcune considerazioni, in una lettura retrospettiva di cause ed effetti. Quella guerra ha prodotto milioni di desplazados in terra propria. E altrettanti sono quelli scappati in tutto il mondo, per fuggire dalla paura e dalle minacce, alla ricerca di un lavoro per sostenere la propria famiglia, per sentirsi liberi in casa altrui.
Le Farc (la guerriglia più antica del mondo), le Auc, i narcotrafficanti: sono stati cinquanta anni di parole e di massacri. Nella mia casa di missione, a Remolino, ho avuto l’opportunità di ospitare sia alti miliari che i comandanti delle Farc, oggi tutti seduti attorno al tavolo de L’Avana. Quando li ascoltavo, notavo la mutua incapacità di fermarsi, come per dire che non c’era uscita dal conflitto se non per via armata.
Tagliati fuori dalle sedie del potere, ogni forza sociale veniva zittita e dissuasa dalla partecipazione politica (come successe per l’Unión patriótica, Up, a metà degli anni Ottanta, ndr) e dal proporre uscite dignitose da una guerra senza fine. Eppure, chi aveva più diritto di parlare era la popolazione, quella che riempiva le fosse comuni, che soffriva le angherie dei protagonisti del conflitto, il condizionamento di ogni scelta. La guerra è proseguita tra contraddizioni infinite, doppia morale, tentativi di qualche presidente della repubblica (Andrés Pastrana, ndr) di sperimentare forme di dialogo.
Con il Plan Colombia (iniziato nel 1999, ndr) e l’alleanza con gli Stati Uniti sono arrivati migliaia e migliaia di soldati, che hanno iniziato una nuova modalità di fare la guerra. Armi sofisticate e aeronautica militare hanno avuto un ruolo determinante nel dare un colpo mortale agli alti comandi delle Farc. La loro influenza sui territori è diminuita sempre di più. Centinaia di guerriglieri sono stati abbandonati al loro destino. Prima che fosse troppo tardi le Farc hanno deciso di mandare un messaggio alla società colombiana: era arrivato il momento di sedersi attorno ad un tavolo. La chiesa colombiana ha accompagnato la linea del dialogo soprattutto con mons. Castro, missionario della Consolata.
A l’Avana c’era bisogno di conquistare la fiducia dell’altro e la maniera più efficace era quella di non lasciare il tavolo, anche se le incomprensioni sono state molteplici e sempre più intricate. I temi erano di somma importanza e nessuno voleva perdere terreno. Il governo non poteva dimostrarsi troppo debole e la guerriglia doveva assicurarsi le garanzie dopo una eventuale firma di accordo di pace.
Dopo 52 anni di guerra costerà molto a questi combattenti tentare la convivenza, ma bisogna crederci. La strada da percorrere è molto lunga per dare alle milizie guerrigliere quanto concordato.
Complimenti a quanti hanno creduto in questa uscita dal problema e ai portatori della cultura della convivenza, attraverso il dialogo, il confronto e il riconoscimento reciproco. Complimenti anche a quei campesinos di Remolino che hanno seminato un albero diverso dalla «mala yerba» (la coca). Un’impresa (Chocaguan) ideata dalla parrocchia e amministrata dal comitato dei coltivatori di cacao. Una piccola pietra nel difficile mosaico della pace.
Quando tutta l’opinione pubblica nazionale e internazionale dava per scontata la vittoria del «sì», allo spoglio delle schede la sorpresa è stata enorme. Per 60 mila voti in più ha prevalso il «no». Se la democrazia sembra aver vinto, gli sforzi fatti negli oltre 4 anni di dialoghi sembrano ora scritti sulla sabbia. Ha prevalso il vento della vendetta, l’azione di forze occulte (politiche ed economiche), l’incapacità di perdonare e riconciliarsi per un progetto comune, la emotività di un popolo che si entusiasma per nulla e celebra il lutto al suono dei mariachi.
Rimane lo status quo e l’incertezza sul futuro. Vince un vecchio presidente della repubblica, il signor Uribe, con nell’armadio un passato sospetto di delitti, di connivenze con i gruppi paramilitari, di difesa del latifondismo e di altri interessi di potere.
Anch’io ci sono rimasto male. Come tutte quelle mamme che dovranno attendere ancora per poter riconoscere e piangere i propri figli.
Giacinto Franzoi
L’esperienza / 3
Non chiudiamo le finestre alla pace
Per valutare la portata e la complessità dell’Accordo di pace occorre leggee le 297 pagine. Anche i numeri sono importanti. Come quelli delle zone (23) e accampamenti (8) dove i membri delle Farc hanno accettato di deporre le armi. O quelli dei seggi parlamentari (10) che saranno garantiti ai rappresentanti della guerriglia. Se il «no» del 2 ottobre non bloccherà tutto.
L’accordo di pace aveva un obiettivo chiaro: la fine del conflitto armato con le Farc e la costruzione di una pace stabile e duratura. In questo senso, occorre riconoscere che dal giorno della firma sul cessate il fuoco e sulla fine bilaterale delle ostilità, il 23 di giugno, il patto è stato rispettato dalle parti e i fatti lo dimostrano in maniera evidente: zero attentati, zero scontri e zero vittime. Vale la pena di ricordare che durante tutto il processo di negoziazione (iniziato nel 2012, ndr) uno dei maggiori timori di fallimento era quello di proseguire il dialogo nel mezzo della guerra. Fortunatamente e nonostante gli eventi dolorosi che si sono verificati, le parti hanno mantenuto la volontà politica di arrivare fino alla fine (ribadendo le loro intenzioni anche dopo l’inatteso «no» del 2 ottobre).
Del conflitto armato colombiano si parla come di uno dei più complessi del mondo, sia per la sua durata, 52 anni, che per la trama di attori legali e illegali e per le sue relazioni e dinamiche legate alle regioni in cui esso si è sviluppato.
Se guardiamo alle cause che hanno generato il conflitto, esse continuano a sussistere: la concentrazione delle terre produttive in poche mani, la scandalosa diseguaglianza sociale, l’accumulazione di ricchezza a fronte di una pungente povertà, la sistematica esclusione di vasti settori della società come i contadini, gli indigeni e gli afroamericani, la profonda corruzione della classe politica e dirigente che accumula fortune rubando all’erario statale attraverso i contratti pubblici, la precarietà e assenza dello?stato nella Colombia rurale.
Come se tutto questo fosse poco, si è sommato il mostro del narcotraffico che, a partire dagli anni Ottanta, è servito da combustibile per la guerra e che ha corrotto tutti i settori dello stato, provocando inoltre perverse alleanze tra narcotrafficanti, paramilitari e politici, nonché legami della guerriglia con il businness della droga.
Anche se l’accordo bocciato il 2 ottobre non garantiva che le grandi e storiche diseguaglianze ed esclusioni si sarebbero risolte, esso avrebbe permesso di aprire finestre di speranza attorno a tematiche cruciali come: la fine del conflitto armato e delle Farc come organizzazione armata illegale, la riforma rurale integrale, l’ampliamento della partecipazione politica, la sostituzione delle coltivazioni illecite con altre lecite, un sistema di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione per le vittime.
La base di partenza: conoscere l’Accordo
A favore del «sì» si erano schierati: il governo e la coalizione Unidad nacional (di cui fanno parte partiti tradizionali e nuovi che godono di un’ampia maggioranza nel Congresso), i partiti di sinistra e altri partiti alternativi, nonché alcune organizzazioni sociali di base di varia natura. Dalla parte del «no» si erano invece schierati i settori che rappresentano la frangia più conservatrice del paese e la destra. Nel dibattito politico, i rappresentanti che capeggiavano i due schieramenti hanno assunto posizioni drasticamente polarizzate, generando confusione e disinformazione nella popolazione.
Nel mezzo di uno scenario di attacchi e contrattacchi era difficile mantenere la calma senza lasciarsi prendere dalla febbre del momento. Esistono uomini e gruppi moderati e conciliatori – tra essi la Chiesa cattolica – che hanno promosso il dibattito e la discussione civile a partire dalla conoscenza delle 297 pagine dell’Accordo. Un compito questo né piacevole né facile: occorreva (e occorre) avere pazienza e umilità per indagare, domandare e partecipare. Gli aiuti pedagogici elaborati da soggetti distinti – organizzazioni popolari, della Chiesa, delle istituzioni nazionali e inteazionali, dello stesso governo – hanno permesso a una parte della popolazione con un basso livello di scolarità di fare propria una certa prospettiva storica alla luce del passato, del presente e del futuro.
Lo smisurato sforzo dei negoziatori
Partendo dalla mia esperienza missionaria tra le comunità che più hanno sofferto il conflitto armato e le sue conseguenze, con i lettori della rivista vorrei condividere alcune riflessioni personali.
Al di là del risultato referendario, è evidente che il processo di negoziazione e il fatto di aver raggiunto un accordo che ha sancito la fine del conflitto e ha fissato i paletti per una pace stabile e duratura hanno rappresento una crescita umana, sociale e culturale. Voler terminare un conflitto armato della vastità – 8 milioni di vittime, tra cui 224 mila morti e 7 milioni di sfollati – di quello colombiano attraverso il dialogo ha richiesto un alto grado di volontà e di razionalità politica in favore del valore più prezioso che è il rispetto della vita e il diritto fondamentale a vivere in pace. Va pertanto elogiato l’immane sforzo dei negoziatori del governo e della guerriglia durante questi quattro anni.
La guerriglia delle Farc si è impegnata a lasciare le armi per la politica. Mai prima, in più di 52 anni di lotta armata, dopo vari tentativi di negoziazione (soprattutto sotto la presidenza Pastrana, ndr) e nonostante avesse subito dure sconfitte, la guerriglia aveva accettato di sottomettersi alla Costituzione e alla legge. Questo è stato un risultato fondamentale ottenuto dal negoziato e, ancora prima di questo, dai successi delle forze armate colombiane, capaci di infliggere perdite considerevoli alla guerriglia (culminate nel novembre 2011 con l’uccisione di Alfonso Cano, comandante in capo delle Farc, ndr). Detto questo, le Farc, in quanto organizzazione politico-militare, mai hanno perso la loro capacità di destabilizzare lo stato, così come di controllare e influenzare una parte consistente del territorio nazionale. Per questi motivi e alla luce di non essere state sconfitte, al fine di contribuire alla pace esse hanno convenuto «l’abbandono volontario delle armi».
Dalle armi alla partecipazione politica?
Tralasciando gli imprevedibili effetti del «no» del 2 ottobre, secondo l’Accordo tutti i membri delle Farc dovrebbero essere raggruppati in 23 cosiddette «zone transitorie di normalizzazione», disseminate in vari municipi del paese, e in 8 accampamenti per i comandanti. In questi luoghi si dovrebbe realizzare il processo di abbandono delle armi, che rimarranno nelle mani dell’Onu. Dopo 6 mesi, una volta formalizzata la situazione dei guerriglieri, si dovrebbe dare inizio al processo giudiziario dei suoi membri attraverso la «Giurisdizione speciale per la pace».
In materia di partecipazione politica, le Farc dovrebbero avere fino al 2018 tre rappresentanti alla Camera e tre al Senato con diritto di parola ma non di voto. Successivamente, esse potrebbero partecipare alle elezioni per il Congresso, avendo assicurati in ogni caso 10 seggi parlamentari.
Anche se questa eleggibilità politica è stato uno dei cavalli di battaglia del «no» all’Accordo, va ricordato che anche i governi anteriori lo avevano promesso al fine di arrivare alla pace.
Finalmente un’opportunità per contadini, afroamericani e indigeni
Per decenni, governi distinti hanno giustificato in parte i loro insufficienti interventi e investimenti sociali con la presenza delle Farc nelle zone di più difficile accesso. Se gli accordi venissero comunque applicati, si aprirebbero finestre di opportunità affinché le comunità di campesinos, afro e indigene rafforzino i propri piani di sviluppo integrale, di distribuzione delle terre e loro formalizzazione legale, di miglioramento delle vie di comunicazione per la commercializzazione dei prodotti. Oltre a ciò, il progetto di restituzione delle terre già attivo (Ley 1448 o Ley de Víctimas y Restitución de Tierras, 2011, ndr) potrebbe trovare un ambiente più adatto per il proprio sviluppo a tutto beneficio delle vittime (si calcola che gli sfollati abbiano abbandonato 4-6 milioni di ettari, ndr).
Per il caso colombiano ritengo che sia stato di vitale importanza l’appoggio della comunità internazionale, rappresentata sia dai paesi garanti e facilitarori (Cuba, Norvegia, Venezuela e Cile) che dall’Onu e dalla Corte penale internazionale. Se nonostante tutto ancora ci sarà un processo di applicazione degli accordi – il cosiddetto postconflitto -, la comunità internazionale dovrebbe offrire una blindatura di sicurezza giuridica e di chiusura dei processi che si dovrebbero tenere tanto per i guerriglieri quanto per tutti coloro che, durante il conflitto, hanno commesso delitti, inclusi i membri delle Forze armate. La Corte penale internazionale dovrebbe evitare che ci sia impunità, in linea con gli standard inteazionali soprattutto con riferimento ai crimini di lesa umanità commessi nel corso del conflitto (il Trattato di Roma del 1998 elenca 11 tipi di delitti classificabili come crimini contro l’umanità, ndr). Dovrebbe garantire inoltre che vengano rispettati i tempi e i processi di quanto pattuito in materia di verità e di giustizia.
Continuerà la terribile notte?
La guerra è la sconfitta dell’umanità. La Colombia che oggi abbiamo è stata in parte partorita dalla guerra e dalla violenza. È per questo che sognare di poter chiudere queste dolorosissime pagine della nostra storia significa aprirsi a nuove opportunità di cui soltanto le nostre future generazioni potranno godere appieno. Senza le assurde dispute e meschinità della politica attuale, lontani da insane gelosie e falsità che vogliono soltanto condannarci a ripetere la storia di «100 anni di solitudine» (riferimento al famoso romanzo di Gabriel García Márquez, ndr).
Poco a poco supereremo la orribile notte. Sarebbe bello se i colombiani del futuro potessero dire che sebbene «qui è sempre successo il peggio, sempre qui è successo il meglio». A significare che siamo stati capaci di aprire le finestre alla speranza, alla giustizia, alla riconciliazione e alla pace.
Benjamín Martínez Solano
Sitografia
In rete si possono trovare buoni siti d’informazione sull’Accordo del 24 agosto 2016:
Antonio Bonanomi– Missionario della Consolata brianzolo, è arrivato in Colombia nel gennaio del 1979. Dopo 5 anni a Tocaima, dal 1983 al 1987 ha insegnato a Bogotá. Da gennaio 1988 e per quasi 20 anni ha lavorato a Toribío, nel Cauca, tra le popolazioni?Nasa, contribuendo alla loro causa e promuovendo la realizzazione del centro di formazione Cecidic (1994). Dal 2014 è tornato in Italia.
Giacinto Franzoi– Missionario della Consolata trentino, padre Giacinto Franzoi ha operato in Colombia dal 1979 al 2008 nel Caguán, nella regione amazzonica del Caquetá. Ha raccontato quel periodo in alcuni libri di memorie: Rio Caguán. Memorias y leyendas de una colonización, Bogotà; Dio e coca, Fatti e misfatti di una missione, Ancora Editrice, 2003; I prigionieri del Caguán, Ancora Editrice, 2010. Oggi presta servizio a Rovereto. Per richiesta libri o conferenze: jacintofranzoi@libero.it.
Benjamín Martínez Solano – Nato a Bucaramanga, in Colombia, dopo l’ordinazione sacerdotale come missionario della Consolata è stato per 8 anni in Corea del Sud. Dal 2002 è tornato nel suo paese natale. Ha lavorato con le comunità afro a Marialabaja (Bolivar), con i contadini a San Vicente del Caguán (Caquetá), con le comunità indigene a Toribio (Cauca). Oggi lavora a Cartagena del Chiara (Caquetá). Teologo, è laureato in scienze politiche.
Ringraziamo per la collaborazione padre Angelo Casadei, superiore dei missionari della Consolata in Colombia. Attualmente a Bogotá, ha lavorato a Remolino (Caquetá).
A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.
Guardandosi in cagnesco
Mentre questi articolo era in stampa, a partire dl 10 luglio la situazione è precipitata nel Sud Sudan e gli scontri tra Dinka e Nuer si sono riesplosi con grande violenza a partire da Juba, dove ci sarebbe dovuto essere un incontro di pace.
È durata due anni e mezzo. La guerra civile sud sudanese ha fatto vedere i delitti più efferati. Due milioni e mezzo di sfollati, decine di migliaia di vittime civili. L’uso sistematico dello stupro come arma di guerra. L’Onu parla di crimini contro l’umanità. Ma il mondo non lo sa neppure. Ora c’è una pace instabile, con tutti i problemi ancora sul tavolo.
Riek Machar, il capo dei ribelli, è tornato a Juba. È il 26 aprile 2016. Dopo due settimane spese a Gambella in Etiopia per definire quali armamenti poteva portare con sé (missili terra-aria, anticarro, stringer, etc.), ha finalmente avuto l’ok delle autorità etiopi e poi dal presidente del Sud Sudan, il suo acerrimo nemico Salva Kiir Mayardit, per atterrare nella capitale. Fuori città c’è l’esercito regolare Spla (Sudan people liberation army) schierato in caso di necessità. «C’era un grande fermento in quei giorni. Io ero sul terreno e tutti stavano attaccati alla radio, perché non funzionavano i telefoni, ma solo radio e internet» ci racconta Angela Osti, da alcuni mesi nel paese come cornordinatrice di un progetto di emergenza per una Ong italiana. «Lo staff locale era agitato. Poi finalmente Machar arriva, ed è festa. Salva Kiir lo chiama fratello. Ma, pochi giorni dopo, tutti sono delusi dai nomi del governo transitorio di unità nazionale: sono gli stessi di due anni e mezzo prima, quando è scoppiata la guerra civile. La pace l’aspettavano tutti: “adesso che arriva la pace, sarà diverso…”, dicevano».
Sono passati due anni e nove mesi da quando è scoppiato il cruento conflitto interno al Sud Sudan, il nuovo stato africano, nato appena il 9 luglio del 2011.
«È la guerra più atroce che questi popoli abbiano mai vissuto. Non è stato così neppure nei decenni di guerre contro gli arabi del Nord. C’è stato un combattimento acerrimo tra due etnie che si sono massacrate a vicenda». Chi parla è Daniele Moschetti, superiore regionale dei missionari Comboniani in Sud Sudan.
Ma per capire come si è arrivati a questo punto, occorre fare un passo indietro.
Un paese giovane
Il Sud Sudan, è il 54° stato africano. Ha una superficie di 619.745 chilometri quadrati (due volte l’Italia) per 11,5 milioni di abitanti. Confina con Etiopia, Kenya, Uganda, Congo Rd, Repubblica Centrafricana e, ovviamente, Sudan dal quale si è staccato.
Paese con infrastrutture quasi inesistenti, ha una zona più umida e produttiva a livello agricolo ad Ovest, un’area paludosa nel centro Sud ed arido nell’Est.
È uno dei paesi più poveri del mondo ma rigurgita di acqua e di petrolio.
Le guerre del Sudan
Prima dell’indipendenza dal Sudan si contano due guerre tra i popoli del Sud, neri e cristiani o animisti, e il Nord, arabo e musulmano. Il Sud ha le risorse, come la terra coltivabile, l’acqua, e soprattutto il petrolio (l’80% dei giacimenti si concentrano qui). Le multinazionali iniziano a sfruttare il greggio sudanese intorno agli anni ’70.
Tra il 1956 (anno dell’indipendenza da Egitto e Gran Bretagna) e il 1972, si colloca la prima guerra civile sudanese, con connotazione più religiosa.
Nel 1983 scoppia la seconda guerra: il Sud, chiede l’indipedenza dal Nord, che non vuole mollare le risorse. Tra i vari eserciti del Sud che combattono contro l’esercito sudanese si distingue il Sudan people liberation army (Spla), comandato dal carismatico John Garang dell’etnia dinka, maggioritaria.
Con gli accordi di pace del 2005 viene sancita una grande autonomia del Sud, e si prevede un referendum per la secessione. John Garang diventa vicepresidente del Sudan. «Il sogno di Garang – racconta Moschetti – non era la divisione del Sudan e quindi l’indipendenza del Sud, ma il cosiddetto New Sudan», un paese unito e in pace. Ma non tutti la pensano come lui, sia dentro l’Spla, sia all’estero. Fondamentale è infatti la posizione del presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, che ha sempre appoggiato la secessione del Sud e contrastato il Nord di Omar al-Bashir. Museveni rappresenta gli interessi geopolitici degli Stati Uniti nell’area. Mentre l’Uganda sosteneva l’Spla contro al-Bashir, questi finanziava il Lord resistence army (Lra, vedi MC giugno 2012) di Joseph Kony contro Museveni.
Dopo 5 mesi di vicepresidenza, l’elicottero che trasporta Garang e la sua guardia ristretta da Kampala, Uganda, verso il Sudan precipita misteriosamente. Il mezzo era stato fornito dallo stesso presidente ugandese.
Si registra qualche tafferuglio a Karthum (capitale del Sudan) e a Juba (capitale del Sud), poi tutto è messo a tacere, e molto rapidamente Salva Kiir, vice di Garang, anche lui dinka, prende il suo posto. Curiosamente Kiir è proprio di quel gruppo nel Spla che spingeva per la secessione del Sud Sudan. Non è un leader carismatico come Garang, ma ha alle sue spalle Museveni e soprattutto l’amministrazione Usa, con George W. Bush prima e Barak Obama poi, che ha investito miliardi di dollari in questa operazione.
Così dall’accordo del 2005 si arriva al referendum (vedi MC marzo 2011) a gennaio 2011, con il quale il 98,8% dei votanti chiede la secessione dal Nord.
Storie di etnie e di potere
C’è un passaggio importante da analizzare per capire la crisi Sud sudanese degli ultimi anni.
«Il Nord non ha mai voluto mollare il Sud, perché voleva dire un collasso economico per Karthum, che di fatti c’è stato dopo il 2011», ricorda Moschetti. Ma esiste un altro piano di scontro tutto interno al Sud. Qui sono presenti 64 etnie o tribù, delle quali i popoli maggioritari sono Dinka (quattro milioni) e Nuer (un milione di persone), gli altri contano centinaia di migliaia di individui, come ad esempio i Bari. «Questi due popoli, cugini tra loro, sono entrambi allevatori nomadi, e hanno milioni di vacche. Occorre sapere che nella cultura pastorale la vendetta è un valore fondamentale».
Le frizioni tra Nuer e Dinka erano già state uno dei problemi grossi, durante la seconda guerra col Nord. Tra ’91 e il ’97 Nuer e Dinka, all’interno dello stesso Spla, si erano scontrati, per un contrasto tra i generali Riek Machar (nuer) e Salva Kiir (dinka). I Nuer avevano compiuto un massacro di Dinka a Bor, nel 1991 e per sette anni i due popoli sono stati divisi. Machar si era alleato con il Nord ed era sostenuto con armi di al-Bashir, al quale faceva molto comodo poter controllare la situazione. E questo ha innescato una voglia di vendetta del popolo dinka. Con la mediazione statunitense, il Spla si è ricomposto e si è arrivati all’accordo con il Nord del 2005. Ma le braci sono rimaste accese.
Indipendenza
«Si arriva al 2011 e all’indipendenza. La grossa difficoltà per Machar è stata accettare che il presidente eletto fosse ancora Salva Kiir, e lui fosse rimesso ancora, solo, vicepresidente. C’erano difficoltà e divisioni, anche perché sono due personaggi completamente diversi. Kiir è militare, generale, l’altro invece, pur essendo militare, ha studiato a Londra.
Sono andati avanti per due anni insieme, con grandi difficoltà, poi nel 2013 il gruppo dinka ha preso sempre più il potere e occupato tutte le posizioni nel governo e nel paese. A luglio ha scaricato Riek Machar, e ha mandato via tutti i ministri, sostituendoli con gente del proprio gruppo, per di più non preparata. Il 30 novembre ha smantellato l’ufficio politico del partito unico Splm (Sudan people liberation mouvement)». Intanto, ricorda sempre Moschetti, «si stavano preparando delle manifestazioni di diversi gruppi contro i Dinka. Il governo ha chiesto un dialogo e indetto tre giorni d’incontri: 13-15 dicembre 2013. Alla sera del 15, una domenica, abbiamo iniziato a sentire i primi spari a Juba. Non si erano messi d’accordo».
Scatta così una corsa al massacro dei Nuer a opera dei Dinka. Kiir cerca di giustificare goffamente la violenta repressione accusando Machar di tentativo di colpo di stato. I Nuer, attaccati, reagiscono. Il Spla si divide e nasce il Spla-io, ovvero «in opposition», quello dei Nuer. Inizialmente gli scontri sono a Juba, poi si estendono ovunque sia presente popolazione nuer. Dalle caserme, dove i militari nuer vengono uccisi, ai massacri della popolazione, compiuti sia da militari che da miliziani dinka. Gli stati più colpiti sono quelli a maggioranza nuer, che sono anche quelli a maggior concentrazione di pozzi petroliferi del Sud Sudan: Unity, Upper Nile e Jonglei.
Secondo Moschetti: «In parte si tratta della vendetta del massacro compiuto 22 anni prima ai danni dei Dinka. Ma probabilmente è anche uno dei modi con cui l’élite dinka aveva pensato di far fuori Machar, senza però riuscirci. Lui è scappato, e il governo ha poi accusato le Nazioni Unite di aver agevolato la sua fuga, il che è un po’ assurdo».
La guerra più atroce
La guerra civile Sud-Sud, durata due anni e mezzo è stata particolarmente violenta. Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani, cornordinata da David Marshall, nel marzo 2016 ha pubblicato un rapporto sulle violazioni. Parla esplicitamente di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi in particolare dalle forze regolari del Spla e dalle milizie in appoggio: «Fino dal 2013 tutte le parti in conflitto hanno perpetrato attacchi conto civili, stupri e altri crimini, arresti e detenzioni arbitrarie, rapimenti e privazioni di libertà, sparizioni forzate, e attacchi al personale Onu e loro strutture. Oltre due milioni di Sud sudanesi sono sfollati interni, quasi mezzo milione nei paesi confinanti, e decine di migliaia uccisi.
«L’ampiezza e il tipo di violenza sessuale – principalmente realizzata dal Spla governativo e milizie a esso collegate – è descritto con bruciante, devastante dettaglio, come l’attitudine alla macellazione di civili e distruzione di proprietà e mezzi di sussistenza», dice l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Zeid Ra’a Al Hussein. «Tuttavia la quantità di stupri e stupri di gruppo descritti dal rapporto sono solo una foto della realtà totale. Questa è una delle più orrende situazioni di violazione dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio della violenza sessuale come strumento di terrore e arma di guerra, ma è stato praticamente assente dall’attenzione internazionale».
Le violazioni continuano per tutto il 2015, anche dopo la firma dell’accordo, e insanguinano in particolare gli stati Unity e Upper Nile, a maggioranza nuer e anche i Wester e Central Equatoria.
Il rapporto Onu descrive inoltre come «civili sospettati di appoggiare l’opposizione, inclusi bambini e disabilli, fossero uccisi, bruciati vivi, soffocati nei container sotto il sole, fucilati, impiccati agli alberi o tagliati a pezzi con il machete». Sempre secondo il rapporto «lo stupro è stato parte di una strategia per terrorizzare e punire i civili». L’Onu riconosce che anche le forze dell’opposizione hanno commesso atrocità, ma a un livello inferiore. Nelle 102 pagine del rapporto si legge che 10.533 civili sono stati uccisi solo nel 2015, fino a novembre, la maggior parte in modo deliberato. Gli inviati Onu hanno poi documentato più di 1.300 casi di stupro nel periodo tra aprile e settembre 2015 e solo nello Stato del Unity.
Museveni appoggia ancora una volta Kiir, inviando pure truppe ugandesi, che saranno di stanza a Bor (capoluogo del Jonglei), per impedire l’avanzata verso Sud del Spla-io, ovvero i Nuer nel Nord Jonglei.
Pressioni inteazionali
Dopo una decina di firme per la pace, sempre disattese, nell’agosto 2015 arriva quella buona. E si organizza il rientro di Machar, che avverrà solo ad aprile dell’anno successivo. Nel frattempo gli scontri continuano. Pochi giorni dopo l’arrivo di Machar a Juba si forma il governo transitorio di unità nazionale.
«Il nuovo governo è esattamente uguale a quello precedente al luglio 2013, quando il vice presidente Machar fu defenestrato dal presidente Kiir». Conferma Samuele Tognetti, rappresentate dell’Ong Comitato Collaborazione Medica, che vive nel paese dal 2013. «Sotto pressione dei grandi donatori inteazionali, in particolare Nazioni Unite, Usaid e Ukaid (le ultime due sono le cornoperazioni governative di Usa e Regno Unito), il presidente è stato costretto a scendere a patti con il rivale. Ha mantenuto anche l’altro vice, quello nominato dopo la cacciata di Machar, il generale James Wani Iggia di etnia bari». Non si tratta quindi di un negoziato, con una mediazione, in cui le parti si sono messe d’accordo, ma di una situazione artificiale nella quale i problemi restano irrisolti. «Al momento non cambia niente. Non vediamo alcun miglioramento generale delle condizioni del Sud Sudan dopo l’insediamento del nuovo governo, avvenuto pochi giorni dopo il ritorno di Machar a Juba» continua Tognetti. «L’economia invece di migliorare peggiora, il dollaro è scambiato contro il pound Sud sudanese 1 a 40. Nel 2013 era 1 a 4. Permangono i campi profughi, anche qui a Juba, e soprattutto negli stati nei quali la guerra è stata più cruenta, ovvero Unity e Upper Nile.
Oltre lo smantellamento dei campi, occorrerebbe poi far ripartire i pozzi petroliferi, fermi a causa della guerra, per rilanciare l’economia e far entrare valuta pregiata, in modo che il cambio e l’inflazione comincino a stabilizzarsi o a diminuire. Ma non sta avvenendo niente e non c’è un programma».
«Le Nazioni Unite vorrebbero chiudere tutti i campi di sfollati entro dicembre» ci dice Angela Osti, che lavora proprio con le vittime del conflitto «ma i ritorni devono essere spontanei e la gente deve tornare nelle zone di origine in sicurezza e in condizioni tali per cui non si crei un’altra crisi umanitaria. Tra gli altri c’è il campo di Bentiu, il più grande con circa 105.000 persone, in una zona di pozzi petroliferi, contesa tra Dinka e Nuer. Nei campi poi scoppiano scene di guerriglia tra le etnie e le strutture sono distrutte e date alle fiamme».
Chi comanda il Sud Sudan
I Dinka, pur non essendo la maggioranza assoluta, sono circa il 35% dei Sud sudanesi, di fatto controllano tutti i posti chiave, e non solo dell’amministrazione. «Noi lavoriamo molto con alcuni ministeri – continua il cornoperante – e possiamo constatare che sono quasi tutti Dinka». Conferma Moschetti: «Le zone petrolifere sono Nuer, ma quelli che ne approfittano sono Dinka. Anche alcune altre etnie, ma loro hanno mangiato miliardi di dollari, senza sviluppare il paese».
«Osserviamo molto nepotismo, clanismo. Gli altri gruppi accusano oggi i Dinka di mettere le proprie persone a tutti i livelli. È anche vero che sono la maggioranza. Poi c’è un’alta corruzione, dovuta ai soldi derivati dal petrolio. Fino al 2011, tutti i proventi dell’estrazione andavano a Karthum, anche se nel Sud c’era un governo semi autonomo, mentre i soldi per far funzionare le cose arrivavano dal Nord. Gli oleodotti vanno tutti dal Sud al Nord, a Port Sudan, dove il petrolio viene imbarcato. E il Sud Sudan deve pagare un dazio fisso a barile, indipendente dal prezzo del greggio sul mercato. Sia i generali del Spla, sia i pezzi grossi del governo hanno ingrossato i propri conti in banca in giro per il mondo, non certamente a Juba».
Nel 2018 sono previste le prossime elezioni presidenziali. Ma «non si possono vivere due anni con una tensione così» ci dice Tognetti. «A livello politico è un rapporto di forza tra due fronti: oggi non si vede una volontà di dialogo tra i due, altrimenti ci sarebbero delle politiche per migliorare le condizioni di questa nazione. Il dialogo deve essere frutto di buona politica che oggi è assente. È una fase molto incerta. Dove si va a finire? Di sicuro la città è militarizzata in modo massiccio, se si accende un cerino nel posto sbagliato, succede un pandemonio».
Ricorda Daniele Moschetti: «Diventa sempre più difficile resistere per la gente. Si mangia una volta al giorno, i salari sono rimasti gli stessi, ma è aumentato tutto, cibo compreso. In un paese che è uno dei più poveri al mondo. Dopo la Siria, il Sud Sudan è il peggiore».
Marco Bello
Rd Congo massacri nel Beni
I territori di Beni, Butembo e Lubero nella provincia del Nord-Kivu all’est della Repubblica democratica del Congo sono da decenni vittimi di massacri di civili. Una lettera aperta del 14 maggio 2016 mandata dai cornordinatori locali dei gruppi della società civile di Beni, Lubero e Butembo al presidente della Repubblica, Kabila, riporta che solo negli ultimi due anni sono stati registrati più di 1116 persone ammazzate e altre 1470 rapite; più di 1750 case incendiate (molto spesso con dentro i loro abitanti), 13 centri di salute incendiati (anche in questo caso con malati e personale sanitario all’interno); 27 scuole distrutte, altre abbandonate, altre ancora occupate o da rifugiati, o da “dipendenti” militari, o dagli stessi gruppi armati; ci sono villaggi interi completamente assediati e occupati da gruppi ribelli, e si tratta di Kyoto, Katundula, Ivombo, Mwekwe, Mukeberwa, Fungulamacho, ecc. (http://www.rfi.fr/afrique/20160517-rdc-kabila-adf-massacres-beni-lettre-ouverte-gilbert-kambale , http://www.radiookapi.net/2016/05/09/actualite/securite/massacre-de-beni-le-commandement-de-loperation-sokola-i-delocalise )
In queste zone la popolazione spesso si ritrova abbandonata a sé stessa, la polizia o le forze armate nazionali essendo quasi inesistenti. L’insicurezza è totale, e la situazione profondamente drammatica.
I gruppi armati all’est della RDC sono numerosi. I principali registrati negli ultimi 20 anni sono: M23, Fdlr, Fdlr-Soki, Fdlr-Rud, Fdlr-Soka, Fdlr Mandevu, Raia Mutomboki, Mai Mai Sheka, Mai Mai Kifuafua, Fdl, Fdc, Upcp/Fpc, Mac, Mpa, Mai Mai Morgan, Mai Mai Simba, Adf-Nalu, Lra, Fnl, Mai Mai Yakutumba, Mai Mai Nyatura, Fdipc, Apcls, Cogai/ Mrpc, Frpi, Kata Katanga, Fdn, M18, M26. (http://www.irinnews.org/fr/report/99057/briefing-les-groupes-armés-dans-l’est-de-la-rdc)
Ben una trentina di gruppi armati che l’esercito regolare e le truppe dell’Onu non riescono a controllare e contrastare, e continuano a seminare terrore in mezzo alla popolazione di questa parte del paese.
Gli ultimi orrori riportati sono stati le uccisioni del martedì 3 maggio nelle località di Minibo e di Mutsonge attribuiti ai ribelli islamici ugandesi appartenenti al gruppo ADF-NALU. Decine di persone sono state freddamente uccise con macete, coltelli e asce. Minimbo e Mutsonge sono due quartieri situati a Nord-Est della citta di Beni nel Nord-Kivu, poco lontano da dove l’esercito nazionale (Fardc) e le truppe dell’Onu (Monusco) hanno le loro basi. L’Adf-Nalu è un gruppo ribelle di origine ugandese che opera a ovest della catena del Ruvenzori nel Beni. È stato fondato nel 1995 e ha come scopo l’instaurazione di uno stato islamico in Uganda. È legato al gruppo somalo di Al-Shabab.
(per un tristissimi catalogo di immagini basta digitare “massacres de Beni RDC”)