Myanmar. La solidarietà tra le violenze

 

Nel Myanmar tormentato dalla guerra civile, la popolazione cerca di resistere al calvario senza fine che sta attraversando, tra sfollamento, povertà, violenza.

Dopo il golpe militare del febbraio 2021 e l’organizzazione delle «Forze di difesa popolare» – milizie della resistenza composte soprattutto da giovani birmani -, la nazione del Sudest asiatico, secondo l’Armed Conflict Location and Event Data Project (Acled), organizzazione internazionale senza scopo di lucro, che raccoglie dati sui conflitti, è attualmente «il posto più violento del mondo», segnato da almeno 50.000 moti in un triennio e con oltre 2,5 milioni di sfollati interni.

Che nel Paese non vi sia alcuno spiraglio di pacificazione né di ritorno alla normalità lo testimonia il fatto che la giunta militare ha prorogato lo stato di emergenza per altri sei mesi, rinviando eventuali elezioni al 2025.

Intanto gli scontri tra le forze popolari e il potente esercito birmano infuriano e il fronte della resistenza ha ora creato un’alleanza militare con gli eserciti delle minoranze etniche, da decenni in rotta con il governo centrale, in cerca di autonomia e federalismo. Tale saldatura ha generato diversi successi e conquiste dei resistenti sul terreno, soprattutto nelle aree di confine, mentre la giunta continua a controllare le principali città, nel centro del Paese.

In questo scenario di violenza diffusa, i civili continuano a fuggire da città e villaggi per scampare agli scontri e per anziani, donne e bambini si presenta ogni giorno la sfida del sostentamento.

Un recente rapporto del programma Onu per lo Sviluppo (Undp) rileva che il 75% dei 55 milioni di birmani vive oggi in condizioni di estremo disagio, e il 32% della popolazione – nota la Banca Mondiale – è in grave stato di indigenza, con ben 13,3 milioni di individui prossimi alla fame, anche perché il governo militare continua a impedire l’ingresso di organizzazioni umanitarie internazionali nel Paese.

A queste necessità interne vanno incontro parrocchie e realtà cattoliche birmane, in un Paese dove la Chiesa conta 700mila fedeli e mostra di apprezzare i ripetuti appelli che papa Francesco ha rivolto alla comunità internazionale di «non dimenticare il Myanmar».

Le diocesi cattoliche organizzano centri di accoglienza in strutture come parrocchie e scuole, procurano e distribuiscono aiuti, provvedono al sostentamento dei rifugiati. Ma lo sforzo delle comunità cristiane non è solo di carattere umanitario e caritativo, è anche morale e spirituale: fatto di vicinanza, consolazione, condivisione della vita di quanti, per salvarsi, fuggono nelle foreste o in aree isolate e montuose, luoghi nei quali, però, trovare cibo è molto difficile.

Un’esperienza esemplare è quella del «vescovo-profugo» Celso Ba Shwe, pastore di Loikaw, la capitale dello stato Kayah, nel Nord del Paese, costretto dal novembre del 2023 a lasciare la sua cattedrale e l’annesso centro pastorale perché occupati dall’esercito birmano per farne una base militare.

Il vescovo ha trascorso mesi lontano dalla sua Chiesa, dedicandosi a visitare i profughi e celebrando con loro le festività religiose come il Natale, la Pasqua, la Pentecoste. Una condizione di precarietà che ha colto come «un’opportunità per essere più vicino al mio popolo, più vicino alla gente, che ha tanto bisogno di consolazione e di solidarietà», mentre oltre la metà delle chiese della diocesi sono chiuse e svuotate a causa della fuga dei fedeli.

Nella situazione di sfollamento e di tribolazione, il vescovo e i preti della diocesi hanno potuto farsi «pastori con l’odore delle pecore» – espressone di papa Francesco – condividendo la vita degli sfollati e continuando e cercare sostegno e speranza nella vita di fede, nella preghiera, nella celebrazione comunitaria dei sacramenti anche in mezzo ai boschi. La fede per loro resta un baluardo per resistere alle avversità del tempo presente.

Paolo Affatato




Con l’odore delle pecore. Padre Gazzera, nuovo vescovo coadiutore di Bangassou


Lui è un innamorato del Paese. Ma la nomina a vescovo non se l’aspettava. La crisi storica in Centrafrica colloca questo Stato in fondo a tutte le classifiche di sviluppo. La ricetta, per padre Aurelio, è investire nell’educazione dei  giovani. Per un futuro di pace.

Un missionario in prima linea. Un sacerdote che ha vissuto gran parte della sua vita in uno dei Paesi più instabili al mondo. Aurelio Gazzera, religioso dell’ordine dei Carmelitani e oggi vescovo di Bangassou, è uno di quei «pastori con l’odore delle sue pecore addosso», che piacciono tanto a papa Francesco. A testimoniarlo è la sua stessa biografia. Nato a Cuneo, ha lasciato ben presto la provincia Granda per entrare giovanissimo nel seminario minore dei Carmelitani scalzi di Arenzano. Già nella sua formazione di sacerdote (sarà ordinato nel 1989) trascorre un anno nella delegazione carmelitana centrafricana. Ma è dal 1992 che il suo destino si lega più strettamente al Centrafrica dove ricopre diversi incarichi: assistente al seminario minore della missione Yole (1992-1994), direttore del primo ciclo del medesimo seminario minore (1994-2003) e poi parroco di San Michele di Bozoum (2003-2020) e superiore della delegazione dei carmelitani scalzi (2014-2020).

Dal 2003 diventa responsabile della Caritas di Bouar e, dal 2020, è membro della comunità di Baoro, incaricato dei cristiani dei villaggi della savana e direttore della scuola meccanica di Baoro.

La «fiera» di Bozoum

A Bozoum crea un evento unico per tutto il Paese: la fiera agricola. «Vengo dalla provincia di Cuneo, una terra contadina, e in Africa ho incontrato contadini – spiega padre Aurelio -. Qui coltivano manioca, fagioli, arachidi in piccoli campi. Si tratta di un’agricoltura di sussistenza che permette di raccogliere il minimo per la sopravvivenza delle famiglie. Esistono però coltivazioni più estese di riso. Ed è un elemento positivo perché il riso ha un buon mercato, si vende bene e può garantire entrate alle famiglie di coltivatori». E proprio per creare un mercato, padre Aurelio nel 2004 si inventa, insieme a Secours Catholique (Caritas francese), la fiera. Una iniziativa che, da allora, si è ripetuta ogni anno, nonostante le difficoltà che il Paese stava attraversando.

«Nel 2024 – osserva padre Aurelio -, la fiera agricola e pastorale di Bozoum si è tenuta dal 26 al 28 gennaio. Siamo arrivati alla 19a edizione. La fiera è un unicum in Rca: non c’è niente di simile in tutto il Centrafrica. È uno spazio di esposizione e vendita di prodotti agricoli, cui partecipano le cooperative della regione. I più lontani sono venuti da Ngaundaye, Ndim e Bocaranga: regioni molto toccate dalle violenze. Ed abbiamo voluto a tutti i costi aiutarli a venire».

La fiera è un’occasione per vendere e acquistare prodotti agricoli, macchinari e sementi. Il giro d’affari di quest’anno è di 80 milioni di franchi cfa (120mila euro). «È una cifra considerevole – continua padre Aurelio -, in un Paese dove il reddito pro capite è intorno ai 400 euro annui».

Repubblica centrafricana. Fedeli durante una messa a Bema, Bangassou. Foto Aurelio Gazzera

Socialità e dialogo

«La fiera non è solo un evento commerciale. Gli stand sono una festa di colori e di sorrisi. Il lavoro di tanti mesi trova qui la bellezza dei prodotti, la gioia di esporre (e di mostrare l’aspetto positivo dell’agricoltura) e la soddisfazione di vendere tanto in poco tempo.

Qui non c’è differenza tra cristiani o musulmani, tra persone di diverse etnie. C’è uno splendido clima di amicizia e di confronto».

La guerra e papa Francesco

La Repubblica Centrafricana è un Paese senza sbocco sul mare che, da anni, lotta contro conflitti e instabilità. La nazione è stata scossa da molte guerre civili e colpi di stato, causando una crisi umanitaria che ha colpito milioni di persone. Il conflitto più recente è iniziato nel 2012, quando una coalizione di gruppi ribelli conosciuta come Seleka ha rovesciato il governo del presidente François Bozizé. La Seleka, composta principalmente da musulmani, ha iniziato a prendere di mira le comunità cristiane, tra le quali sono nate in risposta le milizie note come «anti balaka».

Il conflitto è stato caratterizzato da violenza diffusa, violazioni dei diritti umani e lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone.

Nel 2015, papa Francesco ha aperto la Porta Santa della Cattedrale di Bangui, la capitale centrafricana, dando il via all’anno Santo. «Bangui diviene la capitale spirituale del mondo – ha detto Francesco -. In questa terra sofferente sono rappresentate tutte le sofferenze del mondo. Per Bangui, per tutti i Paesi che soffrono la guerra, chiediamo la pace: tutti insieme chiediamo amore e pace». E ha poi aggiunto: «A tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo, io lancio un appello: deponete questi strumenti di morte; armatevi piuttosto della giustizia, dell’amore e della misericordia, autentiche garanzie di pace».

La visita di papa Francesco e l’apertura della Porta Santa a Bangui avevano fatto sperare in una svolta, ma le tensioni sono continuate.

Gruppi di ribelli oggi controllano quasi i due terzi del territorio nazionale, mentre le risorse naturali (legname, oro, uranio, ecc.) hanno attirato le attenzioni di numerose potenze straniere. «A pagare questa situazione di incertezza è la popolazione civile che vive nel terrore che si possano ripetere le tensioni e, con esse, possano tornare violenze, saccheggi, distruzioni – spiega padre Aurelio. Gli ultimi dodici anni sono stati terribili per il Centrafrica e le persone non vogliono rivivere quello stato di devastazione e timore continui. Qui da noi le autorità sono già fuggite in zone più sicure. La popolazione si sente abbandonata».

Il Paese è tra i più poveri al mondo, con alti livelli di insicurezza alimentare, malnutrizione e malattie. Il conflitto ha interrotto la produzione agricola e il commercio, portando a un forte aumento dei prezzi dei generi alimentari e della fame diffusa. «Il governo centrale non è in grado di sostenere l’economia – continua padre Aurelio -. Manca la sicurezza, mancano le infrastrutture. Ricche piantagioni di caffè, tabacco e pepe sono state abbandonate perché è impossibile portare i prodotti sui mercati. I contadini sono così costretti a vivere con quel poco che coltivano vicino a casa».

Aurelio vescovo in Rca

padre Aurelio con monsingnor Juan Josè Aguirre, in visita in Spagna.. Foto Aurelio Gazzera

Il 23 febbraio scorso padre Aurelio è stato nominato vescovo coadiutore di Bangassou da papa Francesco. Una notizia che lo ha sorpreso. «Più leggo e studio, e più mi sento piccolo e incapace, e non all’altezza – ha scritto in una lettera inviata al vescovo di Cuneo-Fossano, diocesi da cui proviene -. Il ministero episcopale è un affare serio! […] Ho accettato per amore di Dio. E mi vengono alla mente le parole tra Gesù e Pietro, dopo la Risurrezione: “Gli disse per la terza volta: Simone di Giovanni, mi ami? Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo. Gli rispose Gesù: Pasci le mie pecorelle (Gv. 21,17)”. Ho accettato per amore della Chiesa. L’anello che il vescovo porta, è segno di questa fedeltà. Dalla Chiesa ho ricevuto tutto: la Fede, la Speranza, la Carità».

Padre Aurelio ha accettato anche per amore del Centrafrica: «È un Paese “non facile” (qui usa un eufemismo, nda). Sono 33 anni che il Signore mi ha fatto la grazia di viverci. Non ho ancora capito tutto. Anzi. Ma lo amo, come amo la diocesi di Bangassou che mi è affidata, data in sposa. Momenti di gioia, momenti di dolore. Un mosaico di bellezza e di sofferenza, di semplicità e di complicazioni. Di volti, di sorrisi, di bambini, di giovani e di adulti».

Una zona complessa

La diocesi di Bangassou si trova in una regione molto difficile, scossa ancora da forti tensioni. «Dopo il referendum costituzionale (del 30 luglio 2023, ndr) – continua padre Aurelio -, a livello centrale si è affermata un po’ di stabilità. Nel Nord Ovest e nel Sud Est, anche se i combattimenti si sono fatti un po’ più radi, le tensioni non sono scomparse.

Nella mia diocesi ci sono due aree particolarmente rischiose: una è Bakouma, nei pressi di un importante sito di uranio, dove a inizio aprile sono state uccise decine di persone; l’altra è Mboki, attaccata e occupata dai ribelli e dove si sono registrati scontri con gli anti balaka Azande a Ni Kpi Be.

Queste tensioni hanno profonde conseguenze sulla popolazione. Non parlo solo dei problemi economici. Adulti e bambini vivono nella costante paura di attacchi e massacri. Lo stress legato a questi fatti è alto e incide anche sulla psiche delle persone».

Repubblica centrafricana. una classe della scuola primaria di Nyakari (Bangassou). Foto Aurelio Gazzera

Russi e cinesi

In tutto il Centrafrica è molto forte la presenza straniera. Esaurita l’influenza francese, ex potenza coloniale, hanno preso gradualmente spazio i russi e i cinesi. Entrambi hanno una forte presenza nel Paese. Pechino è più discreta ed è interessata soprattutto alla gestione e allo sfruttamento (spesso selvaggio) delle risorse naturali (legno, oro, uranio, ecc.). Mosca invece ha una presenza più evidente soprattutto in campo militare. Di fronte alla crescente insicurezza, il presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra ha offerto ai russi ampie concessioni sulle miniere in cambio della protezione militare dei mercenari di Mosca. «La loro presenza è molto evidente – osserva padre Aurelio -. Nel Paese si vedono un po’ ovunque sia tecnici sia militari russi. Non si nascondono e conducono politiche e alleanze locali che, spesso, non sono allineate alle strategie del governo centrafricano».

Secondo padre Aurelio, «bisogna disarmare i cuori e le mani. E poi questo è un Paese che ha bisogno di infrastrutture, di sviluppo. Invece non si vede nessun impegno. Le strade sono sempre più disastrate, nella capitale stessa. Se si pensa che per percorrere 750 chilometri ci vogliono un paio di settimane in macchina, nella stagione secca, vuol dire che la carenza è grande. Ci vorrebbe un impegno più serio, non tanto da parte della comunità internazionale quanto dalle autorità locali». Padre Aurelio, però, è ottimista. «Lavoriamo molto attraverso l’educazione dei giovani. Siamo convinti che è proprio attraverso la formazione delle nuove generazioni che si può costruire un futuro migliore. È un cammino lungo, ne siamo convinti, ma è l’unica strada per cambiare davvero, nel profondo».

I fedeli sono molto legati alla Chiesa cattolica. La devozione è forte. «Come Chiesa cattolica – conclude padre Aurelio – cerchiamo di stare sempre a fianco delle persone, di essere presenti e di condividere le loro sofferenze. La Chiesa cattolica lavora per incoraggiare tutti i tentativi di soluzione pacifica dei conflitti e per portare una parola di speranza in un Paese che pare avere perso la fiducia nel futuro».

Enrico Casale

Repubblica centrafricana. Strada nella diocesi di Bangassou. Foto Aurelio Gazzera

Archivio

Marco Bello, Centrafrica, Regioni contro la guerra, MC aosto 2022

 




Sudan. È crisi umanitaria senza precedenti

 

Un anno di guerra. Un conflitto civile senza quartiere che vede opposti l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan ai paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) che fanno capo a Mohammed Hamdan Dagalo detto «Hemetti».

Il Sudan ha vissuto mesi di scontri, violenze, fughe. Le fazioni in guerra avevano originariamente stretto un’alleanza dopo la rivoluzione che nel 2019 ha portato alla caduta del dittatore sudanese Omar al-Bashir. Avevano promesso una transizione verso la democrazia, ma invece hanno rovesciato il governo civile di transizione con un secondo colpo di stato nel 2021. Gli ex alleati si sono poi divisi sui piani per una nuova transizione e sull’integrazione del gruppo ribelle Rsf nell’esercito regolare.
Dal 15 aprile 2023, l’esercito sudanese e la Rsf sono impegnati in una lotta di potere su chi potrà gestire una nazione ricca di risorse che si trova in un crocevia vitale tra Nordafrica, Sahel, Corno d’Africa e Mar Rosso. Alle loro spalle alleati internazionali. Arabia Saudita, Egitto e Iran sostengono l’esercito sudanese, mentre gli Emirati arabi uniti sono accusati di sostenere il leader ribelle Hemetti. Anche la Russia ? presente. I suoi mercenari sono allineati con la Rsf. Gli Stati Uniti la accusano di armare la milizia in cambio di oro di contrabbando. Gli esperti affermano che parte di queste ricchezze vengono poi impiegate per finanziare la guerra di Mosca in Ucraina.

Intanto il conflitto ha causato una grave crisi umanitaria. In un anno di scontri sono morte 14mila persone e, secondo dati Onu, 8,6 milioni di sudanesi hanno lasciato la propria casa per cercare rifugio in zone sicure, 1,8 milioni delle quali hanno trovato ospitalità all’estero. Nell’ultimo anno, 16mila rifugiati sudanesi si sono registrati all’Unhcr in Libia altri 6.500 in Tunisia. La Libia e la Tunisia sono punti di partenza per chi cerca di proseguire verso l’Europa. L’anno scorso in Italia sono stati registrati quasi seimila arrivi di sudanesi, contro i mille del 2022. I rifugiati sudanesi in Europa sono relativamente nuovi e i loro viaggi differiscono da quelli di popolazioni di rifugiati più consolidate provenienti dal Corno d’Africa, che spesso hanno legami familiari e di parentela in Europa. Questo, sottolinea Unhcr, li rende più suscettibili allo sfruttamento e agli abusi.
Uno studio condotto dalla stessa Unhcr ha individuato nelle aggressioni fisiche (30%), in sistemi fiscali illegali (24%) ed estorsioni (22%) le motivazioni principali che hanno spinto la gente a fuggire.

Chi invece non cerca rifugio in Europa, fugge nella Repubblica Centrafricana, in Ciad, Egitto, Etiopia e Sud Sudan. Quest’ultimo accoglie il maggior numero di persone, compresi migliaia di rimpatriati sud sudanesi, grandi flussi hanno investito anche il Ciad e l’Egitto. L’arrivo di migliaia di persone ogni giorno in aree di confine remote e insicure, mette a dura prova le scarse strutture e la logistica per portare gli aiuti per fornire un minimo sostegno agli arrivati.
Alla crisi degli sfollati si aggiunge quella delle strutture del Paese. Le scuole sono chiuse da un anno e meno di un terzo degli ospedali del Sudan è ancora attivo: le strutture funzionanti si occupano principalmente di curare i feriti di guerra. I blackout elettrici e le interruzioni della rete internet sono frequenti, l’accesso a medicine e beni di prima necessità è complesso ovunque. Le Nazioni Unite hanno chiesto un intervento urgente per scongiurare quella che può diventare la più grave crisi umanitaria degli ultimi anni.

Enrico Casale




Guerra in Tigray. Le braci restano accese


La guerra interna in Etiopia è durata due anni. È intervenuta l’Eritrea e diverse altre potenze estere si sono «posizionate», in particolare fornendo armi. Un anno fa, la firma del cessate il fuoco, ma il conto delle vittime è elevatissimo e il Tigray è da ricostruire.

Due anni di combattimenti intensi. Di avanzate e di ritirate da ambo le parti. Di battaglie tra creste vertiginose e valli aspre. Una guerra fratricida, piena di vendette maturate in anni di tensioni represse. Un conflitto che ha fatto scricchiolare le fondamenta dell’Etiopia. Nel Tigray, tra il 2020 e il 2022, si sono confrontati l’esercito federale, che rispondeva agli ordini del governo di Addis Abeba, e le milizie tigrine, agli ordini del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Ma tra gli attori sono comparsi anche le milizie amhara e l’esercito eritreo (che oggi è ancora presente nel territorio etiope). A un anno dalla firma del cessate il fuoco che cosa è rimasto sul terreno? Qual è l’eredità di quei durissimi 24 mesi che hanno segnato la regione settentrionale del Paese?

Le radici

Facciamo un passo indietro. La guerra in Tigray è scoppiata nel 2020, ma le radici del conflitto sono molto più profonde. I tigrini sono stati il nerbo delle forze che hanno destituito, negli anni Ottanta e Novanta, Menghistu Hailè Mariam. Alleate agli eritrei hanno condotto una guerriglia che ha deposto il «negus rosso», ha portato all’indipendenza dell’Eritrea e alla nascita, in Etiopia, di un regime di cui proprio i tigrini sono stati il centro per quasi un trentennio. Decenni duri nei quali dall’alleanza con gli eritrei si è passati a un’aperta contrapposizione tra Addis Abeba e Asmara, culminata nella guerra del 1998. Una guerra, quest’ultima, che, anche quando le armi sono state messe a tacere, ha lasciato un lunghissimo strascico di tensioni tra Etiopia ed Eritrea.

Solo l’avvento al potere del premier Abiy Ahmed (2018) ha portato a una svolta. Il nuovo leader, di etnia oromo, ha siglato una storica pace con l’Eritrea (nello stesso anno) e ha progressivamente messo ai margini il Tplf, che ha perso sempre più potere e si è arroccato nella propria regione di appartenenza. Le continue frizioni tra il governo federale di Addis Abeba e il Tplf hanno portato a un conflitto aperto nel gennaio del 2020. L’esercito federale ha condotto un’offensiva che ha, inizialmente, messo in un angolo le milizie tigrine. Solo nel giugno 2021 lo stato maggiore di Macallè è riuscito a prendere l’iniziativa e a lanciare una controffensiva che ha portato i propri reparti a 200-300 chilometri da Addis Abeba.

Nel frattempo, la disputa ha visto scendere in campo nuovi attori. A fianco del governo federale si sono schierate le milizie amhara, la seconda etnia dell’Etiopia che si contende con i tigrini alcune zone di confine tra le due regioni. Pochi mesi dopo è scesa in campo, a fianco del premier Abiy, anche l’Eritrea che, come abbiamo visto, aveva un antico conto da saldare con la dirigenza tigrina, ma, soprattutto, aveva pretese territoriali su una zona che confina tra Eritrea e Tigray. A supportare i tigrini è invece arrivato l’Esercito di liberazione oromo (Ola), formazione armata della frangia più estremista del popolo oromo (l’etnia più numerosa dell’Etiopia).

Gli scontri sono stati durissimi e a subire le conseguenze più forti è stato il Tigray. Senza corrente elettrica, senza collegamenti al web, senza medicine e con cibo scarso a scontare gli effetti più duri dei combattimenti è stata la popolazione civile. Amnesty International ha anche, a più riprese, denunciato i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati soprattutto dai soldati eritrei nel nord del Tigray. Accuse rigettate da Asmara, ma che sono state confermate anche dai Medici per i diritti umani e dall’Organizzazione per la giustizia e la responsabilità nel Corno d’Africa che hanno denunciato le continue aggressioni sessuali, durante e dopo il conflitto, perpetrate dagli eritrei a danno delle donne tigrine.

(Photo by Michele Spatari / AFP)

Fine del conflitto

Nel 2022, il Tigray ha iniziato a cedere di fronte all’offensiva dell’esercito federale. Tra agosto e settembre 2022, l’entrata in scena dei velivoli senza pilota forniti ad Addis Abeba da Turchia, Iran ed Emirati arabi uniti ha permesso un’offensiva dell’esercito federale che ha messo in ginocchio i miliziani tigrini. Impossibilitati a sostenere ulteriormente lo scontro, i vertici del Tplf hanno quindi accettato di sedersi al tavolo in colloqui di pace mediati dall’Unione africana.

Il 2 novembre 2022 Addis Abeba e Macallè hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine al conflitto. Il bilancio di due anni di guerra è tragico. Secondo alcune stime sarebbero state circa 500mila le vittime, alle quali si aggiungerebbero due milioni di sfollati interni.

Il Tigray è distrutto, ma anche lo Stato federale avverte forti scricchiolii nel suo assetto istituzionale. «Addis Abeba – riporta una ricerca dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano – ha sempre sottolineato il carattere di questione interna [del conflitto], rivendicando la propria piena sovranità nazionale e il connesso diritto e dovere, in quanto governo legittimo, di applicare la legge su tutto il territorio nazionale, imponendo quindi l’autorità centrale sulla ribellione “terrorista” del Tigray». Una visione che mette in dubbio la costruzione federale dello Stato a vantaggio di un forte potere centrale. «Il Tplf – continua la ricerca Ispi – ha insistito nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo ritenuto illegittimo per essere rimasto in carica nel 2020 dopo la scadenza del suo mandato, il duro intervento armato con violazioni indiscriminate a danno dei civili e il prolungato isolamento del Tigray che ha causato una gravissima crisi alimentare e umanitaria».

Contadino che ara , sui 3000 mt.

L’internazionale

La guerra in Tigray ha però avuto anche forti ricadute internazionali. L’Europa ha subito preso le distanze da Addis Abeba, e Bruxelles ha imposto un embargo delle armi tanto verso l’Etiopia quanto verso l’Eritrea. Gli Stati Uniti, un tempo fedeli alleati del premier Abiy, si sono dimostrati molto critici nei suoi confronti. Una tensione che ha raggiunto il culmine con la sospensione dell’Etiopia dall’African growth and opportunity act, la legge statunitense che prevede agevolazioni commerciali in favore dei Paesi che rientrano entro certi canoni prefissati. A trarne vantaggio sono state la Cina e la Russia. Pechino ha dimostrato subito un sostegno incondizionato ad Addis Abeba e ha criticato sia le sanzioni sia l’interventismo di Usa e Ue. Anche la Russia ha sostenuto il premier Abiy parlando della guerra come «un affare interno» nel quale non interferire.

Altri due attori «minori» hanno tratto beneficio dal conflitto: la Turchia e l’Iran. Ankara ha riallacciato rapporti, fino ad allora freddi, con Addis Abeba. E ciò le ha garantito fruttuosi contratti nel settore della difesa, che hanno fruttato alle casse dei colossi turchi della sicurezza 51 milioni di dollari nel solo 2021. Non dissimile l’atteggiamento di Teheran che, come sottolinea la ricerca Ispi, «ha visto nelle tensioni tra Stati Uniti e Addis Abeba un’opportunità per mantenere profondità strategica nel Corno d’Africa».

Alba di luna sulle case tra eucalipti

La testimonianza

«L’Etiopia è lo specchio delle emergenze dell’Africa. Il Nord, al confine con il Somaliland, è stato investito da ondate di siccità. Il Sud è stato colpito dalle inondazioni. A Ovest devono fare i conti con 500mila rifugiati sudsudanesi e nella regione di Gambella con 80mila rifugiati sudanesi. E poi il Tigray che è uscito provato da due anni di guerra civile», a parlare è Giovanni Putoto, medico, responsabile della programmazione del Cuamm medici con l’Africa, organizzazione da anni impegnata nell’assistenza medica nel continente. Putoto è reduce da un recente viaggio in Tigray dove la sua organizzazione è stata chiamata a intervenire per supportare il sistema sanitario locale duramente colpito dalla guerra.

La tensione, racconta, non è terminata. I tigrini devono fare i conti con le rivendicazioni dei vicini amhara su territori confinanti. Non solo, ma devono continuare a sopportare la presenza dei reparti eritrei che non hanno abbandonato il territorio etiope. «Nel nostro viaggio – continua – non abbiamo visto militari eritrei. Sappiamo però che ci sono. Ce lo hanno testimoniato numerosi tigrini che abbiamo incontrato. Occupano ampie fasce di territorio al confine tra Etiopia ed Eritrea. Asmara non ha firmato l’accordo di pace e la loro presenza è un dossier che deve ancora essere affrontato e risolto da Addis Abeba».

Gran parte dei morti, spiega Putoto, sono stati civili: uomini, donne, bambini vittime degli scontri e delle privazioni causate dal conflitto. A questi si aggiungono gli sfollati. Sono migliaia, perlopiù concentrati nelle periferie delle città. Solo nel nord ovest del Tigray sono 400mila, la maggior parte all’interno dell’abitato di Shire. Le condizioni della popolazione sono drammatiche. La malnutrizione acuta e grave è elevata, soprattutto nei bambini. Una situazione aggravata dalla sospensione degli aiuti in cibo da parte del Programma alimentare mondiale disposta a seguito dello scandalo della sottrazione di derrate da parte delle autorità etiopi.

I leader tigrini hanno denunciato la morte per inedia di almeno 50mila persone a causa del mancato arrivo degli aiuti alimentari. Cifre che non possono essere verificate, ma che tracciano la situazione drammatica della regione. «Il sistema sanitario è al collasso – osserva Putoto -. In tutto il Tigray un solo ospedale è in grado di fare parti cesarei e trasfusioni di sangue, parametri minimi per stabilire se una struttura sanitaria funziona. Gli altri ospedali sono chiusi o sono stati intenzionalmente distrutti dalle truppe eritree. Solo il 20-30% dei centri sanitari è operativo. Il personale sanitario è deceduto o non lavora perché senza retribuzione. Mancano quindi operatori e farmaci. Le uniche strutture che funzionano sono quelle di proprietà della Chiesa cattolica che hanno fatto un lavoro preziosissimo. Anche le scuole sono chiuse. I ragazzi e le ragazze crescono per strada, lontano dalle aule».

Il Tigray ha di fronte a sé la necessità di ricostruire. «È una sfida enorme – continua Putoto – perché non si tratta solo di riabilitare le infrastrutture distrutte o danneggiate, ma di ricreare i quadri professionali che sappiano guidare questa ricostruzione. C’è tantissimo da fare per restituire ai tigrini un sistema scolastico, sanitario e produttivo funzionante».

Enrico Casale


Scuola Tecnica: Studenti che fanno pratica, p. A. Vismara osserva. Anni settanta.

La storia di un missionario formatore in Etiopia

Una vita in seminario

Padre Antonio Vismara ha dedicato la sua vita all’Etiopia, pur avendo lavorato anche in Kenya e Italia. La sua vocazione è stata quella di fare il formatore di altri missionari. E ha pure avuto la fortuna di avere a fianco un gruppo di appoggio inossidabile.

Padre Antonio Vismara è nato nel 1942 a Ossona, in provincia di Milano. Terzo figlio, dopo un fratello e una sorella. Ottenuto il diploma da disegnatore tecnico scopre la vocazione e intraprende il percorso per diventare missionario. Nel giugno del 1972 è ordinato sacerdote. Alla fine dello stesso anno parte per l’Etiopia e inizia la sua missione a Meki.

Lo incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata a Torino, dove vive dal 2021.

«Fin dall’inizio il fondatore (Giuseppe Allamano) ha sognato l’Etiopia, ma noi (missionari in quel paese, ndr) diciamo che questo sogno non si è mai realizzato», ci confida con un sorriso sornione.

Perché? Gli chiediamo. Oggi ci sono diversi missionari etiopici nell’istituto, questo è già un bel risultato. «Il governo non ha mai realmente accettato i missionari, volendo piuttosto progetti di sviluppo sociale. E neppure la Chiesa ortodossa ci ha mai voluti – continua padre Antonio -. Noi eravamo sul posto con dei visti di lavoro, realizzavamo progetti, e a fianco abbiamo fatto chiese, parrocchie, comunità cristiane, che sono molto attive anche oggi». Le difficoltà per ottenere visti e permessi di soggiorno ci sono sempre state, ma negli ultimi anni si sono inasprite. È quasi un dire: «bastiamo noi, non vogliamo più stranieri».

Oltre a diversi missionari etiopi e alcuni keniani, come missionari della Consolata oggi sono presenti nel paese padre Edoardo Rasera, padre Marco Martini e fratel Vincenzo Clerici.

Padre Antonio apprezza molto i missionari etiopi: «Sono molto fedeli, perché attingono dalla lunga tradizione dei monaci».

Ma andiamo con ordine. Padre Antonio ha iniziato il suo lavoro a Meki, sede del vicariato nel 1973, poi ha lavorato anche a Modjo, nello stesso vicariato. I suoi incarichi sono stati fin da subito nel campo della formazione dei nuovi missionari, ruolo che ha mantenuto sempre: «Una vita in seminario», ci dice ridendo. Seguiva gli aspiranti missionari con lezioni sulla spiritualità dell’istituto, incontri personali, e con il discernimento. Aveva studiato teologia tra Torino e Washington e aveva fatto anche un corso per formatori.

«Negli anni Ottanta lavoravo con il vescovo Yohannes Woldegiorgis. Quando il vescovo morì (nel 2002, ndr), mi chiesero di sostituirlo. Ma dissi loro, “no, qui ci vuole un etiope”. L’Etiopia è troppo complicata, occorreva un locale per districarsi», dice, quasi a giustificarsi.

Dopo l’Etiopia, ha lavorato per tredici anni al seminario di Bravetta a Roma, e poi otto in Kenya, al seminario di Nairobi.

È nel 2005 che viene richiamato in Etiopia dove è diventato superiore regionale e, successivamente, formatore al seminario di Addis Abeba: «Tenevo lezioni sulla nostra identità come missionari della Consolata, al pomeriggio, dopo i corsi universitari. Poi ero a disposizione per i cosiddetti dialoghi personali, perché la teologia insegnata in classe pone delle domande, ma la scuola soltanto non può rispondere perché sono questioni troppo personali». L’ultimo periodo etiopico il missionario lo ha passato nuovamente a Modjo.

In tutti questi anni padre Antonio è stato accompagnato da un gruppo di amici, il «Gruppo Meki». Costituitosi nel 1973 a Ossona, nella sua parrocchia di provenienza, è composto da volontari, lo ha sempre appoggiato raccogliendo e inviando fondi per i suoi progetti sul campo, e facendo qualche visita. «Il gruppo è ancora attivo, dopo cinquant’anni. Io scrivo loro e vado a trovarli regolarmente. Loro continuano ad appoggiare le missioni a Meki», conclude con soddisfazione.

Marco Bello

Viaggio a Weragu per la consacrazione della nuova Chiesa : con il Vescovo Abraha Destà e P. Antonio Vismara ( sup. reg. ) . Il Ponte sul Fiume Shinchillè , che collega Derolle . P. A. Vismara e il Vescovo Abraha Destà e uno dei meccanici .

 




Siria: Accerchiati e bombardati


I curdi del Nord Est della Siria sono stati fondamentali per fermare gli estremisti dello Stato islamico (Isis-Daesh). Dimenticato il loro contributo, oggi sono in balia dei vicini, la Siria di Assad e l’ambigua Turchia di Erdogan.

Semalka (confine Kurdistan iracheno-Siria), 10 novembre 2022. Entrare in Rojava non è semplice per uno straniero. Riesco a varcare il confine, con il visto giornalistico, dopo circa due mesi di iter burocratico. L’unico accesso al Nord Est della Siria è via terra, dal Kurdistan iracheno attraverso Semalka, valico aperto tre giorni a settimana. I controlli di sicurezza durano ore, sei nel mio caso. Attraverso la frontiera insieme ad altre poche decine di persone. Alcuni tornano a casa dopo essere stati, per motivi di salute, a Erbil, città curda con ospedali più moderni ed equipaggiati. Sono migliaia invece le persone in uscita, chi ne ha la possibilità prova a fuggire per cercare un futuro migliore.

Sono diretto a Qamishle (anche Qamishlo, ndr) una delle città principali del Nord Est della Siria e, per la sua posizione, un ottimo luogo come base logistica. A parte questo, le città del Rojava non hanno molto da offrire, quasi tutto sembra in uno stato di semi abbandono: case distrutte e mai ricostruite, cantieri di palazzi iniziati e mai terminati. Molte delle strade, fatta eccezione per alcune costruite con l’aiuto di Ong straniere, somigliano a sentieri sterrati. Piove molto al mio arrivo. Il maltempo ha tenuto alla larga per qualche giorno i droni della Turchia, ma ha riversato terra e fango sulle strade, rendendo ancora più difficile ogni spostamento. Tutte le città sono divise in quartieri, alcuni dei quali ancora sotto il controllo del regime di Assad.

Il medico «terrorista»

Per poter comprendere meglio quello che accade, visito il centro di riabilitazione della Mezzaluna rossa di Qamishle. Nella struttura vengono curati centinaia di pazienti feriti dai bombardamenti, dagli attentati e dalle decine di mine antiuomo lasciate dall’Isis, prima della sua ritirata.

È qui che incontro il dottor
Adnan Malla Ali, direttore del centro e medico degli sfollati interni (Internally displaced persons, Idp) che, in più di 300mila, dovettero fuggire da Afrin durante l’invasione turca del gennaio 2018.

«Non potrò mai dimenticare – racconta il medico – il giorno dell’attacco. Erano le 4 di pomeriggio, stavo curando dei bambini. Sentii il rumore dei razzi. All’inizio pensai fossero solo delle esplosioni isolate, la Turchia ha sempre attaccato le nostre città, come a “ricordarci” della sua presenza. Ma quel giorno è stato diverso. Gli aerei turchi hanno sganciato ben 72 bombe».

Perché la Turchia ha invaso proprio Afrin?, gli chiedo. «I fattori sono diversi: la vicinanza con il loro confine prima di tutto. Afrin poi, è anche la zona più verde di tutta questa regione, famosa anche per la qualità del suo olio d’oliva, forse il migliore di tutto il Medio Oriente. Ma a parte questo, è un’affermazione di potere. Erdogan ha manie di espansione e considera tutti i curdi dei terroristi. Io stesso sono annoverato nelle “liste nere” come terrorista, semplicemente perché, da medico, ho curato dei combattenti delle milizie curde».

Oltre a quanto affermato dal medico, molto dell’interesse nel Rojava deriva dalle sue risorse. Qui, infatti, si trova l’80% del petrolio di tutta la Siria. Il Rojava, però, non possiede raffinerie, infrastrutture che si trovano tutte nel territorio sotto il regime di Assad.

Nonostante le sue risorse e il suo ruolo chiave nella lotta al terrorismo, il Rojava oggi versa in uno stato di estrema povertà. Materie prime, forniture ospedaliere, medicine e qualsiasi prodotto inviato dall’estero non possono arrivare direttamente qui (almeno legalmente), tutto deve passare da Damasco. La logistica è sempre complicata, perché il regime di Assad non ha mai riconosciuto ufficialmente l’indipendenza di questo stato. L’unico canale di accesso è il Kurdistan iracheno, via però tutt’altro che semplice a causa di una grande mancanza di strade e un grave problema di sicurezza.

Inoltre, le città del Nord Est della Siria hanno pagato e pagano ancora un prezzo altissimo per la guerra contro l’Isis. Interi quartieri nelle città di Kobane e Raqqa sono in rovina, distrutti dai bombardamenti americani alcuni, e fatti saltare in aria dagli uomini di Daesh altri.

dottor Adnan Malla

Il campo di Al-Hol

E poi c’è l’onnipresente Turchia. L’operazione «Claw-Sword» (riquadro a pag.14) non è terminata con gli eventi del 19 novembre 2022. La sera del 23 novembre, infatti, alle 19.30, un nuovo attacco di droni ha colpito il campo di rifugiati di Al-Hol, uccidendo otto militari che lo sorvegliavano.

Vi arrivo qualche giorno dopo il bombardamento. Al-Hol è un campo di detenzione dove si trovano famiglie dei membri più radicali dell’Isis. Le persone al suo interno, ufficialmente, non sono accusate di nulla, ma per le forze di sicurezza curde sono potenziali terroristi. All’interno è impossibile vedere il volto di una donna adulta senza il burqa, molte hanno anche gli occhi coperti da un velo.

Lo spazio, dove sorge questa enorme tendopoli, è circondato da pali e reti metalliche. Ci sono diversi check point, guardie e veicoli blindati a presenziare ogni accesso. Ad accogliermi c’è Gihan, una giovane donna curda che si occupa della gestione del campo: «Qui vivono circa 53mila persone, l’80% sono donne, bambini e bambine fino ad un massimo di 12 anni. Il resto sono anziani e alcuni uomini adulti “Idp” (sfollati interni), che hanno perso la casa durante i vari conflitti. Il campo è diviso in diverse zone, quello dove ci sono gli Idp appunto, poi un’ulteriore divisione viene fatta per nazioni: c’è un settore dove si trovano solo iracheni e siriani. Un altro ancora raccoglie gli stranieri che arrivano da oltre 50 nazioni diverse, la maggior parte da Egitto, Tunisia e Kuwait».

Chiedo a Gihan se può spiegarmi cosa è accaduto la sera del 23 novembre, quando la Turchia ha lanciato l’attacco. Qual era il loro scopo? Perché attaccare voi? La donna racconta: «Erano le 19.30 quando abbiamo sentito due forti esplosioni. Abbiamo in seguito capito che erano state delle bombe sganciate da droni. Ci sono state diverse ore di panico ma l’attacco è stato ben mirato: ha colpito e ucciso otto delle nostre guardie. Le bombe non sono cadute nel campo ma bensì fuori dalle reti di protezione per colpire noi, le forze di sicurezza curde. Lo scopo, che la Turchia cerca di raggiungere da tempo, è quello di creare caos e destabilizzare il governo di Rojava. Uno dei metodi più usati è quello di colpire luoghi come il nostro in modo che potenziali terroristi possano scappare e riunirsi alle cellule di Daesh operanti così da organizzare nuovi attentati. Qui, fortunatamente, siamo riusciti a riprendere chi cercava di fuggire. In un altro campo invece, nella città di Al-Hassakah, dopo i bombardamenti ci sono state diverse evasioni. Se usiamo le nostre risorse per continuare a combattere l’Isis e riprendere chi scappa, saremo più deboli nel momento in cui la Turchia dovesse invaderci. Questo sembra essere il loro piano».

Chiedo: «Pensa che, all’interno dei campi come questo, ci siano davvero molti potenziali terroristi?». «Assolutamente sì – risponde sicura -. Lo sappiamo noi, lo sa la Turchia, lo sanno le forze di coalizione. Posso fare molti esempi a riguardo. Qualche giorno fa, nel settore degli egiziani, sono state trovate due ragazzine morte, due sorelle assassinate. Abbiamo allora fatto una perquisizione e, nelle tende, abbiamo trovato centinaia di armi, soprattutto Kalashnikov e Rpg (entrambi di produzione russa, ndr). C’era un arsenale sufficiente a cominciare una nuova guerra. All’interno del campo abbiamo scuole e anche 20 ambulatori. In uno di questi uno dei nostri dottori ha curato la gamba di un ragazzino, per mesi. Il bambino di sette anni era stato colpito da alcune schegge di granata. Alla fine della cura, il bambino ha detto al medico: “Quando sarò grande, uscirò da qui e ti ucciderò. Lo farò velocemente, tagliandoti la testa per non farti soffrire perché, mi hai curato, ma sei pur sempre un infedele”. Noi operatori, molto spesso, abbiamo paura perché il campo è enorme e gli eventi sono imprevedibili. Il prossimo passo per la sicurezza sarà un’ulteriore divisione dei settori, in modo da poter avere più controllo. Benché la maggior parte dei residenti siano donne e bambine, ogni anno nel campo ci sono circa sessanta nuove nascite».

«Allah Akbar»

Lasciato l’ufficio di Gihan, comincio a camminare per le stradine fangose della tendopoli, mi rendo subito conto dei problemi di sicurezza di cui mi parlava la manager. All’ingresso del settore egiziano e tunisino, io e il mio interprete siamo bersagli di una sassaiola. Il lancio di pietre comincia prima da alcuni ragazzini a cui, man mano, se ne aggiungono altri e in seguito anche donne. Molti urlano: «Allah Akbar» (Dio è grande), esclamazione spesso usata prima degli attentati. Siamo costretti a lasciare questo primo settore.

Entrando nella zona a maggioranza irachena e siriana, l’accoglienza è molto diversa. Vengo accerchiato da tantissime donne, non vogliono darmi il proprio nome ma vogliono descrivermi le condizioni in cui vivono. Una signora, nella parte del campo destinata al mercato, mi racconta: «I nostri mariti sono in galera ma noi non abbiamo fatto nulla. Siamo rinchiuse qui a crescere i nostri figli, senza soldi né risorse. È vero, il cibo è gratis ma è poco, non basta praticamente mai. Manca tutto, sono tre giorni che siamo senza corrente e per quattro siamo stati senz’acqua. Non c’è il diesel per il riscaldamento e nelle tende si muore dal freddo. Veniamo trattate come criminali. Alcuni militari mi hanno anche rubato i soldi».

I racconti di chi gestisce il campo, e di chi ci vive, sono tra loro estremamente contrastanti. In questo clima, è molto difficile capire chi, tra le persone rinchiuse qui, sia innocente e chi un potenziale pericolo.

Incertezze e pericoli

I bombardamenti degli ultimi mesi sono solo l’ultimo capitolo di una regione che non trova pace. Nella conferenza stampa del 30 novembre, il generale Abid Mazloum, comandante dell’Sdf (Syrian democratic force) ha dichiarato: «In caso di invasione da parte della Turchia saremo pronti a combattere e combatteremo. Quello che però gli stati occidentali devono capire è che, se saremo impegnati in una guerra contro la Turchia, non potremo usare le nostre risorse per continuare a combattere l’Isis e mantenere quello stato di sicurezza garantito fino ad ora. Una nuova guerra, inoltre, significherà migliaia di nuovi profughi che scapperanno dai luoghi in conflitto e quindi, una nuova emergenza umanitaria. Una guerra in Rojava non riguarderà solo il Rojava, ma sarà un problema anche per tutti quegli stati che hanno interessi in Medioriente».

Nel 2018, dopo le molte battaglie vinte contro l’Isis, i media occidentali osannavano le milizie curde. Si guardava al Rojava come un grande esempio di democrazia e convivenza tra religioni. Il Nord Est della Siria oggi è circondato dai suoi nemici: da una parte le forze ostili del regime di Assad, dall’altra le numerose cellule dell’Isis ancora attive. A tutto questo, si aggiunge la Turchia con i suoi raid aerei e una lotta senza sosta contro l’etnia curda. Erdogan continua a mantenere le proprie truppe vicine al confine, pronte per un’invasione via terra. Nonostante Onu e Usa abbiano condannato gli attacchi contro il Rojava, nessun passo concreto è stato fatto per scongiurare quello che potrebbe essere un nuovo, sanguinoso conflitto in quest’angolo di Medio Oriente.

Angelo Calianno
(1- continua)


Il Rojava e i curdi

La lotta per uno stato indipendente

Il Rojava è uno stato, autoproclamatosi indipendente, che comprende i territori del Nord Est della Siria. In lingua curda, la parola Rojava sta a identificare il luogo dove tramonta il sole: l’Ovest. Non essendo ufficialmente riconosciuto da nessuna nazione, a parte il Kurdistan iracheno, nei documenti ufficiali ci si riferisce a quest’area geografica come: Siria del Nord Est o Kurdistan dell’Ovest.

Gli storici fanno risalire la lotta curda per una propria patria al 1916 con l’accordo Sykes-Picot, conosciuto anche come accordo sull’Asia minore.

Questa trattativa stipulava un’intesa segreta fra l’Inghilterra, rappresentata da Mark Sykes, e la Francia, rappresentata da Georges Picot, con l’assenso della Russia zarista. L’accordo ridefiniva confini e controllo dei territori dopo la caduta dell’Impero Ottomano. Il piano Sykes-Picot lasciava i curdi senza una propria nazione, divisi in un territorio frammentato tra Turchia, Siria, Iraq e Iran.

La prima forma di governo in Rojava arriva nel 2012 quando le milizie curde prendono il controllo di alcune delle principali città istituendo il Dfns (Democratic federation of north-eastern Syria). La nascita ufficiale dello stato e la sua dichiarazione di indipendenza avviene nel 2016.

Oggi il Rojava è amministrato dall’Aanes (Autonomous administration of North and East Syria), una coalizione politica formata da: Sdc (Syrian democratic council), e dall’Sdf (Syrian democratic forces). Quest’ultimo gruppo racchiude, in un unico corpo militare, milizie curde e ribelli di diverse etnie e credi religiosi.

L’esperimento democratico in Rojava è stato oggetto di studio di centinaia di attivisti e ricercatori di tutto il mondo. La sua «Carta del contratto sociale» (una sorta di Costituzione provvisoria) prende ispirazione dall’ideologia del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), e dalla filosofia del suo leader Abdullah Ocalan che, nel 1978, fondò il partito di stampo marxista leninista. L’idea di base del Pkk e di Ocalan è quella di un decentramento del potere denominato: «Confederalismo democratico». I punti fondamentali sono: uguaglianza e pari rappresentanza per ognuna delle religioni ed etnie presenti nello stato; istruzione gratuita e accessibile per tutti; assoluta parità nei ruoli tra uomini e donne. Detto questo, Ankara considera il Pkk, e chiunque gli sia collegato, come un gruppo terroristico. Da 22 anni, Ocalan è incarcerato nell’isola prigione di İmralı a Bursa, in Turchia, dove sta scontando l’ergastolo.

Le continue migrazioni, lo spostamento dei confini e le migliaia di profughi interni, rendono difficile una stima del numero degli abitanti in Rojava. L’ultima statistica risale al 2021 e contava 4 milioni e 500 mila abitanti. Il 60% della popolazione è di etnia curda anche se, dopo l’annessione delle città di Manjin, Deir ez Zor e Raqqa, riconquistate dopo essere state sotto il controllo dell’Isis, la proporzione della popolazione araba ha quasi eguagliato quella curda.

Le altre minoranze sono rappresentate da: Yazidi, Turkmeni, e Cristiani (divisi tra Siriaci, Assiri, Armeni, Greco ortodossi). Prima della guerra contro l’Isis, i cristiani erano 150mila, ora una stima approssimativa ne conta 55mila.

Gli abitanti del Rojava si considerano in guerra con la Turchia, anche se nessuna comunità internazionale riconosce questo conflitto. Un’inchiesta della Bbc, effettuata tra il 2016 e oggi, ha contato più di duecento «incidenti di confine», azioni in cui la Turchia, con diversi pretesti, ha attaccato e provato a invadere il Nord Est della Siria.

Angelo Calianno


I giochi politici della Turchia

La guerra di Erdogan ai Curdi

Il 19 novembre 2022 la Turchia ha lanciato l’operazione Claw-Sword (spada-artiglio), una serie di bombardamenti aerei che hanno attaccato il Nord Est della Siria, la regione a maggioranza curda conosciuta come Rojava (*).

L’offensiva ha colpito diversi obiettivi nelle città di Kobane, Raqqa, Al-Hassakah, Al- Malikiyah e Darbasiya. I portavoce dello Stato maggiore turco hanno dichiarato di aver centrato solo bersagli militari e potenziali terroristi. In realtà, ci sono state anche diverse vittime civili, tra cui Issam Abdullah, giornalista siriano ucciso durante un raid aereo mentre intervistava dei contadini nelle zone rurali di Al-Malikiyah. L’operazione Claw-Sword è nata come risposta all’attentato di Istanbul del 13 novembre 2022 quando, su Istiklal street, una delle principali vie dello shopping della capitale, una forte esplosione ha ucciso 6 persone e ferito altre 81. Il giorno dopo veniva arrestata una donna di origine siriana, Ahlam Albashir, accusata di essere l’esecutrice materiale dell’attentato. I primi comunicati stampa da parte del governo turco hanno affermato che la donna è stata addestrata dalle milizie curde dell’Ypg (unità di protezione popolare curda), e che l’attentato sarebbe stato ordinato dal Pkk (Partito dei lavoratori).

Il ministro dell’interno turco Suleyman Soylu, a seguito del messaggio di cordoglio da parte degli Stati Uniti, ha dichiarato: «Rifiutiamo le condoglianze da parte degli Usa. Sono nostri alleati ma, nello stesso momento, finanziano organizzazioni terroristiche curde che minacciano la nostra libertà».

Cosa accade ora in Rojava dopo l’offensiva turca? Ci sono davvero le milizie curde dietro l’attentato a Istanbul? Ad oggi non si hanno più notizie di cosa sia accaduto alla sospettata, Ahlam Albashir. Nessuna novità riguardante le sue dichiarazioni o quelle degli altri 46 arrestati. Sia il Pkk che l’Ypg negano con forza qualsiasi coinvolgimento, accusando Erdogan di aver strumentalizzato la tragedia, usandola come ennesima scusa per attaccare e invadere il Rojava. Non è la prima volta, infatti, che la Turchia lancia offensive verso questa parte della Siria. Anzi, queste sono state una costante sin dalla nascita di questo stato. Uno degli attacchi più cruenti, poi seguiti da un’invasione e occupazione da parte dei Turchi, è avvenuto nel 2018 per l’importante città di Afrin. Durante quell’anno, le milizie curde dell’Ypg si rendevano protagoniste nella guerra contro l’Isis, sconfiggendo decine di cellule terroristiche e costringendo gli uomini dello Stato islamico a fuggire dai principali centri abitati. Subito dopo queste vittorie, la Turchia attaccava e invadeva Afrin, considerato luogo di nascita e attuale centro dei movimenti politici curdi. Questa operazione, denominata Olive Branch (Ramoscello d’ulivo), fu eseguita anche con il supporto economico dell’amministrazione Trump.

Gli Stati Uniti hanno un ruolo molto ambiguo nel Nord Est della Siria, essendo da una parte al fianco dei curdi nella coalizione anti Isis, dall’altra alleati strategici della Turchia.

An.Ca.

(*) La regione è stata interessata dal devastante terremoto dello scorso 5-6 febbraio (mentre questa rivista andava in stampa). In particolare, è stata colpito il centro di Afrin, oggi in mano turca.




È tempo per una nuova Colombia


Dallo scorso 7 agosto il paese latinoamericano è guidato da Gustavo Petro e Francia Márquez, un politico di sinistra e un’afrocolombiana. In queste pagine Angelo Casadei, missionario della Consolata, racconta il proprio stupore davanti a un cambio considerato epocale.

Arrivai in Colombia per la prima volta nel 1986, poco dopo l’assalto e la terribile strage (101 morti) al Palazzo di giustizia di Bogotá, compiuta dal gruppo guerrigliero M-19 (novembre 1985).

In quegli anni, il paese era in pieno boom (bonanza, in spagnolo) della coca e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, avevano trovato nel traffico della droga un mezzo per finanziare la loro guerra contro lo stato. Era pure il tempo del grande narcotrafficante Pablo Escobar (1949-1993), che con la sua guerra mise in ginocchio l’intero paese.

Il 9 marzo del 1990 l’M-19 depose le armi (pagando l’accordo con l’assassinio di molti suoi leader) e iniziò a partecipare attivamente alla vita politica: all’assemblea costituente e al rinnovo della Carta costituzionale (1991), nella quale le popolazioni indigene e gli afrocolombiani, fino ad allora invisibili, trovarono finalmente spazio con diritti e doveri.

Il neo presidente colombiano Gustavo Petro (a destra) con l’ex presidente Álvaro Uribe in una riunione avvenuta a Bogotà lo scorso 29 giugno, poco dopo la vittoria elettorale. Foto Gustavo Petro’s Press Office – AFP.

Gli anni di Uribe

Nel 2002, le elezioni presidenziali furono vinte da Álvaro Uribe Vélez che aveva creato un suo partito. Una volta salito al potere, Uribe iniziò una guerra sfrenata contro la guerriglia e in modo particolare contro le Farc, definendo queste un gruppo terrorista davanti alla comunità nazionale e internazionale.

Quando – era il 2005 – per la seconda volta tornai in Colombia, trovai una popolazione esausta per tanta violenza e una guerra di cui non vedeva la fine. Nel 2006, Uribe venne riconfermato presidente governando fino al 2010. Suo successore venne eletto Juan Manuel Santos, già ministro della difesa del suo governo. Santos però si allontanò dalla politica uribista facendosi promotore di un accordo di pace.

Nel 2014 venne rieletto proprio per portare a termine questo percorso di pacificazione che, dopo un lungo e travagliato cammino, si chiuse con gli accordi firmati in territorio neutrale, a Cuba, il 26 settembre 2016.

Nel 2018, alla presidenza del paese arrivò Iván Duque, un altro delfino di Uribe, anzi una sua brutta copia che avrebbe alimentato il malcontento tra la popolazione, soprattutto tra i giovani i quali, mossi anche da gruppi di sinistra, nel 2021 avrebbero organizzato i paros nacionales (scioperi nazionali) contro alcune riforme governative che ancora una volta andavano a favorire il sistema politico vigente e le classi più elevate.

Il 19 giugno 2022 (nel secondo turno elettorale), dopo un’intensa campagna con tensioni e conflitti, il popolo colombiano ha eletto presidente della Repubblica Gustavo Francisco Petro Urrego e Francia Elena Márquez Mina come vicepresidente.

Il villaggio di Hericha, sul fiume Orteguaza (Caquetá). Foto Angelo Casadei.

Una svolta storica

Sicuramente l’elezione di Gustavo Petro e Francia Márquez segna un cambio profondo nella storia colombiana, un punto di rottura nella politica nazionale e internazionale. L’elezione di un ex guerrigliero di sinistra e di una donna afro proveniente da una classe povera è qualcosa d’impensabile fino a qualche anno fa.

La Colombia è stata sempre governata da politici della destra e dai ricchi che dominano il paese fin dall’indipendenza dalla Spagna (luglio 1810). Pertanto, quello che è successo il 19 giugno 2022 è una pagina nuova e inaspettata.

È un fatto che queste elezioni abbiano dato un «giro» completo alla politica della Colombia, un paese «dove si vive il classismo, il razzismo, la violenza e la paura dei poveri», come direbbe la giornalista Yolanda Ruiz.

Esse hanno rappresentato l’emergere dell’«altra Colombia», della Colombia emarginata e messa alla periferia della vita. Esse hanno significato l’emergere di gruppi e settori storicamente discriminati ed esclusi, come sono i giovani, le donne, gli afrocolombiani, gli indigeni, i contadini e le minoranze sessuali.

Analizzando il risultato delle votazioni, un’altra impressione è che il paese ha messo in luce una forte polarizzazione politica sia per il numero di candidati presentatisi sia per le poche migliaia di voti che hanno separato Gustavo Petro dal suo rivale Rodolfo Hernández.

Alla fine di tutto nessuno ignora che l’elezione di Gustavo Petro e di Francia Márquez rappresenta una grande sfida per il paese e per il mondo: per la sua novità e per i possibili ostacoli che si potranno incontrare lungo questo nuovo cammino.

È sicuramente vero che sono molti i rischi che aleggiano sulla presidenza di Gustavo Petro. I maggiori sono la frattura sociale, lo scontento diffuso, la violenza. L’opposizione di certo non lo lascerà governare facilmente, come pure gli enti di controllo, gli apparati della giustizia, i gestori della finanza pubblica, e lo stesso esercito. In una parte dei colombiani c’è, inoltre, il timore che la Colombia intraprenda una strada come quella del vicino Venezuela.

La realtà è molto diversa. Ci troviamo davanti a un popolo lavoratore che, in questi anni, ha sostenuto l’economia, anche nei duri momenti della pandemia. Penso che, se la Colombia avesse voluto un cambiamento, in questo momento storico non avrebbe potuto che trovarlo nel presidente eletto.

La scuola elementare – una costruzione in legno e una in cemento – de La Macarena (Solano, Caquetá). Foto Angelo Casadei.

Una coppia unica

Gustavo Petro ha una grande esperienza politica che ha coltivato e sperimentato prima come sindaco di Bogotà, poi facendo parte dell’opposizione.

Petro è stato anche l’unico dei candidati che avesse un progetto di governo chiaro e preciso che punta molto sulla pace, la giustizia, l’educazione, l’ambiente e sull’appoggio alle classi povere. D’altra parte, per prima cosa, il neopresidente ha chiesto collaborazione all’opposizione per governare insieme e fare crescere il paese.

Al suo fianco, Petro si trova Francia Márquez, altra grandissima novità della storia politica colombiana: un evento nell’evento.

È, infatti, la prima volta che una donna afrocolombiana, proveniente dalle classi povere e madre sola, arriva nelle alte sfere del potere. Si tratta di una forma di rivincita storica del popolo afrocolombiano, discriminato ed escluso. Speriamo che sia questo l’inizio di un grande processo di emancipazione e di consolidamento dell’altra Colombia, quella emarginata, ghettizzata e senza dignità.

L’Uribismo di Iván Duque

Qual è il bilancio sul governo uscito di scena? Non è facile esprimere un giudizio sulla presidenza di Iván Duque. La sua elezione aveva significato il ritorno al potere dell’«uribismo». Duque è stato il successore di Juan
Manuel Santos, un altro discepolo di Álvaro Uribe che però, una volta eletto, aveva preso le distanze dal maestro (soprattutto firmando un accordo di pace mai accettato dall’ex presidente).

Iván Duque è stato eletto presidente come il consacrato di  Álvaro Uribe. Grazie a quest’ultimo, egli è passato dall’anonimato a figura di primo piano nella politica nazionale. Anzi, secondo alcuni, Duque è stato una specie di reincarnazione di Álvaro Uribe e il suo progetto si è identificato con l’«uribismo».

La presidenza di Iván Duque può essere classificata come una sorta d’esperimento. L’apparente improvvisazione nella selezione dei membri dell’esecutivo (con continui cambiamenti) e l’attuazione d’iniziative e progetti estemporanei ne sono la prova.

Sul suo bilancio complessivo ci sono pareri differenti: la presidenza Duque ha cioè generato sentimenti contrastanti, alcuni di approvazione, altri di disapprovazione.

Mons. Luis Castro, missionario della Consolata e intermediario nel processo di pace colombiano, morto lo scorso 2 agosto 2022. Foto Paolo Moiola.

Mons. Luis Castro, costruttore di pace

Nel percorso colombiano verso la pace va ricordato mons. Luis Augusto Castro Quiroga, missionario della Consolata, morto a 80 anni lo scorso 3 agosto. Lui è stato coinvolto in prima persona negli accordi di pace: è stato ai colloqui di Cuba, ha parlato a favore delle vittime, ha dialogato con molti ex guerriglieri. È sempre stato in favore dell’accordo di pace, perché – diceva – «un cattivo accordo è sempre meglio che la guerra».

Non è diventato cardinale di Bogotá perché ha sempre parlato chiaro per la pace e contro la politica di guerra dell’allora presidente Uribe.

A parte l’opera di mons. Castro, in questi ultimi anni, la Chiesa cattolica colombiana ha avuto notevoli cambiamenti impegnandosi di più in ambito sociale.

Nell’ultimo processo elettorale, non si è allineata con nessuno dei candidati alla presidenza. Al secondo turno, ha rispettato le proposte dei candidati rimasti in lotta: quella di Gustavo Petro e quella di Rodolfo Hernández. E ha invitato a esercitare il diritto al voto. In occasione delle ultime elezioni la partecipazione è stata, in effetti, molto alta rispetto alle votazioni precedenti. Finalmente molti giovani hanno esercitato il loro diritto di scelta.

All’inizio della mia seconda esperienza missionaria in Colombia, i superiori mi avevano destinato a Remolino del Caguán (Caquetá), terra di narcotraffico e con una forte presenza di guerriglia. All’epoca, quando m’incontravo con alcuni comandanti delle Farc, tutti mi confermavano che, per cambiare la situazione, bisognava arrivare al potere a tutti i costi e, l’unico modo – argomentavano ,- era attraverso le armi perché il sistema politico colombiano – incentrato su 46 famiglie che da oltre 200 anni detengono il potere – si disinteressava delle classi più povere della nazione.

La storia ha invece preso un cammino diverso con gli accordi di pace, lo scioglimento delle Farc e, infine, la vittoria di un ex guerrigliero e di una donna afrocolombiana.

Il popolo colombiano

Vivendo in questo bellissimo paese ormai da anni, sono stato testimone delle sue mille contraddizioni con un popolo che, da decenni, vive in mezzo alla violenza e all’ingiustizia, ma nonostante tutto rimane pieno di speranza e con una voglia di vivere straordinaria; un popolo accogliente, felice e sempre pronto a fare festa; un popolo lavoratore, mal retribuito ma con una grande capacità di superare le avversità per costruire un futuro diverso e migliore.

Angelo Casadei

 


Archivio MC

Articoli e video sulla Colombia:

Il gesuita padre Rengifo, presidente della Cev, mostra un volume della relazione finale della Commissione da lui presieduta.


La relazione finale della Cev

450.664 morti (ma «c’è un futuro se c’è verità»)

«Portiamo un messaggio di speranza e futuro per la nostra nazione violata e spezzata. Verità scomode che sfidano la nostra dignità, un messaggio per tutti come esseri umani, al di là delle opzioni politiche o ideologiche, delle culture e delle credenze religiose, dell’etnia e del genere». E ancora: «Invitiamo a guarire il corpo fisico e simbolico, multiculturale e multietnico che formiamo come cittadini e cittadine di questa nazione».

Sono due passaggi iniziali di Hay futuro si hay verdad, la relazione finale della Commissione della verità (Comisión del esclarecimiento de la verdad, Cev), presentata a Bogotà lo scorso 28 di giugno. Un lavoro di ricostruzione storica presieduto dal sacerdote gesuita Francisco José de Roux Rengifo, durato quattro anni e passato attraverso migliaia di interviste a testimoni, vittime e carnefici.

i numeri della guerra

«C’è un futuro se c’è verità» sarebbe una lettura appassionante se non fosse il «racconto» di una guerra interna che, tra il 1985 e il 2016 (anche se, in realtà, il conflitto colombiano ebbe inizio già negli anni Sessanta), ha prodotto 450.664 omicidi (80% civili, 20% combattenti, 91% uomini, 9% donne).

Secondo i dati raccolti dalla Cev, i responsabili di questi morti sono per il 45% i paramilitari, per il 21% le Farc e per il 12% le forze dello stato.

Gli omicidi, però, sono soltanto uno degli aspetti della guerra civile. Sono stati conteggiati 121.768 casi di scomparsa (desaparición forzada) e 50mila sequestri (opera questi al 40% delle Farc e al 24% dei paramilitari). Senza dimenticare i reclutamenti forzati: sono stati almeno 30mila le bambine e i bambini reclutati attorno ai 15 anni per entrare nelle Farc o nei gruppi paramilitari.

Infine, un altro numero drammatico: 7.752.964 persone sfollate (più del 10% della popolazione colombiana), con il 51% di adulti e il 49% di minori, 52% di donne e 48% di uomini. Una «moltitudine errante» che ha dovuto abbandonare case, terreni, animali, amicizie. Oltre che per i contadini (campesinos y campesinas, dice la relazione), il conflitto armato è stato particolarmente distruttivo per le comunità etniche, indigene e afrocolombiane.

La sfida odierna

Il primo volume (su 10 totali) della relazione finale si chiude parlando di riconciliazione. «Riconciliazione significa accettare la verità come condizione per la costruzione collettiva e superare il negazionismo e l’impunità. Significa prendere la decisione di non uccidersi mai più e togliere le armi dalla politica. Significa accettare che siamo molti – in varia misura, per azione o omissione – i responsabili della tragedia. Significa rispettare l’altro, al di là dei retaggi culturali e della rabbia accumulata. Che non ci sia più impunità. Che quelli che continuano la guerra lo capiscano che non hanno il diritto di continuare a farlo […]. Che dobbiamo costruire dalle differenze con speranza e fiducia collettiva».

Il lavoro della Cev è stato straordinario ed encomiabile. Ora, però, arriva il difficile: passare dalle parole ai fatti, dalla guerra alla costruzione della pace. Vedremo se i colombiani ne saranno capaci. Vedremo se Gustavo Petro e Francia Márquez saranno in grado di spingere il paese nella giusta direzione. Detto questo, è inutile negare quanto la speranza tende a nascondere: la sfida sarà enorme. Come già hanno mostrato le prime settimane di governo: il 2 settembre, sette agenti di polizia sono stati uccisi in un attentato nel dipartimento di Huila.

Paolo Moiola

Immagine simbolica dell’espansione economica di Pechino in America Latina, spesso subentrando a Washington. Foto CBN News.


 Le relazioni internazionali dei governi latinoamericani

Da Washington a Pechino?

La nuova Colombia nata con l’elezione di Gustavo Petro va ad allungare l’elenco di paesi latinoamericani guidati da rappresentanti delle sinistre. Ad oggi, infatti, sono in carica Andrés Obrador in Messico, Alberto Fernández in Argentina, poi Luis Arce in Bolivia, Pedro Castillo in Perú, Xiomara Castro in Honduras, Gabriel Boric in Cile, oltre ai tre leader più discussi: Nicolás Maduro in Venezuela, Miguel-Diaz Canel a Cuba e, soprattutto, Daniel Ortega in Nicaragua. In attesa dei risultati delle elezioni di questo ottobre quando, in Brasile, l’ex presidente Lula potrebbe sostituire Jair
Bolsonaro, uomo dell’ultradestra, distruttore dell’Amazzonia e imputato di genocidio.

Sono presidenti di sinistra (pur con una pluralità di sfumature, anche consistenti, di rosso) che si trovano a governare paesi con alcuni tratti comuni. Il primo è dato da società caratterizzate da enormi diseguaglianze con i ricchi che s’intascano la gran parte delle ricchezze, come raccontano i rapporti delle Nazioni Unite (Pnud). Una disparità sociale ed economica che viene amplificata dal colore della pelle e dall’etnia: afrodiscendenti e indigeni sono sempre discriminati rispetto ai bianchi e ai meticci, come ha evidenziato anche la pandemia da Covid-19.

Altro tratto comune è la religione cristiana e la sua influenza sulle società latinoamericane. Tutti i paesi sono a maggioranza cattolica, ma le nuove Chiese evangeliche e pentecostali, schierate a destra (senza se e senza ma), stanno crescendo anno dopo anno, spostando milioni di voti.

La tela cinese

E poi c’è il rapporto con gli Stati Uniti, un rapporto che potremmo definire di odio e amore. Odio che nasce dagli errori storici fatti da Washington nel continente, a iniziare dal golpe cileno del 1973. Amore perché è in quel paese che milioni di latinoamericani vorrebbero trasferirsi (come dimostrano le ininterrotte ondate migratorie). Nel frattempo, negli ultimi decenni, in America Latina è arrivata in forze la Cina con il suo capitalismo di stato. Verso Pechino non esiste (e probabilmente mai esisterà) un’attrazione, ma c’è un forte interesse economico per i suoi investimenti nell’area. Com’è stato confermato nel corso del 14.mo Summit dei Brics (l’alleanza a trazione cinese tra Brasile, Russia, India, Sudafrica e appunto Cina), organizzato da Pechino lo scorso 23 giugno.

Gli Stati Uniti e i paesi occidentali (con l’Unione europea in testa) possono ancora recuperare il terreno perduto in America Latina. Se faranno emenda degli errori del passato e se metteranno da parte gli atteggiamenti neocolonialisti, puntando invece su relazioni di pari dignità.

Paolo Moiola

Verso il porticciolo di Hericha sul fiume Orteguaza (Solano, Caquetá). Foto Angelo Casadei.




Guatemala: Da vittime a protagoniste


Nel paese centroamericano la violenza contro le donne è normalità quotidiana. Ancora di più se indigene. Elena e Cristina, di origine maya ixil, hanno saputo trasformare la loro esperienza in un aiuto per altre vittime.

La cosa che colpisce di più quando si parla con Elena Guzaro è la dolcezza del suo sguardo, un misto di timidezza, fatica, ma anche determinazione. Di fianco a lei, Cristina Raymundo ha occhi vivaci e sinceri. Ti squadra in maniera diretta, senza abbassare la testa, visibilmente divertita.

Sono due modi diversi di osservare il mondo, ma entrambi rivelano la serenità e la consapevolezza di chi, non senza difficoltà, è riuscita a prendere in mano la propria vita e a decidere per se stessa. Sono gli sguardi di chi è stata capace di sottrarsi alle botte di un marito ubriaco, o di chi rifiuta di rimanere intrappolata in una relazione familiare di dipendenza economica o, ancora, di chi vuole studiare per migliorare le proprie opportunità future. Sono gli sguardi tipici di chi è riuscita ad affrancarsi dalla violenza di genere con il proprio corpo e le proprie parole. E dopo averlo fatto, è determinata ad aiutare altre donne a seguire i suoi passi.

Donne indigene portano croci con i nomi di vittime del conflitto armato guatemalteco durante una manifestazione per il 22° anniversario della pubblicazione (avvenuta nel 1999) del rapporto della «Commissione per la verità» (Città del Guatemala, 25 febbraio 2021). Foto Johan Ordonez – AFP.

Elena e Cristina

Elena Guzaro e Cristina Raymundo sono due donne indigene di origine maya ixil, vivono a Nebaj, a duemila metri d’altezza nella regione del Quiché, zona Nord Ovest del Guatemala. Sono ex vittime di violenza. Ex, perché oggi non lo sono più.  Nel presento sono, e lo saranno nel futuro, due defensoras dei diritti umani che, forti della loro esperienza dolorosa, aiutano le loro concittadine, così come le donne provenienti da tutta la regione maya ixil, a riconoscere la violenza e, in questo modo, a liberarsene.

Da anni, Elena e Cristina sono parte integrante dell’Associacion red de mujeres ixiles (Asoremi), un’organizzazione di donne che si batte proprio per richiedere giustizia in nome delle vittime di abusi fisici e sessuali, di discriminazione e di minacce psicologiche. Nel corso del tempo, la Defensoría de la mujer I’x (dove in lingua maya ixil «I’x» vuol dire «donna»), la sede di Asoremi, è diventata un punto di riferimento per bambine, giovani e donne di tutte le età che, in caso di violenza, preferiscono rivolgersi a loro invece di dirigersi da sole alla polizia, che in molti casi non prende in esame le loro denunce.

1960-1996: La guerra civile

Elena Guzaro è la presidentessa di Asoremi e sa bene cosa significa essere incastrata in un contesto di violenza. Lei stessa ha vissuto l’esperienza sulla sua pelle. È nata nel 1980, nel pieno del conflitto armato interno che ha causato oltre 200mila vittime e 45mila desaparecidos, tra il 1960 e il 1996, anno in cui sono stati firmati gli accordi di pace. La guerra civile, giocata nel contesto della Guerra fredda, ha visto contrapporsi l’esercito, sostenuto e armato dagli Stati Uniti, a una guerrilla partecipata da contadini, studenti, sindacalisti e alcune organizzazioni di sinistra, tra cui il Movimiento revolucionario 13 de noviembre.

Tra il 1981 e il 1983, il conflitto conobbe una svolta drammatica con una fase genocida, guidata dall’allora dittatore Efraín Ríos Montt, nei confronti della popolazione maya ixil. Il piano elaborato per lo sterminio del popolo indigeno portò all’esecuzione di migliaia di persone, tra adulti e minori. Oltre alle morti e alle sparizioni forzate, si aggiunge alle atrocità di quel periodo anche lo stupro, arma di guerra ripetutamente utilizzata nei confronti delle donne maya ixil.

A oggi, il genocidio è rimasto impunito, pur essendo evidenti le responsabilità dell’ex dittatore. Il report realizzato dalla «Commissione per il chiarimento storico», voluta dalle Nazioni Unite, ha infatti evidenziato che il 93% delle violenze avvenute durante l’intero conflitto armato è stato perpetrato dall’esercito.

Donne indigene in cammino. Foto Simona Carnino.

La violenza Inizia in famiglia

Allora Elena Guzaro era una bambina di pochi anni ed è riuscita a sopravvivere alla prima violenza della sua vita, a cui, nel tempo, se ne sono sommate altre. «Mio padre è morto nel 1982, durante la guerra, e fin da bambina ho dovuto lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, nella zona della costa Sud – racconta Elena -. Ho avuto il mio primo figlio a 18 anni. Mio marito non mi aiutava, anzi, mi picchiava quando partecipavo alle attività di Asoremi, perché voleva che rimanessi a casa. Era violento, ma io pensavo che fosse normale perché anche mia madre mi diceva che se lui mi picchiava era per colpa mia, perché uscivo per andare a lavorare alla Red con le altre donne. Ora non sto più con lui. Ci siamo lasciati cinque anni fa, ma è stato difficile prendere questa decisione nonostante le botte, perché da quel momento lui ha smesso di sostenere economicamente la famiglia. Io ho sei figli ed è dura mantenerli da sola».

Un problema radicato

La violenza contro le donne in Guatemala, così come nel Nord dell’America Centrale, Messico e in numerosi paesi dell’America Latina, è un problema radicato.  Come in quasi tutto il mondo, la violenza si presenta sotto molteplici forme, a partire da quella fisica, sessuale, psicologica, economica, fino ad arrivare agli abusi dello stato, di cui, per esempio, è stata vittima Elena Guzaro quando, durante il conflitto armato, ha dovuto abbandonare la sua casa per sfuggire al genocidio perpetrato dall’esercito guatemalteco ai danni della sua comunità.

In America Latina è alta l’incidenza del femminicidio, che nel 2020 ha generato oltre 4mila vittime, uccise principalmente per mano di un familiare prossimo, in particolare del compagno o dell’ex.

Secondo gli ultimi dati disponibili dell’«Osservatorio sull’uguaglianza di genere» delle Nazioni Unite, con un tasso di 4,7 donne uccise su 100mila abitanti è l’Honduras ad aggiudicarsi il primato di paese più mortale per le donne, seguito da Repubblica Dominicana e da El Salvador.

In Guatemala, i femminicidi sono attualmente in rapida ascesa dopo una lieve riduzione nel 2020. Secondo il recente report sulla «Violenza omicida», prodotto dal «Gruppo di supporto mutuo» (Gam) del Guatemala, solamente nel mese di gennaio 2022 sono state uccise 52 donne, con una media di quasi due al giorno, a cui si aggiungono ulteriori cinque denunce quotidiane di scomparsa. Il tasso di impunità dei femminicidi sfiora il 98% secondo i dati della «Commissione internazionale contro l’impunità» (Cicig).

In America Latina persiste anche un’elevata violenza patrimoniale, che si verifica quando il padre di famiglia decide di abbandonare il nucleo familiare rifiutandosi di passare gli alimenti ai figli, forzando, di fatto, la donna a sobbarcarsi da sola i costi della famiglia, spesso molto numerosa. Questo tipo di violenza ha un impatto molto forte in particolare sulle donne che, soprattutto in America Centrale, vivono già in una condizione di povertà, a volte anche estrema.

Un evento organizzato dalla «Red» a Nebaj, comune del dipartimento del Quiché. Foto Simona Carnino.

Anche le bambine

Le donne indigene sono maggiormente esposte a discriminazione e violenza «intersezionale» (legata cioè non soltanto al genere, ma anche ad altri aspetti) su base etnica, economica e sociale. Questo significa che una donna maya ixil rischia di essere vittima di violenza non solo perché donna, ma anche per il fatto di appartenere a uno dei 22 popoli maya che, in Guatemala, sono spesso discriminati ed esclusi da investimenti statali in ambito educativo, sanitario ed economico.

Durante il lockdown del 2020, nell’area maya ixil è aumentata in maniera esponenziale la violenza fisica e sessuale ai danni anche di bambine e giovani donne che sono dovute rimanere a casa, costantemente a fianco del proprio aguzzino.

«Durante la pandemia abbiamo ricevuto molte segnalazioni di violenza – racconta Cristina Raymundo -. In quel periodo abbiamo provato a dare assistenza telefonica, ma il servizio non ha funzionato, perché le donne non potevano parlare apertamente di fronte ai loro mariti o alla famiglia violenta. In quel periodo è aumentata la violenza sessuale e il numero di incesti. Abbiamo aiutato alcune donne a scappare di casa, pagando loro un taxi, e le abbiamo ospitate presso la Defensoría, tanto che alcuni bambini sono nati lì. In quel periodo abbiamo provato a insegnare alle giovani madri a prendersi cura dei neonati e di loro stesse».

Una vista della chiesa e del centro di Nebaj, nel Quiché. Foto SImona Carnino.

La Rete delle donne

La Red de mujeres ixiles ha un unico e fondamentale obiettivo: lottare contro qualsiasi forma di violenza sulle donne, attraverso un sostegno concreto, che può essere l’assistenza psicologica, legale, educativa e anche un supporto economico.

La storia della Red, una rete che unisce circa 360 donne impegnate in nove associazioni di base nel comune di Nebaj (Quiché), è iniziata nel 1999 grazie a un capitale di microcredito erogato dal «Fondo di investimento sociale» dello stato guatemalteco, che ha permesso di finanziare le piccole attività economiche delle socie, come, ad esempio, sartorie, allevamenti di polli e coltivazioni della terra. Nel 2005, le nove associazioni hanno fondato ufficialmente la Red de mujeres ixiles.

Elena Guzaro ha iniziato la sua esperienza in una delle organizzazioni di base proprio nel 1999. «Avevo 19 anni. Volevo provare ad accedere al microcredito e imparare anche a leggere e scrivere. Ancora oggi organizziamo corsi di alfabetizzazione per dare alle donne la possibilità di studiare. Io avrei sempre voluto farlo, però da piccola ho dovuto lavorare, per cui ho iniziato tardi, ma ora ho il titolo di maestra. Lavorare alla Red è stato un modo per imparare da donne più grandi di me a riconoscere la violenza e, allo stesso tempo, le ho aiutate a superare gli abusi che vivevano nelle loro case, simili a quelli che subivo io».

Tutte le socie di Asoremi hanno vissuto qualche forma di violenza e in maggioranza vivono in condizione di povertà. Secondo gli ultimi dati della «Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi», il Guatemala si situa al quinto posto nell’area per disuguaglianza nella distribuzione del reddito, particolarmente evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando spesso come tessitrici informali, guadagnano circa 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350 dollari mensili.

Panoramica su un barrio vulnerabile a Città del Guatemala, capitale del paese centroamericano. Foto Simona Carnino.

Persecuzioni e minacce

La volontà di aiutare le donne a diventare indipendenti mentalmente ed economicamente da partner violenti è alla base del lavoro della Red de mujeres ixiles. E proprio per questo, molte delle socie sono state vittime di persecuzioni e minacce da parte di uomini o, in alcuni casi, di persone anonime.

Nel 2018, una socia è stata uccisa mentre camminava per tornare a casa e molte compañeras della Red sono state derubate e attaccate verbalmente e fisicamente.

Ma le violenze e la paura non le annichilisce. Anzi, le donne della Red continuano a portare avanti il loro lavoro. Ogni anno danno assistenza psicologica e legale a circa 500 donne e promuovono pubblicamente, attraverso eventi pubblici e la radio, la necessità di ridurre la violenza sulle donne e le bambine per creare una società meno conflittuale e più giusta per tutti.

Un lavoro per il quale le socie di Asoremi hanno ottenuto molti riconoscimenti, tra cui il «Premio per i diritti umani» lanciato dall’associazione di Bolzano Operation Daywork Onlus (operationdaywork.org) che Elena e Cristina hanno ritirato durante un recente viaggio in Italia, nel marzo di quest’anno. Il legame di Asoremi con l’Italia è rafforzato anche dalla collaborazione con la Ong torinese Cisv
(cisvto.org), che dal 2009 affianca Asoremi nell’accompagnamento delle vittime di violenza e nella risoluzione dei conflitti nell’area maya ixil.

Curare le ferite

Nel libro Tus pasos y mis pasos, prodotto da Asoremi, le socie dicono di se stesse: «Abbiamo sperimentato violenza domestica, economica, fisica, politica (durante il conflitto armato interno), abusi psicologici e furti. La maggior parte di noi si è formata per poter gestire le proprie attività commerciali e i propri soldi […]. Abbiamo capito l’importanza di essere parte di un’organizzazione e di sanare le nostre ferite».

Le socie della Red de mujeres ixiles sono convinte che una donna sopravvissuta alla violenza possa guarire dal dolore e recuperarsi, se aiutata a farlo.

Cristina Raymundo si occupa proprio di «sanación», un percorso di risanamento delle ferite subite, e da anni aiuta le donne a riprendere in mano la propria vita, a riconoscere e, di conseguenza, evitare per quanto possibile la violenza di genere.

«Sono entrata nella Red nel 2013 e da allora ho sostenuto molte donne nel loro percorso di guarigione – spiega Cristina -. La prima cosa che faccio è ascoltarle, quando arrivano dopo essere state malmenate o abusate psicologicamente. Poi facciamo alcuni esercizi di respirazione e provo a spiegare loro che non devono sentirsi in colpa se si sentono senza forze o spaventate. È normale dopo una violenza. Spesso disegniamo per connetterci mentalmente con la persona che le ha danneggiate, nel tentativo di perdonarla e superare il dolore. Alla fine, le accompagno da altre donne della Red dove possono ascoltare storie simili ed essere ispirate a trovare soluzioni».

Donne indigene alla messa della Domenica delle Palme (10 aprile 2022) a San Pedro Sacatepequez, a 25 chilometri dalla capitale guatemalteca. Foto Johan Ordonez – AFP.

Il contesto familiare e sociale

Il processo di guarigione è un percorso collettivo di mutuo aiuto, che permette alle sopravvissute alla violenza di sentirsi accolte e capite, senza giudizi.

Molte donne, indipendentemente dal paese di provenienza, o dal ceto sociale e dal livello educativo, fanno fatica a riconoscere di essere state vittime di violenza. Di fatto, la continua colpevolizzazione che la società attuale fa della vittima alimenta quello storico cortocircuito che impedisce a molte donne, ancora oggi, di ammettere, e quindi di denunciare, gli abusi subiti in prima persona.

«Io arrivo da un contesto patriarcale, dove anche mia madre era vittima di violenza, ma non l’ha mai voluto accettare e riconoscere – continua Cristina -. Per cui ho iniziato io a educare le mie sorelle a essere libere, così come le donne della Red hanno fatto con me. Il supporto e la fiducia che trasmettiamo alle donne è ciò che le ispira a fare la stessa cosa con le altre. Quando una sopravvissuta alla violenza usa la propria esperienza per aiutare una sorella o un’amica a riconoscere e difendersi dalla violenza, smette di essere una vittima e diventa una defensora dei diritti umani, come tutte noi».

Simona Carnino

Il libro pubblicato nel 2022 su Don Piero Nota, sacerdote della diocesi di Torino, che ha dedicato la sua vita al Guatemala.




L’universo umano della comuna 13

testo di Diego Battistessa  |


«Comuna 13» è una città nella città, dove sono passati milizie urbane, Pablo Escobar, gruppi guerriglieri, paramilitari, forze dell’ordine. Un campo di battaglia e violenza, ma oggi anche di riscatto.

A Medellín, la seconda città più grande della Colombia, dopo la capitale Bogotá, la violenza generalizzata è stata di casa per molto tempo. Un luogo mondialmente famoso, purtroppo, più per essere stato la città natale e la casa di Pablo Escobar Gaviria (ucciso nel 1993) che per le sue tante meraviglie. A Medellín, esiste uno dei sistemi integrati di trasporto pubblico più moderni della regione, è una città circondata da una natura traboccante e che vanta incredibili esempi di rivalsa sociale e riqualificazione urbana. È la patria, inoltre, di un altro Escobar: Andrés, il caballero del fútbol («il cavaliere del calcio»).

Medellín, insomma, è un crogiolo di contraddizioni, di universi che convivono, spesso senza toccarsi.

I 140mila della «Comuna 13»

Uno degli spazi più emblematici della capitale del dipartimento di Antioquia è senz’altro la Comuna 13, una delle 16 comunas (divisioni territoriali amministrative) che compongono la città.

Verso Nord e più a occidente del Barrio Laureles – dove sorge lo stadio di calcio Atanasio Girardot che tante volte ha visto le prodezze dell’Atletico Nacional de Medellín e dell’Independiente de Medellín –, si trova la fermata della metro San Javier da dove si accede (oggi comodamente) alla porta d’ingresso della Comuna 13. Qui vivono più di 140mila persone, distribuite in diciannove quartieri che coprono una superficie di 74,2 chilometri quadrati.

Questo conglomerato urbano nacque dalle invasioni prodotte alla fine degli anni Settanta da chi viveva nelle periferie della città (come il Basurero Moravia) e cercava un luogo dove costruire una casa e un futuro. Gli ultimi, i dimenticati, gli emarginati, cominciarono ad occupare appezzamenti di terra appartenuti in passato a grossi latifondisti caduti in disgrazia e che non potevano più pagare le tasse sulle loro proprietà.

Così, prima che il municipio di Medellín potesse disporre di quelle terre, il popolo le reclamò con un atto di giustizia sociale. A questi primi coloni si aggiunsero ben presto intere famiglie sfollate dalla violenza dei conflitti armati che colpiva sia il dipartimento di Antioquia che il dipartimento del Chocó.

Come spiega Ricardo Aricapa, in un magistrale resoconto degli anni più duri della Comuna 13 e della guerra urbana che la caratterizzò (Comuna 13. Cronica de una guerra urbana: de Orión a la Escombrera, 2015), gli inizi non furono per niente facili: mancava acqua, corrente elettrica, latrine, polizia. Vigeva la legge del più forte, del più scaltro, del più crudele: omicidi, stupri, furti, risse e ogni tipo di lite e discussione. A poco a poco i servizi migliorarono, perché il municipio capì che non poteva più sgombrare centinaia di famiglie (anche perché non avrebbe saputo dove ricollocarle) e così l’insediamento divenne permanente.

Il primo murale che accoglie i visitatori alla Comuna 13 di Medellín: poche parole che manifestano lo spirito di una comunità umana riunita dalla memoria e dalla voglia di rivalsa. Foto Diego Battistessa.

Le milizie urbane e pablo

Fu così come un nuovo organo pulsante delle città prese vita, un laboratorio umano dove ben presto si insediò il primo grande esperimento di milizie urbane in Colombia. All’inizio questi gruppi nascevano spontaneamente ed erano formati in gran parte da giovani: lo scopo era quello di controllare e garantire la sicurezza di poche strade, quelle dove abitavano o dove vivevano i loro amici e parenti. In quegli anni gli abusi e i soprusi tra gli stessi vicini dei quartieri che conformavano la Comuna 13 (quartieri che crescevano costantemente), erano molti, troppi. In poco tempo, però, la dinamica della violenza di quel periodo (annoverato tra i più cruenti in Colombia) obbligò queste «autodifese comunitarie» (chiamate anche Mp, Milicias populares) a estendere il loro raggio d’azione a interi quartieri e, alle volte, a spingersi anche fuori dalla Comuna 13.

Un fenomeno che attirò l’attenzione dell’Eln (Esercito di liberazione nazionale) che pensò di poter controllare questi gruppi estendendo e rafforzando la sua presenza a Medellín, punto strategico nella Valle di Aburrà e di tutto il dipartimento di Antioquia. All’Eln seguirono le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) che videro la possibilità di reclutare i membri delle milizie urbane per sviluppare una strategia di penetrazione politica e militare a livello urbano. Per le due storiche guerriglie colombiane non fu però facile sovrapporsi e sostituire le bande esistenti che, tra il 1980 e il 1990, facevano capo, in molti casi, al cartello della droga di Medellín. Il conflitto fu cruento. Basti ricordare che all’epoca Pablo Escobar stava portando avanti una vera e propria guerra contro lo stato a colpi di mitragliatrice e dinamite e i suoi alleati si trovavano proprio nelle periferie della città (cfr. Aricapa 2015).

Una vista panoramica di Medellin. Foto Andres Fernandez-Pixabay.

I gruppi armati

I vicoli della Comuna 13, testimoni di un passato oscuro e pericoloso, oggi si colorano per trasmettere una rinascita simbolica fatta di creatività, esuberanza e street art. Foto Diego Battistessa.

Come detto, il primo gruppo armato a entrare nella Comuna 13 fu l’Eln che però non rimase molto e si ritirò volontariamente. L’esperimento portato avanti da «los elenos» (così gli abitanti della Comuna 13 si riferivano ai membri dell’Eln) fu interrotto perché ritenuto troppo caro (non avevano fondi sufficienti), ma soprattutto infruttuoso: il comportamento delle reclute nella periferia urbana dava peggiori risultati in termini di condotta (i giovani erano meno disciplinati e molto propensi all’abuso di alcool e droghe) rispetto a quelli reclutati nella zona rurale. Dal 1990, anno di formazione delle prime Mp, la Comuna 13 assistette all’ingresso di una molteplicità di attori che lottavano per il territorio, oltre che per il cuore e la mente dei suoi abitanti.

Il libro del poliziotto comunitario Yoni Alejandro Rondón Rondón (Comuna 13, 2017) ci spiega che nella zona operavano le strutture urbane dell’Eln, con il fronte Carlos Alirio Buitrago (si facevano chiamare Los regionales), il fronte Luis Fernando Giraldo Builes, e le piccole fazioni di María Cano, Héroes de Anorí e Bernardo López Arroyave.

Erano presenti anche le milizie urbane delle Farc, rappresentate dalla colonna mobile Teófilo Forero e dalla rete urbana Jacobo Arenas.

Inoltre, il 25 febbraio 1996 venne fondato il gruppo di milizie indipendenti autonominato «Commando armato del popolo» (Cap), sostenuto dalle milizie dell’Eln. Questi ultimi, prima di adottare la denominazione finale, si facevano chiamare Cab (Commando armato del barrio) e operavano nei quartieri Juan XXIII-La Quiebra, Blanquizal, El Salado per poi estendersi ad altre zone della Comuna 13.

La guerra di Uribe

Il «regno» di questi gruppi armati terminò alla fine del 2002 con la prima grande guerra urbana promossa da Alvaro Uribe, ma solo per lasciare il posto al terrore portato dal paramilitarismo.

Oltre all’operazione Orione (16-20 ottobre 2002), altre cinque operazioni militari furono lanciate per recuperare il territorio gestito dai gruppi guerriglieri e dal Cap: operazione Primavera (1-3 febbraio 2001), operazione Autunno (ultima settimana del febbraio 2001), operazione Mariscal (il 21 maggio 2002, una delle più cruente con un bilancio «ufficiale» di vittime superiore a Orione e che si fermò solo perché gli abitanti occuparono le strade sventolando panni bianchi chiedendo pace), operazione Potestà (15 giugno 2002) e operazione Torcia (15 agosto 2002).

Nell’ottobre 2002, però, l’intervento dell’autorità pubblica fu mastodontico: 3mila uomini – tra esercito, polizia e paramilitari – guidati dal comandante della Polizia metropolitana di Medellín, il colonnello Leonardo Gallego, e dal generale della quarta brigada dell’esercito, Mario Montoya, entrarono nella Comuna 13. Per due giorni e tre notti caddero bombe, fischiarono pallottole e due elicotteri Black Hawk sorvolarono le case fatte di lamiere e argilla crivellando con armi di grosso calibro le postazioni delle Farc, nel cuore del barrio.

Le raccomandazioni al «Todopoderoso»

Chi poté si nascose, chi non poté fuggì, tutti raccomandarono l’anima al Todopoderoso (titolo usato per riferirsi all’Onnipotente).

Chiunque venisse sospettato di essere connivente con le bande armate della Comuna 13, venne catturato e, se fortunato, portato a Ballavista (il carcere di massima sicurezza di Medellín), altrimenti a La Escombrera.

Un numero imprecisato di persone finì nelle liste (tanto comuni nella regione) dei desaparecidos, altre centinaia scontarono ingiuste carcerazioni prima di essere assolte e rimandate a casa con le scuse dello stato e con la promessa di un’indennizzazione che, nella maggior parte dei casi, non è mai arrivata.

Un tratto della metro della città colombiana. Foto Andres Fernandez-Pixabay.

I «falsi positivi» e quella fossa comune

Solo nel 2015, tredici anni dopo la drammatica operación Orión, si cominciò a scavare in quel macabro luogo di 15 ettari che prende il nome di Escombrera: situato tra El Salado e San Cristobal, zona Nord-Ovest della città. Una discarica di rifiuti edilizi che, per anni, aveva accolto gli scarti dell’espansione immobiliare di Medellín e che divenne la tomba delle persone assassinate nell’ottobre 2002 e nella successiva «pulizia sociale» eseguita dai paramilitari.

La contabilità ufficiale dell’operazione militare voluta dall’allora neopresidente Alvaro Uribe Vélez (in carica da solo due mesi) parlava di 14 morti. Oggi sappiamo che sono molti di più (si parla di almeno 300) grazie alle denunce di Ong nazionali e internazionali e alle dichiarazioni rilasciate nei processi per i «falsi positivi».

Nel gergo militare colombiano, poi reso popolare dai media, un «positivo» rappresenta l’uccisione di un nemico dello stato, di solito un guerrigliero delle Farc. Un «falso positivo» è, quindi, una simulazione che vuole far passare l’uccisione di un cittadino comune per l’uccisione di un militante della guerriglia al fine di poter riscuotere la taglia (tanto più alta quanto più alto il grado del guerrigliero). La Giurisdizione speciale per la pace (Jep, nella sua sigla in spagnolo) ha reso noto, in un report del marzo 2021, che nei primi anni della presidenza Uribe i falsi positivi contabilizzati furono 6.402. Altri dati però segnalano numeri ben più alti.

La Escombrera è oggi memoria storica della città e della Colombia intera. Gli abitanti della Comuna 13 la segnalano ai turisti durante il «Graffiti tour», sottolineando che vanta insieme al deserto di Atacama in Cile un tragico primato: è probabilmente una delle più immense fosse comuni della regione.

Gli anni della trasformazione

È in questo contesto che sono nati dei «meravigliosi fiori» di speranza, di insorgenza e di opposizione a quello che sembrava un destino ineluttabile. In questo scenario molte persone, soprattutto donne, si sono caricate il peso del presente e del futuro sulle loro spalle affrontando e combattendo l’ingiustizia sociale.

La Comuna 13 ha subito una trasformazione negli ultimi dieci anni, con un lavoro di riqualificazione promosso dal municipio di Medellín attraverso l’Impresa di sviluppo urbano (Edu, nella sua sigla in spagnolo).

Uno dei grandi problemi del settore risiedeva nella pericolosità dei camminamenti e nella mancanza di scale per superare le ripide salite che caratterizzano il contesto di un abitato cresciuto sui fianchi delle montagne. Strade pietrose, ponti fatti di assi di legno, un pericolo sempre dietro l’angolo che faceva vivere gli abitanti della Comuna 13 in costante preoccupazione soprattutto per i bambini e gli anziani. Lasciare ogni giorno la propria casa per andare a lavorare o raggiungere la città era una vera e propria impresa.

Nel 2010 ci fu una prima esplorazione architettonica e sociale da parte dell’amministrazione della città, per capire quale tipo di intervento di riqualificazione urbana poteva migliorare la vita degli abitanti di questa zona della città: in quell’occasione proprio delle leader comunitarie negoziarono con la municipalità importanti interventi.

Si decise di dare colore e vita alle strade, utilizzando la street art per raccontare in modo visivo la genesi e la vivenza di quei luoghi e inoltre venne proposta l’installazione di scale mobili per facilitare la mobilità comunitaria e stimolare il commercio locale. L’opera architettonica, di carattere pubblico e gratuito, fu inaugurata il 25 di dicembre del 2011 e da quel momento ha cambiato radicalmente la vita della Comuna 13, soprattutto quella del quartiere la Independencia, dove è situata, beneficiando direttamente più di 12 mila persone. Questo cambio non fu solo pratico, ma anche di percezione della Comuna 13 da parte della popolazione delle altre zone di Medellín.

Gli abitanti hanno potuto toccare con mano un miglioramento sociale ed economico importante dovuto anche al fatto che il luogo si è trasformato in una meta turistica della città. Visitatori da tutto il mondo giungono (oggi frenati in parte dalla pandemia) in quello che fu teatro della più cruenta guerra urbana della Colombia, per fotografare i numerosi graffiti che popolano le pareti delle case e che custodiscono la memoria della comunità.

La Comuna 13 oggi e il Graffiti tour

È così che oggi, nel luogo che forse più di altri è viva testimonianza di tutti i mali di questo paese controverso e affascinante, dipinto magistralmente da Gabo (Gabriel García Márquez), si può realizzare il Graffiti tour: un’esperienza unica, intensa, profonda, vissuta passo dopo passo per le strade dove si respira lotta, riscatto sociale e tanta voglia di futuro.

Decine di guide locali (gli stessi membri della Comuna 13 sopravvissuti alla violenza) aspettano i turisti nazionali e internazionali all’inizio del percorso delle scale mobili, per guidare i visitanti in un viaggio nel tempo e nello spazio, visivo, musicale e gustativo: che termina proprio di fronte al ristorante delle Berracas della 13, un collettivo di donne simbolo della rinascita del quartiere.

«Una comunità in resistenza, che conosce la sua storia e non vuole ripeterla», canta il collettivo di rapper di strada Venezmusic, integrato in buona parte da venezuelani migranti che oggi sono un ulteriore elemento di eterogeneità e diversità in questo incredibile universo umano che è la Comuna 13.

Diego Battistessa


Martiri della Chiesa cattolica

Morire per un ideale di comunità

Era il settembre 2002 quando fu assassinato padre José Luis Arroyave Restrepo, un sacerdote che amava e viveva per la Comuna 13.

Una rara immagine di padre José Luis Arroyave Restrepo, assassinato nel settembre del 2002.

Nella Comuna 13 la violenza non risparmiò neanche gli uomini di Dio e, sia prima che durante lo scontro finale tra lo stato e i gruppi armati che avevano il controllo su quel territorio, il tributo di sangue pagato dalla Chiesa cattolica fu enorme. Dei veri e propri martiri che pagarono il lavoro di trincea portato avanti con coraggio e abnegazione. Nel settembre 2002, un mese prima dell’inizio della famigerata «Operazione Orione», venne ucciso il sacerdote di 48 anni José Luis Arroyave Restrepo. Una morte che sconvolse la comunità e la città intera per l’impegno che il padre aveva profuso per portare un vento di giustizia e riconciliazione nella Comuna 13. Due sicari incappucciati, in quella giornata di fine settembre, lo aspettarono fuori dalla chiesa nel quartiere San Juan XXIII e, quando il sacerdote stava per salire sulla sua auto, lo freddarono con due colpi a bruciapelo. José Luis era un visionario, un uomo di Dio che interpretava la sua missione apostolica fuori dalle mura della chiesa. Si era dato il compito di creare un ponte di pace tra le milizie e i paramilitari. Per questo si era anche fatto preparare una giacca personalizzata con scritto «Io amo e vivo per la Comuna 13»: una giacca che non potè mai indossare. Quel crimine creò un dolore profondo in tutti gli abitanti della Comuna 13, che ripetevano a gran voce che era stata spenta una delle più brillanti luci di speranza e pace in quella parte marginale di Medellín. Un luogo così violento, ingiusto e pieno di disperazione da far dire a chi ci viveva, che anche il Diavolo stesso si raccoglieva in preghiera chiedendo la fine di quell’orrore. L’Arcidiocesi di Medellín con il decreto 55 del 2002 scomunicò gli autori del crimine, ma i lutti non si sarebbero fermati lì.

Un altro tributo di sangue fu pagato dalla Chiesa cattolica colombiana proprio durante i giorni dell’operazione poliziesca-militare ordinata dal presidente Álvaro Uribe Vélez nel succesivo mese di ottobre. Infatti, uno dei civili morti – colpito dal fuoco «amico» dell’esercito – fu il seminarista dell’ordine dei Frati cappuccini, Elkin Ramírez, di soli 22 anni. L’inizio dell’Operazione Orione lo sorprese lontano da casa, dove viveva con sua madre e suo fratello. La donna non si era mai abituata al rumore dei continui scontri armati nel quartiere e soffriva di crisi di panico ogni volta che le pallottole iniziavano a fischiare. Cosciente di tutto ciò, Elkin cominciò a correre per raggiungere casa sua e accompagnare sua madre in quelle che si preannunciavano come lunghe ore di scontri e tensioni. Il giovane corse a perdifiato, ma non riuscì ad evitare un colpo, sparato forse da un cecchino, che lo trafisse a 10 metri dalla porta di casa sua. Il fratello lo vide cadere esanime, cercò di uscire per dargli aiuto ma venne respinto da un muro di proiettili. Dopo padre Arroyave, venne così spenta un’altra vita che aveva scelto di servire la comunità attraverso la parola di Dio. Si dice spesso che siano i migliori a lasciarci. Davvero, in quei mesi di fine 2002, il martirio dei giusti sembrava non avere fine.

Di.Ba.

La facciata della cattedrale dell’Immacolata Concezione, a Medellín. Foto USA-Reiseblogger-Pixabay.




Libia: Le macerie della guerra


Una città abitata da discendenti degli schiavi. Una popolazione che durante la guerra si è schierata dalla parte sbagliata. Tawargha ha pagato tutto questo con l’annientamento della sua comunità. Vediamo cosa è successo durante la guerra e che ne è oggi.

Siamo a Misurata, nel luglio 2012. Ciccio è ossessionato dal ricordo del suo chihuahua. Si chiamava Alex: un omaggio al suo idolo calcistico Alessandro Del Piero. Alex è morto nella primavera del 2011, nella fase più calda della guerra civile libica. Terrorizzato dal colpo di un mortaio esploso vicino casa, aveva cercato rifugio in una grondaia nella quale era rimasto incastrato. Ciccio lo ha trovato lì, morto.

«Il cuore di Alex – ricorda Ciccio – non resistette allo stress di quei giorni. A Misurata non faceva altro che piovere piombo».

Ciccio è di Misurata, una delle città che più hanno dato filo da torcere agli uomini di Muammar Gheddafi. La sua famiglia conta ben nove martiri della rivoluzione. La perdita di tutti quei parenti lo aveva scosso, ma non così tanto da indurlo a imbracciare un fucile per vendicarli e liberare la Libia da Shafshufa (Ricciolone), come veniva chiamato sottovoce il Rais. È stata la perdita di Alex a sancire l’inizio del nuovo corso rivoluzionario di Ciccio.

«Vedere il mio Alex morto di crepacuore fece scattare qualcosa in me. Era la creatura più innocente sulla faccia della terra. Montò in me una collera mai provata prima e il giorno seguente ero già un thuwar (rivoluzionario)».

Murad – il vero nome di Ciccio – ha 27 anni. Ciccio è il soprannome che i suoi compagni d’armi gli hanno affibbiato quando si è presentato alla qatiba (brigata) cui appartenevano alcuni dei suoi cari perduti in combattimento. L’ingombrante stazza di Murad, sommata alla diffusione della lingua italiana in Libia, non ha lasciato scampo al ragazzo: il nome di battaglia «Ciccio» è stato un plebiscito.

Ciccio il miliziano

Da oltre un anno Ciccio fa parte della qatiba misuratina Malik Idris, in onore di re Idris, detronizzato nel 1969 a seguito del golpe di Gheddafi.

Il quartier generale della Malik Idris si trova all’ingresso Ovest di Misurata, sullo stradone che collega la città alla capitale Tripoli. L’intero compound è circondato da scheletri di carri armati e pick up andati distrutti durante la guerra.

È luglio inoltrato, il caldo è asfissiante e le prime ombre della sera non portano alcun refrigerio. È finalmente arrivata l’ora della rottura del digiuno del Ramadan. Un’unica scodella con del latte di mandorla viene fatta girare tra i miliziani e il primo a poggiarci le labbra è Ali, il capo della Malik Idris.

Poco più che quarantenne, fisico asciutto e baffi neri, Ali apre la busta di datteri da distribuire ai suoi. «Guai a te se te li mangi tutti come l’ultima volta», intima Ali al povero Ciccio. «È un bravissimo ragazzo, ma ha un chiodo fisso: quel chihuahua. Mi chiedo come possa piacere tanto una bestia del genere».

Incurante, Ciccio caccia dalla tasca dei jeans un Nokia malconcio sul cui display c’è una foto che lo ritrae con Alex in braccio. «Lui è dalla mia parte. Mi porta bene! Se sono sopravvissuto a Shafshufa è anche un po’ merito suo». Bacia lo schermo del cellulare come se fosse una reliquia.

La guerra è ufficialmente finita da quasi un anno. Tutto fa sperare al meglio per la nuova Libia hurra (libera). Ma nessuno vuole abbandonare le armi, e la qatiba Malik Idris non è da meno. Ali e i suoi uomini vogliono dimostrare cosa fanno i rivoluzionari in tempo di pace.

L’appuntamento è per l’indomani all’alba. I thuwar, puntualissimi, si fanno trovare già con i motori accesi a bordo di due pick up tirati a lucido. Saldata sui cassoni, l’immancabile artiglieria contraerea.

Oltre a Ciccio e ad Ali, ci sono Mohamed, cinquantenne capo in seconda; Salam, appena diciottenne; Abdul-Kareem, trentenne; Amir, l’undicenne primogenito di Ali che maneggia il kalashnikov con la destrezza di un veterano. I thuwar, in tre per vettura, sono eccitatissimi. «Si va a caccia di negri a Tawergha», annuncia con un ghigno Ali.

Città fantasma

Tawergha, distante una quarantina di chilometri da Misurata, è stata ridotta a un cumulo di macerie dalla furia della qatiba di Misurata. Prima della rivoluzione del 2011 era abitata dai circa 35mila neri discendenti degli schiavi condotti in Libia nel corso del XVIII secolo. Oggi è deserta.

Gheddafi aveva piazzato ad hoc molti tawergha (pure il nome degli abitanti, ndr) agli alti ranghi dell’esercito e della pubblica amministrazione. Durante la guerra, Tawergha era stata anche la base di lancio dei missili governativi Grad che avevano messo in ginocchio Misurata.

«Odiamo i negri tawergha – afferma senza giri di parole Mohamed – perché stuprarono le donne misuratine durante la guerra. Per questo ci siamo scatenati contro di loro».

Mohamed, Salam e Ciccio, l’equipaggio del pick up che fa da apripista, giurano di non avere in famiglia casi di donne violentate.

Difficile arrivare a un numero approssimativo delle presunte violenze sessuali perpetrate dai tawergha. L’Onu non dispone di dati attendibili. A Misurata c’è chi sostiene di avere visto i video degli stupri scovati nei cellulari confiscati ai prigionieri tawergha, ma sono immagini che con ogni probabilità non verranno mai utilizzate come prova davanti a un tribunale, soprattutto per la reticenza dei familiari delle vittime.

Tawergha è una città fantasma. Mohamed ha una mano sul volante e l’altra sul kalashnikov. Appena scorge in lontananza un cagnone nero che rovista tra i rifiuti in cerca di cibo, lo punta, si scaglia contro di lui a tutta velocità, caccia fuori dal finestrino del pick up l’arma e fa fuoco con la mano sinistra, non la sua preferita. «Sarà appartenuto a un tawergha e quindi è un cane tawergha», urla e digrigna i denti. Manca di parecchio il bersaglio. A tutta velocità i pick up percorrono quella grande groviera che è diventata la città. Inchiodano davanti a una villetta danneggiata esternamente dal fuoco e disabitata. «È questa qui. Dai, rapidi», urla Ali.

Ha inizio lo spettacolo: Ali fa fuori due caricatori contro la credenza della cucina e un frigorifero malandato; Mohamed mette in fila delle bottiglie, e questa volta centra ogni bersaglio al primo colpo; con una spranga di ferro Abdul-Kareem si scaraventa contro le pale di un ventilatore da soffitto; Salam sfonda a calci le ante di un armadio nella camera da letto dei bambini; il piccolo Amir raggruppa dei giornali ingialliti e gli dà fuoco senza riuscire ad appiccare un incendio: «La benzina! Dovevo portare la benzina!»; Ciccio urina sulle foto di famiglia trovate in un ripostiglio.

Il tutto dura più di mezz’ora. Ali prende una mappa di Tawergha e con un pennarello fa una croce sul punto dove è segnata la villetta. «Ogni volta che visitiamo una casa – sorride il capo – la segniamo qui. Ci manca poco per passare al setaccio tutta la città».

I tesori dei Tawergha

Ciccio sussurra qualcosa all’orecchio di Ali. «Ok ma fa presto. E se trovi qualcosa voglio la mia parte», gli risponde il comandante. Ciccio afferra una pala dal cassone del pick up e comincia a scavare davanti l’uscio della villetta vandalizzata. Secondo una recente leggenda, durante la guerra, al momento della fuga dalla città, i tawergha avrebbero scavato delle buche all’ingresso di casa seppellendo oggetti preziosi per non farli finire nelle mani dei thuwar. E, vuole sempre la leggenda, i tawergha approfitterebbero delle tenebre per recuperare i loro tesori.

Ciccio raggiunge il gruppo a mani vuote e tutto sporco di terra. Il goffo miliziano emana una puzza di sudore acido che fa subito scattare le battute impietose dei suoi compagni. Ripone la pala nel cassone e sbuffa sonoramente. È tempo di ripartire. Per i 250 chilometri che dividono Tawergha da Tripoli, disseminati di posti di blocco delle milizie, quasi non viene proferita parola. La sete e la fame del Ramadan si fanno sentire.

Essere nero in Libia

La tappa successiva è il campo per sfollati di Fellah, alle porte della capitale. Prima della guerra questo era il cantiere di una clinica privata. Oggi sono rimasti solo una quindicina di container utilizzati per ospitare i tawergha scappati dalla loro città. L’Onu presta una modestissima assistenza a circa mille sfollati della città fantasma che non hanno potuto trovare una soluzione più dignitosa, magari all’estero. La «sicurezza» è gestita dai thuwar. Non è un’impresa semplice convincere Ali e la sua truppa a rimanere al di fuori della recinzione. Vogliono assistere ai colloqui con gli sfollati. «Quei negri – sbotta Mohamed – raccontano un sacco di balle. Sono delle serpi, negano di avere violentato le figlie di Misurata». Ma alla fine desistono e optano per un riposino all’ombra di una palma.

Gli anziani tawergha sono tutti riuniti sotto un tendone. «Non abbiamo nulla da perdere, ci ammazzassero pure quei cani. Questa non è più vita per noi», esordisce Houssein, 73 anni, maestro di scuola elementare in pensione, che durante la guerra ha perso sette dei suoi undici figli. «Essere nero in Libia oggi vuol dire essere un uomo morto. È vero, Tawergha è rimasta fedele a Gheddafi fino alla fine. Ma che potevamo fare?».

«Siamo cittadini libici – interviene Omar, 68 anni, che a Tawergha aveva un piccolo ristorante – e abbiamo dei diritti che vengono calpestati di continuo. Gli stupri delle donne ci sono stati da una parte e dall’altra. E poi, dato che siamo neri, ci associano ai mercenari africani assoldati da Gheddafi».

Una donna spinge la sedia a rotelle di Samir, 27 anni. L’uomo è in queste condizioni da quasi un anno. Fuggiva da Tawergha insieme al fratello maggiore Yoosuf. I due sono incappati in una qatiba misuratina. I miliziani hanno pestato a sangue i due fratelli fino a spaccare loro le ossa di braccia e gambe. L’ultimo colpo in testa, sferrato con una mazza di legno, è stato letale per Yoosuf. Samir ha visto un solo dottore dopo settimane dall’aggressione, troppo tardi per ricomporre le fratture riportate.

Il tempo a disposizione al campo di Fellah è terminato. È Ciccio a comunicarlo, indicando col dito l’orologio al polso. Una volta varcata l’uscita, senza dire nulla, Ciccio corre indietro verso gli anziani tawergha. Visto da lontano, il miliziano sembra usare modi gentili nei loro confronti. Ma la cortesia dura ben poco: Ciccio comincia a imprecare contro di loro, arrivando a puntargli contro il kalashnikov. «Non mi hanno voluto dire dove hanno sepolto i loro tesori. Gli ho pure proposto che avremmo potuto fare a metà, che l’oro l’avrei recuperato io. Sono furbi quei negri, vogliono tenersi tutto per loro».

Aprile 2021

Dopo nove anni dal nostro viaggio, ci domandiamo come sia la situazione della città di Tawerga oggi, se continua a essere una città fantasma o meno. Riusciamo a contattare due tawergha. Non è stato facile. Hanno accettato di parlare a patto di rimanere nel più assoluto anonimato. Sono due cugini di Tawergha, dal 2011 residenti a Tripoli.

Raggiunti via Skype, si mostrano in video con delle sciarpe che coprono la parte inferiore del volto. Hanno gli occhi scavati e una profonda stempiatura. Sembrano avere più anni di quelli dichiarati, 33 e 36. Si percepisce subito che i due uomini sono molto affiatati: uno termina le frasi dell’altro.

Spiegano che la tregua stipulata nel 2019 tra Misurata e Tawergha sembra tenere, e che da allora circa 4mila persone hanno fatto ritorno alla città fantasma. «Noi abbiamo deciso di vivere in capitale ma abbiamo alcuni parenti che hanno preferito riappropriarsi delle loro case. Non è un’impresa facile rimettere in piedi una montagna di macerie, specialmente quando i fondi a disposizione sono scarsissimi».

Il governo di Fayez al-Serraj ha stanziato circa 100 milioni di dinari (circa 18 milioni di euro) per la ricostruzione di Tawergha e i risarcimenti ai familiari delle vittime di Misurata morte in battaglia contro i tawergha. «Non è chiara la distribuzione di questo denaro e se realmente è arrivato a destinazione», si fanno eco i due cugini.

Le uniche attività commerciali che hanno riaperto a Tawergha sono negozi di alimentari e qualche ferramenta. «Per qualsiasi altro prodotto bisogna mettersi in macchina e raggiungere Misurata, con il rischio di essere presi a schiaffi solo per il colore della pelle, oppure andare a Tripoli. Che razza di vita può mai essere questa?».

Il neo governo di Mohamed al-Menfi (in carica dal 15 marzo scorso, ndr) si è detto interessato alla rinascita di Tawergha. «È giusto dargli il tempo di lavorare, ma non vogliamo farci troppe illusioni. Tutti sanno ciò che ha dovuto subire la nostra gente, peggio di come siamo stati trattati dalla cacciata di Gheddafi non può certo andarci».

Dalla fine della guerra, la maggior parte dei tawergha si è stabilmente stanziata a Tripoli e Bengasi. Persone che sono riuscite, tra mille difficoltà, a ricostruirsi una parvenza di vita normale grazie a lavori umili. Gli stessi due cugini, ai bei tempi di Tawergha geometra e titolare di una ditta di spedizioni, attualmente sono impiegati come netturbini con una paga da fame.

«Quelli che sono tornati non vogliono parlare, temono rappresaglie. Non crediamo che Tawergha si ripopolerà più come una volta. Ormai quello è un luogo di dolore, non è rimasto nulla di buono lì. Neanche i tesori di cui tanto hanno parlato i thuwar di Misurata».

Luca Salvatore Pistone




Crisi e conflitti da non dimenticare

Alle dieci situazioni di crisi segnalate a gennaio 2021 dal centro di ricerca International crisis group si sono aggiunti, nel corso di questi primi sei mesi, anche il peggioramento del conflitto nel Nord del Mozambico e un aumento dell’incertezza nella già fragile zona del Sahel, dopo la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby Itno.

All’inizio del 2021 l’International crisis group (Icg), un centro studi sul conflitto con sede a Bruxelles e Washington, aveva segnalato dieci crisi da tenere sotto osservazione nel corso dell’anno@.

Si tratta di conflitti o tensioni in sei paesi – Afghanistan, Etiopia, Venezuela, Libia, Somalia e Yemen – e in una regione, il Sahel, delle difficili relazioni tra Usa e Iran e fra Turchia e Russia e del cambiamento climatico, una crisi che, a detta del gruppo di ricerca (e non solo), sta già toccando numerose popolazioni e creando i presupposti per i conflitti del futuro, che dipenderanno non dal clima in sé ma da come questo modifica la disponibilità di risorse naturali come l’acqua e la terra e da come questi mutamenti verranno governati.

In this file photograph taken on March 1, 2021, a woman walks in front of a damaged house in Wukro, north of Mekele which was shelled as federal-aligned forces entered the city. – Eritrean soldiers are blocking and looting food aid in Ethiopia’s war-hit Tigray region, according to government documents obtained on April 27, 2021, by AFP, stoking fears of starvation deaths as fighting nears the six-month mark. (Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP)

Africa, conflitti vecchi e nuovi

Il continente che conta più situazioni critiche è l’Africa. Il conflitto nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, non è ancora risolto, come ha spiegato lo scorso aprile Enrico Casale nel suo articolo per questa rivista@ e come confermano diversi media internazionali fra cui il New York Times@, che riporta la relazione resa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal sottosegretario Onu per gli affari umanitari, Mark Lowcock. I soldati dell’Eritrea, alleata del governo etiope in questo conflitto, non si sono ritirati come annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed ma, al contrario, sono rimasti nel Tigray e si sono resi responsabili di massacri, pulizia etnica e violenze sessuali.

Altro paese africano che fatica a trovare pace è la Somalia: lo scorso aprile il presidente Mohamed Abdullahi «Farmajo», il cui mandato quadriennale si è concluso a febbraio, ha ottenuto dal Parlamento un rinvio di due anni delle elezioni presidenziali. Secondo l’International crisis group@, questa estensione di fatto del mandato presidenziale – che ha già ricevuto forti critiche da Nazioni Unite, Usa, Unione Europea, Unione Africana e Regno Unito – ha almeno due conseguenze dannose.

La prima è l’aumento delle tensioni politiche, con alcuni leader degli stati federati o delle regioni che compongono il paese che appoggiano il presidente e altri – come è il caso dei presidenti degli stati del Puntland e del Jubaland – che si sono invece radunati intorno ad alcuni candidati dell’opposizione.

La seconda conseguenza è che le divisioni si sono manifestate anche all’interno delle forze armate e della polizia: il capo nazionale della polizia Hassan Hijar Abdi ha licenziato il capo della polizia di Mogadiscio, Sadiq «John» Omar, dopo che quest’ultimo aveva inviato i suoi uomini al Parlamento per impedire lo svolgimento della seduta in cui sarebbe stato approvato il rinvio delle elezioni, definendo l’estensione di fatto del mandato presidenziale un colpo di mano. Quanto alle forze armate, secondo le fonti dell’Icg, diversi soldati del reparto di élite Gorgor avrebbero abbandonato le basi dell’esercito somalo per ritirarsi nelle roccaforti dei rispettivi clan, mentre gli anziani di questi clan hanno chiarito che qualunque tentativo di Mogadiscio di disarmare le loro truppe locali innescherebbe combattimenti su larga scala.

Lo stallo politico e le dispute tra le forze di sicurezza, conclude Icg, stanno rafforzando i militanti di Al Shabaab che, incoraggiati dal ritiro parziale delle truppe etiopi e statunitensi alla fine del 2020, hanno già intensificato gli attacchi e ripreso gli assalti contro obiettivi militari somali e stranieri. La guerra fra il governo somalo e Al Shabaab dura da quindici anni.

A picture shows burnt utensils in the village of al-Twail Saadoun, which was attacked during inter-ethnic violence, 85 kilometres south of Nyala town, the capital of South Darfur, on February 2, 2021. – The combined death toll from recent violence in Sudan’s restive Darfur region has risen above 200, after medics revised the toll from one set of clashes upwards by over 50. (Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP)

Il groviglio del Sahel

Oltre a Etiopia e Somalia, il think tank menziona l’intricata e tesa situazione del Sahel, la fascia a Nord del deserto del Sahara che si estende dal Senegal all’Eritrea e che sta assistendo a un aumento della violenza interetnica e all’espansione dell’influenza jihadista, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger.

Dal gennaio 2013 nell’area è impegnato l’esercito francese, intervenuto su richiesta del governo del Mali con l’operazione Serval per fermare l’insurrezione dei ribelli tuareg del Mouvement national de libération de l’Azawad (Mnla), avvenuta l’anno prima nel Nord del paese. La ribellione dei Tuareg, favorita dal riversarsi in tutta la zona di grandi quantità di armi dalla Libia dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi e il saccheggio dei suoi arsenali, ha dato il via a una serie di avvenimenti, fra cui il colpo di stato che ha estromesso il presidente maliano Amadou Toumani Touré e l’espansione nel Mali settentrionale dei gruppi islamisti, da Ansar Dine, sospettato di legami con Al-Qaeda, ad Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). All’operazione Serval è seguito nell’aprile 2013 l’invio di una «Missione Onu per la stabilizzazione del Mali» (Minusma) e, nel 2014, una seconda operazione francese, denominata Barkhane.

Eppure, scrive il Crisis group, dopo sette anni «resta difficile affermare che la situazione nel Sahel sia migliorata. Al contrario, i conflitti continuano ad aumentare di intensità e si moltiplicano i teatri di scontri violenti in tutta la regione». Una delle cause di questo mancato miglioramento sarebbe lo sbilanciamento degli interventi sulla componente militare, a scapito di quella che mira allo sviluppo e al rafforzamento della governance. Il Mali vive una profonda crisi quanto alla capacità di fornire servizi di base ai propri cittadini e di risolvere attraverso il dialogo e la mediazione le contese interetniche, anche molto violente, presenti soprattutto nelle aree rurali. Viceversa, le forze jihadiste – composte da numerosi gruppi, coalizzati principalmente nel Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) e nello Sato islamico nel grande Sahara – sono in grado di inserirsi in modo efficace in questi contrasti, offrendo protezione e appoggio in cambio di influenza e di reclute, minando così ancora di più il ruolo e la credibilità dello stato.

È anche per la già grande fragilità dell’area che le possibili conseguenze della morte del presidente del Ciad Idriss Déby Itno, avvenuta il 19 aprile scorso, suscitano particolare apprensione. Déby è morto mentre si trovava nel Nord del paese a visitare le truppe ciadiane impegnate a contenere l’attacco dei ribelli del «Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad» (Fact nell’acronimo francese) che hanno le proprie basi in Libia. Sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate combattendo, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. Aveva appena vinto le elezioni per la sesta volta dopo aver governato il paese «con il pugno di ferro per tre decadi»@ ed era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti, in quanto al comando del migliore esercito dell’area.

Il generale Mahamat Idriss Déby, figlio trentasettenne del defunto presidente, gli è succeduto mettendosi alla testa di un consiglio militare di transizione che dovrebbe portare in 18 mesi il paese a nuove elezioni; ma questo atto ha già attirato diverse critiche, dal momento che la costituzione ciadiana prevede che siano il presidente dell’Assemblea nazionale o, in mancanza di questo, il vice presidente, a guidare il paese in caso di morte del capo dello stato.

Distribuzione di cibo ai rifugiati a Pemba ad opera della Caritas (foto AfMC / José Luis Ponce De Leon)

Cabo Delgado, migliaia di sfollati

«Quando abbiamo visitato Pemba lo scorso dicembre abbiamo assistito alla tragedia di mezzo milione di sfollati. Le cose continuano a peggiorare». Così twittava a fine marzo@ monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, nel regno di eSwatini (ex Swaziland), riferendosi alla visita che aveva effettuato nella capitale della provincia di Cabo Delgado, Nord del Mozambico, insieme ad altri vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa meridionale agli inizi del 2021. Nel post sul suo blog in cui raccontava di quella visita, il vescovo riportava che «Pemba, con una popolazione di 200mila persone, ha accolto 150mila sfollati»@.

In una nota del 21 aprile 2021, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur, o Unhcr nell’acronimo inglese), aggiornava a 700mila il numero degli sfollati, ai quali si stavano aggiungendo in quei giorni altre 20mila persone costrette a lasciare la città costiera Palma, a trenta chilometri dal confine con la Tanzania, dopo che era stata colpita circa un mese prima da una serie di attacchi islamisti@.

I rapporti mensili Crisis watch dell’Icg@ sono utili per ricostruire l’inizio e l’intensificazione dell’attività jihadista nell’area, che vede il suo esordio il 5 ottobre 2017 quando a Mocimboa da Praia, città portuale a circa 300 chilometri da Pemba, tre stazioni di polizia vennero attaccate da un gruppo che si chiama Ahlu sunna wal jammah (Aswj), noto anche come Al Shabaab, benché non abbia legami con l’omonimo somalo (Al Shabaab, peraltro, significa semplicemente «i giovani» o «la gioventù»).

Lo scorso marzo il Dipartimento di stato americano aveva classificato Aswj come uno dei rami dello Stato islamico in Africa centrale, insieme al gruppo Adf (Allied democratic forces), attivo fra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo@.

Il legame con l’Isis, tuttavia, non appare così forte e netto, dice il centro studi Acled (Armed conflict location & event data project@) creato da docenti dell’Università del Sussex, nel Regno Unito, e attivo nel raccogliere ed elaborare dati sugli eventi e i luoghi che riguardano i conflitti armati. Proprio la rivendicazione degli attacchi di Palma da parte dello Stato islamico, fatta utilizzando immagini false e rivendicazioni vaghe, farebbe pensare a un ruolo assai ridotto dell’Isis «centrale» nel determinare le strategie e le scelte operative di Al Shabaab, che rimane gestito da leader locali orientati a scopi altrettanto locali.

Incontro di preghiera nell’are di Nabasanuka, Tucupita, Venezuela (foto AfMC / Juan Carlos Greco)

Venezuela, insufficienza di cibo

A oggi, sono 5,4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il paese, e chi è rimasto si trova a far fronte a grandi disagi per procurarsi i beni di prima necessità. Le principali difficoltà riguardano sempre l’elevata inflazione e la mancanza di carburante che limita i trasporti di persone e di merci.

Padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata attualmente a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, raccontava via whatsapp lo scorso aprile che gli indigeni warao «superano la mancanza di carburante viaggiando in curiara [canoa, ndr] (tre giorni all’andata e altrettanti al ritorno) per acquistare sapone e dentifricio nel porto di Barrancas. Chi viaggia raccoglie gli ordini anche da anziani e ammalati che non possono remare per sei giorni. Ogni famiglia viaggia almeno una volta al mese in questo modo. Adesso stanno cominciando a viaggiare anche a Mariusa, verso la costa Nord del Delta, per procurarsi farina, o zucchero, o vestiti, scambiando i prodotti con banane o con l’artigianato locale».

Lo scorso aprile il governo venezuelano guidato da Nicolás Maduro ha raggiunto un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam) per fornire cibo a 185mila bambini in età scolare@. Secondo le stime pubblicate nel 2020 dallo stesso Pam, un venezuelano su tre non ha accesso a quantità sufficienti di cibo per soddisfare i requisiti nutrizionali minimi. Il governo non ha pubblicato i dati sulla malnutrizione infantile negli ultimi quattro anni ma gli ultimi disponibili, del 2017, ne registravano un aumento pari al 30%.

Chiara Giovetti


Conflitti nel mondo

È praticamente impossibile ricordare tutte le situazioni di conflitto esistenti nel mondo. Ci limitiamo qui a riportare i paesi in conflitto secondo il Centro studi del Council on foreign relations (aprile 2021).

Guerre civili: Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Sud Sudan.

Violenza criminale: Messico.

Guerre o tensioni fra stati: India e Pakistan, USA e Iran, Corea del Nord.

Instabilità politica: Libano, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.

Violenza settaria: Myanmar, Repubblica Centrafricana, Nigeria.

Dispute territoriali: Russia/Ucraina, Turchia/ gruppi armati curdi, conflitto israelo-palestinese, conflitto in Nagorno-Karabakh, dispute territoriali della Cina con Filippine e Vietnam nel Mar Cinese meridionale, tensioni fra Cina e Giappone nel Mar Cinese Orientale.

Terrorismo transnazionale: Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria, Pakistan, Somalia.

Altre fonti, come il citato Crisis watch, affermano di seguire oltre 70 situazioni di conflitto in tutto il mondo, tra cui segnalano un peggioramento in: Mozambico, Niger, Senegal, Bangladesh, Bolivia, Paraguay, Indonesia, Giordania, Arabia saudita, Irlanda del Nord e altri paesi.

Chi.Gio.