Italia: il paese della mafia e dell’antimafia


Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Questo è l’obiettivo della legge 109 del marzo 1996. Una legge nata da una bestemmia: «la mafia dà lavoro». Quella norma fu promossa da «Libera», l’organizzazione fondata nel 1995 da don Luigi Ciotti per lottare contro tutte le mafie. E che oggi, a 20 anni di distanza, è ancora in prima linea, a dispetto di chi la vorrebbe delegittimare.

L’Italia ha gravi problemi di mafia. Ma possiamo orgogliosamente dire di essere pure il paese dell’antimafia. Non solo per il prezzo che abbiamo pagato con un numero infinito di vittime innocenti. Non solo per l’efficace legislazione che ci siamo dati (sostanzialmente fatta propria da una Convenzione Onu del dicembre 2000 sottoscritta da tutti gli stati del mondo, la Convenzione di Palermo). Non solo per l’organizzazione del contrasto (non a caso Eurojust, l’embrione della futura procura europea, è modulato sulla nostra «Procura nazionale antimafia»). Ma anche per quel fiore all’occhiello – ovunque studiato – che è la pratica dell’antimafia sociale o dei diritti: quella che paga in termini di lavoro e recupero di dignità; che materializza la legalità come vantaggio; che si affianca all’antimafia della repressione e della cultura, creando così un triplice fronte di contrasto, ben più efficace della semplice «delega» a forze dell’ordine e magistratura.

Non «baciamo le mani»

L’antimafia sociale o dei diritti nasce con la legge 7 marzo 1996 n. 109 sulla gestione e destinazione dei beni confiscati ai mafiosi. Una legge che ha compiuto da poco vent’anni e ha segnato una svolta decisiva nell’ordinamento italiano. Un capolavoro ideato da Luigi Ciotti ragionando su una bestemmia (strano per un prete, ma vero). La bestemmia che «la mafia dà lavoro». Falso, eppure tanti ci credevano. Non solo grazie alla black-propaganda (informazioni false prodotte da un soggetto coinvolto, ndr). Soprattutto perché, un tempo, i beni tolti ai mafiosi cessavano di essere «produttivi». Erano irreversibilmente condannati a coprirsi di ruggine e ragnatele. Per cui il mafioso espropriato aveva buon gioco a dire in giro: «Ecco, quando il bene era mio, produceva ricchezza soprattutto per me, è vero; ma qualcosa c’era anche per voi altri che ora restate a secco. Dunque, fatevi i conti: meglio prima o adesso?».

Il ragionamento (ancorché i mafiosi lasciassero agli altri solo briciole, tanto per tenerseli buoni) aveva una certa presa. Ed era facile, allora, che i cittadini scegliessero di allearsi non con lo stato ma con la mafia, quanto meno mediante un comportamento omertoso di accettazione rassegnata.

La restituzione del «mal-tolto»

La situazione viene ribaltata con la citata legge 109/96: i beni confiscati ai mafiosi sono destinati ad attività socialmente utili. Cioè restituiti alla collettività cui la mafia li ha rapinati, così che la collettività possa trae profitti sociali. Ed ecco che la villa di Riina diventa un istituto agrario e poi una caserma; ecco che i terreni agricoli già dei mafiosi sono lavorati da cornoperative di giovani che producono vino-olio-pasta e via elencando; ma soprattutto ecco iniziative economiche e lavoro liberi. Libertà che dei soggetti coinvolti fa cittadini titolari di diritti, non più sudditi costretti a baciare le mani del mafioso di tuo (sporche del sangue dell’ultimo delitto commesso). Sta qui il significato profondo della legge: fare dell’antimafia una legalità che conviene, che restituisce quel che la mafia ha «mal-tolto». Una legalità che non sia soltanto questione di guardie e ladri, ma sappia invece coinvolgere chi prima restava alla finestra, se non peggio.

Il capolavoro di Ciotti non è consistito soltanto nella formulazione di un progetto di legge. All’idea don Luigi aveva dato gambe organizzando una raccolta di firme per sostenerla. Alla fine le firme erano state un milione. Una montagna. A una tale pressione non si poteva resistere. Ed ecco che la legge era stata approvata all’unanimità (ma senza estenderla ai corrotti, come invece stava scritto nel progetto originario). Una unanimità che, in ogni caso, ha costituto una formidabile legittimazione da parte di tutto il popolo italiano alle cornoperative che da allora lavorano sui beni confiscati ai mafiosi assieme a varie associazioni scelte con bando pubblico, fra le quali figura «Libera», l’associazione che rappresenta l’ennesimo capolavoro di don Ciotti.

Col tempo, la confisca e l’assegnazione dei beni mafiosi hanno raggiunto dimensioni enormi. Perché enormi sono i beni che la mafia ha potuto accumulare in anni e anni di sostanziale impunità «patrimoniale». E perché enormi sono stati i progressi degli inquirenti sul versante dell’attacco alle ricchezze mafiose. Enormi, purtroppo, sono diventati anche i problemi da affrontare per la gestione e assegnazione dei beni, a fronte dell’esiguità di uomini e mezzi dell’Agenzia a ciò preposta. Mentre è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari o delle partite Iva: un sistema di relazioni opache.

Contro «Libera»: schizzi di fango, guerre e falsità

Schizzi di fango, ogni tanto, si tenta di indirizzare addirittura verso «Libera» e don Ciotti, con accuse inconsistenti che, in un’apposita audizione dell’Antimafia (lo scorso 13 gennaio, ndr), sono state tutte smontate. Chi riesce a tenere la barra sempre dritta diventa un simbolo e può urtare la «suscettibilità» di qualcuno. Soprattutto se una certa informazione preferisce concentrarsi morbosamente sui presunti retroscena, scorgendo scandali anche quando non ce ne sono. In «Libera» non c’è alcuna «guerra». Esistono una dialettica, uno scambio, una differenza di vedute: fatti normali nella vita di un’associazione in cui le persone discutono apertamente e talora anche aspramente. Il confronto è sempre un arricchimento. Ma può anche accadere che, dietro uno sbandierato impegno, si nascondano intenti non del tutto disinteressati. C’è il rischio (che Ciotti non si stanca di ricordare) che il «Noi» si riduca a un’etichetta dietro la quale agisce indisturbato l’«Io». In particolare, sulla gestione dei beni confiscati, circolano falsità assortite. Per cui conviene fissare alcuni punti:

  • «Libera» non gestisce terreni confiscati: la gestione è affidata a realtà che aderiscono a «Libera terra», ma come soggetti autonomi d’impresa sociale;
  • sono soltanto 5 in tutta Italia i beni gestiti da «Libera», utilizzati come sedi locali dell’associazione;
  • «Libera» non riceve contributi pubblici per gestire beni confiscati, ma solo per attività statutarie di formazione, studio e ricerca;
  • oggi sono più di 500 le iniziative di riutilizzo sociale dei beni confiscati che coinvolgono realtà laiche o religiose: associazioni, cornoperative, comunità, gruppi e parrocchie.

Quanto alla propria struttura, da tempo in «Libera» è in atto un profondo cambiamento. Negli ultimi mesi, l’associazione ha tenuto tre affollate assemblee nazionali, nelle quali i nuovi organismi direttivi sono stati votati praticamente all’unanimità. Nessuno è perfetto, ma è davvero difficile parlare (come taluno ha fatto) di una carenza di democrazia1 nei processi partecipativi. Quanto alle presunte tiepidezze o, peggio ancora, omissioni a fronte di certe illegalità o manifestazioni mafiose2, non si possono dimenticare le denunzie pubbliche di Ciotti sul pericolo mafia nella città di Roma formulate, ad esempio, nell’ottobre 2014, all’apertura di «Contromafie». O le richieste del marzo 2014  di un albo sugli amministratori giudiziari, con trasparenza e rotazione negli incarichi, compreso un tetto ai compensi. Più in generale non si può ignorare la limpida condanna che Ciotti, in epoche assolutamente non sospette, ha sempre scagliato contro quella parte di antimafia da operetta o di facciata se non anche opaca o inquinata. Ed è più che logico dedue una sua speciale e concreta  attenzione per rendere «Libera» immune da questi mali e salvaguardae la pulizia morale. Testimoniata del resto dal lavoro quotidiano dell’associazione: a partire dall’esposizione delle facce dei suoi giovani  in moltissimi tribunali italiani, per sostenere in pubblica udienza, a fronte degli imputati detenuti e dei loro familiari, le tante costituzioni di parte civile contro la mafia che sono prova inconfutabile di coscienza civica e coraggio.

Un obbligo morale: includere anche i corrotti

Per altro, sul versante dell’antimafia e dei beni confiscati ci sono varie cose da aggioare. Il pacchetto delle auspicabili riforme è consistente. Tra i punti qualificanti figurano: il potenziamento dell’Agenzia nell’ambito di una procedura più efficiente e più  garantita; una particolare  attenzione alla gestione delle aziende, per le quali  sono previsti uno speciale fondo di rotazione e garanzia (già finanziato dalla legge di stabilità con 10 milioni di euro) e la destinazione prioritaria a cornoperative di lavoratori, se ne ricorrono le condizioni; un vigoroso giro di vite sulla disciplina degli amministratori giudiziari (indispensabile dopo il «caso Saguto»3). Di grande rilievo è poi l’ampliamento del novero dei soggetti cui possono essere applicati sequestro e confisca, così da ricomprendervi (oltre al caporalato e altre ipotesi) anche i reati più gravi contro la pubblica amministrazione, a partire dalla corruzione. Andrà meglio che nel 1996? L’estensione sarà ancora, per qualcuno, un boccone troppo amaro? Speriamo di no, ma non è un buon segnale che, dopo l’approvazione alla Camera, la discussione in Senato stenti a iniziare.

Gian Carlo Caselli

Note

(1)  Intervista a Franco La Torre, sul sito de L’Huffington Post, 1 dicembre 2015. (Ndr)

(2)  Intervista a Catello Maresca, pm di Napoli, sul settimanale Panorama del 14 gennaio 2016. (Ndr)

(3)  Il riferimento è allo scandalo che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. (Ndr)

Siti internet

  • www.libera.it -È il sito di «Libera», l’associazione fondata da don Luigi Ciotti nel 1995.
  • www.benisequestraticonfiscati.it -È il sito di Anbsc, l’«Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata».



L’atlante della giustizia ambientale


Nel mondo assumono sempre maggiore importanza i cosiddetti conflitti ambientali. Popolazioni locali, organizzazioni, singoli cittadini, reti di studiosi si oppongono a progetti «di sviluppo» dannosi per il territorio e rischiosi per la sostenibilità della vita sulla terra.
Da due anni esiste un atlante on line che offre un colpo d’occhio complessivo sui conflitti in corso nel mondo, e informazioni specifiche su ciascuno. Ecco il punto sui dibattiti riguardanti la giustizia ambientale e la sua rilevanza nel contesto globale.

Il rapporto di Global Witness del 20121 lancia un allarme sugli elevati livelli di violenza contro attivisti, cittadini e comunità rurali impegnati su tematiche ambientali e conflitti territoriali. Il titolo del rapporto, Deadly Environment (ambiente mortale), risveglia indignazione e ribellione nel lettore. Le cifre, negli ultimi anni, raggiungono il doppio zero: nel 2011, si è avuta la media di una vittima a settimana. I casi e numeri indicati nel report sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno complesso e diffuso, che sta coinvolgendo nuovi spazi, luoghi fisici e simbolici, e unendo gruppi sociali in una causa comune.

01 philippe leroyer Demonstration against the Notre Dame des Landes airport - 22Feb14, Nantes (France

Repressione crescente

Tanto in America Latina, Africa e Asia, come in Europa e Nord America, persone che si oppongono a attività estrattive come miniere, pozzi di petrolio e gas flaring2, a dighe, ma anche a discariche inquinanti e a grandi progetti di infrastrutture, subiscono una crescente repressione da parte di governi e milizie, in collusione con compagnie private e statali. Questi attivisti denunciano gli impatti sociali e ambientali del sistema economico estrattivo capitalista e il suo elevato metabolismo sociale. Nel suo ultimo libro3, Naomi Klein chiama Blockadia quelle azioni di opposizione, quei territori resistenti, come le remote foreste canadesi dove comunità di first nation (abitanti originari) bloccano la strada e impediscono la costruzione di oleodotti e gasdotti.

Piazza Taksim contro Erdogan

Turchia, Istanbul, Taksim Gezi Park 2013: gli abitanti della città sul Bosforo scendono in strada per difendere il parco cittadino più famoso della città, e mostrare la loro contrarietà al centro commerciale che dovrebbe sorgere al suo posto. In gioco non ci sono solo gli alberi del parco, ma una visione, un’idea politica di ciò che Istanbul deve offrire ai suoi cittadini. La contrarietà al mall e alla speculazione edilizia nell’area circostante si manifesta tra persone di diversa età ed estrazione sociale che, forse, mai nella loro vita precedente avevano pensato di scendere in strada o di partecipare ad azioni dimostrative. Per la prima volta in Turchia si trovano dalla stessa parte, e devono affrontare una dura repressione dello stato e delle forze dell’ordine. Nella discussione, emergono aspre critiche che mettono in difficoltà il governo di Recep Tayyip Erdogan.

Contro il bene comune

Dinamiche simili sono avvenute negli ultimi anni in Francia presso l’area dove sarebbe dovuto sorgere il nuovo aeroporto di Nantes, ribattezzata Zona da Difendere (Zad, dall’acronimo francese), a Stoccarda in merito alla paventata ristrutturazione della stazione dei treni, per non parlare della Val Susa e della decennale opposizione al Tav. Trasporti e infrastrutture, ma anche energia e industria estrattiva, sono al centro di intensi dibattiti e opposizioni in Europa, tra sostenitori di una politica espansiva e di grandi appalti per rilanciare l’economia e coloro che si oppongono a questa ideologia di sviluppo per i suoi impatti sociali ed ecologici e alla dominazione di potenti lobbies economiche e politiche.

Notizia dell’inizio del 2015, per esempio, è il cosiddetto Piano Junker, che sta investendo 315 miliardi di euro in grandi infrastrutture in Europa, con la creazione di un nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi) e il coinvolgimento della Banca Europea degli Investimenti (Bei). Trasporti ed energia sono due colonne portanti del piano e rappresentano la maggior parte dei progetti candidati, cosiddetti di «interesse comune» (Pic). I criteri decisionali e di valutazione dell’opportunità o meno di aprire cantieri, e da parte di quale impresa, non sono chiari e certamente non sono frutto di una discussione democratica e informata in ciascun paese membro.

I trattati di cosiddetto «libero» commercio dell’Unione europea con partner di altri continenti, come il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, cfr MC ottobre 2015, p. 64) con gli Stati Uniti o il Ceta (Accordo economico e commerciale globale) con il Canada, sono un altro cardine del meccanismo che porta le istituzioni a smettere di perseguire il bene pubblico a favore della concentrazione della ricchezza in mano di pochi.

Nuove forme di mobilitazione

Critiche al modello di accumulazione di ricchezza e impunità si stanno diffondendo in modo trasversale tra gruppi sociali distinti: l’opposizione alle esplorazioni per fracking4, per esempio, ha fatto il suo ingresso nei salotti della classe media in Polonia, mentre il caso della miniera di oro a Ro?ia Montan?, che prevederebbe la rimozione di diverse montagne nel territorio degli Apuseni (Monti del tramonto), parte della catena dei Carpazi occidentali, ha risvegliato la società civile rumena in quello che è considerato il più grande movimento civico del paese dopo la rivoluzione del 1989.

Tali mobilitazioni creano forti legami nazionali e inteazionali, e spesso azioni congiunte, tra comunità locali che subiscono le conseguenze sociali e ambientali di una stessa attività, o gli abusi di un’impresa.

I progetti di Enel-Endesa, per esempio, sono stati contestati dalla Patagonia cilena (contro i progetti idroelettrici nella regione australe) al Guatemala (contro la centrale idroelettrica di Palo Viejo), alla Colombia (contro quella di El Quimbo). Ma anche in Spagna, per la rete d’alta tensione (Mat), e in Italia, sul Monte Amiata (Grosseto) e a Porto Tolle (Rovigo). La rete italiana Stop Enel sta intentando un cornordinamento fra i comitati in Italia, e scambi con comunità estere che vivono nelle località coinvolte dai progetti dell’azienda.

La rete di Oilwatch attenta al tema dell’estrazione di petrolio, o l’alleanza Gaia sulle alternative all’incenerazione dei rifiuti, o ancora la Campagna Internazionale contro l’Impunità delle Multinazionali, sono altri esempi di azioni di pressione congiunte su governi, istituzioni e imprese private a livello globale.

Mining conflicts in Latin America_EJAtlas

L’atlante globale della giustizia ambientale

Per fornire nuovi strumenti e metodologie di ricerca, accademici e organizzazioni per la giustizia ambientale hanno creato l’«Atlante Globale della Giustizia Ambientale» (Ejatlas, Environmental Justice Atlas), all’interno del progetto di ricerca Ejolt (Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade), cornordinato dall’Università Autonoma di Barcellona. L’atlas è stato lanciato online nel marzo 2014, ed è in costante espansione; oggi conta più di 1.600 casi di conflitti socio-ambientali in tutto il mondo5. Vi si trovano informazioni circa mobilitazioni, campagne, petizioni e conflitti a livello locale, su progetti industriali, infrastrutture urbane, centrali elettriche per le quali si siano registrate istanze d’opposizione e forti critiche da parte di comunità locali, residenti dell’area, comunità scientifica o internazionale.

L’Ejatlas dimostra che esiste una presa di coscienza presso comunità in tutto il mondo rispetto alla difesa di un ambiente che non è costituito solo da parchi naturali e zone delimitate da conservare, ma è il fondamento della vita e della sua continuità. Descrive i tratti comuni di tanti movimenti sociali che vedono nello sfruttamento ambientale i rapporti di potere tra governi, imprese e comunità locali, in linea con il fenomeno che Henri Acselrad, professore della Universidade Federal do Rio de Janeiro (Ufrj), chiama environmentalization (ambientalizzazione) delle lotte sociali. L’Ejatlas dimostra infine che non si tratta di movimenti «nimby» (not in my backyard, non nel mio cortile), come alcuni sostengono (tra cui il think tank italiano Nimby Forum), ma di genuini movimenti di solidarietà tra comunità anche molto distanti e diverse tra loro, benché certamente la mobilitazione di solito inizi per ciascuno nel proprio territorio, per ragioni di affezione emotiva e conoscenza delle sue caratteristiche. L’Ejatlas rende più evidente che quanto risulta nocivo alla salute a Ponte Galeria (frazione di Roma Capitale), lo è anche nella discarica di Dandora a Nairobi, e che la repressione violenta di cittadini della Val di Susa segue la stessa logica di controllo e imposizione che sta dietro la costruzione di dighe nei territori indigeni del Guatemala.

Fracking Frenzy_EJAtlas

Recuperare i saperi locali

Molti studiosi, tra cui l’economista ecologico Joan Martinez Alier, cornordinatore scientifico dell’Ejatlas, sostengono che sia già in corso un’alleanza tra movimenti ambientalisti e coloro che spingono verso una ridefinizione dei rapporti economici, produttivi e commerciali ispirati da concetti di equità sociale e rispetto. Se pensiamo alle proposte della Decrescita, così come a quelle dell’agroecologia, della riconversione urbana, ai gruppi di co-produzione tra famiglie e agricoltori, questo diventa evidente.

Lo storico italiano Marco Armiero, osservando che la convergenza fra giustizia ambientale, il movimento altermondialista, e le comunità di base è avvenuta già da tempo, al di là delle pubblicazioni scientifiche, sembra lanciare un appello al mondo accademico perché ne prenda coscienza e inizi a parlarne. Uno degli obbiettivi principali del progetto è proprio quello di superare, nell’ambito della giustizia ambientale, la visione dicotomica tra il sapere «scientifico» e quello «popolare», soprattutto in relazione a questioni vitali e a volte incerte come gli impatti socio-ambientali, oltreché sanitari ed economici, di un mega progetto minerario o energetico o dei trasporti, e così via. Infatti gli interessi corporativi e politici, insieme a un sapere troppo «istituzionale», hanno drammaticamente negato la partecipazione dei diretti interessati alle decisioni, silenziando i saperi locali, propri ad esempio di culture indigene, comunità montane, di piccoli pescatori, di agricoltori, che custodiscono un grosso patrimonio di conoscenze sul territorio e sulle sue fragilità. Recuperare tali saperi, riconoscere la loro dignità e integrarli nei criteri «scientifici» ufficialmente riconosciuti, deve essere un obiettivo del mondo accademico e universitario, e la metodologia di ricerca in Ejolt spinge in questa direzione. Una volta che tale frontiera tra saperi si vedrà sfumata, si indebolirà anche il sistema che concede potere a un attore piuttosto che all’altro, agli investitori di una grande multinazionale del petrolio piuttosto che al rappresentante scelto democraticamente di una comunità, ad esempio, nel Delta del Niger.

EJAtlas_screenshot 300

Per una geografia dell’eguaglianza

L’uso delle mappe è considerato di estrema importanza per la visualizzazione di questo sapere e di una geografia dell’ineguaglianza. Se diamo un’occhiata all’Ejatlas, scopriamo storie sconcertanti che riguardano anche paesi insospettabili, come quella dell’uccisione di un giovane nell’ottobre 2014 durante la repressione di una pacifica manifestazione presso la diga di Sivens nella democratica Francia. Il logo dell’Ejatlas, che rappresenta un mondo «rovesciato», simboleggia proprio la messa in discussione dello status quo del sapere e del potere geopolitico. Esponenti della cartografia critica hanno fatto notare come le mappe siano state strumento di oppressione e conquista di territori attraverso la costruzione di un determinato sapere geografico. Secondo il geografo Nietschmann, «è stato conquistato più territorio degli indigeni attraverso mappe che con armi». Ma possiamo sperare che le mappe aiutino ora a riformulare il sapere per rispettare una maggiore giustizia ambientale. L’Ejatlas dà il suo contributo in tale direzione.

Daniela Del Bene


NOTE:

1 Http://www.globalwitness.org/sites/default/files/A_hidden_crisis.pdf

2 È la pratica di bruciare il gas naturale in eccesso estratto insieme al petrolio. Ogni anno se ne bruciano nel mondo 140 miliardi di metri cubi: realizzare infrastrutture per utilizzarlo, infatti, comporterebbe un notevole costo. Si tratta di una quantità di gas pari al 30% di quello utilizzato dall’Unione europea, superiore al consumo attuale annuo dell’intera Africa.

3Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile (titolo originale: This chan­ges eve­ry­thing. Capi­ta­lism vs. the cli­mate), Milano, Rizzoli, 2015.

4 La tecnica del fracking, o della fratturazione idraulica, consiste nel liberare gas o petrolio contenuti nel sottosuolo in rocce impermeabili tramite la loro fratturazione. I rischi ambientali di questa tecnica sono molti: consuma enormi quantità di acqua; nel processo vengono impiegate sostanze chimiche che possono contaminare le falde sotterranee; non sono completamente evitabili fughe di gas metano, che si disperde nell’atmosfera.

5 Tra i partner del progetto che maggiormente hanno contribuito alla mappatura dei casi attuali e storici, il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali (Cdca), che ha pubblicato anche una mappa dell’Italia, Fiocruz e la Rete Brasiliana di Giustizia Ambientale hanno contribuito su salute e ambiente in Brasile, l’Osservatorio Latinoamericano sui Conflitti Minieri ha contribuito sull’espansione del settore in America Latina e Caribe, il World Rainforest Movement su sfruttamento forestale e piantagioni, Accion Ecologica dell’Ecuador e Oilwatch su estrazione e inquinamento da attività petrolifere, per nominae solo alcuni.


Daniela Del Bene
Dottoranda in Scienze Ambientali presso l’Università Autonoma di Barcellona e co-editrice dell’Ejatlas, membro della Xarxa per la Sobirania Energetica (Xse), Catalogna, Spagna.


Climate Debt_EJAtlas

Un atlante costruito con il contributo di tutti

L’Atlante globale della Giustizia ambientale (Ejatlas), nell’ambito del progetto Ejolt (Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade), cornordinato dall’Università Autonoma di Barcellona, è nato per costruire una base di dati a livello globale tramite una piattaforma online costruita in maniera congiunta tra ricercatori, organizzazioni locali ed esponenti di movimenti. I singoli conflitti ambientali sono narrati attraverso una ricca scheda tecnica che include le ragioni economico-produttive alla loro base, le tendenze degli investimenti nel settore, gli impatti del progetto, gli attori del conflitto e le caratteristiche della mobilitazione da parte degli oppositori.

Chiunque sia interessato a contribuire alla mappa mondiale e ha accesso a dati su vertenze locali, può iscriversi alla pagina web http://ejatlas.org/accounts/new o contattare il gruppo di ricerca dell’Ejatlas all’indirizzo ejoltmap@gmail.com.

Per contribuire all’Atlante italiano, può inserire i propri dati nella pagina web http://atlanteitaliano.cdca.it/accounts/new. I dati relativi a ogni caso vengono raccolti attraverso una scheda di circa 100 voci, contenenti sia dati qualitativi che quantitativi, e esaminati attraverso un processo di moderazione e validazione delle informazioni. Una volta geolocalizzato sulla mappa, il caso viene pubblicato online e reso disponibile al pubblico per commenti e feedback. In qualsiasi momento il caso potrà venire aggiornato o arricchito di ulteriori informazioni. In alcuni casi poi, dati geografici vengono applicati alle mappe per permettere analisi spazio-geografica e mappe tematiche.

Daniela Del Bene


ejatlas-logoEJAtlas

Questo è il primo articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas. Nei prossimi numeri verranno pubblicate storie e analisi di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nella mappa. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’atlas le relative schede informative.

www.ejatlas.org
www.ejolt.org
http://atlanteitaliano.cdca.it




Il terrorismo nella nostra storia 2

 

Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.
Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.

I ragazzi di oggi non lo sanno, ma c’è stato un tempo non lontano in cui il terrorismo era indigeno. In Germania, Giappone, Stati Uniti, Francia. E in Italia. Per la quale una cosa va evidenziata: diversamente da altri, il nostro paese ha saputo affrontare il fenomeno rimanendo all’interno dei confini dello stato di diritto. Sia chiaro: quello di oggi è un terrorismo diverso, ontologicamente diverso. Eppure i passi da compiere per sconfiggere fanatismo e violenza non differiscono da quelli del passato.

terr_bader_meinhofÈ estremamente arduo un raffronto fra il terrorismo «indigeno» (Brigate rosse, Prima linea e bande armate di destra) di cui ci si è dovuti occupare in passato nel nostro paese, e il terrorismo internazionale che di questi tempi investe – in maniera sempre più drammatica e pesante – diverse aree del globo. Si tratta infatti di mondi abissalmente e ontologicamente diversi. È tuttavia possibile trarre dall’esperienza passata una qualche generica indicazione.

Il terrorismo di sinistra – in particolare – non è stato un fenomeno esclusivamente italiano. Alla fine degli anni Sessanta gruppi simili alle Br e a Pl sono comparsi in altre democrazie industriali: la Rote Armee Fraktion (conosciuta anche come «banda Baader-Meinhof», ndr) tedesca, l’Esercito rosso giapponese, i Weather Underground e le Black Panthers statunitensi, la Nouvelle resistence populaire in Francia.

Caratteristica esclusiva del nostro paese, però, è stata quella di aver dovuto registrare un terrorismo – di sinistra e di destra – che ha raggiunto capacità offensive decisamente maggiori, rispetto a ogni altra situazione analoga, e assai più persistenti nel tempo (le «prime» Br durano circa 15 anni). Per di più con tendenza alla riemersione ciclica, quasi che la violenza terroristica sia un fiume carsico che non cessa mai di scorrere, neppure quando la storia sembra chiusa.

Nonostante questa pessima «esclusiva», possiamo rivendicare di essere stati il paese dell’antiterrorismo. Nel senso che abbiamo saputo – ben più che in altri paesi – reagire all’offensiva terroristica senza cedere alla tentazione di sbrigative «scorciatornie».

terr_aldo-moro-sequestrato-dalle-brigate-rosseL’obiettivo dei brigatisti era chiaro. Costringere lo stato (a forza di omicidi e «gambizzazioni») a gettare quella che, per loro, era solo una maschera. La maschera di una falsa democrazia, che una volta caduta avrebbe rivelato il volto autentico dello stato: autoritario e fascista. Così le masse avrebbero finalmente «capito» e si sarebbero aggregate intorno alle avanguardie combattenti, le Br. Ebbene, siamo riusciti a non cadere nella trappola di tirare fuori, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, il volto spietatamente repressivo, senza se e senza ma, dello stato. Ciò ci ha aiutati a risolvere meglio le questioni poste dal terrorismo. Perché la risposta a tali problemi dal punto di vista legislativo ha raschiato – lo ha detto più volte la Corte costituzionale – il fondo del barile della corrispondenza ai principi e precetti costituzionali, ma non è mai andata oltre. Perciò i principi fondamentali dello stato di diritto non sono mai stati abbandonati nel nostro paese, a differenza di quanto è accaduto – obiettivamente – in altri paesi.

Abbiamo elaborato una legislazione «specialistica», cioè mirata sulla realtà specifica dei fenomeni da affrontare, ma abbiamo respinto ogni «filosofia» che entrasse in rotta di collisione con i principi democratici. Specialistica ma non «speciale». Non abbiamo creato, in particolare, tribunali speciali e procure speciali, a differenza di altri paesi di democrazia occidentale. In Francia lo hanno fatto. Anche in Germania, in parallelo con l’epidemia di terroristi suicidi in carcere (era il 1977).

Abbiamo celebrato regolari processi, mentre in Gran Bretagna i terroristi dell’Ira (Irish Republican Army) sono stati rinchiusi in campi di concentramento, senza essere processati. Di più: il processo ai capi storici delle Br si è svolto nel pieno rispetto delle regole e persino della identità politica degli imputati (ammessi al controinterrogatorio delle vittime, come nel caso di Mario Sossi, magistrato sequestrato). In Usa problemi analoghi – per esempio nel processo a Bobby Seale (cofondatore delle Pantere nere, ndr) del 1969 per associazione sovversiva – sono stati risolti accusando l’imputato di oltraggio ogni volta che prendeva la parola. Alla fine, per farlo tacere, il giudice Julius Hoffmann fece legare Seale alla sedia con una catena e imbavagliare con nastro adesivo. Il merito del processo, in pratica, non fu trattato.

Nuovi strumenti italiani: la dissociazione

In Italia, va pure ricordato, si è cercato di trovare risposte anche utilizzando (con la stagione delle assemblee) gli strumenti della democrazia diretta: la libertà di associazione e di riunione, il confronto, il dibattito, il dialogo. Così coinvolgendo tutti in problemi che erano appunto di tutti, non delegabili esclusivamente alle forze dell’ordine e alle autorità preposte alla repressione.

Si sono persino cercate soluzioni politiche. Per esempio, con la legge sulla «dissociazione»: senza pentirsi, senza collaborare, i terroristi che lo volevano potevano ottenere forti riduzioni di pena, semplicemente sottoscrivendo una dichiarazione di dissociazione dalla lotta armata. Di fatto una specie di amnistia.

A fronte della tragedia del terrorismo e dello sforzo vincente delle forze sane del paese, rivelano tutta la loro inconsistenza le polemiche astiose scagliate – ieri come oggi – da vari intellettuali, o sedicenti tali, contro la legislazione antiterrorismo e contro i processi italiani. Ma quel che interessa, in questa sede, è soprattutto chiedersi – ferme restando le abissali differenze di cui abbiamo detto – se sia possibile seguire una strada analoga anche per il nuovo terrorismo transnazionale, in un quadro di fermezza che si combini con il rispetto delle regole fondamentali, all’interno dei singoli paesi e sul piano internazionale.

Gridare alla pace (ma soltanto di giorno)

Dopo l’11 settembre, molti sforzi sono stati fatti, molte energie sono state messe in campo per difenderci dall’aggressione criminale del terrorismo. Com’era necessario e inevitabile. La stessa cosa sta accadendo ora, dopo le stragi parigine del 13 novembre. Ma non ci siamo soffermati abbastanza – né allora né oggi – sul fatto che senza diritti non c’è giustizia, e senza giustizia non c’è pace.

Dovremmo partire dalle parole pronunziate da Giovanni Paolo II inaugurando la III Conferenza episcopale latino-americana di Puebla: «La pace intea e internazionale sarà assicurata solo se vige un sistema economico e sociale fondato sulla giustizia…». Significa che il precetto evangelico «fame e sete di giustizia» può anche essere tradotto in questi termini: che un sistema politico si ispiri a logiche di sicurezza è necessario, ma se, alla disperazione di chi vive nell’ingiustizia, si contrappone soltanto uno schieramento armato, se si negano aiuti (effettivi, seri) all’istruzione, alla sanità, allo sviluppo umano, ecco allora che finiamo per avvitarci dentro logiche contorte e inefficaci. Facciamo come Penelope: gridiamo pace di giorno, ma prepariamo ingiustizia (violenze) di notte. Un circolo vizioso che occorre rompere: anche perché esso rischia di introdurre poteri così assoluti da costituire un problema per le libertà e la democrazia, nel momento stesso in cui si compiono azioni finalizzate a tutelare (stando ai proclami anche esportare) proprio libertà e democrazia.

Buonismo, perdonismo, giustificazionismo:
mai sminuire il male

Occorre una coice etica in cui inserire valori di giustizia proclamati da organismi inteazionali. Piero Calamandrei (Le leggi di Antigone, 1946, Il Ponte, la rivista da lui fondata, ndr), riflettendo sul processo di Norimberga, chiedeva che le leggi dell’umanità (invece di essere soltanto frasi di stile, relegate nei preamboli delle convenzioni inteazionali) si affermassero come vere leggi sanzionate. Auspicava che l’umanità (da vaga espressione retorica) diventasse un ordinamento giuridico. Queste parole di Calamandrei possono assumersi come indirizzo ancora oggi: che siano le ragioni dell’umanità, sanzionate dal diritto internazionale, non la forza, non la violenza, a prevalere. In questo modo vincerebbe la saggezza, prima condizione della pace.

Ciò significa rinunziare alla legge del taglione (restituire al male ricevuto altrettanto, se non di più), per provare a vincere il male in modo diverso. Attenzione: questo non comporta affatto sminuire il male. Il male resta male, quindi nessun buonismo, perdonismo, giustificazionismo. Sarebbe vanificare la giustizia. Il problema è provare (per quanto difficile sia, e ferma restando la necessità di innalzare argini robusti contro il fanatismo e la violenza) a inventare forme di risposta che siano capaci di contenere il male, di fermarlo: senza tollerare o creare situazioni che invece lo incentivino senza fine. Il problema è di creare logiche che siano capaci, quanto meno si sforzino, di ricomporre una frateità ferita, divisa da inimicizie profonde. Cercando di essere fratelli oltre i vincoli biologici. Oltrepassando i vincoli delle etnie per provare a fare della moltitudine di popoli che coesistono nel mondo una famiglia nella quale non ci si scanni.

Mi rendo ben conto delle tante obiezioni possibili rispetto alle cose fin qui dette. Sempre più spesso ci si chiede se sia davvero praticabile il dialogo con chi è costituzionalmente sordo perché il suo fanatismo gli impone un unico scopo, quello di sterminare gli «altri». Ci si chiede anche se la fenditura tra musulmani e non (nel mondo intero e nei singoli paesi occidentali) sia ormai diventata così profonda da rendere gli uni e gli altri irreversibilmente estranei e nemici. Quanto è difficile l’emersione dell’islam moderato? E tale emersione è resa ancor più difficile dalla frattura generazionale che si registra nelle moschee? E come eliminare quei macigni che pesano sul quadro complessivo e lo schiacciano, come le enormi ambiguità di quanti (a partire dall’Arabia Saudita) finanziano il terrorismo, gli foiscono le armi e poi bombardano inserendosi in qualche «santa» alleanza? Come arrivare a una vera e autentica cooperazione internazionale, che non sia dettata solo da opportunismi contingenti (come nel caso dell’alleanza francese con la Russia, tutt’ora sotto embargo per i fatti dell’Ucraina)?

Sicurezza sì, ma con diritti e libertà

Vero è (lo ripete da tempo papa Francesco, con visione allargata ai problemi di tutto il mondo, senza strabismi nazionalistici) che siamo di fronte a pezzi – sempre più consistenti – di una «Terza guerra mondiale». Ma forse è un motivo in più – se davvero si vuole uscie – per ricordare che la sicurezza è certamente un bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e dell’impegno più intenso). Un tema decisivo, che però non può essere esclusivo. Altrimenti c’è il rischio che diritti e libertà diventino ostaggio della sicurezza, con conseguenze a catena sempre più vaste e peggiori.

Senza nasconderci (ma nello stesso tempo cercando di reagire con forza ad ogni tendenza alla rassegnazione) che, sotto l’incalzare dei fatti, le parole – troppe volte – possono anche sembrare logore o inadeguate.

Gian Carlo Caselli


Questo articolo di Gian Carlo Caselli è stato condiviso con il quindicinale Rocca (n. 24 del 15 dicembre 2015).

 

L’autobiografia

SOTTO SCORTA

cop_caselli_libro_04È un umanissimo sentimento di amarezza quello che prevale in Nient’altro che la verità, il racconto autobiografico di Gian Carlo?Caselli. Un’amarezza che diventa una sorta di richiesta di perdono nei confronti delle persone a lui più vicine – i genitori (oggi scomparsi), la moglie Laura, i figli Paolo e Stefano – per «aver inflitto [loro] una overdose di preoccupazioni e di sofferenze» e averli fatti vivere «in mezzo ai mitra», in una «situazione da trincea, da filo spinato» (riferendosi a un’intera vita sotto scorta, iniziata nel 1974 e mai terminata). Un’amarezza che è delusione, rimpianto e, a volte, rabbia per alcuni eventi accaduti in 46 anni di magistratura. Come quando, era l’anno 2005, il governo Berlusconi, rabbioso per le incriminazioni di Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri, inventò una legge contra personam per impedirgli di essere nominato «procuratore nazionale antimafia».

Nonostante questo (e altro) la vita professionale di Gian Carlo Caselli è stata ricca di successi, prima nella lotta contro il terrorismo (1974-1986) e poi in quella, più dura, contro la mafia, combattuta dal palazzo di giustizia di Palermo, subito dopo gli omicidi di Giovanni Falcone (maggio 1992) e Paolo Borsellino (luglio 1992), amici e colleghi.

«Sono figlio – scrive nelle prime pagine – di una cultura cattolica e di sinistra. Il fatto di aver trascorso la mia infanzia a contatto con gli operai, le dure condizioni della fabbrica e i sacrifici dei miei genitori spiegano ad esempio la mia sensibilità nei confronti dei poveri, degli ultimi. Sono alla base del mio senso per la giustizia e dello sforzo per la legge come equità».

Se l’autobiografia inizia con il ricordo, recentissimo, della dura contrapposizione con una parte del movimento NoTav e i contrasti con i colleghi di Magistratura democratica, essa finisce con il richiamo alla Lettera ai giudici, la giustizia declinata secondo il pensiero di don Milani nel lontano 1965. Un testo che Gian Carlo Caselli propone come «incoraggiamento e speranza ai magistrati che verranno».

Paolo Moiola