Una controstoria del Novecento in ottica nonviolenta


Si può parlare del secolo racchiuso tra il 1918 e il 2018 come di un secolo di pace? A Torino, un gruppo di studiosi crede di sì: mettendo insieme diverse esperienze di pace e giustizia dei decenni passati in tutto il mondo, ha dato corpo a una vera e propria controstoria. Non sono solo le guerre e il sangue sparso a indirizzare la storia dell’umanità, ma anche, e soprattutto, le azioni di pace, gli atti e le lotte nonviolente, di cui il Novecento è costellato.

«La nostra memoria è selettiva. Si perde nel tempo restituendoci del passato solo ciò che rafforza i nostri schemi mentali e le nostre convinzioni. Il problema della difesa si fonda in gran parte sull’esperienza che ci proviene dal passato. Se la nostra memoria collettiva non conserva che i fatti violenti, è evidente che le soluzioni che troveremo per l’oggi al problema della guerra non potranno che essere soluzioni militari. Al contrario, se recuperiamo dal passato le tracce di un’altra storia, di un’altra difesa, di una resistenza non militare che ha mostrato qua e là la sua efficacia nel corso dei secoli, allora il moderno discorso sulla difesa non potrà che essere radicalmente trasformato», scrive il ricercatore francese Jacques Semelin, e ciò sintetizza bene le motivazioni alla base del progetto di ricerca che da alcuni anni viene portato avanti da un gruppo di lavoro del Centro studi Sereno Regis: far emergere la storia nascosta dei tentativi di costruzione della pace nel secolo appena trascorso, provare a ricostruire qualche tassello significativo dei «Cento anni di pace», come abbiamo intitolato il progetto, dalla prima guerra mondiale a oggi, per aprire speranze di futuro.

Nonviolenza, scultura di Fredrik Reuterswa?rd, Malmö, Sweden. Una versione di questa si trova anche davanti al Palazzo di Vetro di Ny, sede dell’Onu.

Un secolo di pace?

Ma il Novecento non è stato il secolo più violento della storia umana?
Come possiamo dire che è stato un secolo di pace?
Ovviamente, non intendiamo solo le pause tra guerra e guerra, impregnate dei disastrosi effetti della guerra precedente e dei germi infetti della successiva.

Non intendiamo le «paci» che i vincitori impongono ai vinti, perché esse non sono paci, ma il risultato della guerra: l’imposizione con la violenza della propria volontà al più debole. La «pace d’imperio» (Raimond Aron, Norberto Bobbio) non è la pace che soddisfa il diritto umano universale alla vita giusta e libera.

Quando questa sembra ai popoli un buon risultato, è spesso un’illusione, perché la realtà dimostra che «la vittoria non conduce mai alla pace» (Raimon Panikkar). La vittoria italiana nel 1918 fu la «madre del fascismo», come vantava lo stesso regime. La vittoria su Hitler nel 1945 tolse tardivamente un male gravissimo, ma generò altri grandi mali come la Guerra Fredda, enormi diseguaglianze umane, e la minaccia atomica sull’umanità.

Semi di pace

Che cosa intendiamo allora dicendo «cento anni di pace»? Vogliamo mostrare che «in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce» (M. K. Gandhi). In mezzo all’inferno della guerra persistono sorgenti genuine di pace giusta. È sbagliato disperare e lasciare che la violenza sia vista come regina della storia.

La migliore delle paci è quella che si verifica non prima o dopo la guerra, ma invece della guerra. È la pace che si attua preventivamente con il gestire i conflitti senza violenza.

Un’altra pace è quella desiderata come un sollievo, nonostante i suoi limiti, dopo una guerra.

Altrettanto coraggiosa e ammirevole è l’azione di pace fatta durante la guerra, che pone le basi alternative e sostanziali per il superamento della logica distruttiva della guerra stessa.

Nel travagliato cammino umano ci sono semi di pace che attendono di essere visti, coltivati, curati. Non trionfano, ma promettono, perciò ci impegnano.

Cerchiamo queste azioni promettenti nel mezzo delle diverse violenze del Novecento. E le riconosciamo in ogni atto che limita la violenza e riduce le sofferenze, ma specialmente le vediamo nelle lotte nonviolente. Queste ultime sono «lotte» perché non sopportano le ingiustizie e vogliono attivamente liberarne le comunità umane, e sono «nonviolente» perché scelgono di non usare la violenza omicida e distruttiva, ma le forze umane del coraggio, dell’empatia, dell’unità, della resistenza, della disobbedienza civile, dell’organizzazione politica alternativa.

Coerenza tra mezzi e fini

Caratteristica fondamentale della nonviolenza è l’omogeneità tra mezzi e fini, secondo l’insegnamento e le esperienze di Gandhi: «I mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero».

La cittadinanza nonviolenta ha come principio fondamentale la «non collaborazione al male», che esige il coraggio della disobbedienza civile all’ordine ingiusto: una disobbedienza leale, dichiarata, solidale che è la prima arma nonviolenta. Infatti nessun potere politico, economico o militare può imporsi se il popolo non collabora.

Questi principi sono fondamentali per un’autentica democrazia, conquista storica del Novecento contro le dittature violente, preziosa e delicata: la democrazia, infatti, si corrompe in «dittatura della maggioranza» (Alexis de Toqueville), quando diritti e dignità delle minoranze non sono rispettati, ma anche quando sono rispettati solo all’interno, mentre verso l’esterno si attuano politiche di dominio e di guerra.

Il superamento delle violenze

Tra gli obiettivi principali della nonviolenza, oltre al superamento delle violenze fisiche, armate, oltre alla lotta contro le violenze strutturali ed economiche, c’è la lotta contro la violenza culturale, la più profonda e nascosta, causa e giustificazione delle altre, la quale si manifesta spesso nella rassegnazione di fronte a ingiustizie e disuguaglianze.

Per superare la violenza occorre smettere di dare per scontato che la società sia per natura fatta di forti e deboli, di primi e ultimi, di affermati e scartati, in competizione individuale e nell’indifferenza verso il bene comune.

Proteggere la casa comune

Pacifisti e nonviolenti da sempre hanno manifestato contro i test nucleari e gli armamenti atomici, a difesa della sopravvivenza umana. Nello stesso tempo, altri movimenti hanno dato vita alle lotte per i diritti animali, per la protezione delle foreste, o contro i crescenti casi di inquinamento causati dalle attività industriali. Tuttavia, la percezione di «essere in guerra contro l’ambiente» è nata, nel pensiero occidentale, molto tardivamente. La parola «ecocidio» è recente: altre comunità da sempre riconoscono in Gaia, Madre Terra, la fonte di vita e la casa comune che ospita tutti i viventi.

Negli ultimi decenni un aumento drammatico di conflitti ha visto contrapporsi i detentori del potere economico/finanziario contro vaste comunità di contadini, pescatori, popoli indigeni, ma anche comunità locali dei paesi «sviluppati». In questi conflitti, gruppi sociali, associazioni, movimenti che condividono strategie e obiettivi nonviolenti organizzano proteste, marce, iniziative che – grazie alle crescenti reti di comunicazione – stanno assumendo dimensioni globali, e propongono nuove modalità di relazione con i sistemi naturali che ci ospitano.

Masanobu Fukuoka è stato un botanico e filosofo giapponese, pioniere di un metodo nonviolento di trattare il terreno agricolo.

Due casi esemplari

A titolo esemplificativo citiamo due esempi concreti di costruzione della pace dal basso.

Il primo è l’opera di mediazione svolta dalla comunità di Sant’Egidio in Mozambico, come testimonia Roberto Zuccolini, suo portavoce: «Il 4 ottobre 1992, festa di S. Francesco, a Roma, il presidente mozambicano e segretario del Frelimo, Joaquim Chissano e Afonso Dhlakama (scomparso di recente), leader della Renamo, la guerriglia che lottava contro il governo di Maputo, firmavano un Accordo generale di pace che metteva fine a 17 anni di guerra civile (centinaia di migliaia di morti; 3-4 milioni di sfollati interni e profughi nei paesi confinanti).

La firma concludeva un lungo processo negoziale, durato un anno e qualche mese, portato avanti nella sede della comunità di Sant’Egidio. Lì, a Trastevere, alcuni membri della comunità (il fondatore, Andrea Riccardi, e un prete, Matteo Zuppi, oggi arcivescovo di Bologna), un vescovo mozambicano (Jaime Gonçalves, ordinario di Beira) e un “facilitatore” espressione del governo italiano (Mario Raffaelli), avevano pazientemente tessuto un dialogo tra chi si combatteva in nome dell’ideologia e del potere. Avevano imbastito un quadro negoziale all’insegna dell’unità del popolo mozambicano, alla ricerca di ciò che unisce e non di ciò che divide.

Con l’Accordo generale di pace si stabiliva la consegna delle armi della guerriglia alle forze dell’Onu, l’integrazione degli ex combattenti nell’esercito regolare, le procedure di sminamento e di pacificazione delle zone rurali, una serie di passi destinati a trasformare il confronto armato tra le parti in una competizione fondata sulle regole costituzionali e democratiche. Le elezioni del 1994, le prime veramente libere nell’ex colonia portoghese, avrebbero sancito il successo dell’intero percorso negoziale e consegnato il Mozambico a una stagione nuova, fatta innanzitutto di pace».

Un altro caso esemplare è l’esperienza di Lucha nella Repubblica democratica del Congo. Dopo la morte di Lumumba, primo presidente dopo l’indipendenza, democraticamente eletto ma subito assassinato, e la lunga dittatura di Mobutu, il paese è nel caos, con milioni di morti, disastro economico e miseria nonostante la ricchezza di risorse.

Alcuni giovani, stanchi della violenza e dell’ingiustizia, attivano un movimento di intervento su problemi concreti e quotidiani, come, ad esempio, l’approvvigionamento dell’acqua. In poco tempo il movimento cresce e nel 2013 prende il nome di Lucha, abbreviazione di Lutte pour le Changement. Il logo del movimento è semplice: una freccia, e le sue iniziative sono comunicate tramite immagini e messaggi chiari e diretti, per coinvolgere tutti, nella convinzione che ognuno può fare qualcosa.

Il punto comune di tutte le azioni di Lucha è la nonviolenza, che richiede più tempo e pazienza della violenza, ma alla fine è più efficace, perché la guerra ha fallito.

«Coloro che accettano di morire nei gruppi armati», sta scritto in uno dei «fumetti» di Lucha, «non sono idioti o manipolati; qualcuno è riuscito a convincerli che stavano facendo qualcosa di bene per il loro paese, ma per noi la nonviolenza è il solo modo di difendere la propria causa rispettando la dignità delle persone». Una figura mostra persone che si tengono per mano, sedute in cerchio per terra, resistendo ai soldati armati.

Un obiettivo formativo per le nuove generazioni

La storia è memoria collettiva formata e narrata in modo da avere un significato. Nel fare storia si mette in atto un vitale rapporto passato-presente. Per questo è importante porsi il problema di come leggere il passato, perché da esso si possano trarre efficaci spunti di riflessione per il vivere civile della realtà odierna.

Due in particolare sembrano le concezioni che la storia contemporanea ha posto radicalmente in crisi: innanzitutto l’idea di progresso-sviluppo così come si è affermata nella storia dell’Occidente dall’età moderna a tutto il Novecento. Questo modello lineare e meccanicistico oggi rivela tutti i suoi limiti nelle conseguenze sociali e ambientali disastrose che ha prodotto. In secondo luogo appare in crisi l’idea di guerra-difesa come si è affermata dalla Rivoluzione francese in poi. L’armamento atomico sintetizza emblematicamente entrambi gli aspetti: è uno dei più importanti frutti del progresso-sviluppo raggiunto – nell’accezione principale che il termine ha nella cultura occidentale, cioè di progresso scientifico tecnologico -, ed è il più potente mezzo di guerra o, meglio, di dissuasione, cioè di quella forma assunta nella guerra fredda dai modelli di difesa. Alla luce di tali considerazioni, rendere visibile una contronarrazione di quanto è stato fatto per costruire percorsi di pace, affinché diventi parte integrante del bagaglio collettivo della società di oggi e del futuro, diventa un obiettivo importante da perseguire: per ridare speranza e fiducia alle nuove generazioni.

Se il XX secolo è stato infatti il secolo dei campi di sterminio, della bomba atomica, dell’allarme ambientale, del malsviluppo, è stato anche l’età di Gandhi, di Martin Luther King e delle rivoluzioni nonviolente in diverse parti del mondo.

La strategia nonviolenta di trasformazione dei conflitti appare oggi l’unica via razionale per risolvere le controversie, l’unica strada compatibile con la sopravvivenza dell’umanità.

Se dunque la storia è interpellata dai problemi del presente e se ogni storiografia è un particolare sguardo sul passato alla luce di essi, l’assunzione di un’ottica nonviolenta nella storia può avere oggi un grande significato e una forte rilevanza teorica e politica.

Angela Dogliotti
con
Dario Cambiano, Elena Camino, Paolo Candelari, Enrico Peyretti

 


La mostra «100 anni di pace»

Nel XX secolo si è manifestata la violenza delle due guerre mondiali, dei genocidi e delle distruzioni di massa, ma anche la novità della nonviolenza come dottrina politica che si è tradotta in nuove modalità di lotta e di liberazione.

La storia umana che dalle elementari all’università viene raccontata come un susseguirsi di guerre, si è costruita anche nei tempi di pace. Il progresso civile, le conquiste sociali e ambientali, i diritti, le Costituzioni, sono opera della lenta e tenace cooperazione tra le persone, non l’esito di conflitti violenti.

La mostra «100 anni di pace»

La mostra presenta in tre sezioni alcune delle tante realtà di nonviolenza attiva che hanno segnato l’ultimo secolo.

1 – No alla guerra: superare l’idea di nemico. La pace dentro la guerra, la resistenza contro la guerra e la resistenza civile. I movimenti e le azioni nonviolente contro il militarismo e per l’obiezione di coscienza, i movimenti antinucleari. L’alternativa nonviolenta alla guerra: un’altra difesa è possibile.

2 – «Satyagraha»: la forza della nonviolenza per costruire giustizia. La resistenza nonviolenta contro il colonialismo. I movimenti per i diritti civili e la giustizia economica e sociale. La resistenza nonviolenta contro occupazioni, dittature e totalitarismi.

3 – Gaia, la nostra casa comune: fare la pace con la natura. La resistenza contro le violenze verso i socio-eco-sistemi. Dall’ecocidio all’inclusione.

Tempi e modi per visitarla

Dal 4 al 30 novembre presso il Centro studi Sereno Regis, Via Garibaldi 13, Torino, con ingresso gratuito.

Visite libere al pubblico al pomeriggio (in orario preserale da confermare).
Per le scuole, al mattino con due turni: 8.30-11.00 e 11.00-13,30.

Per info e iscrizioni alla visita guidata, inviare una mail a
prenotazioniclassi@100annidipace.org

indicando nome e cognome del/la docente, mail e, possibilmente, un recapito telefonico, scuola, classi e materie di insegnamento.

www.100annidipace.org/


Il Centro studi Sereno Regis

Il Cssr è una Onlus che promuove ricerca, educazione e azioni sui temi della partecipazione politica, della difesa popolare nonviolenta, dell’educazione alla pace e all’interculturalità, della trasformazione nonviolenta dei conflitti, dei modelli di sviluppo, delle energie rinnovabili e dell’ecologia.

Costituito nel 1982 su iniziativa del Movimento internazionale della riconciliazione e del Movimento nonviolento, dopo la prematura scomparsa di Domenico Sereno Regis, uno dei fondatori, nel gennaio 1984, il Centro fu intitolato alla sua memoria.

Il Cssr promuove iniziative culturali e ricerche in collaborazione con alcuni dei più significativi centri di ricerca per la pace nel mondo, ad esempio la Rete Trascend, fondata da Johan Galtung per la trasformazione dei conflitti su scala locale e internazionale.

Il Centro studi è una struttura aperta alla collaborazione con altre associazioni e realizza le sue attività grazie al concorso dei soci, dei collaboratori, di giovani in servizio civile, volontari, e grazie al contributo di privati, di enti locali e fondazioni.

Per Info: http://serenoregis.org/

Centro studi Sereno Regis, via Garibaldi, 13 – Torino
Mail: info@serenoregis.org – Tel. +39 011532824




Perù. La verità difficile


Dal 1980 al 2000 il conflitto interno peruviano ha fatto quasi 70mila vittime tra morti e desaparecidos, soprattutto tra poveri e indigeni delle zone rurali presi tra i due fuochi di Sendero Luminoso e delle forze statali. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita nel 2001 ha affrontato il problema della memoria e della giustizia. Ma molto rimane ancora da fare.

Domenica, 10 del mattino. Ho appuntamento con i miei studenti dell’Università cattolica per visitare il «Lugar de la Memoria». Il grande edificio non è visibile dalla strada e si raggiunge con difficoltà scendendo scale piuttosto scomode. Quando arrivo trovo il posto pieno di visitatori, quasi tutti studenti, ma anche famiglie, suore e turisti stranieri.

Mentre spiego ai giovani la strage di Putis1 del 1984, l’assassinio di otto giornalisti a Uchuraccay2 del 1983 e il lavoro svolto dalle organizzazioni per i diritti umani, penso che senza il lavoro della Commissione Verità tutto ciò che stiamo visitando non esisterebbe.

Il contesto peruviano

Ci sono molte differenze fra la realtà peruviana e quelle di altri paesi dell’America Latina come il Cile, l’Argentina, il Brasile o l’Uruguay in cui furono istituite Commissioni per la verità.

Un primo fattore particolare è la proporzione della violenza: quanto accadde in Perù tra il 1980 e il 1993 non può essere ridotto alla categoria di incidenti di terrorismo o guerriglia urbana e repressione. In molte zone si raggiunse il livello di una guerra, con attacchi alle caserme, battaglie, stragi. Sendero Luminoso riuscì a operare su un territorio grande quasi come l’Italia (il Perù ha una superficie di circa quattro volte il nostro paese, ndr).

È vero che molti peruviani preferiscono parlare di terrorismo e di eccessi delle forze di sicurezza, ma questo succede perché è difficile accettare che sia stata una vera e propria guerra.

Una seconda particolarità del conflitto peruviano riguarda i due gruppi insorgenti, Sendero Luminoso e il Movimiento Rivoluzionario Túpac Amaru (Mrta), i quali furono molto violenti contro la popolazione civile, specialmente i contadini più poveri. I senderistas ammazzavano villaggi interi, compresi i bambini. Disprezzavano le comunità più fedeli alle proprie tradizioni come se fossero state composte da primitivi. Per questo motivo anche tra gli indigeni asháninka dell’Amazzonia soffrirono in tantissimi. Il Mrta assassinava omosessuali e tossicodipendenti in diverse città dell’Amazzonia.

Un terzo elemento specifico del caso peruviano è il fatto che, sul versante delle istituzioni, il maggior responsabile delle desapariciones, degli stupri di massa, delle esecuzioni extragiudiziali e delle torture non fu una dittatura militare ma un governo democratico, quello di Fernando Belaúnde (1980-1985). Belaúnde lasciò ai militari la responsabilità di lottare contro i sovversivi e, quando essi compirono le atrocità poi documentate dalla Commissione Verità, ne diventò complice proteggendoli tramite leggi ad hoc.

Infine, un’altra differenza sta nel fatto che negli altri paesi del Sud America molte delle vittime dei militari furono persone residenti in città, normalmente gente di sinistra appartenente alla classe media, in Perù, invece, le principali vittime furono indigeni poveri che abitavano in campagna e non parlavano spagnolo. I senderisti li uccidevano per rappresaglia e i militari seguivano la politica della tierra arrasada, «terra bruciata» (la repressione indiscriminata contro la popolazione sospetta di appartenere o fiancheggiare la guerriglia, ndr), uccidendo contadini innocenti.

I crimini commessi contro le comunità indigene avvennero in un contesto di forte odio razziale: i militari erano convinti dell’inferiorità degli indigeni ed erano sicuri di rimanere impuniti. Un razzismo, comunque, presente non solo tra i militari, ma diffuso tra la popolazione ancora oggi: un’eredità coloniale che continua a essere forte e viva due secoli dopo l’indipendenza (in un paese nel quale si stima che la popolazione indigena raggiunga il 45% dei quasi 31 milioni di abitanti; un altro 31% sarebbe composto da meticci, ndr). Molti peruviani di ascendenza europea, ad esempio, considerano gli indigeni i responsabili dell’arretratezza del paese. L’indifferenza è l’attitudine più comune nei confronti dei loro problemi: la povertà, lo sfruttamento e l’inquinamento dei loro territori.

Sconfitta e memoria

La violenza del governo di Belaúnde contro i contadini contribuì a fare crescere Sendero Luminoso. Il successore di Belaúnde, Alan García (presidente del Perù dal 1985 al 1990, e poi nuovamente dal 2006 al 2011, ndr) fermò la politica della «terra bruciata», ma le sparizioni e le violenze continuarono. Le stragi nei villaggi di Accomarca3 e Cayara4, o nelle carceri di Lima5, in cui ci furono più di duecento morti tra i detenuti, avvennero durante il suo governo. I seguenti governi di Alberto Fujimori (dal 1990 al 2000) furono caratterizzati da uno stile autoritario di cui è un esempio l’auto-golpe del 1992 tramite il quale il presidente fece sciogliere il parlamento e proclamò la legge marziale. Poco dopo, quando il leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán, fu arrestato e imprigionato Fujimori, fu considerato il grande pacificatore. Il movimento terrorista andò in crisi e il governo riuscì a sbaragliarlo. Oggi resiste in alcuni luoghi isolati ed è molto vicino ai narcotrafficanti.

La sconfitta di Sendero Luminoso permise ai peruviani di recuperare la fiducia nella possibilità di continuare a vivere nel loro paese e di progettare il loro futuro: farsi una famiglia, studiare, costruire una casa. La gente cercò di dimenticare gli anni della violenza.

Il Perù incominciò a ricevere grandi investimenti. Aprirono nuovi negozi, grandi shopping center, ditte straniere. Si potrebbe dire che il lusso e il consumismo accecarono chi voleva essere abbagliato per dimenticare la violenza e le sue cause. I più poveri non potevano permettersi di acquistare nuove macchine o vestiti ma ricevevano dal governo fujimorista cibo e altre donazioni. E loro, cioè la parte di popolazione che maggiormente aveva sofferto nel conflitto, ringraziavano Fujimori per la pace.

Convocando la Commissione nel mezzo di una crisi

Otto anni dopo la cattura di Guzmán, nel 2000, pochi ricordavano il tempo della violenza e Fujimori, al suo terzo, contestato, mandato, era stato travolto da molti scandali di corruzione che lo avevano costretto a scappare in Giappone. Quando nel governo provvisorio di Valentín Paniagua si volle fare un’inchiesta sulla corruzione al tempo di Fujimori, gli organismi per i diritti umani ne approfittarono per proporre l’istituzione di una commissione sulle violazioni dei diritti umani.

Non solo convinsero Paniagua, ma riuscirono a fare in modo che l’inchiesta riguardasse un lasso di tempo che andava indietro fino al governo di Belaúnde durante il quale Paniagua era stato presidente della Camera di Deputati.

Ufficialmente Paniagua e poi il suo successore Alejandro Toledo*, volevano una commissione il più possibile plurale, e scelsero i commissari per il loro valore morale: un vescovo, un pastore evangelico, un militare, una imprenditrice. Fra i dodici membri c’erano anche Sofía Macher che era stata Segretaria esecutiva della Coordinadora Nacional de Derechos Humanos, il sacerdote Gastón Garatea*, il sociologo Rolando Ames che nel primo governo di García aveva partecipato come senatore di sinistra all’inchiesta sul massacro delle carceri, e Carlos Iván Degregori, antropologo che aveva lavorato ad Ayacucho ed era uno dei più grandi ricercatori su Sendero Luminoso. Come osservatore per la Chiesa Cattolica c’era il vescovo Luis Bambarén*. Questi cinque personaggi avevano lavorato molto per i diritti umani al tempo del conflitto, denunziando i crimini dei senderisti e dei militari.

Mi causò una certa sorpresa il fatto che, all’interno di questa pluralità, non si fosse nominato nessun rappresentante delle vittime. E la situazione più curiosa fu che, pur essendo il razzismo il fattore che causò strage tra molti innocenti, non si pensò di includere persone dai tratti indigeni fra i commissari: quasi tutti erano uomini bianchi che abitavano a Lima, nessuno parlava quechua, la lingua indigena predominante in Perù. La stessa Commissione avrebbe poi scoperto che il 75% delle vittime della violenza parlava quechua. In una società con tante divisioni etniche e sociali non fu la partenza migliore.

Un altro punto problematico fu il fatto che la Commissione, inizialmente, non capì che il suo lavoro non era nato da una domanda della società: per i crimini commessi da Sendero Luminoso e Mrta, i responsabili erano già in prigione e la gente non sentiva il bisogno di fare nuove ricerche. Nel caso dei crimini delle forze di sicurezza statali, era molto diffusa l’idea che fossero stati il prezzo da pagare per la pace.

Anche i contadini sentivano molto lontana la Commissione. Quando essa organizzò udienze pubbliche – ad esempio ad Ayacucho, uno dei posti in cui più aveva sofferto la popolazione indigena – nelle quali le vittime raccontavano le violenze subite, la gente pensò che i commissari volessero ascoltare i testimoni per semplice sadismo, perché ai bianchi piaceva vedere soffrire gli indigeni.

In più, alcune decisioni importanti della Commissione erano state prese senza valutarne le conseguenze sociali.

Informe final e conseguenze politiche

Nonostante i problemi menzionati, dopo mesi di lavoro intenso in tutto il Perù, sistemando e ordinando centinaia di testimonianze, la Cvr produsse un documento molto corposo e completo: l’«Informe Final», in nove volumi, un lavoro di ricerca che approfondiva molti aspetti della violenza e del suo contesto.

La difficoltà maggiore per la Commissione durante il suo lavoro non era stata tanto quella di scoprire i crimini del tempo de Belaúnde, quanto piuttosto quella di mostrare come la gente avesse accettato la situazione. Più difficile che mostrare l’orrore commesso da terroristi e militari, era stato mostrare la sua accettazione nell’opinione pubblica.

L’Informe Final ricevette quasi unanime rifiuto da parte della classe politica: i partiti di Belaúnde, García e Fujimori e i loro alleati non volevano nessuna responsabilità: dicevano che nel lavoro della commissione aveva pesato un preconcetto antimilitarista. Soltanto la sinistra riconobbe il valore del documento.

Anche il capo della Chiesa peruviana del tempo, il cardinale Cipriani*, fu contro l’Informe, specialmente perché si era sentito chiamato in causa nei passaggi in cui esso parlava di un ruolo negativo della Chiesa nella zona del conflitto. Va notato che nel periodo più cruento, Cipriani non era ancora vescovo ad Ayacucho.

Data la resistenza nell’accoglienza del documento, alcuni settori numericamente piccoli della società civile (i cattolici legati alla teologia della liberazione e le Ong che si occupavano dei diritti umani) lavorarono per promuoverne la diffusione e la conoscenza. Al loro impegno si devono i risultati positivi di questi anni.

Giustizia. L’Informe final continua a essere uno strumento per tutti quelli che cercano giustizia. Le Ong per i diritti umani hanno avviato processi giudiziari per molti casi. Il più conosciuto è quello contro Fujimori, il quale, arrestato in Cile dopo gli anni di autoesilio in Giappone, ed estradato in Perù, è stato condannato al carcere per violazioni dei diritti umani, soprattutto per le vicende legate al Gruppo Colina6 che rapì e ammazzò gli studenti dell’università La Cantuta7 e fece stragi come quella di Barrios Altos8. Altra condanna importante è stata quella relativa alla strage di Accomarca9 accaduta nel 1985.

Purtroppo i processi sono molto lenti e diverse vittime muoiono senza ottenere giustizia. Migliaia di desaparecidos non sono ancora stati rintracciati e le famiglie probabilmente moriranno senza sapere dove si trovano.

Riparazioni. Molte vittime hanno ricevuto riparazioni individuali e collettive sotto forma di opere di sviluppo delle comunità più povere. C’è un Registro Central de Víctimas che ha funzionato con molta attenzione per consegnare la riparazione a chi veramente aveva sofferto nel conflitto.

Memoria. In questo ambito le difficoltà continuano a essere grandi. I militari e i fujimoristi sono stati molto abili nel manipolare il ricordo di quegli anni allo scopo di minare la credibilità della Commissione presentando ogni denuncia a carico loro come un attentato dei terroristi e dei loro alleati. Il presidente Belaúnde, ad esempio, continua a essere ricordato come un uomo gentile e innocuo: in pochi sanno che durante quegli anni migliaia di contadini furono assassinati.

Per coltivare la memoria, in un primo momento si è formato il gruppo «Para que no se repita», il quale però non legava la violenza dei decenni passati a problemi permanenti del paese come il razzismo, o ai crimini contro i diritti umani più recenti, come quelli contro molti contadini uccisi negli ultimi anni.

Nel 2005 è stato aperto il memoriale «El ojo que llora» (l’occhio che piange), opera di una scultrice olandese, Lika Mutal, fatta secondo la logica di uno spazio buddista di meditazione. Sarebbe stato meglio in Perù un memoriale più vicino alla tradizione cristiana, alla quale apparteneva la maggioranza delle vittime, o laica. Comunque, l’assenza di altri spazi ha motivato i famigliari delle vittime a andare lì.

Alla fine del 2015 è stato aperto il Lum «Lugar de la Memoria, la Tolerancia y la Inclusión Social», grazie al finanziamento del governo tedesco. Si trova in un quartiere benestante ed è difficile da raggiungere, come «El ojo que llora», ma è sempre pieno di gente. Sembra che molti abbiano capito che questo spazio è fondamentale per ricordare ciò che ha vissuto il Perù nel conflitto.

Ultimamente, pare che alcuni cambiamenti possano avvenire con il nuovo governo di Pedro Pablo Kuczynski. La ministra della Giustizia Marisol Pérez Tello pare intenzionata a fare in modo che lo stato accetti le sue responsabilità: è andata al «Ojo que llora» a chiedere perdono alle vittime della violenza. In più il governo sta per iniziare un programma per cercare i desaparecidos.

La via peruviana ha le sue caratteristiche e difficoltà, ma lo sforzo della Commissione e della gente impegnata nella costruzione di una società più giusta può lentamente ottenere risultati.

Wilfredo Ardito Vega

L’autore

Avvocato, insegnante universitario e scrittore. Ha conseguito il master in Diritto Internazionale dei diritti umani all’Università di Essex, in Inghilterra, il dottorato in Legge alla Pontificia Università Cattolica del Perù (Pucp). È docente alla Facoltà di Legge della Pucp, all’Università del Pacifico e all’Università Nazionale San Marco. Eletto a difensore universitario della Pucp. Ha pubblicato diversi volumi sui diritti umani, la discriminazione e i popoli indigeni, e tre romanzi di cui il primo tradotto in italiano nel 2011 per Emi con il titolo Cercando Almuneda.

Archivio MC

Sul Perù MC ha pubblicato numerosi articoli, ne segnaliamo solo alcuni:

Sul web

http://www.cverdad.org.pe/ifinal/index.php

Note

1- Nel dicembre del 1984, 123 persone, tra cui 19 bambini e ragazzi, furono assassinate dai militari della base di Putis, provincia di Huanta, Ayacucho, zona con forte presenza di Sendero Luminoso. I militari, dopo aver violentato alcune donne, uccisero i contadini buttandone i corpi nelle fosse che le vittime stesse avevano scavato (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 14).

2- Nella località quechua di Uchuraccay, Ayacucho, il 26 gennaio 1983 furono assassinati otto giornalisti, la loro guida e un membro della comunità per mano dei membri della comunità di Uchuraccay stessa costituiti in un gruppo di autodifesa contro i Sendero Luminoso. Essi credevano che i giornalisti fossero parte della guerriglia. Uchuraccay si spopolò completamente nel giro di pochi mesi in seguito alle 135 morti provocate da Sendero Luminoso e dalla repressione dell’esercito (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo V, cap 2, 14).

3 e 9- Il 14 agosto 1985 una pattuglia dell’esercito uccise 62 persone, tra cui donne, anziani e bambini, di Accomarca, provincia di Vilcashuamán, Ayacucho (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 15).

4- In seguito a un attacco di Sendero Luminoso contro l’esercito il 13 maggio 1988, ci fu una violenta risposta delle forze armate che nei giorni seguenti, nelle comunità di Cayara, Erusco e Mayopampa, dipartimento di Ayacucho, provocò la morte o la sparizione di 39 persone accusate di far parte della guerriglia (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 27).

5- Il 19 giugno 1986 più di 200 detenuti nel carcere di San Pedro (Lurigancho) e nell’ex carcere di San Juan Bautista sull’isola El Fronton, accusati di terrorismo o già condannati, furono assassinati da agenti dello stato nel contesto di alcuni disordini scoppiati nei penitenziari (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 67).

6- Il Grupo Colina era lo squadrone della morte, costola dei servizi segreti, che operò durante il periodo di governo di Fujimori, catturando, arrestando e assassinando chi fosse sospettato di sovversione (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo III, cap 2, 3).

7- Per Sendero Luminoso, l’università La Cantuta fu la principale fonte di reclutamento e base per la trasmissione della sua ideologia. Nel luglio del 1992 furono sequestrati e uccisi 9 suoi studenti e il professore Hugo Muñoz (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 22).

8- Il 3 novembre 1991 il Grupo Colina assassinò 15 persone (compreso un bimbo di 8 anni) nella zona centrale di Lima, Barrios Altos (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 47).

[*] I personaggi segnati con l’asterisco sono stati tutti, in diversi momenti, intervistati da MC.

 




Sudafrica nello spirito dell’ubuntu


Dopo decenni di apartheid, segregazione razziale e violenze, negli anni ‘90 il Sudafrica si è trovato a gestire la transizione verso un nuovo modello di convivenza. Cosa fare con il fardello del passato? E con i carnefici? Come aiutare le vittime a ricucire la loro dignità? In un contesto in cui la responsabilità dei crimini commessi era condivisa da un’ampia parte della popolazione, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione è stata uno strumento utile, ancorché imperfetto, per progettare un nuovo paese.

Dagli anni Settanta, decine di paesi – dall’Argentina al Sudafrica, dal Perù allo Sri Lanka, da El Salvador a Timor Est – hanno fatto ricorso allo strumento delle «commissioni per la verità» per agevolare la transizione da un’epoca di violazioni dei diritti umani a una di maggiore democrazia. Si tratta di esperienze molto eterogenee che presentano alcuni tratti comuni quali l’esigenza di fare luce sulle violenze perpetrate, di mettere al centro le testimonianze delle vittime. L’obiettivo è quello di promuovere la giustizia e favorire la riconciliazione. La commissione più nota a livello internazionale è, senza dubbio, quella sudafricana, di cui nel 2016 è ricorso il ventennale.

As a car bus behind him, a young South African participates in a civil disturbance outside the Auduza Cemetery.
UN Photo/P Magubane, UN Photo/x

Risanare le ferite

«Noi sosteniamo che esiste un altro tipo di giustizia, la giustizia restitutiva (nell’originale inglese, restorative justice, nda), a cui era improntata la giurisprudenza africana tradizionale. Il nucleo di quella concezione non è la punizione o il castigo. Nello spirito dell’ubuntu (cfr. box qui a destra), fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, ai quali va data l’opportunità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso»1.

Con queste parole Desmond Tutu, arcivescovo anglicano, insignito del premio Nobel per la pace nel 1984, esprime, in maniera magistrale e con l’autorevolezza di chi ha subito in prima persona l’oltraggio dell’apartheid, il cuore della concezione di giustizia propria della Truth and Reconciliation Commission (Trc) sudafricana, lo strumento di cui è stato presidente ideato da alcune eminenti personalità di quella che sarebbe stata definita la «Nazione arcobaleno» allo scopo di fare i conti con la storia d’ingiustizia vissuta dal paese e di gestie la pesante eredità per il futuro.

Un difficile compromesso

La Trc è stata il frutto del difficile compromesso tra due posizioni antitetiche: quella del governo e del National party (Np) che volevano l’amnistia incondizionata per i crimini dell’apartheid, considerati un «errore» da superare, e quella dei movimenti di liberazione nazionale, capeggiati dall’Anc (African national congress, partito di cui Nelson Mandela è stato presidente), che chiedevano l’istituzione di tribunali speciali per l’incriminazione e la condanna dei responsabili del regime di segregazione razziale e delle gravissime offese ai diritti umani che avevano segnato il paese. Ciascuna delle due opzioni (l’amnistia incondizionata o l’istituzione di un tribunale penale internazionale, sul modello di Norimberga) avrebbe, con tutta probabilità, ulteriormente esacerbato il clima d’odio e allontanato la possibilità di cooperazione tra le diverse componenti etniche del Sudafrica.

La Trc è nata da una concezione «rivoluzionaria» del rapporto tra verità e giustizia. L’accertamento della verità, infatti, non doveva essere finalizzato all’attribuzione di una condanna, ma alla concessione del perdono e alla «riparazione» delle persone offese. L’idea era quella che per voltare la pagina del passato, prima si dovesse scriverla e proclamare.

I tre comitati

La Commissione per la verità e la riconciliazione era articolata in tre sottocommissioni.

Il Committee on human rights violations (Comitato sulle violazioni dei diritti umani) aveva il compito di ricevere, analizzare e inserire in un database nazionale le denunce delle violenze subite dalle vittime, e di svolgere le inchieste necessarie ad accertarle. Le persone offese erano invitate a testimoniare nella propria lingua, nel corso delle udienze pubbliche che venivano organizzate in prossimità dei loro luoghi di vita.

Davanti all’Amnesty Committee (il comitato per l’amnistia) i perpetratori – esponenti del regime o suoi avversari, bianchi, neri, meticci – erano chiamati alla «full disclosure of facts» (cioè la rivelazione dettagliata delle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate), indispensabile per l’eventuale concessione dell’amnistia. A questo comitato spettava il compito di verificare che sussistessero le condizioni per la concessione del provvedimento di clemenza, cioè che i crimini «confessati» rientrassero tra quelli previsti dalla Trc (uccisioni e gravi maltrattamenti, torture e rapimenti), che fossero stati effettivamente commessi con finalità politiche tra il 1960 e il 1994 e che la rivelazione di fatti e responsabilità fosse completa. La maggior parte delle domande di amnistia sono state respinte per la mancanza di una di queste condizioni. Sia le udienze dei perpetratori che quelle delle vittime hanno ricevuto grande copertura mediatica.

Infine, il Reparation and rehabilitation committee (il Comitato per la riabilitazione e la riparazione) doveva occuparsi di determinare l’ammontare, la forma e il tipo di riparazione e di risarcimento spettanti a coloro che venivano riconosciuti vittime. Aveva inoltre il compito di indicare al governo le misure necessarie a ottemperare il diritto alla riabilitazione sociale delle vittime.

I numeri di una scelta libera e volontaria

Le vittime che si sono presentate spontaneamente per raccontare le gravi violazioni dei diritti umani subite sono state 22.500. Sono state tra le 1.700 e le 2.500 le persone, appartenenti sia all’Np che all’Anc e agli altri gruppi di liberazione, che hanno chiesto l’amnistia, molte delle quali per più di un reato2. Hanno beneficiato di un provvedimento d’amnistia totale 1.167 richiedenti, d’amnistia parziale 1453.

La scelta di assumersi pubblicamente la responsabilità dei crimini commessi era libera e volontaria, ma coloro che non chiedevano l’amnistia o i cui atti non rientravano nell’ambito di competenza della Commissione (ad esempio non erano stati commessi con una chiara motivazione politica) o la cui «confessione» non era ritenuta completa, sapevano di poter incorrere, in futuro, in un’incriminazione da parte del sistema penale ordinario.

Far emergere la verità

Le amnistie concesse dalla Trc, individualizzate e condizionate, non hanno nulla a che vedere con le amnistie generali adottate da molti paesi latinoamericani al termine dei periodi di dittatura che hanno ostacolato l’accertamento della verità (si veda, ad esempio, il dossier su El Salvador, MC luglio 2014, ndr). In Sudafrica, l’amnistia è stata utilizzata come strumento per favorire l’emersione della verità sul passato.

La concessione dell’amnistia per crimini gravissimi è stata una delle questioni che hanno sollecitato il maggior numero di critiche e su cui gli esperti di diritto internazionale ancora dibattono.

Desmond Tutu, presidente della Commissione, ha risposto così alle critiche di quanti sostenevano che i provvedimenti di clemenza adottati dalla Trc sacrificavano la giustizia e incoraggiavano l’impunità: «Chi chiede l’amnistia deve ammettere di essere responsabile degli atti per i quali chiede di essere amnistiato, e in questo modo viene affrontata la questione dell’impunità. Inoltre, salvo circostanze eccezionali, l’esame della richiesta di amnistia avviene in udienze pubbliche. Chi chiede l’amnistia deve perciò fare le proprie ammissioni alla luce del sole. Proviamo a immaginare cosa significa tutto ciò. Spesso questa è la prima volta che la famiglia di chi presenta la domanda di amnistia, o la comunità a cui appartiene, scopre che quella che in apparenza era una brava persona, era, per esempio, un torturatore incallito, o un membro degli squadroni della morte che assassinarono numerosi oppositori del passato regime. Insomma, c’è un prezzo da pagare, per l’amnistia…»4.

I risultati del lavoro della Trc sono confluiti in un documento finale, i cui primi cinque volumi sono stati pubblicati nel 1998. Il lavoro del comitato per l’amnistia si è protratto per ulteriori due anni, a causa della complessità e della lunghezza dei procedimenti. I due volumi conclusivi del report sono stati pubblicati nel 20033.

La verità collettiva fonda la «Nazione arcobaleno»

Nella visione di Mandela, Tutu, Boraine e delle altre anime della Trc, il truth telling, il racconto della verità, la centralità della narrazione delle vittime e dei rei, costituiva non solo lo strumento per concedere gli indennizzi alle prime e le amnistie ai secondi, ma anche la via per costruire uno shared sense of the past (un comune senso del passato) che avrebbe contribuito alla nascita della nuova nazione sudafricana.

La verità personale (che, provenendo dalla memoria del singolo individuo – vittima o reo -, è costitutivamente condizionata dall’elaborazione emozionale e razionale condotta negli anni e dalla prospetticità e selettività dei meccanismi del ricordo), dopo essere stata a lungo «incarcerata» nell’intimo sofferente delle vittime e nella coscienza dei perpetrators (dei responsabili), poteva finalmente trovare sfogo e ascolto davanti alla Commissione. La narrazione comunitaria delle esperienze dei singoli, unita alle indagini svolte e alle prove raccolte per una ricostruzione il più possibile fedele di quanto accaduto, avrebbe permesso la genesi di una verità collettiva, sociale, ampia, da approfondire ulteriormente e da tramandare alle successive generazioni.

I leader politici sudafricani hanno intuito che solo «facendo i conti» con la storia e con la sua eredità – attraverso la ricostruzione pubblica del contesto storico-politico in cui l’apartheid era stato concepito e applicato, l’accertamento della verità fattuale dei singoli episodi criminosi che rientravano nel mandato della Trc, la fiducia nella «verità narrativa» della popolazione e l’audacia del perdono – sarebbe stato possibile gettare le fondamenta di una nuova entità collettiva, la Raimbow Nation, la quale, auspicavano, avrebbe contenuto in sé le garanzie di non ripetizione del passato.

Giustizia dell’incontro

La dimensione collettiva della risposta alla domanda di giustizia per il sanguinoso passato si è giocata anche nella scelta di dare la priorità all’incontro faccia a faccia tra le vittime e i perpetrators, piuttosto che alla celebrazione dei processi penali, durante i quali le persone offese notoriamente rivestono un ruolo di minima importanza. La celebrazione di udienze pubbliche, infatti, non solo favoriva il coinvolgimento attivo dell’intera comunità ma, fatto altrettanto, se non più importante, permetteva l’incontro (sempre libero e volontario) tra le vittime e i responsabili, diretti o indiretti, dei crimini. Trovarsi di fronte al carnefice, ascoltare le sue spiegazioni, interrogarlo, accusarlo, essere finalmente liberi di dirgli (o urlargli) il proprio dolore ha potuto, almeno in alcuni casi, aiutare le vittime a ridurre la rabbia, «ri-umanizzare» il nemico, incamminarsi sulla via della «guarigione» e, a volte, a intraprendere la via del perdono.

Per il reo, l’incontro con la vittima ha costituito un’occasione unica per entrare in contatto con il dolore causato, prendee coscienza (cosa che la giustizia retributiva del sistema penale non favorisce) e per aprirsi alla richiesta del perdono e alla riparazione.

A vent’anni dalla sua istituzione

A vent’anni di distanza dalla sua istituzione, le opinioni sulla Trc sono discordi. Essa è stata oggetto di numerose critiche, che ne hanno messo in luce difficoltà, problematicità e obiettivi mancati. Ad esempio, è stata giustamente stigmatizzata l’insufficienza delle riparazioni di cui le vittime hanno potuto effettivamente beneficiare.

A nostro avviso, le innegabili e inevitabili criticità nulla tolgono al coraggio di una nazione che, guidata da vittime esemplari quali Mandela e Tutu, ma non solo loro, ha saputo prediligere il dialogo e il perdono rispetto alla vendetta, l’unità rispetto alla separazione, la verità rispetto all’oblio.

Annalisa Zamburlini


Note

  1. D. Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001, p. 46 e p. 32.
  2. A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, Il Mulino, Bologna 2005, p. 190.
  3. P. B. Hayner, Unspeakable truths: transitional justice and the challenge of truth commissions, Routledge, New York-London 2011, p. 30.
  4. D. Tutu, Prefazione, in M. Flores (a cura di), Verità senza vendetta: l’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Manifestolibri, Roma 1999, p. 72.

Archivio MC

Sulla giustizia riparativa si vedano i dossier Giustizia riparativa. Rispondere ai delitti senza commettee altri, MC dicembre 2013, a cura di Luca Lorusso, e Un grido stanco ma tenace. El Salvador: dai massacri alla domanda di giustizia, MC luglio 2014 a firma di Annalisa Zamburlini.

Riferimenti bibliografici

  • A. Ceretti, Riparazione, riconciliazione, Ubuntu, amnistia, perdono. Alcune brevi riflessioni intorno alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana, in «Ars Interpretandi», 9 (2004), pp. 47-68.
  • A. Ceretti, Per una convergenza di sguardi, in Bertagna G., Ceretti A., Mazzucato C. (a cura di), Il libro dell’incontro, Il Saggiatore, Milano 2015, pp. 219 -250.
  • M. Flores, Verità senza vendetta, op. cit.
  • B. Hayner, Unspeakable truths, op. cit.
  • É. Jaudel, Giustizia senza punizione. Le commissioni Verità e Riconciliazione, trad. it. di G. Prucca, ObarraO Edizioni, Milano 2010.
  • A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione, op. cit.
  • C. Villa-Vicencio, Vivere sulla scia della Commissione per la verità e la riconciliazione del Sud Africa. Una riflessione retroattiva, in Flores M. (a cura di), Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 278-292.

La serie

Dagli anni Settanta, l’esperienza delle Commissioni per le verità si è diffusa in tutto il mondo con lo scopo di offrire ai singoli paesi interessati da un conflitto (spesso molto violento) un percorso di giustizia non solo punitiva, ma che tenga conto delle esigenze di verità delle vittime e che aiuti la transizione verso la pace sociale. Le esperienze sono molte, ciascuna con le sue specificità. Con questa serie di articoli a esse dedicati vogliamo conoscee alcune.

La prossima puntata, firmata da Wilfredo Ardito, professore di diritto ed esperto di diritti umani, riguarderà la Commissione del Perù.


Cenni alla storia del regime di apartheid

The bench is empty but this young black woman in a Johannesburg railway station would be breaking the law if she sat on it. There has been much talk recently about desegregating racially segregated public facilities. The reality defies the rhetoric. 1/Jan/1982. UN Photo/DB. www.unmultimedia.org/photo/

Le radici del conflitto che ha insanguinato il Sudafrica risalgono alla fine del XV secolo, quando un piccolo gruppo di portoghesi si insediò sul Capo. Seguì, nei secoli successivi, il colonialismo olandese e inglese, che portò all’affermazione dello strapotere dei bianchi sulla popolazione nera.

Nel 1910, l’allentamento delle tensioni tra inglesi e boeri (o afrikaner, contadini discendenti dai coloni olandesi), permise la costituzione dell’Unione Sudafricana, dotata di autonomia governativa, in cui il potere economico e politico risiedeva nelle mani dei bianchi (un milione e 250mila circa), in maggioranza afrikaner. La popolazione nera (quattro milioni e 500mila persone circa) fu gradualmente privata dei pochi diritti di cui ancora godeva. Per difendere le prerogative della popolazione nativa fu costituito nel 1912 l’African national congress (Anc), che non poté però impedire l’anno seguente l’approvazione di una legge che vietava ai neri l’acquisto di terre al di fuori delle riserve nelle quali essi erano stati confinati. Appena migliori erano infine le condizioni riservate ai circa 500mila coloureds (meticci) e ai quasi 200mila asiatici, in maggioranza indiani, immigrati nel corso del XIX secolo.

Nel secondo dopoguerra, il razzismo fu istituzionalizzato nell’apartheid, un feroce regime di segregazione razziale e di spoliazione dei diritti civili e politici, adottato dal governo – era in carica il National party (Np) – ai danni dei cittadini neri del Sudafrica e della Namibia, fino al 1990 amministrata dal Sudafrica.

A partire dagli anni ’60, non solo vi erano luoghi pubblici, autobus e professioni differenziati per i neri e per i bianchi, ma fu avviata la costruzione di ghetti per le singole etnie africane (i cosiddetti bantustans), dotati di autogoverno e destinati a diventare indipendenti (i loro abitanti quindi privati della cittadinanza sudafricana).

Nel 1960 l’African national congress (Anc) e il Pan africanist congress (Pac), partiti a difesa dei diritti della maggioranza nera della popolazione, furono messi al bando. Come risposta, essi abbandonarono la lotta nonviolenta che avevano appreso dall’esperienza gandhiana e utilizzato fino ad allora, e intrapresero una lotta armata che condusse all’arresto, tra gli altri, del leader dell’Anc, Nelson Mandela, nel 1962.

L’apartheid fu ripetutamente condannato e sanzionato dall’Organizzazione dell’Unità Africana, dall’Onu e dai membri afroasiatici del Commonwealth, dal quale il Sudafrica uscì nel 1961, proclamando la repubblica.

Dopo trent’anni di violenze, a fronte di una situazione economica sempre più precaria a causa degli elevati costi della politica di repressione e per gli effetti delle sanzioni economiche inteazionali, il presidente della Repubblica Frederik Willem de Klerk, eletto nel 1989, avviò i negoziati.

L’11 febbraio 1990 Nelson Mandela, leader dell’Anc, fu scarcerato dopo 27 anni di detenzione.

Il Goveo decretò la fine del bando nei confronti dei partiti d’opposizione e l’Anc e il Pac poterono partecipare ai lavori per la stesura di una nuova Costituzione. Il sistema giuridico-normativo dell’apartheid fu abolito e furono indette tre assemblee multipartitiche, durante l’ultima delle quali – nonostante le resistenze opposte dalle formazioni più estremiste di entrambi gli schieramenti – fu adottata la Costituzione Transitoria (1993).

Nella stessa sede fu affrontata la questione riguardante la domanda di giustizia che emergeva dal periodo storico e politico che si stava chiudendo. Le decisioni riguardanti il modo di affrontare l’eredità del passato, e in particolare la creazione della Truth and Reconciliation Commission (Trc), furono formalmente incorporate sia nel testo della Costituzione Transitoria che nella Costituzione definitiva, che fu adottata dall’Assemblea Costituente nel 1996.

Pietra miliare del cammino del nuovo Sudafrica furono le prime elezioni democratiche multirazziali, svoltesi nel 1994, che portarono alla nomina del primo presidente nero, Nelson Mandela, insignito l’anno precedente del Premio Nobel per la pace insieme all’ultimo presidente bianco, De Klerk, per aver evitato che il paese precipitasse nella guerra civile.

Mandela guidò un governo di coalizione formato dall’Anc, dal Np di de Klerk e dal Partito della libertà, espressione dell’etnia zulu. Dopo l’entrata in vigore della nuova costituzione, il National party si ritirò dal governo, per assumere il suo ruolo democratico di partito d’opposizione.

A.Z.


Io sono perché noi siamo

«Ubuntu […] è una parola che riguarda l’intima essenza dell’uomo. Quando vogliamo lodare grandemente qualcuno, diciamo: “Yu, u nobuntu”, “il tale ha ubuntu”. Ciò significa che la persona in questione è generosa, accogliente, benevola, sollecita, compassionevole; che condivide quello che ha. È come dire: “La mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua”. Facciamo parte dello stesso fascio di vita. Noi diciamo: “Una persona è tale attraverso altre persone”. Non ci concepiamo nei termini “penso dunque sono”, bensì: “Io sono umano perché appartengo, partecipo, condivido”. Una persona che ha ubuntu è aperta e disponibile verso gli altri, riconosce agli altri il loro valore, non si sente minacciata dal fatto che gli altri siano buoni o bravi, perché ha una giusta stima di sé che le deriva dalla coscienza di appartenere a un insieme più vasto, e quindi si sente sminuita quando gli altri vengono sminuiti o umiliati, quando gli altri vengono torturati e oppressi, o trattati come se fossero inferiori a ciò che sono»1.

(Desmond Tutu)


Il mio Dio sovversivo

libro-tutu_resizeIl libro di Desmond Tutu pubblicato nel 2015 dall’Emi è un piccolo e intenso viaggio nel cuore della concezione di giustizia dell’arcivescovo anglicano di Città del Capo. Il premio Nobel per la pace del 1984, presidente della Trc, con uno stile sobrio e lineare parla del fondamento della sua idea di società, della sua battaglia per un paese e un mondo più giusto: il Creatore che ha fatto l’uomo a sua immagine, un Dio che si comunica con una forza speciale, «sovversiva», tramite la Parola e tramite coloro che nella storia sono stati e sono tutt’ora capaci di propoe la disarmata e irresistibile forza di capovolgimento.

«Bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già – esordisce Tutu nell’incipit del volume -. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. “Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: ‘preghiamo!’. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: ‘Amen’. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia”. […] Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. […] Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. […] Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, figli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta […] non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore».

«Il mio Dio sovversivo» è un testo capace di andare, in poche pagine e con semplicità, al centro delle questioni fondamentali della vita individuale e sociale. Tutu ci parla di un Dio sovversivo che si manifesta all’umanità per dire a ciascuno che ogni uomo è uomo in quanto legato ad altri uomini; che ama ogni uomo come se ciascuno fosse l’unico ad essere stato creato; che Lui è un Dio di parte, schierato con l’umanità; che tutto ciò che ci offre non lo possiamo in alcun modo guadagnare, perché tutto è grazia, a prescindere da qualsiasi merito o demerito; e che, come tutto all’inizio è originato da Dio, tutto alla fine convergerà a Dio, «anche Satana […] perché neppure lui potrà resistere all’attrazione dell’amore divino; e allora Dio sarà davvero tutto in tutti».

Luca Lorusso




Cari missionari

Giustizialismo e furbetti

Dinnanzi a coloro che usano la parola «giustizialismo» i giudici hanno uno spettro di reazioni che va dall’arricciamento di naso all’indignazione profonda. Sicuramente anche il giudice Caselli (cfr. MC. 7/2016 p. 33) è tra coloro che non vanno matti per questa parola.

Per quanto mi riguarda, perplessità e disagi ancora più grandi me li creano anche la parola «furbate», la parola «furbetti» e certi complementi di specificazione che molti cultori della legalità o sedicenti tali, hanno preso l’abitudine di aggregare a queste parole. La domanda che vorrei porre è questa: i giudici del caso Tortora, che invece di chiedere scusa, invece di essere biasimati e di pagare per i grossolani e catastrofici errori compiuti, hanno fatto – grazie ad altri uomini di legge -, tutti quanti, una carriera da Mille e una notte, vogliamo definirli dei fedeli e integerrimi servitori dello stato?

Se è vero che la lotta contro i furbetti del quartierino, i furbetti dello scontrino, i furbetti del cartellino, deve continuare perché rappresenta un pezzo importante della lotta contro la corruzione, non è altrettanto vero che anche i furbetti del verbalino, i furbetti del bilancino, i furbetti del bisognino, dovrebbero essere adeguatamente sanzionati e condannati a restituire il maltolto? Siete sicuri che il vigile urbano beccato a timbrare in mutande sia più colpevole dei colleghi che, per far cassa e carriera, multano (e a volte ammazzano) i disabili, multano i veri invalidi, multano i senzatetto e il possesso del cartone da essi utilizzato come giaciglio per la notte?

Chi è più sporco, chi è più corrotto? Il soggetto che, in mancanza di meglio, fa un goccio di pipì dietro il cespuglio o i poliziotti che gli fanno la posta (o stalking?) per affibbiargli cinquemila euro di contravvenzione?

Vi sembra degno di un paese democratico e di una nazione civile – e qui mi rivolgo anche al giudice Caselli – che chi reagisce a tutto ciò dicendo «vergogna», dicendo «smettete di dir bugie», dicendo «smettete di mettere l’etica professionale dietro le esigenze di bilancio» debba beccarsi una condanna penale per oltraggio a pubblico ufficiale?

Distinti saluti.

Bartolomeo Valnigri
22/07/2016

Quello che lei dice purtroppo si basa sull’esperienza quotidiana. Ed è un fenomeno che ha radici antichissime, se anche un profeta come Isaia sentiva il bisogno di stigmatizzare con parole molto forti la corruzione dei potenti e di chi è in autorità: «I tuoi capi sono ribelli e complici di ladri; tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge» (Is 1,23).

In questi anni, osservando certi stati africani, ho visto con tristezza il dilagare della corruzione, accelerata proprio dal cattivo esempio di chi è ai posti più alti del governo. Qui da noi, la disaffezione crescente verso la politica e i politici è aumentata esponenzialmente con il crescere della corruzione nei loro ranghi. Ma il rischio più grosso è che si perda il senso di quello che è giusto, il senso del dovere e della responsabilità sociale e che il cattivo esempio dei «grandi» diventi giustificazione per comportarsi male come loro.

È bello invece che rimangano delle persone, indipendentemente dalla categoria cui appartengono, che sono ancora capaci di avere un pensiero critico e autocritico e hanno il coraggio di dire la verità, anche quando è scomoda. Guai a noi se ci rassegnassimo perché «tutti sono corrotti».

Accoglienza

Egregio Padre,
ho letto il suo commento al mio scritto che avete pubblicato in MC 10/2016 con titolo «Tempo di crisi». Segno che l’argomento trattato è tuttora pressante. Dice, giustamente, che è spesso affrontato in termini fuorvianti. Certi commenti, come quelli da lei citati, sono il prodotto di ignoranza ed egoismo, tuttavia ciò, spesso, ha radici nel caos della gestione di una immigrazione di massa fuori controllo, con illegalità a tutti i livelli. Innanzitutto i nuovi schiavisti che gestiscono l’immondo commercio umano che le autorità di qualsiasi istituzione politica sociale o religiosa si guardano bene dal contrastare. Non è da molto che abbiamo smesso di criminalizzare gli schiavisti dei secoli passati mentre ora «tolleriamo» vergognosamente quelli attuali. Ciò ha generato migliaia di morti (solo quest’anno l’Onu dice che sono già 3.800 tra morti e dispersi).

L’accettazione indiscriminata senza regole spesso è fonte di comportamenti illegali da parte di questi «ospiti». Quasi ogni giorno viene violata la regola di ospitalità con comportamenti delinquenziali fino all’assassinio. Pertanto dire semplicemente: «Accoglienza accoglienza», senza regole, non fa che renderci complici, anche se indirettamente, di quelle migliaia di poveri esseri in fuga che sperando in una vita più degna di essere vissuta finiscono in fondo al Mediterraneo oltre a subire maltrattamenti e violenze durante le «trasferte» prima dell’imbarco, a cui si aggiunge il sospetto fondato del traffico di organi.

Questa «complicità», che viene tollerata per non offendere i buonisti a tutti i costi, fa pensare al pattume che si vuole nascondere sotto il tappetto. Purtroppo è verità scomoda e graffiante. Però la verità non fa sconti a nessuno. Mai. Come liquidare semplicemente per populismo la pressante richiesta di severe regole di ospitalità? Persino una signora di colore africana giunta anni fa in Italia ha detto recentemente durante una trasmissione televisiva «voi italiani siete bravi, mi avete accolto con amore, mi avete aiutato, ma ora con tutti quegli arrivi state esagerando». Anche lei populista allora?

Molto criticate le barriere anti immigrati in vari paesi. Certo. La causa principale è frutto della mancanza di regole che nessuno intende far applicare. Se in Europa ci fossero regole che a ogni manifestazione di insofferenza o peggio delinquenza l’immigrato venisse espulso non sarebbero necessarie barriere. Tutti populisti quelli che vogliono regole?

Persino Papa Francesco ha fruito di regole portandosi a casa dall’isola di Lesbo 12 migranti con passaporto, e (dicono alcuni giornali) con il visto per l’espatrio, mentre sulle nostre coste arrivano quasi tutti senza documenti. Populista anche lui?

Angelo Brugnoni
Daverio (VA), 02/11/2016

Continuiamo allora il dialogo iniziato su queste pagine lo scorso ottobre. Aggiorno solo la triste statistica dei morti nel Mediterraneo: 4.420 al 3/11/2016.

Comportamenti illegali e furbizie dei migranti.

Pochi giorni fa un amico mi raccontava, tra lo stizzito e il rattristato, di aver assistito a un corso di formazione per migranti nel quale 9 su 10 chattavano imperterriti sul cellulare invece di seguire la lezione. Altri amici mi hanno invece invitato ad andare a vedere un certo orto di cavoli ridotto peggio di quello, famoso, di Renzo.

Se uno volesse fare la lista di tutte le negatività nel comportamento dei migranti accolti in Italia, potrebbe scrivere un libro per la gioia di chi li considera semplicemente un problema e un pericolo.

Non sono un esperto in materia, ma credo che ci siano due ragioni fondamentali alla base dei comportamenti negativi: la prima è che molti di loro non vogliono stabilirsi in Italia, la seconda è che non si fidano degli operatori che incontrano. Senza la fiducia la relazione che ne risulta è quella di «guardie e ladri». Fare finta di non vedere queste situazioni difficili («buonismo»?) o vedere solo le situazioni negative («populismo»?) non aiuta né le persone che vogliamo accogliere né noi stessi.

Regole.

Se «buonismo» è chiudere gli occhi e dire «poverini loro», trattandoli patealisticamente e quasi con un senso di colpa, allora sono d’accordo a condannarlo. Ma neppure il moltiplicare le regole serve a molto. Anzi, più regole ci sono, più diminuisce la responsabilità e la libertà.

Avendo vissuto per molti anni in Africa, ho notato con preoccupazione come proprio in Europa si stia uccidendo la libertà, il buon senso e la responsabilità con un moltiplicarsi infinito di regolamenti su ogni cosa: dai cibi al commercio, dalla sanità all’etica, dalla famiglia al lavoro … Regolamenti che diventano poi così intricati da permettere ai furbi di abusae.

Detto questo, so bene che tra i rifugiati e migranti ci sono quelli che pensano di avere solo diritti e niente doveri, e anche coloro che sono arrabbiati con tutto il mondo (chi non lo sarebbe dopo aver passato quello che molti di loro hanno dovuto subire?). So anche che c’è chi crea nei migranti aspettative sproporzionate e fomenta i loro sospetti e diffidenze nei confronti di chiunque li voglia aiutare. Lo stesso succede anche per i cittadini dei luoghi di accoglienza. La strumentalizzazione politica in questo campo è ben nota.

L’accoglienza, complicata dal numero crescente dei migranti e rifugiati, è una realtà oggettivamente difficile da gestire. Per questo mi viene da chiedere se tutto il personale impiegato dalle moltissime cornoperative e onlus che con generosità si occupano di accoglienza, sia davvero all’altezza del delicato servizio che è chiamato a rendere e abbia ricevuto una formazione adeguata per diventare autorevole interlocutore di chi è nel bisogno.

Le regole ci sono, è importante osservarle e farle osservare, con fermezza sì, ma non con la forza, la paura o le botte (come ha denunciato recentemente Amnesty Inteational), piuttosto con persuasione, accompagnamento, formazione e necessaria autorevolezza.

Ricordo una storia contadina che ho sentito da bambino quando ancora si arava con l’aratro trainato dai buoi. C’erano quattro fratelli che, prestissimo al mattino, uscivano ad arare con un aratro trainato da due coppie di buoi. Tre di loro uscivano insieme, uno all’aratro e uno ciascuno per ogni coppia di buoi usando sempre urla e botte per farsi obbedire. Invece il quarto fratello usciva da solo per fare lo stesso lavoro, senza urla e senza pungolo. Il segreto? I tre fratelli si alzavano all’ultimo minuto e andavano subito fuori nei campi ad arare. Il quarto invece si alzava un’ora prima, nutriva e abbeverava bene i buoi e poi usciva ad arare, e gli bastava la voce per farsi obbedire.

Forse questa parabola c’entra poco, ma se invece di trattare i «miranti e rifugiati» come una categoria aliena e problematica, cominciassimo a considerarli semplicemente persone e a stabilire con loro rapporti «umani», faccia a faccia, forse sarebbe meglio per tutti. È la differenza tra chi erige barricate contro il «nemico» e chi improvvisa una festa di paese per il «fratello».

Probabilmente chi è trattato da «persona» è più disponibile a rispettare le regole di chi invece è trattato come un numero, un problema, un nemico.

Nel nostro paese, accanto a episodi negativi che finiscono facilmente in prima pagina – soprattutto quando servono agli interessi elettorali di alcuni -, abbiamo una marea di esperienze positive – vissute da persone normali – di cui si parla poco o niente, ma che sono la vera risposta «buona» a un dramma che è più grande di noi e di cui non si vede ancora la fine.

Fondamentalisti

Spett. redazione,
in merito alla risposta (il riferimento è a MC 7/2016 p. 5) vorrei fare alcune osservazioni. Definire fondamentalisti cristiani quelli che non riconoscono il papa è proprio degno di chi pensa di avere la verità in tasca come i cattolici. Fin dai primordi i padri fondatori del cristianesimo infischiandosene del detto: ama il tuo nemico, hanno creato apostati, eretici, hanno perseguitato e ucciso ebrei, pagani distruggendo i loro templi, streghe con una ferocia veramente paragonabile o anche superiore alle torture di oggi compiute da altri fondamentalisti, che sono soltanto assassini con una scusante religiosa, come lo erano gli inquisitori e persecutori del passato, non troppo passato. Pio IX applicava la pena di morte come gli altri papi ordinando di impiccare senza alcun rimorso. Inoltre molto prima delle multinazionali il Congo è stato terra di traffico di schiavi da parte dei gesuiti (ne possedevano12.000 nel 1666 così come i benedettini in Brasile fino al 1864). In Congo poi i belgi del cattolicissimo Leopoldo hanno creato uno sfruttamento superiore ad ogni concezione umana. Per i congolesi però nessun digiuno, come per i ruandesi o i vietnamiti. Come vede ogni setta ha la sua parte di orrori, come le ideologie e ogni credo. Che i sauditi abbiano fatto cadere i dittatori tolleranti è un fatto, e che siano amici di gruppi finanziari americani altrettanto, ma sono sempre le singole persone che compiono gli atti quindi loro vanno punite e non i libri da cui traggono idee. Non possiamo incolpare satana dei crimini umani visto che non si può arrestare come mandante, o no? Speriamo che in America vinca un pacifista che la smetta di impicciarsi del mondo e non un’ipocrita incapace di fare il segretario di stato. Come se la cava il cattolico Kerry per i conflitti in Africa? O se ne frega come tutti, tranne i sinceri missionari e volontari? La saluto cordialmente.

Luna verde
30/07/2016

Facciamo un’eccezione pubblicando una email anonima. Ecco alcune precisazioni.

Schiavi. Può darsi che i gesuiti avessero schiavi, ma certamente non in Congo (allora Regno del Congo) che era riservato ai frati Cappuccini.

I fondamentalisti cristiani non sono tali perché «non riconoscono il papa». Ci guardiamo bene dal considerare fondamentalisti gli Ortodossi, gli Anglicani, i Luterani, e via dicendo. Ma ci sono cristiani che sono fondamentalisti, nel mondo protestante, come anche in quello cattolico. L’enciclopedia Treccani così definisce il fondamentalismo: «Denominazione, sorta in ambito cristiano negli Stati Uniti agli inizi del 20° sec., ed estesa poi alle due altre religioni monoteiste, ebraica e musulmana, per indicare genericamente i movimenti, dapprima religiosi e culturali, poi anche sociali e politici, che, opponendosi a qualsiasi interpretazione evolutiva dei propri principi originari e fondamentali, ne propongono un’applicazione rigorosa negli ordinamenti attuali».

Verità in tasca e nefandezze varie.
Mi pare che i Cattolici abbiano cercato di imparare dai loro errori e che siano tra i pochi che abbiano chiesto perdono delle ingiustizie da essi perpetrate in nome della religione. Ha iniziato il Concilio Vaticano II, e papa Giovanni Paolo II e papa Francesco ne hanno continuato il cammino con coraggio. Mi sembra pretestuoso continuare ad andare a rivangare storie di secoli fa per togliere autorità morale oggi a chi cerca, senza nascondere un suo passato di errori, di vivere con coerenza il messaggio più originale e profondo del Libro (o dei «Libri» della Bibbia). Tenendo poi conto che questa testimonianza di amore, servizio e dialogo è stata pagata con oltre 100mila martiri nel solo XX secolo.

Quando queste righe saranno carta stampata sapremo già da un po’ chi ha vinto tra la Clinton e Trump (di fronte ai quali viene proprio da chiedersi cosa è successo agli Usa da essersi ridotti ad avere due candidati così). Ma definire Trump un pacifista, mi sembra proprio fuori luogo, anche solo per le simpatie che ha per Putin e il sostegno che riceve dalla lobby delle armi.

Bestemmie

Gentile redazione,
da parecchi anni si è notato un aumento di caccia a coloro che bestemmiano: non tanto nei nostri ambiti cristiani ma più da parte dell’Islam, ciò che conduce al sacrificio della vita stessa di coloro che non sanno difendersi e porre una adeguata spiegazione a titolo di scusa davanti ad enti competenti ed accusanti.

Dopo tanto tempo di riflessione, penso che la bestemmia, interpretata come offesa alla divinità, non può esistere: essa è indiscutibilmente nata come grido di aiuto rivolto a Dio, che poi è entrata in usanza come insulto. Ma come si può offendere la divinità? Può l’essere umano fare ciò? Come potrebbe essere giunto a tale idea? Assolutamente impossibile, per me è il grido a Dio di aiuto che aspetta ciò di cui più non riesce a rinunciare. La nostra religione cristiana per questo neppure ci condanna se chiediamo perdono, ma per i credenti dell’Islam è prevista perfino la pena mortale. Penso che si possa iniziare una ricerca atta a fare luce sulle origini della bestemmia. Distinti saluti, un vecchio lettore.

Gabriele Azzolini
21/10/2016

Non penso che la bestemmia sia nata come come «grido di aiuto», piuttosto come insulto e ribellione agli dei di un altro popolo (sia occupante e invasore o ritenuto inferiore al proprio). È infatti interessante che la bestemmia – come la intendiamo noi – non esista in mezzo ai popoli africani o altri popoli indigeni.

Che l’Antico Testamento e l’Islam abbiano sentito il bisogno di punire con la morte la bestemmia, è comprensibile se si guarda alla storia fatta di guerre di offesa e di difesa, combattute nel nome del proprio Dio quando non c’era distinzione tra sfera politica e quella religiosa.

Che poi Dio sia davvero offeso da una bestemmia è poco probabile. Parlare di «offesa» è un modo di dire nostro. Quando a metà ottobre, fermo ad un semaforo, ho sentito un motociclista snocciolare a gran voce le bestemmie più fiorite, non ho pensato che Dio fosse offeso da tanta stupidità – ero io a sentirmi offeso! -, piuttosto che provasse tanta pena per quella persona. Non sono le parole che offendono Dio, ma quello che c’è nel cuore delle persone, soprattutto quando ostinatamente rifiutano la sua logica di amore e si sentono realizzati nella loro rabbia, nella loro violenza e nel materialismo più egoista.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2148 scrive: «La bestemmia […] consiste nel proferire contro Dio – interiormente o esteriormente – parole di odio, di rimprovero, di sfida, nel parlare male di Dio, nel mancare di rispetto verso di lui nei propositi, nell’abusare del nome di Dio. […] È blasfemo anche ricorrere al nome di Dio per mascherare pratiche criminali, ridurre popoli in schiavitù, torturare o mettere a morte». Lo stesso vale per l’uso del nome di Dio per scopi di magia (n. 2149) o per giurare il falso (n. 2050).

Un super like

Io sono comunista e non credente, ma nella vostra pagina e nella vostra rivista ho trovato molto di buono. Ad esempio, tutto ciò che riguarda l’Africa. E se siete riusciti a piacere a un comunista, sempre acerrimo critico verso le gerarchie cattoliche, come potete non piacere a chi è credente e cattolico?

Salvatore T.
su FB il 21/10/2017

Sulla nostra pagina Facebook (www.facebook/missioniconsolata) c’era questo commento in risposta alla nostra richiesta di mettere un like e superare la soglia dei 4.000. Con oltre 47.000 copie distribuite in Italia e nel mondo, dovremmo poter andare oltre i 10.000 presto! Metti il tuo like!

 




Il paradiso non può attendere


Il meccanismo dell’elusione fiscale spesso non è illegale. Ma si basa su manipolazioni, società di comodo e corruzione. E soprattutto colpisce gli onesti e priva le casse pubbliche di denaro necessario a pagare i servizi essenziali per tutti.

Neppure la donna più potente del mondo sa come risolvere il problema, per questo ha chiesto aiuto a una Ong, così alla vigilia della conferenza internazionale contro la corruzione, che si è svolta a Londra lo scorso maggio, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, ha convocato Winny Byanyima, africana, presidente di Oxfam Inteational, per discutere del più grave e inestricabile nodo del sistema economico mondiale: i paradisi fiscali.

Si calcola che individui e imprese nascondano nei territori off shore qualcosa come 7.600 miliardi di dollari, che, secondo uno studio pubblicato dal quotidiano francese Le Monde, provengono per 2.600 miliardi dall’Europa, 1.200 dagli Stati Uniti, 300 dal Canada, 200 dalla Russia, 1.300 dall’Asia, 800 dai paesi del Golfo, 700 dall’America Latina e 500 dall’Africa. Denaro che sfugge, più o meno legalmente, alle imposizioni fiscali degli stati, ricchezza rubata alla collettività dei paesi, dove i profitti e i redditi sono creati anche grazie alle infrastrutture e ai servizi pagati dai cittadini onesti.

Basterebbe il 5 % di una tale somma per sfamare gli affamati, garantire un’istruzione a tutti i bambini del mondo, curare tutti i malati, assicurare un reddito alle donne, depurare suolo e acque inquinati, fornire energia anche ai luoghi più sperduti, insomma attuare quell’agenda per lo sviluppo che le Nazioni Unite invocano dall’inizio del Millennio.

Sono soprattutto le grandi imprese, consigliate da studi legali ricompensati profumatamente, che eludono il fisco attraverso varie pratiche: dichiarazioni dei redditi manipolate, creazione di società di comodo, adozione del trasfer pricing. Politiche queste, di trasferimento dei prezzi tra filiali e consociate con sede in paesi diversi, come le vendite di prodotti a prezzi inferiori nei paradisi fiscali e la successiva esportazione verso i paesi di destinazione a prezzi maggiorati.

In molti casi si ricorre alla corruzione dei funzionari pubblici e si comprano informazioni da politici compiacenti. Racconta il quotidiano The Guardian che l’impresa britannica Heritage Oli&Gas Ltd, che ha sostenuto la campagna elettorale di David Cameron, avvisata che l’Uganda stava per incrementare il prelievo fiscale sui profitti petroliferi si è precipitata a ridomiciliare la società nelle isole Mauritius, un paradiso fiscale che non ha sottoscritto con il governo ugandese l’accordo sulla doppia imposizione; con questa mossa astuta ha evitato di pagare 400 milioni di dollari in più, una cifra che corrisponde a quello che il governo dell’Uganda spende annualmente per la sanità.

Non siamo rimasti particolarmente scioccati dalla vicenda dei Panama Papers. Le informazioni diffuse dall’Inteational Consortium of Investigative Joualists, ribadiscono semplicemente che ci sono tanti furbi, più o meno famosi, nel mondo della politica, delle banche, delle imprese, dello sport e dello spettacolo che, per non pagare le tasse, trasferiscono i loro beni in paesi dal fisco inesistente o molto malleabile. Molti dei casi scoperti non sono illegali (è questo forse il vero scandalo), ciononostante l’elusione fiscale è davvero deleteria: colpisce i contribuenti onesti, crea svantaggi competitivi per le piccole e medie imprese e priva le casse pubbliche del denaro per pagare i servizi essenziali. La fuga dei capitali inoltre è particolarmente odiosa quando colpisce i paesi poveri: nei Panama Papers troviamo anche il nome di Aliko Fangote che, secondo la rivista Forbes, è l’uomo più ricco dell’intera Africa, grazie alle sue innumerevoli attività produttive e commerciali che lucrano sulle preziose materie prime africane. Da oltre trent’anni, da quando era al potere il presidente americano Ronald Reagan, ostile a qualsiasi regolamentazione, l’Ocse sta studiando il modo per arginare il fenomeno dei paradisi fiscali e ha redatto liste nere e grigie che comprendono oggi 38 paesi distribuiti nei vari continenti. Ne fanno parte piccole isole come Tonga e le Cayman, ma anche stati come il Delaware (Usa), che ha meno di 1 milione di abitanti ma ospita la sede legale di 1 milione e 100 mila società.

La Commissione europea ha cercato di introdurre dei meccanismi di trasparenza per impedire l’elusione fiscale da parte delle multinazionali. Lo scorso 12 aprile ha definito che solo le corporations con un fatturato annuo superiore ai 750 milioni di euro (rimangono escluse l’80% delle imprese) devono presentare una rendicontazione finanziaria paese per paese, e solo all’interno dei confini della Ue, in altre parole non saranno obbligate a raccontare nulla sui profitti maturati nei paesi extracomunitari.




Con le mani sporche come niente fosse


In Italia, più le indagini giudiziarie si moltiplicano, più politica e magistratura sono in conflitto. Il problema di fondo è il persistere e l’aggravarsi della «questione morale»: corruzione, partiti come lobby d’affari, clientelismo, conflitti d’interesse, collusioni mafiose. Nel nostro paese trascorrono gli anni, ma le mani sporche rimangono una consuetudine. In più, sullo sfondo, c’è il dibattito attorno alla riforma della Costituzione. Sulla quale i magistrati hanno il sacrosanto diritto di esprimere la propria opinione.

Politica e magistratura. Un tema che è più di un fiume carsico: sembra essere un’inesauribile ondata di piena. Negli ultimi mesi alimentata da alcune dichiarazioni del premier Matteo Renzi e di Pier Camillo Davigo (dall’aprile 2016 neo presidente della Anm, l’Associazione nazionale magistrati). Lo scenario di fondo è costituito dalle numerose indagini per fatti di corruzione e dintorni che vari uffici giudiziari stanno svolgendo.

Davigo ha il merito di aver riproposto all’attenzione di tutti una questione che troppi vorrebbero ridurre a fumisterie di parrucconi fuori del tempo. Ed è la «questione morale», cioè la trasformazione della politica in lobby d’affari, la contaminazione fra apparati dei partiti e mondo affaristico-economico. Con il corollario del clientelismo, del conflitto di interessi e di varie forme di illegalità, dalla corruzione alle collusioni con la mafia. Dunque una questione democratica e istituzionale di formidabile attualità. Con il suo stile (non felpato, mai in «giuridichese», ma chiaro e netto, perciò temuto da chi preferisce ripararsi dietro cortine fumogene: in sostanza, «pane al pane e vino al vino»), Davigo ha voluto ricordare che la questione morale non può essere considerata un reperto archeologico.

Eppure da noi, più che altrove, le dimissioni da parte di persone che hanno responsabilità nazionali o locali, anche a livello istituzionale (persone che abbiano avuto «incidenti di percorso», vale a dire vicende che – anche a prescindere dal loro esito giudiziario – comprendono comunque gravi e sicure responsabilità politiche e morali), non rientrano ancora nell’ordine della normalità. E comunque, se pure talvolta si verificano, restano rare.

Chi viene trovato con le mani sporche di marmellata – magari fino al gomito – riesce ancora ad essere commensale abituale e rispettato in banchetti esclusivi, dove può continuare a rimpinzarsi come se niente fosse. Non succede neppure al gioco del Monopoli, dove chi pesca un «imprevisto» sta almeno fermo un giro. Invece in Italia si continua a giocare con la stessa «pedina», le stesse «case» e gli stessi «alberghi». Tutto come prima, anzi: si direbbe che spesso gli imprevisti facciano… curriculum.

Davigo ha semplicemente riproposto la questione del rapporto tra etica e politica. Ma, evidentemente, il vecchio rilievo machiavellico secondo cui gli stati non si governano con i pater noster gode ancora, da noi, di ampia considerazione. Mentre dovrebbe essere pacifico che la corruzione è priva di ogni giustificazione e che corrotti e collusi restano tali a prescindere dal loro status di uomini di successo e di potere.

La crociata antigiudiziaria e una giustizia «à la carte»

Circa 25 anni fa (era il 1992, ndr) la stagione di «Mani pulite» e delle inchieste sui rapporti fra mafia e politica segnò – per il nostro paese – un forte recupero di legalità. Per un po’ di tempo sembrò che potesse prevalere quell’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. Le inchieste su Mani pulite e su Mafiopoli avevano innescato un sentimento di fiduciosa aspettativa nei confronti della giustizia e dei giudici (talora persino sopra le righe, come quando ci furono addirittura toni da tifo calcistico). Questa «luna di miele» è durata poco, perché la novità di una magistratura che – sia pure con tutti i suoi limiti – cercava finalmente di applicare la legge anche ai «potenti» non poteva lasciare questi ultimi indifferenti. E difatti i «potenti» hanno reagito con vigore, in tutti i modi possibili, senza risparmio di mezzi ed energie. Ecco dunque lo scatenarsi, ormai da circa 25 anni, di una crociata antigiudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali. Invero, non solo in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti, ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati «eccellenti» abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (spesso indicati «tout court» come avversari politici). Con il dilagare dell’idea, terribilmente italiana, di una giustizia «à la carte» valida per gli altri ma mai per sé. E con l’irresistibile tendenza a valutare gli interventi giudiziari non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unicamente in base all’utilità per sé e per la propria cordata.

Oltretutto, la corruzione «sistemica» che Mani pulite aveva evidenziato avrebbe dovuto offrire materiale di conoscenza prezioso, utilissimo per produrre nuove forme di contrasto efficace (controlli preventivi e misure repressive). Invece, niente di tutto questo è accaduto. Sicché la corruzione inesorabilmente ha finito per riprendere vigore. Per impedirlo, occorrevano interventi che la rendessero non più conveniente: un obiettivo ancora da realizzare.

Col risultato che quel recupero di legalità in atto agli inizi degli anni Novanta è stato costretto a percorrere strade sempre più impervie. E la questione morale, che l’estendersi del controllo di legalità stava rilanciando, dalla politica è stata relegata in soffitta. Perché mettere sotto accusa i magistrati, invece dei corrotti e collusi, comporta per costoro un evidente vantaggio: una minore fatica per riproporre le pratiche di sempre, più spazio e più tempo per ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste.

Esemplare, in questo percorso, è stato l’uso cinico del termine «giustizialismo». Un tempo la parola era del tutto sconosciuta nel lessico giudiziario. Cominciò a fae parte quando, con una furbata, qualcuno pensò di escogitare (con precise finalità mediatiche) un qualche modo per suggerire l’idea di un uso scorretto della giustizia, costringendo il dibattito a partire da una sorta di verità rovesciata. Introducendo nel contempo concezioni perverse del «garantismo»: un neo-garantismo «strumentale», diretto a depotenziare la magistratura, che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico; insieme ad un garantismo «selettivo», che gradua le regole in base allo «status» dell’imputato. E francamente dispiace constatare che l’attuale presidente del Consiglio abbia riesumato – addirittura intervenendo in Senato (il 19 aprile 2016) – proprio questa parola, parlando, con riferimento agli ultimi 25 anni, di pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo.

Dalla falsa neutralità alla reale indipendenza

Altra parola usata spesso a sproposito è quella con cui si accusa la magistratura di «politicizzazione». È facile constatare (basta un buon libro di storia) che fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la commistione tra magistratura e luoghi del potere politico era la regola. Ma veniva inabissata sotto il dogma della apoliticità di giudici e giurisdizione. Era l’epoca in cui, al riparo di tale dogma, il procuratore generale della Cassazione definiva gli infortuni sul lavoro «una fatalità», gran parte della magistratura siciliana era attestata sulla tesi che «la mafia non esiste», la Procura della Repubblica di Roma era allegramente (e non per caso) chiamata «porto delle nebbie», i vertici della magistratura partecipavano a cerimonie in cui imprenditori inquisiti e politici corrotti venivano insigniti delle massime onorificenze della Repubblica e poteva anche accadere che un Procuratore generale non disdegnasse di rilasciare affidavit per il suo amico Sindona.

La magistratura – per usare parole di Luigi Ferrajoli – era «un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un “corpo separato” dello stato, come allora si diceva, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subaltee ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili». Questa, pur con molte eccezioni (di giudici e pubblici ministeri capaci di essere indipendenti e imparziali) era la linea di tendenza prevalente in magistratura, ed era una linea di politicizzazione di fatto.

La vulgata di un bel tempo antico in cui i magistrati erano apolitici è dunque una favola. Utile per delegittimare i cambiamenti intervenuti successivamente, quando gran parte della magistratura cominciò una lunga marcia verso una reale indipendenza, sostitutiva della tradizionale falsa neutralità. Cambiamenti che innescarono un processo che è un po’ come la storia di quando le donne portavano il velo. A quel tempo le donne erano tutte belle, ma quando il velo cadde si cominciarono a constatare delle differenze. Più o meno la stessa cosa è successa per la magistratura. Quando i giudici non davano «fastidio», quando cioè non erano scomodi, per il potere erano tutti bravi e belli. Ma quando hanno cominciato ad assumere un ruolo preciso, a dare segni di vitalità, a pretendere di esercitare il controllo di legalità anche verso obiettivi prima impensati, ecco che è cominciata l’accusa di politicizzazione (intrecciata con quella di protagonismo).

I magistrati e la Costituzione: in silenzio no

Da ultimo, la polemica fra politica e magistratura ha assunto toni vieppiù incandescenti in vista del referendum sulla riforma della Costituzione (previsto per ottobre 2016, ndr). Si sostiene che i magistrati non dovrebbero occuparsene. Assurdo. Le ripercussioni della riforma sul settore giustizia potrebbero essere importanti (ad esempio sulle modalità di elezione di componenti della Corte costituzionale e del Csm). E in un paese in cui tutti parlano di giustizia – e spesso con toni da bar – sarebbe ben strano se gli unici a doversene astenere fossero i magistrati. Come se i medici non potessero parlare di sanità o i giornalisti di informazione. In ogni caso non si tratta di una questione di schieramenti politici cui i magistrati dovrebbero restare estranei. Si tratta, invece, di una questione istituzionale decisiva per la democrazia, che interpella tutti. Proprio tutti.

Il vero problema è infatti la qualità della democrazia. La Costituzione repubblicana vigente disegna una democrazia basata sul primato dei diritti e sulla separazione dei poteri, senza supremazia dell’uno sugli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. C’è il rischio che a questa concezione di democrazia se ne sostituisca una basata non più sul primato dei diritti, ma sul primato della politica (meglio, della maggioranza politica del momento), per di più con un’inedita concentrazione di poteri. Mentre, se è vero che in democrazia la sovranità appartiene al popolo (per cui chi ha più consensi ha il diritto-dovere di operare le scelte politiche che vuole), è altrettanto vero che ogni potere democratico incontra – non può non incontrare – dei limiti prestabiliti. Tali limiti presidiano una sfera non decidibile, quella della dignità e dei diritti di tutti: sottratta al potere della maggioranza e tutelata da custodi (una stampa libera e una magistratura indipendente) estranei al processo elettorale ma non alla democrazia. Se invece la maggioranza, forte del fatto di aver avuto più consensi, si prende tutto e non lascia spazi effettivi alle minoranze, allora l’alternanza – che è il Dna della democrazia – viene ridotta a simulacro e la democrazia cambia qualità. L’effettività di tali spazi dipende in particolare dal controllo sociale, che presuppone un’informazione pluralista. E dal controllo di legalità, che presuppone una magistratura autonoma ed indipendente.

Dunque, la domanda di fondo è questa: quale tipo di democrazia conviene di più? La prima o la seconda? Ed ecco perché anche i magistrati hanno pieno titolo (come ogni altro cittadino, se non più) per occuparsi di Riforma della Costituzione. Partecipando al dibattito nelle forme più opportune.

Per concludere, ricordiamo – parafrasandolo – un celebre passaggio di Piero Calamandrei: Sotto questa Costituzione (la Costituzione del ‘48, ndr) ci sono tre firme che sono un simbolo, De Nicola, Terracini, De Gasperi. Tre nomi, tre idee, tre concezioni che costituiscono le correnti più importanti del nostro paese. Cosa vuol dire? Vuol dire che intorno a questo Statuto si è formato il consenso dell’intero popolo italiano, di tutti. Questo è il valore della nostra Costituzione. Non è l’imposizione di qualcuno sugli altri a colpi di maggioranza. È il consenso dell’intero popolo italiano che si è formato intorno a questo documento. Il consenso di tutti.

Gian Carlo Caselli




Perdenti 15: Sacco e Vanzetti


Il 23 agosto 1927, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani emigrati negli Usa, subirono l’esecuzione capitale tramite la sedia elettrica. Erano accusati di aver ucciso, nel corso di una rapina, il cassiere e la guardia giurata del calzaturificio Slater and Morril. I dubbi sulla loro responsabilità e l’assoluta mancanza di testimoni non valsero a nulla. Nel penitenziario di Charlestown in Massachusetts, a distanza di sette minuti l’uno dall’altro, furono legati alla sedia elettrica e «giustiziati». Il 23 agosto 1977, a cinquant’anni esatti dalla loro morte, Michael Dukakis, durante il suo primo mandato di Goveatore del Massachusetts, riabilitò la memoria dei due italoamericani ammettendo che nel giudicarli erano stati commessi macroscopici errori e ingiustizie sia da parte della polizia che della magistratura americana.

Voi siete conosciuti in Italia e in America con i vostri cognomi, Sacco e Vanzetti, e considerando la provenienza geografica, si può dire che nel dramma che vi è toccato vivere, avete rappresentato con molta dignità l’Italia del Sud e del Nord, strettamente unita nella dura realtà dell’emigrazione.

Sacco: io sono pugliese, sono nato a Torremaggiore in provincia di Foggia.

Vanzetti: io, invece, sono piemontese e vengo da Villafalletto in provincia di Cuneo. Siamo emigrati negli Stati Uniti quasi contemporaneamente. Io arrivai a New York nel 1908, Sacco invece sbarcò a Boston nel 1909. Approdammo nel Massachusetts facendo diversi lavori, come del resto era consuetudine in quegli anni per i migranti che arrivavano in America.

Sacco: alla fine io trovai lavoro in una ditta che produceva scarpe e divenni un calzolaio provetto, mi sposai ed ebbi un figlio e una figlia, mentre il mio amico Bartolomeo, dopo molti sacrifici e aver cambiato tanti lavori, riuscì, nel 1919, ad aprire un piccolo negozio dove vendeva pesce.

Vi siete conosciuti in America?

Si, frequentavamo dei circoli anarchici e socialisti presenti in terra americana (pochi in verità), partecipando a scioperi e manifestazioni, che ci fecero avere problemi con la polizia. Nel 1916 ci conoscemmo e in poco tempo diventammo amici. Le nostre idee collimavano nel ricercare una giustizia sociale che fosse equa e rispettosa per tutti gli immigrati, inoltre eravamo due convinti pacifisti, tant’è vero che quando gli Stati Uniti intervennero nella Grande Guerra del ‘15-’18, ci rifugiammo in Messico con tutto il collettivo anarchico per non essere arruolati.

Finita la guerra tornaste negli Stati Uniti?

Si, riprendemmo il nostro lavoro nella società americana cercando di convincere altri immigrati a frequentare i nostri circoli e ad aderire alle nostre idee. Per la nostra fuga in Messico e per le nostre attività, eravamo però inclusi in una lista di sorvegliati speciali e segretamente controllati dalla polizia.

Come erano visti gli italiani negli Stati Uniti in quegli anni?

Molto male. Innanzitutto per il fatto di provenire da un paese cattolico e di trovarci in una cultura come quella degli Usa permeata dall’ideologia wasp (lett. vespa, ma in questo caso acronimo per White Anglo Saxon Protestant), eravamo considerati la feccia della società. Se a ciò si unisce il fatto che avevamo problemi con la lingua inglese in quanto non la parlavamo correttamente e che per sopravvivere eravamo disposti ad accettare i lavori più degradanti, eravamo visti come «paria» che occupano l’ultimo gradino della società.

Gli emigranti provenienti in genere dall’Europa e in particolare dall’Italia, portavano anche le idee socialiste e anarchiche che in quegli anni stavano sviluppandosi nel vecchio continente.

Quasi tutti noi eravamo contro la guerra, quindi abbastanza restii ad appoggiare le azioni belliche da qualunque parte venissero proposte. Molti immigrati si rifiutavano di iscriversi ai registri di leva e di lavorare nelle industrie che fabbricavano armi ed erano proprio i lavoratori europei, specialmente gli italiani, che animavano queste iniziative e organizzavano scioperi.

Anche la risonanza che arrivava dalla Rivoluzione Russa alimentava un’ostilità crescente non solo verso i migranti, ma proprio verso tutti coloro che si dichiaravano anarchici e socialisti?

Proprio così. Oltre tutto in quegli anni prese piede la così detta «red scare» (la paura dei rossi), con la quale il governo federale cercò di prevenire – con metodi al limite della legalità – il diffondersi di una ideologia ritenuta sovversiva e radicale. Per rispondere ai nostri sporadici, e tutto sommato abbastanza innocui, gesti di ribellione e per bloccare ogni nostra iniziativa, venne creato un apparato poliziesco imponente.

Va da sé che in un clima di così alta tensione e pieno di sospetto verso chi non era «wasp», ogni volta che succedeva un fatto criminale, gli immigrati venivano subito additati come colpevoli.

Il 15 aprile 1920, a South Braintree (Massachusetts), il cassiere del calzaturificio «Slater and Morril», Frederick Parmenter, e la guardia Alessandro Berardelli, stavano portando a piedi le paghe della settimana, 15.776 dollari, in due cassette di legno. Vennero assaliti con le pistole in pugno da due persone che spararono a bruciapelo e si allontanarono su un’auto che li stava aspettando. Immediatamente vennero sospettati degli italiani come gli autori del gesto. Noi due fummo arrestati perché trovati con una pistola e degli appunti per un comizio che stavamo organizzando. Ci trattennero in prigione senza nessuna assistenza legale.

Non vi chiedevate il perché di un arresto così anomalo?

Parlando tra di noi credevamo che ci avessero arrestati per motivi politici, al massimo per illegale possesso di armi. Per questo avevamo paura di essere espulsi, ma a nostro favore giocavano parecchie testimonianze giurate che dicevano che noi non eravamo nel luogo dove era avvenuto il gesto criminale, in quanto impegnati altrove. Ma il numero dei testimoni contro di noi, che la polizia andava raccogliendo qua e là, aumentava ogni giorno e, tra mille incertezze e contraddizioni, alcuni di loro dissero esplicitamente che noi eravamo i colpevoli. Venne quindi fatta un’incriminazione formale a nostro nome.

Raccogliendo delle testimonianze abbastanza deboli, ma avendo fretta di concludere l’istruttoria, tutto venne deciso per portare a termine il processo nel più breve tempo possibile.

Non solo, alcuni testimoni ritrattarono perché, a distanza di mesi, non erano più così sicuri delle loro dichiarazioni. Un portoghese di nome Celestino Madeiros, un comune criminale condannato in precedenza per rapina e omicidio, confessò la sua partecipazione al furto e al conseguente assassinio della guardia giurata, scagionandoci completamente dalle accuse a noi rivolte.

Ma tutto fu inutile in quanto la giustizia americana era alla ricerca di un capro espiatorio e voi incarnavate proprio quello che a loro serviva da presentare all’opinione pubblica, non è andata così?

Peggio, il pubblico ministero riuscì a eccitare i sentimenti patriottici e i pregiudizi della Corte, illustrando quelle che a suo avviso erano le idee sovversive del Movimento Anarchico del quale noi facevamo parte. La nostra renitenza alla leva e le nostre critiche al sistema capitalistico americano, vennero duramente attaccate dall’accusa, così facendo si processavano le nostre idee e non i fatti! Al momento della requisitoria il procuratore lanciò parole durissime contro gli stranieri e le idee che professavano. Anche il riepilogo del giudice fu pervaso da nazionalismo e pregiudizio; egli, anziché ricapitolare gli elementi di prova che la giuria avrebbe dovuto prendere in considerazione, espresse giudizi pesanti sugli stranieri presenti negli Stati Uniti. Paradossalmente non portò nessuna prova che inchiodasse noi al delitto di cui eravamo accusati. Nonostante ciò e nonostante gli elementi d’incertezza e i vistosi vizi procedurali che emersero durante il dibattimento, il 14 luglio 1921 la giuria pronunciò la sentenza di condanna a morte tramite sedia elettrica per tutti e due.

La condanna a morte di Sacco e Vanzetti provocò proteste in tutto il mondo, il governo italiano si fece sentire attraverso tutti i canali diplomatici, fior di intellettuali e personaggi di spicco di diverse nazioni scrissero al presidente degli Stati Uniti di concedere loro la grazia, in Italia ci fu un’ondata di antiamericanismo tale che bisognerà aspettare la guerra del Vietnam per vedee una uguale. In tutti i paesi culla di emigrazione verso gli Stati Uniti, ci furono manifestazioni di sostegno per i due italiani, anche negli Usa l’opinione pubblica si divise. Se per la destra veniva finalmente applicata una punizione esemplare a dei delinquenti comuni, altri cittadini, coscienti che veniva attuata un’ingiustizia macroscopica nei confronti di due italiani innocenti, non volendo che il loro paese apparisse come persecutore degli immigrati che proprio in quegli anni approdavano a migliaia negli Usa, manifestarono a loro favore.

Furono sette anni di inutili ricorsi, perché di fatto quello era ormai diventato un processo politico.

Il giudice Webster Thayer, l’uomo che aveva emesso la condanna a morte per Sacco e Vanzetti, disse a un amico: «Hai visto cosa ho fatto a quei due bastardi anarchici italiani, l’altro giorno?».

Vanzetti in una delle ultime sedute del processo prima dell’esecuzione, il 19 aprile 1927 fece un breve discorso in cui tra l’altro disse: «Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati, noi siamo condannati non per dei crimini che abbiamo commesso, ma perché siamo italiani e perché siamo anarchici, ma siamo così convinti di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarci due volte rivivremmo per fare esattamente le stesse cose che abbiamo fatto. E questo omicidio di stato non riuscirà a estinguere il nostro limpido e inalienabile diritto di esistere e di pensare secondo la nostra coscienza». Poi rivolgendosi al giudice che lo aveva condannato disse: «Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della terra ciò che io ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un radicale, e davvero io sono un radicale; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano […] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già».

Furono giustiziati – se questa è l’espressione giusta – sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927, a pochi minuti l’uno dall’altro. Le loro ceneri riposano ora a Torremaggiore.

Mario Bandera, missio Novara

 




Italia: il paese della mafia e dell’antimafia


Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Questo è l’obiettivo della legge 109 del marzo 1996. Una legge nata da una bestemmia: «la mafia dà lavoro». Quella norma fu promossa da «Libera», l’organizzazione fondata nel 1995 da don Luigi Ciotti per lottare contro tutte le mafie. E che oggi, a 20 anni di distanza, è ancora in prima linea, a dispetto di chi la vorrebbe delegittimare.

L’Italia ha gravi problemi di mafia. Ma possiamo orgogliosamente dire di essere pure il paese dell’antimafia. Non solo per il prezzo che abbiamo pagato con un numero infinito di vittime innocenti. Non solo per l’efficace legislazione che ci siamo dati (sostanzialmente fatta propria da una Convenzione Onu del dicembre 2000 sottoscritta da tutti gli stati del mondo, la Convenzione di Palermo). Non solo per l’organizzazione del contrasto (non a caso Eurojust, l’embrione della futura procura europea, è modulato sulla nostra «Procura nazionale antimafia»). Ma anche per quel fiore all’occhiello – ovunque studiato – che è la pratica dell’antimafia sociale o dei diritti: quella che paga in termini di lavoro e recupero di dignità; che materializza la legalità come vantaggio; che si affianca all’antimafia della repressione e della cultura, creando così un triplice fronte di contrasto, ben più efficace della semplice «delega» a forze dell’ordine e magistratura.

Non «baciamo le mani»

L’antimafia sociale o dei diritti nasce con la legge 7 marzo 1996 n. 109 sulla gestione e destinazione dei beni confiscati ai mafiosi. Una legge che ha compiuto da poco vent’anni e ha segnato una svolta decisiva nell’ordinamento italiano. Un capolavoro ideato da Luigi Ciotti ragionando su una bestemmia (strano per un prete, ma vero). La bestemmia che «la mafia dà lavoro». Falso, eppure tanti ci credevano. Non solo grazie alla black-propaganda (informazioni false prodotte da un soggetto coinvolto, ndr). Soprattutto perché, un tempo, i beni tolti ai mafiosi cessavano di essere «produttivi». Erano irreversibilmente condannati a coprirsi di ruggine e ragnatele. Per cui il mafioso espropriato aveva buon gioco a dire in giro: «Ecco, quando il bene era mio, produceva ricchezza soprattutto per me, è vero; ma qualcosa c’era anche per voi altri che ora restate a secco. Dunque, fatevi i conti: meglio prima o adesso?».

Il ragionamento (ancorché i mafiosi lasciassero agli altri solo briciole, tanto per tenerseli buoni) aveva una certa presa. Ed era facile, allora, che i cittadini scegliessero di allearsi non con lo stato ma con la mafia, quanto meno mediante un comportamento omertoso di accettazione rassegnata.

La restituzione del «mal-tolto»

La situazione viene ribaltata con la citata legge 109/96: i beni confiscati ai mafiosi sono destinati ad attività socialmente utili. Cioè restituiti alla collettività cui la mafia li ha rapinati, così che la collettività possa trae profitti sociali. Ed ecco che la villa di Riina diventa un istituto agrario e poi una caserma; ecco che i terreni agricoli già dei mafiosi sono lavorati da cornoperative di giovani che producono vino-olio-pasta e via elencando; ma soprattutto ecco iniziative economiche e lavoro liberi. Libertà che dei soggetti coinvolti fa cittadini titolari di diritti, non più sudditi costretti a baciare le mani del mafioso di tuo (sporche del sangue dell’ultimo delitto commesso). Sta qui il significato profondo della legge: fare dell’antimafia una legalità che conviene, che restituisce quel che la mafia ha «mal-tolto». Una legalità che non sia soltanto questione di guardie e ladri, ma sappia invece coinvolgere chi prima restava alla finestra, se non peggio.

Il capolavoro di Ciotti non è consistito soltanto nella formulazione di un progetto di legge. All’idea don Luigi aveva dato gambe organizzando una raccolta di firme per sostenerla. Alla fine le firme erano state un milione. Una montagna. A una tale pressione non si poteva resistere. Ed ecco che la legge era stata approvata all’unanimità (ma senza estenderla ai corrotti, come invece stava scritto nel progetto originario). Una unanimità che, in ogni caso, ha costituto una formidabile legittimazione da parte di tutto il popolo italiano alle cornoperative che da allora lavorano sui beni confiscati ai mafiosi assieme a varie associazioni scelte con bando pubblico, fra le quali figura «Libera», l’associazione che rappresenta l’ennesimo capolavoro di don Ciotti.

Col tempo, la confisca e l’assegnazione dei beni mafiosi hanno raggiunto dimensioni enormi. Perché enormi sono i beni che la mafia ha potuto accumulare in anni e anni di sostanziale impunità «patrimoniale». E perché enormi sono stati i progressi degli inquirenti sul versante dell’attacco alle ricchezze mafiose. Enormi, purtroppo, sono diventati anche i problemi da affrontare per la gestione e assegnazione dei beni, a fronte dell’esiguità di uomini e mezzi dell’Agenzia a ciò preposta. Mentre è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari o delle partite Iva: un sistema di relazioni opache.

Contro «Libera»: schizzi di fango, guerre e falsità

Schizzi di fango, ogni tanto, si tenta di indirizzare addirittura verso «Libera» e don Ciotti, con accuse inconsistenti che, in un’apposita audizione dell’Antimafia (lo scorso 13 gennaio, ndr), sono state tutte smontate. Chi riesce a tenere la barra sempre dritta diventa un simbolo e può urtare la «suscettibilità» di qualcuno. Soprattutto se una certa informazione preferisce concentrarsi morbosamente sui presunti retroscena, scorgendo scandali anche quando non ce ne sono. In «Libera» non c’è alcuna «guerra». Esistono una dialettica, uno scambio, una differenza di vedute: fatti normali nella vita di un’associazione in cui le persone discutono apertamente e talora anche aspramente. Il confronto è sempre un arricchimento. Ma può anche accadere che, dietro uno sbandierato impegno, si nascondano intenti non del tutto disinteressati. C’è il rischio (che Ciotti non si stanca di ricordare) che il «Noi» si riduca a un’etichetta dietro la quale agisce indisturbato l’«Io». In particolare, sulla gestione dei beni confiscati, circolano falsità assortite. Per cui conviene fissare alcuni punti:

  • «Libera» non gestisce terreni confiscati: la gestione è affidata a realtà che aderiscono a «Libera terra», ma come soggetti autonomi d’impresa sociale;
  • sono soltanto 5 in tutta Italia i beni gestiti da «Libera», utilizzati come sedi locali dell’associazione;
  • «Libera» non riceve contributi pubblici per gestire beni confiscati, ma solo per attività statutarie di formazione, studio e ricerca;
  • oggi sono più di 500 le iniziative di riutilizzo sociale dei beni confiscati che coinvolgono realtà laiche o religiose: associazioni, cornoperative, comunità, gruppi e parrocchie.

Quanto alla propria struttura, da tempo in «Libera» è in atto un profondo cambiamento. Negli ultimi mesi, l’associazione ha tenuto tre affollate assemblee nazionali, nelle quali i nuovi organismi direttivi sono stati votati praticamente all’unanimità. Nessuno è perfetto, ma è davvero difficile parlare (come taluno ha fatto) di una carenza di democrazia1 nei processi partecipativi. Quanto alle presunte tiepidezze o, peggio ancora, omissioni a fronte di certe illegalità o manifestazioni mafiose2, non si possono dimenticare le denunzie pubbliche di Ciotti sul pericolo mafia nella città di Roma formulate, ad esempio, nell’ottobre 2014, all’apertura di «Contromafie». O le richieste del marzo 2014  di un albo sugli amministratori giudiziari, con trasparenza e rotazione negli incarichi, compreso un tetto ai compensi. Più in generale non si può ignorare la limpida condanna che Ciotti, in epoche assolutamente non sospette, ha sempre scagliato contro quella parte di antimafia da operetta o di facciata se non anche opaca o inquinata. Ed è più che logico dedue una sua speciale e concreta  attenzione per rendere «Libera» immune da questi mali e salvaguardae la pulizia morale. Testimoniata del resto dal lavoro quotidiano dell’associazione: a partire dall’esposizione delle facce dei suoi giovani  in moltissimi tribunali italiani, per sostenere in pubblica udienza, a fronte degli imputati detenuti e dei loro familiari, le tante costituzioni di parte civile contro la mafia che sono prova inconfutabile di coscienza civica e coraggio.

Un obbligo morale: includere anche i corrotti

Per altro, sul versante dell’antimafia e dei beni confiscati ci sono varie cose da aggioare. Il pacchetto delle auspicabili riforme è consistente. Tra i punti qualificanti figurano: il potenziamento dell’Agenzia nell’ambito di una procedura più efficiente e più  garantita; una particolare  attenzione alla gestione delle aziende, per le quali  sono previsti uno speciale fondo di rotazione e garanzia (già finanziato dalla legge di stabilità con 10 milioni di euro) e la destinazione prioritaria a cornoperative di lavoratori, se ne ricorrono le condizioni; un vigoroso giro di vite sulla disciplina degli amministratori giudiziari (indispensabile dopo il «caso Saguto»3). Di grande rilievo è poi l’ampliamento del novero dei soggetti cui possono essere applicati sequestro e confisca, così da ricomprendervi (oltre al caporalato e altre ipotesi) anche i reati più gravi contro la pubblica amministrazione, a partire dalla corruzione. Andrà meglio che nel 1996? L’estensione sarà ancora, per qualcuno, un boccone troppo amaro? Speriamo di no, ma non è un buon segnale che, dopo l’approvazione alla Camera, la discussione in Senato stenti a iniziare.

Gian Carlo Caselli

Note

(1)  Intervista a Franco La Torre, sul sito de L’Huffington Post, 1 dicembre 2015. (Ndr)

(2)  Intervista a Catello Maresca, pm di Napoli, sul settimanale Panorama del 14 gennaio 2016. (Ndr)

(3)  Il riferimento è allo scandalo che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. (Ndr)

Siti internet

  • www.libera.it -È il sito di «Libera», l’associazione fondata da don Luigi Ciotti nel 1995.
  • www.benisequestraticonfiscati.it -È il sito di Anbsc, l’«Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata».



L’atlante della giustizia ambientale


Nel mondo assumono sempre maggiore importanza i cosiddetti conflitti ambientali. Popolazioni locali, organizzazioni, singoli cittadini, reti di studiosi si oppongono a progetti «di sviluppo» dannosi per il territorio e rischiosi per la sostenibilità della vita sulla terra.
Da due anni esiste un atlante on line che offre un colpo d’occhio complessivo sui conflitti in corso nel mondo, e informazioni specifiche su ciascuno. Ecco il punto sui dibattiti riguardanti la giustizia ambientale e la sua rilevanza nel contesto globale.

Il rapporto di Global Witness del 20121 lancia un allarme sugli elevati livelli di violenza contro attivisti, cittadini e comunità rurali impegnati su tematiche ambientali e conflitti territoriali. Il titolo del rapporto, Deadly Environment (ambiente mortale), risveglia indignazione e ribellione nel lettore. Le cifre, negli ultimi anni, raggiungono il doppio zero: nel 2011, si è avuta la media di una vittima a settimana. I casi e numeri indicati nel report sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno complesso e diffuso, che sta coinvolgendo nuovi spazi, luoghi fisici e simbolici, e unendo gruppi sociali in una causa comune.

01 philippe leroyer Demonstration against the Notre Dame des Landes airport - 22Feb14, Nantes (France

Repressione crescente

Tanto in America Latina, Africa e Asia, come in Europa e Nord America, persone che si oppongono a attività estrattive come miniere, pozzi di petrolio e gas flaring2, a dighe, ma anche a discariche inquinanti e a grandi progetti di infrastrutture, subiscono una crescente repressione da parte di governi e milizie, in collusione con compagnie private e statali. Questi attivisti denunciano gli impatti sociali e ambientali del sistema economico estrattivo capitalista e il suo elevato metabolismo sociale. Nel suo ultimo libro3, Naomi Klein chiama Blockadia quelle azioni di opposizione, quei territori resistenti, come le remote foreste canadesi dove comunità di first nation (abitanti originari) bloccano la strada e impediscono la costruzione di oleodotti e gasdotti.

Piazza Taksim contro Erdogan

Turchia, Istanbul, Taksim Gezi Park 2013: gli abitanti della città sul Bosforo scendono in strada per difendere il parco cittadino più famoso della città, e mostrare la loro contrarietà al centro commerciale che dovrebbe sorgere al suo posto. In gioco non ci sono solo gli alberi del parco, ma una visione, un’idea politica di ciò che Istanbul deve offrire ai suoi cittadini. La contrarietà al mall e alla speculazione edilizia nell’area circostante si manifesta tra persone di diversa età ed estrazione sociale che, forse, mai nella loro vita precedente avevano pensato di scendere in strada o di partecipare ad azioni dimostrative. Per la prima volta in Turchia si trovano dalla stessa parte, e devono affrontare una dura repressione dello stato e delle forze dell’ordine. Nella discussione, emergono aspre critiche che mettono in difficoltà il governo di Recep Tayyip Erdogan.

Contro il bene comune

Dinamiche simili sono avvenute negli ultimi anni in Francia presso l’area dove sarebbe dovuto sorgere il nuovo aeroporto di Nantes, ribattezzata Zona da Difendere (Zad, dall’acronimo francese), a Stoccarda in merito alla paventata ristrutturazione della stazione dei treni, per non parlare della Val Susa e della decennale opposizione al Tav. Trasporti e infrastrutture, ma anche energia e industria estrattiva, sono al centro di intensi dibattiti e opposizioni in Europa, tra sostenitori di una politica espansiva e di grandi appalti per rilanciare l’economia e coloro che si oppongono a questa ideologia di sviluppo per i suoi impatti sociali ed ecologici e alla dominazione di potenti lobbies economiche e politiche.

Notizia dell’inizio del 2015, per esempio, è il cosiddetto Piano Junker, che sta investendo 315 miliardi di euro in grandi infrastrutture in Europa, con la creazione di un nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi) e il coinvolgimento della Banca Europea degli Investimenti (Bei). Trasporti ed energia sono due colonne portanti del piano e rappresentano la maggior parte dei progetti candidati, cosiddetti di «interesse comune» (Pic). I criteri decisionali e di valutazione dell’opportunità o meno di aprire cantieri, e da parte di quale impresa, non sono chiari e certamente non sono frutto di una discussione democratica e informata in ciascun paese membro.

I trattati di cosiddetto «libero» commercio dell’Unione europea con partner di altri continenti, come il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, cfr MC ottobre 2015, p. 64) con gli Stati Uniti o il Ceta (Accordo economico e commerciale globale) con il Canada, sono un altro cardine del meccanismo che porta le istituzioni a smettere di perseguire il bene pubblico a favore della concentrazione della ricchezza in mano di pochi.

Nuove forme di mobilitazione

Critiche al modello di accumulazione di ricchezza e impunità si stanno diffondendo in modo trasversale tra gruppi sociali distinti: l’opposizione alle esplorazioni per fracking4, per esempio, ha fatto il suo ingresso nei salotti della classe media in Polonia, mentre il caso della miniera di oro a Ro?ia Montan?, che prevederebbe la rimozione di diverse montagne nel territorio degli Apuseni (Monti del tramonto), parte della catena dei Carpazi occidentali, ha risvegliato la società civile rumena in quello che è considerato il più grande movimento civico del paese dopo la rivoluzione del 1989.

Tali mobilitazioni creano forti legami nazionali e inteazionali, e spesso azioni congiunte, tra comunità locali che subiscono le conseguenze sociali e ambientali di una stessa attività, o gli abusi di un’impresa.

I progetti di Enel-Endesa, per esempio, sono stati contestati dalla Patagonia cilena (contro i progetti idroelettrici nella regione australe) al Guatemala (contro la centrale idroelettrica di Palo Viejo), alla Colombia (contro quella di El Quimbo). Ma anche in Spagna, per la rete d’alta tensione (Mat), e in Italia, sul Monte Amiata (Grosseto) e a Porto Tolle (Rovigo). La rete italiana Stop Enel sta intentando un cornordinamento fra i comitati in Italia, e scambi con comunità estere che vivono nelle località coinvolte dai progetti dell’azienda.

La rete di Oilwatch attenta al tema dell’estrazione di petrolio, o l’alleanza Gaia sulle alternative all’incenerazione dei rifiuti, o ancora la Campagna Internazionale contro l’Impunità delle Multinazionali, sono altri esempi di azioni di pressione congiunte su governi, istituzioni e imprese private a livello globale.

Mining conflicts in Latin America_EJAtlas

L’atlante globale della giustizia ambientale

Per fornire nuovi strumenti e metodologie di ricerca, accademici e organizzazioni per la giustizia ambientale hanno creato l’«Atlante Globale della Giustizia Ambientale» (Ejatlas, Environmental Justice Atlas), all’interno del progetto di ricerca Ejolt (Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade), cornordinato dall’Università Autonoma di Barcellona. L’atlas è stato lanciato online nel marzo 2014, ed è in costante espansione; oggi conta più di 1.600 casi di conflitti socio-ambientali in tutto il mondo5. Vi si trovano informazioni circa mobilitazioni, campagne, petizioni e conflitti a livello locale, su progetti industriali, infrastrutture urbane, centrali elettriche per le quali si siano registrate istanze d’opposizione e forti critiche da parte di comunità locali, residenti dell’area, comunità scientifica o internazionale.

L’Ejatlas dimostra che esiste una presa di coscienza presso comunità in tutto il mondo rispetto alla difesa di un ambiente che non è costituito solo da parchi naturali e zone delimitate da conservare, ma è il fondamento della vita e della sua continuità. Descrive i tratti comuni di tanti movimenti sociali che vedono nello sfruttamento ambientale i rapporti di potere tra governi, imprese e comunità locali, in linea con il fenomeno che Henri Acselrad, professore della Universidade Federal do Rio de Janeiro (Ufrj), chiama environmentalization (ambientalizzazione) delle lotte sociali. L’Ejatlas dimostra infine che non si tratta di movimenti «nimby» (not in my backyard, non nel mio cortile), come alcuni sostengono (tra cui il think tank italiano Nimby Forum), ma di genuini movimenti di solidarietà tra comunità anche molto distanti e diverse tra loro, benché certamente la mobilitazione di solito inizi per ciascuno nel proprio territorio, per ragioni di affezione emotiva e conoscenza delle sue caratteristiche. L’Ejatlas rende più evidente che quanto risulta nocivo alla salute a Ponte Galeria (frazione di Roma Capitale), lo è anche nella discarica di Dandora a Nairobi, e che la repressione violenta di cittadini della Val di Susa segue la stessa logica di controllo e imposizione che sta dietro la costruzione di dighe nei territori indigeni del Guatemala.

Fracking Frenzy_EJAtlas

Recuperare i saperi locali

Molti studiosi, tra cui l’economista ecologico Joan Martinez Alier, cornordinatore scientifico dell’Ejatlas, sostengono che sia già in corso un’alleanza tra movimenti ambientalisti e coloro che spingono verso una ridefinizione dei rapporti economici, produttivi e commerciali ispirati da concetti di equità sociale e rispetto. Se pensiamo alle proposte della Decrescita, così come a quelle dell’agroecologia, della riconversione urbana, ai gruppi di co-produzione tra famiglie e agricoltori, questo diventa evidente.

Lo storico italiano Marco Armiero, osservando che la convergenza fra giustizia ambientale, il movimento altermondialista, e le comunità di base è avvenuta già da tempo, al di là delle pubblicazioni scientifiche, sembra lanciare un appello al mondo accademico perché ne prenda coscienza e inizi a parlarne. Uno degli obbiettivi principali del progetto è proprio quello di superare, nell’ambito della giustizia ambientale, la visione dicotomica tra il sapere «scientifico» e quello «popolare», soprattutto in relazione a questioni vitali e a volte incerte come gli impatti socio-ambientali, oltreché sanitari ed economici, di un mega progetto minerario o energetico o dei trasporti, e così via. Infatti gli interessi corporativi e politici, insieme a un sapere troppo «istituzionale», hanno drammaticamente negato la partecipazione dei diretti interessati alle decisioni, silenziando i saperi locali, propri ad esempio di culture indigene, comunità montane, di piccoli pescatori, di agricoltori, che custodiscono un grosso patrimonio di conoscenze sul territorio e sulle sue fragilità. Recuperare tali saperi, riconoscere la loro dignità e integrarli nei criteri «scientifici» ufficialmente riconosciuti, deve essere un obiettivo del mondo accademico e universitario, e la metodologia di ricerca in Ejolt spinge in questa direzione. Una volta che tale frontiera tra saperi si vedrà sfumata, si indebolirà anche il sistema che concede potere a un attore piuttosto che all’altro, agli investitori di una grande multinazionale del petrolio piuttosto che al rappresentante scelto democraticamente di una comunità, ad esempio, nel Delta del Niger.

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Per una geografia dell’eguaglianza

L’uso delle mappe è considerato di estrema importanza per la visualizzazione di questo sapere e di una geografia dell’ineguaglianza. Se diamo un’occhiata all’Ejatlas, scopriamo storie sconcertanti che riguardano anche paesi insospettabili, come quella dell’uccisione di un giovane nell’ottobre 2014 durante la repressione di una pacifica manifestazione presso la diga di Sivens nella democratica Francia. Il logo dell’Ejatlas, che rappresenta un mondo «rovesciato», simboleggia proprio la messa in discussione dello status quo del sapere e del potere geopolitico. Esponenti della cartografia critica hanno fatto notare come le mappe siano state strumento di oppressione e conquista di territori attraverso la costruzione di un determinato sapere geografico. Secondo il geografo Nietschmann, «è stato conquistato più territorio degli indigeni attraverso mappe che con armi». Ma possiamo sperare che le mappe aiutino ora a riformulare il sapere per rispettare una maggiore giustizia ambientale. L’Ejatlas dà il suo contributo in tale direzione.

Daniela Del Bene


NOTE:

1 Http://www.globalwitness.org/sites/default/files/A_hidden_crisis.pdf

2 È la pratica di bruciare il gas naturale in eccesso estratto insieme al petrolio. Ogni anno se ne bruciano nel mondo 140 miliardi di metri cubi: realizzare infrastrutture per utilizzarlo, infatti, comporterebbe un notevole costo. Si tratta di una quantità di gas pari al 30% di quello utilizzato dall’Unione europea, superiore al consumo attuale annuo dell’intera Africa.

3Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile (titolo originale: This chan­ges eve­ry­thing. Capi­ta­lism vs. the cli­mate), Milano, Rizzoli, 2015.

4 La tecnica del fracking, o della fratturazione idraulica, consiste nel liberare gas o petrolio contenuti nel sottosuolo in rocce impermeabili tramite la loro fratturazione. I rischi ambientali di questa tecnica sono molti: consuma enormi quantità di acqua; nel processo vengono impiegate sostanze chimiche che possono contaminare le falde sotterranee; non sono completamente evitabili fughe di gas metano, che si disperde nell’atmosfera.

5 Tra i partner del progetto che maggiormente hanno contribuito alla mappatura dei casi attuali e storici, il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali (Cdca), che ha pubblicato anche una mappa dell’Italia, Fiocruz e la Rete Brasiliana di Giustizia Ambientale hanno contribuito su salute e ambiente in Brasile, l’Osservatorio Latinoamericano sui Conflitti Minieri ha contribuito sull’espansione del settore in America Latina e Caribe, il World Rainforest Movement su sfruttamento forestale e piantagioni, Accion Ecologica dell’Ecuador e Oilwatch su estrazione e inquinamento da attività petrolifere, per nominae solo alcuni.


Daniela Del Bene
Dottoranda in Scienze Ambientali presso l’Università Autonoma di Barcellona e co-editrice dell’Ejatlas, membro della Xarxa per la Sobirania Energetica (Xse), Catalogna, Spagna.


Climate Debt_EJAtlas

Un atlante costruito con il contributo di tutti

L’Atlante globale della Giustizia ambientale (Ejatlas), nell’ambito del progetto Ejolt (Environmental Justice Organizations, Liabilities and Trade), cornordinato dall’Università Autonoma di Barcellona, è nato per costruire una base di dati a livello globale tramite una piattaforma online costruita in maniera congiunta tra ricercatori, organizzazioni locali ed esponenti di movimenti. I singoli conflitti ambientali sono narrati attraverso una ricca scheda tecnica che include le ragioni economico-produttive alla loro base, le tendenze degli investimenti nel settore, gli impatti del progetto, gli attori del conflitto e le caratteristiche della mobilitazione da parte degli oppositori.

Chiunque sia interessato a contribuire alla mappa mondiale e ha accesso a dati su vertenze locali, può iscriversi alla pagina web http://ejatlas.org/accounts/new o contattare il gruppo di ricerca dell’Ejatlas all’indirizzo ejoltmap@gmail.com.

Per contribuire all’Atlante italiano, può inserire i propri dati nella pagina web http://atlanteitaliano.cdca.it/accounts/new. I dati relativi a ogni caso vengono raccolti attraverso una scheda di circa 100 voci, contenenti sia dati qualitativi che quantitativi, e esaminati attraverso un processo di moderazione e validazione delle informazioni. Una volta geolocalizzato sulla mappa, il caso viene pubblicato online e reso disponibile al pubblico per commenti e feedback. In qualsiasi momento il caso potrà venire aggiornato o arricchito di ulteriori informazioni. In alcuni casi poi, dati geografici vengono applicati alle mappe per permettere analisi spazio-geografica e mappe tematiche.

Daniela Del Bene


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Questo è il primo articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas. Nei prossimi numeri verranno pubblicate storie e analisi di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nella mappa. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’atlas le relative schede informative.

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Il terrorismo nella nostra storia 2

 

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I ragazzi di oggi non lo sanno, ma c’è stato un tempo non lontano in cui il terrorismo era indigeno. In Germania, Giappone, Stati Uniti, Francia. E in Italia. Per la quale una cosa va evidenziata: diversamente da altri, il nostro paese ha saputo affrontare il fenomeno rimanendo all’interno dei confini dello stato di diritto. Sia chiaro: quello di oggi è un terrorismo diverso, ontologicamente diverso. Eppure i passi da compiere per sconfiggere fanatismo e violenza non differiscono da quelli del passato.

terr_bader_meinhofÈ estremamente arduo un raffronto fra il terrorismo «indigeno» (Brigate rosse, Prima linea e bande armate di destra) di cui ci si è dovuti occupare in passato nel nostro paese, e il terrorismo internazionale che di questi tempi investe – in maniera sempre più drammatica e pesante – diverse aree del globo. Si tratta infatti di mondi abissalmente e ontologicamente diversi. È tuttavia possibile trarre dall’esperienza passata una qualche generica indicazione.

Il terrorismo di sinistra – in particolare – non è stato un fenomeno esclusivamente italiano. Alla fine degli anni Sessanta gruppi simili alle Br e a Pl sono comparsi in altre democrazie industriali: la Rote Armee Fraktion (conosciuta anche come «banda Baader-Meinhof», ndr) tedesca, l’Esercito rosso giapponese, i Weather Underground e le Black Panthers statunitensi, la Nouvelle resistence populaire in Francia.

Caratteristica esclusiva del nostro paese, però, è stata quella di aver dovuto registrare un terrorismo – di sinistra e di destra – che ha raggiunto capacità offensive decisamente maggiori, rispetto a ogni altra situazione analoga, e assai più persistenti nel tempo (le «prime» Br durano circa 15 anni). Per di più con tendenza alla riemersione ciclica, quasi che la violenza terroristica sia un fiume carsico che non cessa mai di scorrere, neppure quando la storia sembra chiusa.

Nonostante questa pessima «esclusiva», possiamo rivendicare di essere stati il paese dell’antiterrorismo. Nel senso che abbiamo saputo – ben più che in altri paesi – reagire all’offensiva terroristica senza cedere alla tentazione di sbrigative «scorciatornie».

terr_aldo-moro-sequestrato-dalle-brigate-rosseL’obiettivo dei brigatisti era chiaro. Costringere lo stato (a forza di omicidi e «gambizzazioni») a gettare quella che, per loro, era solo una maschera. La maschera di una falsa democrazia, che una volta caduta avrebbe rivelato il volto autentico dello stato: autoritario e fascista. Così le masse avrebbero finalmente «capito» e si sarebbero aggregate intorno alle avanguardie combattenti, le Br. Ebbene, siamo riusciti a non cadere nella trappola di tirare fuori, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, il volto spietatamente repressivo, senza se e senza ma, dello stato. Ciò ci ha aiutati a risolvere meglio le questioni poste dal terrorismo. Perché la risposta a tali problemi dal punto di vista legislativo ha raschiato – lo ha detto più volte la Corte costituzionale – il fondo del barile della corrispondenza ai principi e precetti costituzionali, ma non è mai andata oltre. Perciò i principi fondamentali dello stato di diritto non sono mai stati abbandonati nel nostro paese, a differenza di quanto è accaduto – obiettivamente – in altri paesi.

Abbiamo elaborato una legislazione «specialistica», cioè mirata sulla realtà specifica dei fenomeni da affrontare, ma abbiamo respinto ogni «filosofia» che entrasse in rotta di collisione con i principi democratici. Specialistica ma non «speciale». Non abbiamo creato, in particolare, tribunali speciali e procure speciali, a differenza di altri paesi di democrazia occidentale. In Francia lo hanno fatto. Anche in Germania, in parallelo con l’epidemia di terroristi suicidi in carcere (era il 1977).

Abbiamo celebrato regolari processi, mentre in Gran Bretagna i terroristi dell’Ira (Irish Republican Army) sono stati rinchiusi in campi di concentramento, senza essere processati. Di più: il processo ai capi storici delle Br si è svolto nel pieno rispetto delle regole e persino della identità politica degli imputati (ammessi al controinterrogatorio delle vittime, come nel caso di Mario Sossi, magistrato sequestrato). In Usa problemi analoghi – per esempio nel processo a Bobby Seale (cofondatore delle Pantere nere, ndr) del 1969 per associazione sovversiva – sono stati risolti accusando l’imputato di oltraggio ogni volta che prendeva la parola. Alla fine, per farlo tacere, il giudice Julius Hoffmann fece legare Seale alla sedia con una catena e imbavagliare con nastro adesivo. Il merito del processo, in pratica, non fu trattato.

Nuovi strumenti italiani: la dissociazione

In Italia, va pure ricordato, si è cercato di trovare risposte anche utilizzando (con la stagione delle assemblee) gli strumenti della democrazia diretta: la libertà di associazione e di riunione, il confronto, il dibattito, il dialogo. Così coinvolgendo tutti in problemi che erano appunto di tutti, non delegabili esclusivamente alle forze dell’ordine e alle autorità preposte alla repressione.

Si sono persino cercate soluzioni politiche. Per esempio, con la legge sulla «dissociazione»: senza pentirsi, senza collaborare, i terroristi che lo volevano potevano ottenere forti riduzioni di pena, semplicemente sottoscrivendo una dichiarazione di dissociazione dalla lotta armata. Di fatto una specie di amnistia.

A fronte della tragedia del terrorismo e dello sforzo vincente delle forze sane del paese, rivelano tutta la loro inconsistenza le polemiche astiose scagliate – ieri come oggi – da vari intellettuali, o sedicenti tali, contro la legislazione antiterrorismo e contro i processi italiani. Ma quel che interessa, in questa sede, è soprattutto chiedersi – ferme restando le abissali differenze di cui abbiamo detto – se sia possibile seguire una strada analoga anche per il nuovo terrorismo transnazionale, in un quadro di fermezza che si combini con il rispetto delle regole fondamentali, all’interno dei singoli paesi e sul piano internazionale.

Gridare alla pace (ma soltanto di giorno)

Dopo l’11 settembre, molti sforzi sono stati fatti, molte energie sono state messe in campo per difenderci dall’aggressione criminale del terrorismo. Com’era necessario e inevitabile. La stessa cosa sta accadendo ora, dopo le stragi parigine del 13 novembre. Ma non ci siamo soffermati abbastanza – né allora né oggi – sul fatto che senza diritti non c’è giustizia, e senza giustizia non c’è pace.

Dovremmo partire dalle parole pronunziate da Giovanni Paolo II inaugurando la III Conferenza episcopale latino-americana di Puebla: «La pace intea e internazionale sarà assicurata solo se vige un sistema economico e sociale fondato sulla giustizia…». Significa che il precetto evangelico «fame e sete di giustizia» può anche essere tradotto in questi termini: che un sistema politico si ispiri a logiche di sicurezza è necessario, ma se, alla disperazione di chi vive nell’ingiustizia, si contrappone soltanto uno schieramento armato, se si negano aiuti (effettivi, seri) all’istruzione, alla sanità, allo sviluppo umano, ecco allora che finiamo per avvitarci dentro logiche contorte e inefficaci. Facciamo come Penelope: gridiamo pace di giorno, ma prepariamo ingiustizia (violenze) di notte. Un circolo vizioso che occorre rompere: anche perché esso rischia di introdurre poteri così assoluti da costituire un problema per le libertà e la democrazia, nel momento stesso in cui si compiono azioni finalizzate a tutelare (stando ai proclami anche esportare) proprio libertà e democrazia.

Buonismo, perdonismo, giustificazionismo:
mai sminuire il male

Occorre una coice etica in cui inserire valori di giustizia proclamati da organismi inteazionali. Piero Calamandrei (Le leggi di Antigone, 1946, Il Ponte, la rivista da lui fondata, ndr), riflettendo sul processo di Norimberga, chiedeva che le leggi dell’umanità (invece di essere soltanto frasi di stile, relegate nei preamboli delle convenzioni inteazionali) si affermassero come vere leggi sanzionate. Auspicava che l’umanità (da vaga espressione retorica) diventasse un ordinamento giuridico. Queste parole di Calamandrei possono assumersi come indirizzo ancora oggi: che siano le ragioni dell’umanità, sanzionate dal diritto internazionale, non la forza, non la violenza, a prevalere. In questo modo vincerebbe la saggezza, prima condizione della pace.

Ciò significa rinunziare alla legge del taglione (restituire al male ricevuto altrettanto, se non di più), per provare a vincere il male in modo diverso. Attenzione: questo non comporta affatto sminuire il male. Il male resta male, quindi nessun buonismo, perdonismo, giustificazionismo. Sarebbe vanificare la giustizia. Il problema è provare (per quanto difficile sia, e ferma restando la necessità di innalzare argini robusti contro il fanatismo e la violenza) a inventare forme di risposta che siano capaci di contenere il male, di fermarlo: senza tollerare o creare situazioni che invece lo incentivino senza fine. Il problema è di creare logiche che siano capaci, quanto meno si sforzino, di ricomporre una frateità ferita, divisa da inimicizie profonde. Cercando di essere fratelli oltre i vincoli biologici. Oltrepassando i vincoli delle etnie per provare a fare della moltitudine di popoli che coesistono nel mondo una famiglia nella quale non ci si scanni.

Mi rendo ben conto delle tante obiezioni possibili rispetto alle cose fin qui dette. Sempre più spesso ci si chiede se sia davvero praticabile il dialogo con chi è costituzionalmente sordo perché il suo fanatismo gli impone un unico scopo, quello di sterminare gli «altri». Ci si chiede anche se la fenditura tra musulmani e non (nel mondo intero e nei singoli paesi occidentali) sia ormai diventata così profonda da rendere gli uni e gli altri irreversibilmente estranei e nemici. Quanto è difficile l’emersione dell’islam moderato? E tale emersione è resa ancor più difficile dalla frattura generazionale che si registra nelle moschee? E come eliminare quei macigni che pesano sul quadro complessivo e lo schiacciano, come le enormi ambiguità di quanti (a partire dall’Arabia Saudita) finanziano il terrorismo, gli foiscono le armi e poi bombardano inserendosi in qualche «santa» alleanza? Come arrivare a una vera e autentica cooperazione internazionale, che non sia dettata solo da opportunismi contingenti (come nel caso dell’alleanza francese con la Russia, tutt’ora sotto embargo per i fatti dell’Ucraina)?

Sicurezza sì, ma con diritti e libertà

Vero è (lo ripete da tempo papa Francesco, con visione allargata ai problemi di tutto il mondo, senza strabismi nazionalistici) che siamo di fronte a pezzi – sempre più consistenti – di una «Terza guerra mondiale». Ma forse è un motivo in più – se davvero si vuole uscie – per ricordare che la sicurezza è certamente un bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e dell’impegno più intenso). Un tema decisivo, che però non può essere esclusivo. Altrimenti c’è il rischio che diritti e libertà diventino ostaggio della sicurezza, con conseguenze a catena sempre più vaste e peggiori.

Senza nasconderci (ma nello stesso tempo cercando di reagire con forza ad ogni tendenza alla rassegnazione) che, sotto l’incalzare dei fatti, le parole – troppe volte – possono anche sembrare logore o inadeguate.

Gian Carlo Caselli


Questo articolo di Gian Carlo Caselli è stato condiviso con il quindicinale Rocca (n. 24 del 15 dicembre 2015).

 

L’autobiografia

SOTTO SCORTA

cop_caselli_libro_04È un umanissimo sentimento di amarezza quello che prevale in Nient’altro che la verità, il racconto autobiografico di Gian Carlo?Caselli. Un’amarezza che diventa una sorta di richiesta di perdono nei confronti delle persone a lui più vicine – i genitori (oggi scomparsi), la moglie Laura, i figli Paolo e Stefano – per «aver inflitto [loro] una overdose di preoccupazioni e di sofferenze» e averli fatti vivere «in mezzo ai mitra», in una «situazione da trincea, da filo spinato» (riferendosi a un’intera vita sotto scorta, iniziata nel 1974 e mai terminata). Un’amarezza che è delusione, rimpianto e, a volte, rabbia per alcuni eventi accaduti in 46 anni di magistratura. Come quando, era l’anno 2005, il governo Berlusconi, rabbioso per le incriminazioni di Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri, inventò una legge contra personam per impedirgli di essere nominato «procuratore nazionale antimafia».

Nonostante questo (e altro) la vita professionale di Gian Carlo Caselli è stata ricca di successi, prima nella lotta contro il terrorismo (1974-1986) e poi in quella, più dura, contro la mafia, combattuta dal palazzo di giustizia di Palermo, subito dopo gli omicidi di Giovanni Falcone (maggio 1992) e Paolo Borsellino (luglio 1992), amici e colleghi.

«Sono figlio – scrive nelle prime pagine – di una cultura cattolica e di sinistra. Il fatto di aver trascorso la mia infanzia a contatto con gli operai, le dure condizioni della fabbrica e i sacrifici dei miei genitori spiegano ad esempio la mia sensibilità nei confronti dei poveri, degli ultimi. Sono alla base del mio senso per la giustizia e dello sforzo per la legge come equità».

Se l’autobiografia inizia con il ricordo, recentissimo, della dura contrapposizione con una parte del movimento NoTav e i contrasti con i colleghi di Magistratura democratica, essa finisce con il richiamo alla Lettera ai giudici, la giustizia declinata secondo il pensiero di don Milani nel lontano 1965. Un testo che Gian Carlo Caselli propone come «incoraggiamento e speranza ai magistrati che verranno».

Paolo Moiola