Lavoro, globalizzazione e un salario senza dignità


La competizione esasperata tra multinazionali costringe a ridurre i prezzi di merci e servizi. Per mantenere i profitti, i datori di lavoro diminuiscono i salari. Ecco perché i lavoratori sono sempre più vittime del sistema. In Italia, si stima che gli occupati poveri siano 5,2 milioni.

Da qualche tempo anche in Italia si parla della necessità di istituire il salario minimo legale, una soglia salariale fissata per legge al di sotto della quale nessun rapporto di lavoro può scendere (1). L’esigenza nasce dalla constatazione che ormai anche da noi i rapporti di lavoro sono diventati una giungla dove ognuno fa ciò che vuole. O meglio dove i forti, ossia i datori di lavoro, possono imporre le condizioni che vogliono.

La cronaca riporta casi limite di operai pagati anche due euro l’ora come è stato scoperto presso la Venus Ark, un’impresa di confezioni di Prato, i cui titolari sono stati arrestati per sfruttamento nel settembre 2021. Ma senza arrivare ai casi di totale illegalità, più vicini alla schiavitù che allo sfruttamento, si possono prendere come riferimento le paghe dei rider (2) che, secondo una ricerca della Banca d’Italia del 2018, si aggirano attorno ai 6 euro l’ora.

Sempre meno tutele

In Italia, come nel resto d’Europa, il numero di lavoratori con un alto tasso di tutele si sta assottigliando sempre di più. A cominciare dal tipo di assunzione. Negli anni Ottanta del secolo scorso, l’assunzione abituale era a tempo indeterminato senza possibilità di licenziamento in assenza di giusta causa determinata dalla legge. Tutto ha cominciato a sgretolarsi con la globalizzazione, quel processo avviato negli anni Novanta teso a trasformare il mondo intero in un unico grande mercato nel quale merci e capitali possono spostarsi da una nazione all’altra senza vincoli o limitazioni di sorta. Un traguardo fortemente voluto dalle multinazionali che, per le dimensioni raggiunte, non potevano più accontentarsi di rimanere confinate nelle loro nazioni di origine.

La prima grande vittoria l’hanno ottenuta nel 1995 con l’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio, una sorta di super governo mondiale che regola i rapporti commerciali fra paesi tenendo conto dei soli interessi delle grandi imprese. Tuttavia, proprio quando la globalizzazione ha cominciato a diventare realtà, le multinazionali hanno scoperto che il grande mercato mondiale che sognavano non esiste. Semplicemente perché le persone capaci di comprare i loro prodotti non vanno oltre il 30-40% della popolazione mondiale. Tutti gli altri sono solo zavorra, persone che a causa della loro povertà non entrano mai in un supermercato.

Così, tante multinazionali (all’incirca un milione) si stanno contendendo un mercato, tutto sommato, limitato che non ha possibilità di espansione immediata. Ne è venuta fuori una concorrenza all’ultimo sangue giocata essenzialmente sulla diminuzione dei prezzi. Ma ogni volta che questi vengono ritoccati, bisogna trovare il modo di ridurre anche i costi di produzione, altrimenti i profitti soffrono. Ecco perché, nell’epoca della globalizzazione, il lavoro è finito sotto assedio. Finché le economie erano organizzate su base nazionale, la via classica di riduzione del costo del lavoro era l’automazione, ma, in un sistema totalmente aperto, le imprese hanno scoperto anche la via della delocalizzazione, il trasferimento delle attività produttive in paesi dove la povertà morde così tanto da rendere i lavoratori disponibili a svolgere le stesse mansioni dei loro colleghi europei o nordamericani per salari anche trenta volte più bassi.

Sono sempre di più i «working poor», i lavoratori senza un salario «vivibile». Foto John R.Perry – Pixabay.

Il lavoro secondo l’Ocse

Nessuno sa quanti posti di lavoro siano stati persi nei paesi di prima industrializzazione, a causa dei trasferimenti produttivi nei paesi a bassi salari. Ma è un fatto che molti settori continuano a perdere addetti. I recenti casi di Gkn e Whirpool in Italia lo testimoniano. Già nel 1994, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il centro studi dei paesi industrializzati incaricato di elaborare strategie economiche, suonò il campanello d’allarme con la pubblicazione del Jobs study, un rapporto sullo stato dell’occupazione nei paesi industrializzati. Fin dalle prime righe non faceva mistero della gravità del problema: «La disoccupazione è il fenomeno del nostro tempo che mette più paura. Ci sono 35 milioni di disoccupati nei paesi aderenti all’Ocse, mentre altri 15 hanno smesso di cercare lavoro oppure hanno accettato, contro la loro volontà, un lavoro part time. Almeno un terzo dei giovani è senza lavoro». Ma lungi dal voler rimettere in discussione la globalizzazione, la ricetta dell’Ocse si chiamava riforma del lavoro. Il ragionamento era semplice. I paesi di nuova industrializzazione attirano le imprese perché offrono costi di produzione più bassi. Dunque, se vuole fare tornare le imprese in casa propria, il Nord deve creare condizioni altrettanto allettanti. È la legge della competitività, bellezza. Ed ecco i suggerimenti: ridurre le tasse sui profitti, ridurre il peso per oneri sociali, rendere il lavoro più flessibile, ossia più disponibile ad adattarsi alle esigenze della produzione.

Lavoratori vulnerabili

Ancora oggi tutti i governi, siano essi di destra o di sinistra, usano queste misure come stella polare. E per farle digerire ai cittadini, la mettono sempre sul piano del meno peggio: «Preferite essere disoccupati che non guadagnano niente o sottoccupati che almeno 500 euro al mese li prendono?». E ponendoci sempre di fronte al dilemma della sopravvivenza, alla fine ottengono non solo il consenso dei cittadini, ma anche i loro ringraziamenti.

Secondo i calcoli dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil), i lavoratori «vulnerabili», ossia precari, malpagati e in situazioni a rischio, nel mondo sono quasi un miliardo e mezzo, il 42% di tutti gli occupati. La metà di loro sono definiti working poors, lavoratori poveri, perché percepiscono compensi al di sotto dei tre dollari al giorno, la soglia limite della povertà.

Lavoratori, ma poveri

La novità è che ora i working poors abitano anche fra noi. I loro tratti distintivi sono paghe basse, discontinuità lavorativa, scarse ore di lavoro. A seconda che si prenda in considerazione un solo criterio o la combinazione di più elementi, si ottengono risultati diversi sul numero dei working poors di casa nostra. Prendendo a riferimento la sola  paga oraria, l’Istat preferisce parlare di sperequazione retributiva piuttosto che di povertà. Posta la mediana nazionale a 11,21 euro l’ora, l’Istat definisce a bassa paga chiunque riceva meno di 7,47 euro l’ora, che corrispondono a due terzi della media nazionale. Il Cnel stima che i lavoratori a bassa paga siano oltre tre milioni, il 17,9% di tutti i lavoratori dipendenti, principalmente lavoratori domestici, dell’agricoltura, delle costruzioni. Ma anche della piccola industria considerato che in settori come l’abbigliamento si applicano contratti collettivi di comodo che, per le categorie più basse, prevedono salari orari al di sotto dei 7 euro.

Un caso è rappresentato dal contratto 2015-2018 firmato fra Fedimprese e Snapel per le aziende façon (operanti per conto terzi). Un settore a prevalente presenza femminile che conferma come l’ingiustizia retributiva colpisca soprattutto le donne.

Se moltiplichiamo la paga oraria per le ore lavorate, otteniamo i compensi mensili e annuali che ci danno un’idea più compiuta delle disponibilità monetarie dei lavoratori e quindi della loro condizione economica. Ed è proprio il reddito annuale il parametro utilizzato per stabilire chi sono i lavoratori poveri, ricorrendo ancora una volta al confronto, piuttosto che ai concetti assoluti. Il valore preso a riferimento è il reddito familiare mediano che, in Italia, corrisponde a 25mila euro. Per convenzione, si definisce lavoratore povero chiunque guadagni meno del 60% di tale importo, ossia meno di 15mila euro l’anno. Quanti siano con esattezza è difficile dirlo. Secondo il Cnel (anno 2018) sono 5 milioni e 247mila, il 31% di tutti gli occupati.

Costituzione italiana e dichiarazione

Ora, però, il gioco al ribasso si sta mostrando pericoloso per il sistema stesso, e la politica, da sempre al servizio dell’economia, sta cercando un exit strategy. Ed ecco il salario minimo come via d’uscita, che però è vera soluzione solo se rispetta certi criteri. Altrimenti si trasforma in farsa come succede in molti paesi dove è fissato addirittura sotto la soglia della povertà assoluta. Valgano come esempio Haiti o il Burkina Faso dove esso si trova a meno di 50 centesimi di euro l’ora. E non va certo meglio in alcuni paesi dell’Unione europea, come la Romania dove è fissato a 2,8 euro l’ora o la Bulgaria dove si trova a 2 euro l’ora. Per contro in Germania è fissato a 9,50 euro l’ora, mentre in Lussemburgo varia dai 9,50 euro per gli apprendisti ai 15,27 per gli specializzati. Il punto è che il salario minimo non è un elemento neutro: a seconda di dove viene posizionato avvantaggia i lavoratori o le imprese, riduce le disuguaglianze o le acuisce, colma le lacune sociali o le aggrava. E poiché anche nelle democrazie, il potere è detenuto dalle classi agiate piuttosto che da quelle umili, difficilmente il salario minimo è definito secondo criteri di dignità e rispetto. Piuttosto è concepito come strumento di contenimento dell’esasperazione sociale. Prova ne sia che anche nell’Unione europea l’orientamento dominante è di fissarlo al 60% del salario mediano nazionale che è la linea di confine del lavoro in povertà.

L’alternativa è prendere sul serio l’articolo 36 della Costituzione italiana che recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Affermazione che fa il paio con l’articolo 23 della Dichiarazione universale dei Diritti umani, secondo il quale il lavoratore «ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale».

Sono sempre di più i «working poor», i lavoratori senza un salario «vivibile». Foto Brian Odwar – Pixabay.

Il salario «vivibile»

È proprio a partire da questi principi che sta avanzando l’idea di un salario minimo inteso come salario vivibile. Un salario, cioè, che con 40 ore di lavoro settimanale permetta al singolo lavoratore e ai suoi familiari di far fronte ai bisogni di base individuati in cibo, alloggio, vestiario, sanità, energia, trasporti, istruzione. Un conteggio sicuramente non facile perché, oltre alla composizione del nucleo familiare, la vivibilità del salario dipende anche dal tipo di clima in cui si vive, dal livello degli affitti, dalla quantità di servizi gratuiti offerti dallo stato. Tuttavia, alcune organizzazioni, fra cui la Clean clothes campaign, rappresentata in Italia dalla «Campagna abiti puliti», stanno mettendo a punto dei metodi di calcolo di salario vivibile che, pur  nella loro parzialità, offrono buoni livelli di affidabilità.
Per l’Italia i calcoli sono ancora in corso, ma si profilano cifre ben al di sopra degli attuali minimi contrattuali, almeno in alcuni settori. Del resto i contratti non sono il frutto di ciò che è giusto, ma di ciò che è possibile in base alla forza di cui si dispone. E in un momento in cui la forza sindacale è in calo a causa di alti tassi di disoccupazione e di una legislazione accomodante per le imprese, sarebbe estremamente utile per i sindacati poter contare su un salario minimo legale fissato secondo criteri di vivibilità. Non tutti, però, la pensano così, e anzi c’è chi interpreta l’intervento del legislatore   come un’indebita intromissione in un ambito di esclusiva competenza sindacale. E forse hanno ragione, ma nella storia bisogna anche saper rivedere le proprie strategie in base al mutare dei rapporti di forza: dove non possono la morale e l’etica, sono i fallimenti a indicare la strada più giusta da intraprendere.

Francesco Gesualdi

(1) Questo articolo va ad aggiornare «Per un salario dignitoso (nell’era della disoccupazione)», pubblicato su MC a novembre 2019.

(2) Sui riders si legga «Il capitalismo delle piattaforme digitali», MC, luglio 2020.




Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale


Sul mercato gli individui non sono tutti eguali. La soluzione non è però il «capitalismo compassionevole». È compito dello stato correggere le distorsioni con l’imposizione fiscale. Soltanto così è possibile perseguire la giustizia sociale.

La generosità è un valore, ma quanto è sano affidare la soluzione dei problemi sociali alla libera generosità dei cittadini? È una domanda che vale la pena porsi perché si fa sempre più marcata la tendenza a trasformare la solidarietà in un optional.

L’optional ci piace, ci dà un senso di libertà che ci imprime leggerezza. Del resto, questo è il sogno che il mercato ci trasmette: i mercanti offrono, i consumatori scelgono. In piena libertà. Se vogliono prendono, altrimenti lasciano. Almeno così va l’adagio. In realtà, c’è anche la situazione in cui si vorrebbe comprare, ma non si può perché non si hanno i soldi per farlo. Questo tipo di impossibilità materiale, al mercato non interessa. Eppure, è proprio questa non libertà, altrimenti chiamata miseria, che dobbiamo prefiggerci di eliminare tramite ciò che Rousseau ha chiamato «Contratto sociale»: la rinuncia da parte di tutti di un frammento di libertà individuale per costruire una libertà collettiva più ampia. La libertà più ampia si chiama «giustizia sociale». Il frammento di libertà individuale ridotta si chiama «imposizione fiscale».

Ricchi e poveri

L’umanità, almeno quella occidentale, ci ha messo qualche millennio per guardare ai poveri come a persone ferite nella loro dignità. Fino a qualche secolo fa eravamo talmente barbari da considerare legittima la schiavitù e la servitù della gleba. Complici le espressioni religiose, compresa quella cristiana, che per vari secoli ha avallato l’ordine costituito comprendente la schiavitù.

È famoso l’invito contenuto nella terza lettera di Paolo ai Colossesi: «Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore». Posizioni riprese da importanti esponenti ecclesiastici successivi che invitavano i poveri ad accettare con rassegnazione la propria posizione di sofferenza. Nel contempo, però, si rivolgevano anche ai ricchi affinché sapessero essere caritatevoli.

Una combinazione comportamentale poco comprensibile sul piano sociale, forse con una sua giustificazione escatologica se concepiamo la miseria, e più in generale la sofferenza, come un’opportunità di prova al servizio di un tribunale celeste la cui funzione principale è quella di giudicare l’umanità. Ognuno secondo la propria posizione: i miseri messi alla prova rispetto alla capacità di accettare la sofferenza, i benestanti messi alla prova rispetto alla capacità di attivare sentimenti di pietà. Da cui l’imperativo ai miseri di accettare la propria condizione di sofferenti e ai benestanti di destinare parte delle proprie fortune in beneficienza per sollevare le sorti dei miseri. Impostazione che, nel Medioevo, permise la crescita di ospedali, mense, ricoveri, gestiti dalla Chiesa con i soldi messi a disposizione dalla nascente classe mercantile che aveva incluso la beneficienza nei propri bilanci economici sotto la voce «conto di messer Domeneddio». Primordi di quel capitalismo compassionevole che la tradizione protestante rafforzerà ulteriormente.

È un mondo costruito attorno ai soldi. Foto Pixabay.

L’affermazione dei diritti

L’idea di liberazione totale dalla miseria, e più in generale dalla sofferenza, inizia a farsi strada a fine Settecento quando l’illuminismo introduce il concetto di diritto. Una condizione positiva e inviolabile che deve essere garantita ad ogni essere umano per il fatto stesso di esistere. Un principio che, essendo stato coniato dalla classe borghese, inizialmente era limitato ad alcuni diritti civili: libertà di pensiero, proprietà privata, tutela giuridica. Più tardi, però, i movimenti socialisti riuscirono ad estendere il concetto di diritto anche ad aspetti sociali. E la completezza si raggiunse nel 1948 con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo da parte dell’Onu che all’art. 25 recita: «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

Affermati i diritti, la domanda che dobbiamo porci è chi deve garantirli. Di sicuro, non la solidarietà individuale per sua natura incerta e precaria. I diritti si pretendono dalla comunità, la quale deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva. Esattamente come prevede la nostra Costituzione, che nello stesso articolo, il numero 2, richiama i diritti e istituisce il dovere di solidarietà: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E poiché viviamo in un sistema basato sul denaro, uno degli strumenti cardine della solidarietà è quello fiscale a cui «tutti devono concorrere in ragione della propria capacità contributiva».

Così afferma l’articolo 53 della Costituzione, che aggiunge: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Un criterio che potrebbe essere riassunto con la massima: quanto più guadagni, tanto più devi essere disponibile a pagare aliquote più alte.

Nel secondo dopoguerra, quando la scena era dominata da un forte movimento operaio, in tutta Europa venne raggiunto un alto livello di welfare finanziato da un sistema fiscale che colpiva in maniera particolare le classi ricche. Perfino negli Stati Uniti nel 1963 l’aliquota oltre i due milioni di dollari (rivalutati ad oggi) era al 91%. In Italia la riforma fiscale del 1974 organizzò l’imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef) su 32 scaglioni con l’ultima aliquota al 72% oltre i 258mila euro. Ma non passò molto tempo che già si cominciò ad attenuare la progressività riducendo gli scaglioni e modificando le aliquote fiscali con innalzamento di quelle sui redditi medio bassi e riduzione su quelli alti.

Patrimoniale? «Sì, grazie»

Ormai stava soffiando un nuovo vento, il vento neoliberista, riassumibile in tre parole chiave: più mercato, più profitti, meno stato. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati nove, con l’aliquota più bassa al 18% e quella più alta al 65%, nel 2007 gli scaglioni li troviamo a cinque con l’aliquota più bassa al 23% fino a 15mila euro e la più alta al 43% oltre 75mila euro.

La conclusione è che su un reddito di 3 milioni di euro (secondo il valore di oggi) nel 1974 lo stato si sarebbe preso 1 milione e 713mila euro (57,1%), oggi se ne prende solo 1 milione e 283mila (42,7%). Da una ricerca condotta da Cadtm (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi), si apprende che fra il 1983 e il 2017 i favori accordati alle classi ricche hanno procurato allo stato un mancato incasso stimabile in 146 miliardi. Ammanco che ha prodotto due risultati: aumento del debito pubblico e meno diritti.

Ad esempio, nel suo rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) del 2021, l’Istat certifica che «tra il 2010 e il 2018, l’offerta ospedaliera è andata modificandosi, con una riduzione delle strutture e dei posti letto. In particolare, il numero di questi ultimi è diminuito in media dell’1,8% l’anno, fino ad arrivare, nel 2018, a una dotazione di 3,49 posti letto – ordinari e in day hospital – ogni 1.000 abitanti».

A giudicare dall’intensità con cui si raccolgono fondi, la ricerca sembra uno dei settori meno sostenuti dalla mano pubblica. Ogni anno la Rai indice la settimana di raccolta fondi per Telethon, la fondazione che finanzia la ricerca a favore delle malattie rare. Identicamente anche la fondazione Firc-Airc s’inventa ogni sorta di iniziativa per raccogliere fondi a favore della ricerca sul cancro. La rivista Vita che elabora i dati forniti dal ministero dell’Economia e delle Finanze sulle detrazioni e deduzioni per erogazioni liberali, stima che nel 2019 l’insieme delle donazioni versate dagli italiani, ammonti a 5,3 miliardi di euro, che rappresenta quasi il 3% del gettito Irpef incassato dallo stato.

Basterebbe aumentare di qualche punto l’aliquota sui redditi alti e lo stato potrebbe incassare ciò che serve per garantire i fondi ad attività essenziali come la ricerca, il miglioramento della sanità, l’assistenza a fasce fragili oggi lasciate alla benevolenza. E ancora di più potrebbe essere raccolto se si introducesse una patrimoniale, ossia una tassazione sull’insieme della ricchezza posseduta. Che è una proposta fatta nel dicembre 2020 da alcuni parlamentari di Leu e del Pd che prevedeva l’introduzione di quattro scaglioni d’imposta. Partendo da un’aliquota dello 0,2% su un patrimonio complessivo di 500mila euro, l’aliquota sarebbe dovuta salire allo 0,5% al raggiungimento di un milione di euro, per andare all’1% sopra i 5 milioni e finire al 2% oltre i 50 milioni. Percentuali tutto sommato modeste, che però non hanno trovato il consenso del parlamento che ha bocciato l’intera proposta.

Dollari. Foto Rabe-Pixabay.

Paradisi e perdite fiscali

Perfino l’Ocse, l’istituto dei paesi occidentali addetto alle analisi economiche, ammette che disuguaglianze e dissesto sociale sono fenomeni aggravati da un sistema fiscale sempre più accomodante con i ricchi. E cita al riguardo la tassazione dei redditi d’impresa scesa mediamente dal 32,5% nel 2000 al 23,9% nel 2018. Non contente molte imprese globali ricorrono ai paradisi fiscali per occultare i propri guadagni e non avere da pagarci sopra un bel niente. Tax justice network stima che lo spostamento di profitti e ricchezze nei paradisi fiscali abbia provocato agli stati una perdita fiscale di 427 miliardi di dollari nel 2020. E in prima fila, fra i furbetti dell’evasione (tax avoidance, per dirla all’inglese), si trovano i colossi del web, gli stessi che permettono ai propri amministratori delegati di comparire ai primi posti per donazioni: Jeff Bezos patron di Amazon, MacKenzie Scott moglie dello stesso, Jack Dorsie patron di Twitter, Charles Schwa patron di Netflix. Aziende queste che, tra l’altro, non brillano neanche per rispetto dei diritti dei lavoratori.

Strana logica quella di arricchirsi alle spalle dei lavoratori e delle casse pubbliche e poi mostrarsi buoni versando qualche briciola in beneficienza. Strana in una prospettiva morale, ma perfettamente coerente in una prospettiva di potere. Perché, alla fine, di questo si tratta: mostrare un po’ di bontà di facciata con il duplice scopo di ottenere consenso attorno a uno dei peggiori sistemi economici che l’umanità abbia partorito e controllare punti strategici del sistema.

Tipico quello dei vaccini, su cui la fondazione Bill Gates (ex patron di Microsoft) ha investito somme altissime, e quello delle Nazioni Unite finanziata a piene mani da privati fra cui Ted Turner (cofondatore della Tv globale Cnn). Del resto, il secondo finanziatore dell’Organizzazione mondiale della sanità è proprio la Fondazione Bill Gates che contribuisce per il 10% circa. «Dopo tutto – per dirla con le parole di Nicoletta Dentico, autrice di Ricchi e buoni? (si veda Dietro la bontà del capitalismo, MC gennaio-febbraio) – una mano lava l’altra. La ricchezza delle aziende permette la filantropia, la filantropia apre nuovi mercati alle aziende. Il filantrocapitalismo non ci rimette mai. La democrazia, sì».

Francesco Gesualdi

 




Il lavoro (nell’era dei mercanti)

testo di Francesco Gesualdi


La teoria economica classica distingue tre fattori di produzione: terra, capitale e lavoro. La loro parabola è stata opposta. I primi due sono diventati sempre più rilevanti, il terzo sempre meno. Prima a causa della rivoluzione industriale, poi della globalizzazione neoliberista e oggi per la rivoluzione informatica e robotica.

Da quando l’uomo ha messo piede sulla terra ha sperimentato che, per procurarsi da vivere, non è sufficiente la sola forza muscolare. Altri due elementi sono di fondamentale importanza: gli strumenti (oggi chiamati tecnologia) e la terra (oggi, la natura e gli ecosistemi). Benché molto diversi fra loro, da quando siamo entrati nell’«era dei mercanti», questi due aspetti hanno finito per essere etichettati sotto la stessa categoria: il capitale. Tant’è che, se parla il proprietario terriero, il suo capitale è la terra; se parla l’allevatore, il suo capitale sono gli animali; se parla l’imprenditore manifatturiero, il suo capitale sono le macchine. Una scelta non casuale: il linguaggio è fra i più potenti condizionatori del pensiero.

Premesso che capitale è sinonimo di importante, fondamentale, senza accorgercene siamo cresciuti con la convinzione che gli aspetti essenziali dell’attività economica siano le macchine, i palazzi, i terreni, le miniere. In una parola, diamo valore a ciò che il mercante reclama come «suo», mentre disprezziamo tutto il resto. In particolare, lavoro e beni comuni. È il trionfo del pensiero mercantile.

Senza mezzi

Un tempo, quando l’economia ruotava attorno all’agricoltura, il capitale di riferimento era la terra. Oggi è rappresentato principalmente dalla tecnologia. Sopra all’uno e all’altro, domina il denaro che, rappresentando la chiave di accesso a qualsiasi bene, ha finito per essere il capitale per eccellenza. Tant’è che il sistema bancario e finanziario oggi è il vero dominus dell’economia.

Ma ciò che interessa notare è che, nel corso della storia, si è assistito a una separazione crescente fra capitale e lavoro. E non per rinuncia da parte dei lavoratori a possedere i  propri mezzi di produzione, ma per la prepotenza di pochi a prendersi con la forza il capitale di tutti. Non a caso, in molti paesi del Sud del mondo, i senzaterra continuano a lottare per riprendersi ciò che i latifondisti hanno accumulato con il sopruso.

Gli storici riempiono pagine per raccontarci delle scorribande organizzate dai vari sovrani per strapparsi le terre a vicenda, ma la vera guerra che si dovrebbe studiare è quella combattuta all’interno delle singole comunità da parte di pochi prepotenti per sottrarre terre ai propri conterranei. Con l’obiettivo esplicito di ridurre la popolazione in povertà e costringerla a lavorare al proprio servizio. Per un certo periodo addirittura in schiavitù. Poi, per fortuna, lo spirito si è affinato e la schiavitù (intesa come  sopraffazione dell’uomo sull’uomo attraverso la proprietà della persona) non è stata più ammessa. Ma non è cresciuta  la condanna per la povertà e a partire dal 1600 in Europa si sono intensificati i meccanismi per privare le famiglie rurali dei propri mezzi di sostentamento. In Inghilterra sono famose le leggi emanate per privatizzare  le terre comuni, l’unica fonte di sostentamento a disposizione dei nullatenenti. Improvvisamente milioni di individui si sono trovati costretti a migrare verso le città in cerca di una soluzione. Che passava  per una sola strada: la vendita del proprio lavoro, unica merce a loro disposizione. Del resto l’obiettivo era proprio questo: permettere alla nuova classe dominante, che ora si basava sul capitale industriale, di poter disporre di uno sterminato esercito di nullatenenti costretti a svendersi. Alla fine il progetto di espropriazione ha sortito i propri effetti: noi tutti siamo nullatenenti capaci di vivere solo se troviamo qualcuno disposto a comprarsi il nostro lavoro. La condizione di spossessamento è talmente diffusa che non ci facciamo neanche più caso: ci pare semplicemente normale dipendere da qualcun altro per poter vivere, anche se vendere lavoro significa vendere il proprio tempo ossia parte della nostra esistenza. Forse servirebbe qualche riflessione in più sulla liceità del lavoro salariato.

L’economia dello scarto

Dopo averci ridotto al rango di nullatenenti e averci convinti che l’unico modo per vivere è spendere al supermercato i soldi guadagnati vendendo il nostro lavoro, è successo che il sistema ci ha strappato il tappeto da sotto i piedi. Ci ha semplicemente informati che di lavoro per tutti non ce n’è, perché il capitalismo non è organizzato per creare lavoro, ma per distruggerlo. Il fatto è che per i capitalisti il lavoro è solo un costo da contenere, una merce qualsiasi da comprare al prezzo più basso possibile. E poiché la legge di mercato sancisce che il prezzo scende quando c’è più offerta che domanda, per fare scendere il prezzo del lavoro bisogna creare più offerenti di lavoro di quanto siano i posti disponibili. Un progetto definito da papa Francesco come l’«economia dello scarto», e se fino a ieri gli scartati eravamo abituati a vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo sempre più nelle nostre case, a giudicare dalla crescita dei poveri e dei disoccupati.

Trasformato il lavoro in una variabile dipendente dall’andamento del mercato e dai calcoli di convenienza del mercante, l’umanità è sprofondata in una situazione d’insicurezza mai vista prima. Era brutta la condizione di schiavi e servi della gleba, ma – paradossalmente – fra una frustata e l’altra ci scappava anche la scodella di fagioli, perché il padrone aveva bisogno di tutti e aveva interesse a che tutti gli abili al lavoro rimanessero in vita. Oggi invece, il sistema può permettersi di dire a qualche miliardo di persone che sono in sovrappiù e può condannarli a vivere rovistando fra i  rifiuti prodotti dai pochi ammessi.

Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un sistema che si è organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi costantemente lavoro a buon mercato. Ai primordi della rivoluzione industriale l’esercito di riserva venne creato – lo abbiamo ricordato – con la privatizzazione delle terre comuni. In seguito il pezzo forte è stata la tecnologia: l’introduzione di macchine sempre più veloci ed autosufficienti capaci di sostituirsi ai lavoratori. Un processo che si è intensificato con l’avvento dell’informatica come mostra l’avanzata dei robot e dell’intelligenza artificiale in ogni ambito del vivere industriale e umano. Nessuno sa ancora quanti posti di lavoro verranno distrutti dalla robotizzazione. Qualcuno sostiene che alla fine sarà un’operazione a somma zero: da una parte si perderanno posti, ma dall’altra se ne creeranno. A rimetterci saranno le mansioni meno qualificate mentre crescerà la richiesta di ingegneri, matematici, programmatori. Un ottimismo confortato dalla constatazione che, in passato, nonostante l’introduzione delle macchine, alla fine l’occupazione ha tenuto. Ma il contesto era diverso. Per cominciare c’era un’Europa da ricostruire e molta strada da fare sul piano dei consumi. Inoltre c’erano governi molto interventisti che attivavano tutti gli strumenti a propria disposizione per stimolare gli investimenti. E per finire le imprese erano molto più legate ai propri territori perché c’erano regole assai più stringenti rispetto alla circolazione internazionale dei capitali e delle merci. Ma gradatamente tutto questo è cambiato: il mercato si è saturato, il neoliberismo ha tarpato le ali agli stati, merci e capitali hanno avuto licenza di muoversi in piena libertà a livello mondiale. Le imprese, insomma, hanno assunto il mondo intero come territorio di riferimento anche da un punto di vista produttivo e tutte le carte hanno cominciato a rimescolarsi.

Disoccupati al Nord, sfruttati al Sud

Con la globalizzazione, miliardi di persone mantenute in povertà da cinquecento anni di colonialismo, sono state riscoperte dal sistema delle imprese, non come consumatori, ma come lavoratori a buon mercato. E l’intera geografia internazionale del lavoro è stata ridisegnata. Marchi storici con una solida filiera produttiva nei paesi in cui erano nati, hanno scoperto che è più conveniente sbarazzarsi della produzione che mantenerla. La soluzione è appaltarla a terzisti esterni reperiti ora in Corea del Sud, ora in Cina, ora in Bangladesh, in base alle condizioni offerte. Così il mondo delle imprese si è ristrutturato e la produzione frantumata, internazionalizzata, deflagrata: un pezzo qua, un pezzo là; un anno qui, un anno là: sempre in movimento a seconda dei calcoli di convenienza. Il risultato è più lavoro sfruttato al Sud e meno lavoro garantito al Nord. Ovunque più concorrenza fra lavoratori disposti a ridurre i propri salari e i propri diritti pur di ottenere un posto di lavoro. E i risultati si vedono: nei paesi più ricchi, fra il 1975 e il 2011, la quota di reddito nazionale andata ai salari è diminuita mediamente del 10%, passando dal 67% al 56%. In Italia, la diminuzione è stata addirittura dell’11,8%, contro il 6,2% della Francia e il 4,2% del Giappone. Una perdita a tutto vantaggio dei profitti che sono cresciuti specularmente.

Poi gli immigrati

Anche l’immigrazione è usata per alimentare la discesa dei salari e dei diritti. Ma al contrario di quello che si potrebbe pensare, non è l’apertura a favorire lo sfruttamento, bensì la chiusura. Più si chiudono le frontiere, più si creano ostacoli al rilascio dei permessi di soggiorno, più cresce l’immigrazione clandestina e irregolare che va a finire tutta fra le braccia dell’economia in nero e criminale. In Italia la politica degli ultimi governi, che ha ridotto l’accoglienza, ha abolito i permessi di soggiorno per motivi umanitari, ha reso più difficile il riconoscimento dello status di rifugiato, ha prodotto 650mila irregolari. Un esercito di braccati che non potendo svolgere un lavoro regolare finisce inevitabilmente fra le grinfie dei caporali che usano l’arma del ricatto per portali nei campi e nei cantieri edili a lavorare per due euro l’ora.

L’occupazione è citata da tutte le forze politiche come una priorità. Ma spesso è solo strumentalizzata per giustificare investimenti pubblici inutili e dispendiosi, o per avallare attività private socialmente inaccettabili e ambientalmente dannose. E si può parlare di strumentalizzazione perché nel contempo si rendono complici della costruzione di un ordine economico che dà sempre più potere ai mercanti. Che è come affidare il servizio antincendio ai piromani. La via d’uscita si può ottenere solo costruendo un altro potere economico, di tipo pubblico, parallelo a quello dei mercanti. Oggi i mercanti si sentono onnipotenti perché sanno di possedere il monopolio della produzione e del lavoro. Ma quando si renderanno conto di non essere più così determinanti, perché la gente trova altrove la soluzione ai propri problemi, allora verranno a più miti consigli. Spesso per spengere gli incendi si usano i controfuochi in modo da creare delle aree prive di vegetazione che impediscono alle fiamme di avanzare. Dovremo adottare la stessa strategia anche in ambito economico, per impedire al fuoco mercantilista di divorarsi tutto.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)