Burkina Faso. Continuano massacri e repressione

 

«È a causa di quello che hanno fatto i vostri parenti che siete qua. Voi pensate di poter prendere tutto il Burkina Faso. È la vostra fine», urla in moore (la lingua dei mossì, l’etnia maggioritaria in Burkina Faso) una voce fuori campo, presumibilmente della stessa persona che sta girando un rudimentale video con il telefono.

Nelle immagini si vede una donna a terra morta con la testa sanguinante, e vicino a lei un bimbo piccolo, visibilmente scioccato. Decine di video terrificanti hanno invaso i social media dei burkinabè un paio di settimane fa. Sono stati girati nei pressi della città di Solenzo, nella provincia Banwa, l’estremo Ovest del Burkina Faso.

Documentano i massacri avvenuti tra il 10 e l’11 marzo, riporta Human rights watch (Hrw), l’organizzazione per la difesa dei diritti umani basata a New York. Nei video si vedono decine di uomini, donne e anche alcuni bambini uccisi o feriti. Sono ammucchiati a terra o su mezzi di trasporto. Cadaveri e feriti senza distinzione. A girare i video sono stati gli stessi autori dei crimini, i «Volontari per la difesa della patria» (Vdp), che hanno così firmato la carneficina. Sulle loro maglie si legge «Gruppo di autodifesa di Mahouna», oppure «Forza rapida di Kouka», tutte località della zona di Solenzo.

I Vdp sono gruppi paramilitari, presenti in tutto il Paese e sostenuti dal Governo, nati alcuni anni fa, con il presunto obiettivo di difendere la popolazione dall’attacco dei gruppi armati jihadisti, penetrati in Burkina fino dal gennaio 2016.
I ricercatori di Hrw hanno esaminato gli spezzoni di video e hanno contato, con approssimazione per difetto, almeno 58 cadaveri.

Secondo diverse testimonianze locali, il massacro è avvenuto ai danni della popolazione di etnia Peulh (Fulani). Questo gruppo è genericamente accusato di favoreggiamento dei jihadisti, a causa della stessa appartenenza etnica di molti membri degli islamisti (è a questo che si riferisce la voce del video citato sopra). Secondo fonti di Hrw, «il 10 e l’11 marzo, l’esercito burkinabè e le milizie alleate hanno compiuto una vasta operazione nelle campagne di Solenzo e colpito dei Peulh sfollati, apparentemente in rappresaglia contro la comunità che il Governo accusa di sostenere i combattenti islamisti». L’odio etnico pare essere oramai penetrato, anche in quest’area dell’Africa dove non si era mai verificato.

Incitazione allo sterminio
Intanto il 21 marzo, il procuratore della Repubblica, Blaise Bazié, ha aperto un’inchiesta per «incitazione all’odio» a causa dei molti messaggi circolanti sui social network inneggianti allo sterminio dei Peulh. Testi del tipo: «Lanciare operazione zero Peulh nelle 45 provincie del Burkina Faso». Amnesty International fa notare che sono circa quattro anni che avvengono queste inchieste, ma alcuna sanzione è stata mai imposta: «Ci sono denunce, richiami alla legge, ma purtroppo non seguite da sanzioni. […] Questa impunità si manifesta come una normalizzazione della violenza verso la comunità Peulh e facilita la sua perpetuazione».
Un comunicato del portavoce del Governo, datato 15 marzo riporta che «una vasta campagna di disinformazione fa seguito ai recenti avvenimenti di Solenzo, con l’obiettivo di discreditare i nostri valorosi combattenti e impaurire la popolazione pacifica». La giunta militare, al governo dall’ottobre 2022, considera questi video dei falsi, montati ad arte e diffusi allo scopo di screditare il suo operato per la sicurezza.

I civili nel mirino
Il massacro di Solenzo, purtroppo, non è un fatto isolato. Dal 2023 si contano oltre 500 i civili trucidati nelle campagne burkinabè. Quelli maggiori sono stati: Karma, aprile 2023, 150 morti; Zaongo, novembre 2023, 100 morti; Soro, febbraio 2024, 220 morti e Gayeri, tra il 2023 e il 24, diverse decine di vittime.
I jihadisti, dal canto loro, compiono attacchi selettivi, sovente contro le forze dell’ordine, nelle zone più remote del Paese. Ma non solo. Attaccano anche villaggi e uccidono civili inermi e creano vasti movimenti di popolazione in fuga.
Circa due milioni di persone, quasi il 10% della popolazione, sono state costrette a fuggire dalle proprie case a causa di scontri armati e problemi di sicurezza negli ultimi anni (riporta il Consiglio norvegese dei rifugiati).
Da ricordare tra tutti il massacro di Barsalogho, il 24 agosto 2024, quando il «Gruppo di sostengo all’islam e ai musulmani» (Gsim o Jnin, in arabo Jama’at al-Islam wa al-Muselimeen), una delle sigle dei movimenti jihadisti presenti in Sahel, legata questa ad al Qaeda, è stato responsabile dell’uccisione dalle 300 alle 400 persone. Il maggiore eccidio avvenuto ad oggi nel Paese.
Questo gruppo è stato particolarmente attivo proprio nella provincia di Banwa, tra fine 2024 e inizio 2025.
Hrw ha verificato che le forze armate burkinabè e i Vdp hanno commesso abusi generalizzati durante le operazione di contro insurrezione in tutto il Paese, comprese uccisioni illegali di civili che accusano di sostenere i combattenti islamisti.

Repressione politica
D’altro lato il governo della giunta militare guidata da Ibrahim Traoré, spinge su una retorica militarista e sovranista. E non ammette dissenso. Uomini, spesso in borghese, prelevano e fanno scomparire giornalisti e attivisti per i diritti umani, che poi ricompaiono nelle prigioni di Stato settimane dopo il sequestro.
È così che il 17 marzo scorso è stato preso in un ufficio dove lavorava il giornalista Idrissa Barry, membro del coordinamento del movimento politico Sens (Servir et non se servir). Il 22 marzo altri quattro membri dello stessa associazione sono stati sequestrati e non si conosce dove siano stati portati.
Il 24 marzo, poi, il presidente e il vice presidente dell’Ajb (Associazione giornalisti burkinabè, la maggiore del Paese), rispettivamente Guézouma Sanongo e Boukari Ouoba, sono scomparsi, e la stessa sorte è toccata a Luc Pagbelguem (giornalista di BF1 Tv). Il giorno dopo, l’Ajb è stata addirittura sciolta, con un comunicato del ministro dell’Amministrazione territoriale (equivalente al nostro ministro dell’Interno).
Il movimento Sens, in un comunicato, ha dichiarato: «Denunciamo fermamente questa nuova ondata di repressione politica e chiediamo al Governo di impedire i massacri di popolazioni innocenti piuttosto che prendersela con chi li denuncia. […] Chiediamo inoltre alla comunità internazionale, alle organizzazioni di difesa dei diritti umani e a tutte e personalità di buona volontà di fare pressioni sul regime per il rispetto della legalità e della dignità dei cittadini. Chiediamo infine, al popolo resiliente del Burkina Faso che si mobiliti sempre di più per opporsi alla deriva dittatoriale del Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione (la giunta, ndr)».

Crimini di guerra
Hrw, nel suo rapporto ricorda che «Tutte le parti in conflitto armato in Burkina Faso sono tenute a rispettare il diritto internazionale umanitario, che comprende l’articolo 3 della Convenzione di Ginevra. Esso proibisce l’uccisione, la tortura e i maltrattamenti di civili e di combattenti catturati. Chi commette violazioni […] è responsabile di crimini di guerra».
Hrw e Amnesty international chiedono, inoltre, alle autorità un’inchiesta indipendente che «porti a giudizio tutti i responsabili di questi gravi crimini».

Marco Bello




Myanmar. Quattro anni di guerra civile

 

Nel conflitto civile che da quattro anni insanguina il Myanmar non si vedono spiragli di pace. In primis perché nessuno dei due contendenti in lotta – la giunta militare al potere e le forze di opposizione – è disposto a fare concessioni all’avversario, continuando a dichiarare di volerlo sconfiggere. In seconda battuta a causa dell’assenza della comunità internazionale che finora si è dimostrata impotente o indifferente. Con due eccezioni: Cina e Russia. Mentre, infatti, il blocco occidentale e gli Stati Uniti d’America hanno lasciato campo libero, le due potenze hanno continuato a sostenere la giunta militare al potere, al fine di tutelare i loro interessi strategici ed economici.

La Casa Bianca, nel tempo dell’amministrazione Trump, non sembra volersi coinvolgere per promuovere il ritorno della democrazia in Myanmar.
Nel 2022, il Congresso Usa aveva approvato il Burma Act, un provvedimento legislativo che autorizzava «l’assistenza umanitaria e il sostegno alla società civile» tramite un programma Usaid (United States agency for international development) volto ad assistere giovani esuli birmani nel loro percorso di istruzione e formazione.
Il presidente Trump, bloccando i finanziamenti all’agenzia governativa, ha fermato anche 45 milioni di dollari stanziati per oltre 400 studenti birmani che erano sostenuti tramite il Development and inclusive scholarship program dell’Usaid.

L’opposizione birmana e il governo in esilio, il National unity government (Nug), hanno incassato lo stop degli aiuti Usa con amarezza, puntualizzando che le forze della resistenza birmana non si fermeranno e che continueranno nella lotta fino al rovesciamento del regime.

Anche nelle giornate di analisi e riflessione organizzate a Roma dall’Associazione Italia-Birmania insieme, in occasione del quarto anniversario del golpe, all’inizio di febbraio, si è osservato con disappunto l’atteggiamento dell’Occidente che – focalizzato sulla guerra in Ucraina e sul conflitto in Medio Oriente – sembra aver dimenticato il quadrante del Sudest asiatico e la sofferenza del popolo birmano.

I quattro anni di guerra civile, gli ultimi due particolarmente cruenti, restituiscono ora il volto di un paese tormentato e deturpato da profonde ferite. Dal golpe che il 1° febbraio del 2021 ha rovesciato il governo democraticamente eletto, la nazione si ritrova a essere definita «il luogo più violento del mondo», come ha scritto l’Armed conflict location and event data project (Acled), organizzazione che monitora i conflitti nel mondo, rilevando oltre 50mila morti – tra i quali oltre 8mila civili -, più di 3,8 milioni gli sfollati e circa 23 milioni di cittadini interessati dal conflitto civile in corso, su una popolazione complessiva di 51 milioni di abitanti.
La popolazione è allo stremo, ha avvertito il Programma alimentare mondiale (Wfp) dell’Onu, prevedendo che oltre 15 milioni di persone soffriranno la fame nel 2025, sperimentando alti livelli di insicurezza alimentare, soprattutto nelle aree attraversate da scontri armati (in particolare negli Stati di Chin, Kachin e Rakhine, e nella regione di Sagaing). La crisi unitaria, si avverte, è destinata ad aggravarsi, anche perché le associazioni e Ong internazionali non hanno la possibilità e l’autorizzazione per soccorrere e portare aiuti ai civili.

In tale scenario la situazione sul terreno militare, nonostante il prosieguo dei combattimenti, sembra cristallizzarsi: da un lato, l’esercito birmano ha a disposizione, grazie ai rifornimenti dei potenti alleati, arsenali di armi pesanti, forze aeree, carri armati, e mantiene il controllo della parte centrale del Paese e delle grandi città come Mandalay, Naypyidaw, Yangon; dall’altro, le forze di opposizione hanno conquistato aree e municipalità nelle zone di confine, quelle che vengono orgogliosamente definite «zone liberate», cioè sottratte al potere della giunta, e controllano, secondo gli analisti, il 50% del territorio nazionale.

Intanto il regime militare al potere, che ha lanciato una campagna di reclutamento obbligatorio per rafforzare le fila dell’esercito, ha prolungato lo stato di emergenza fino a luglio 2025 e ha annunciato che entro l’anno terrà una tornata elettorale.
Si tratta, tuttavia, di un piano difficile da realizzare, dato che il censimento elettorale è stato possibile soltanto in 145 municipalità sulle 330 che compongono lo Stato, cioè meno della metà, e in zone abitate solo dalla gente dell’etnia maggioritaria, i bamar, in una nazione che si configura come multietnica e multiculturale.

La sola notizia positiva negli ultimi mesi è stata quella dell’accordo di cessate il fuoco, limitato alla regione del Nordest, siglato tra esercito e gruppi ribelli grazie alla mediazione della Cina che, come detto, tiene a tutelare i propri interessi commerciali e ha così ristabilito il traffici alla frontiera.

In un quadro di violenza generalizzata, la Chiesa cattolica ha registrato il tragico episodio dell’uccisione del primo sacerdote: si tratta di don Donald Martin Ye Naing Win, ucciso il 14 febbraio nella sua parrocchia di Nostra Signora di Lourdes dell’arcidiocesi di Mandalay, nella regione di Sagaing, nel Centro Nord del Paese, una delle aree maggiormente interessate da scontri e combattimenti.
A compiere il brutale omicidio (il prete è stato accoltellato e mutilato) un gruppo di miliziani di forze di difesa locali per motivi ancora tutti da chiarire. Sulla morte del religioso le Forze di difesa polare, che combattono sotto l’egida del National Unity Government e che controllano quella porzione di territorio in Sagaing, hanno aperto un’indagine arrestando un gruppo di dieci aggressori.

Paolo Affatato




Myanmar. La solidarietà tra le violenze

 

Nel Myanmar tormentato dalla guerra civile, la popolazione cerca di resistere al calvario senza fine che sta attraversando, tra sfollamento, povertà, violenza.

Dopo il golpe militare del febbraio 2021 e l’organizzazione delle «Forze di difesa popolare» – milizie della resistenza composte soprattutto da giovani birmani -, la nazione del Sudest asiatico, secondo l’Armed Conflict Location and Event Data Project (Acled), organizzazione internazionale senza scopo di lucro, che raccoglie dati sui conflitti, è attualmente «il posto più violento del mondo», segnato da almeno 50.000 moti in un triennio e con oltre 2,5 milioni di sfollati interni.

Che nel Paese non vi sia alcuno spiraglio di pacificazione né di ritorno alla normalità lo testimonia il fatto che la giunta militare ha prorogato lo stato di emergenza per altri sei mesi, rinviando eventuali elezioni al 2025.

Intanto gli scontri tra le forze popolari e il potente esercito birmano infuriano e il fronte della resistenza ha ora creato un’alleanza militare con gli eserciti delle minoranze etniche, da decenni in rotta con il governo centrale, in cerca di autonomia e federalismo. Tale saldatura ha generato diversi successi e conquiste dei resistenti sul terreno, soprattutto nelle aree di confine, mentre la giunta continua a controllare le principali città, nel centro del Paese.

In questo scenario di violenza diffusa, i civili continuano a fuggire da città e villaggi per scampare agli scontri e per anziani, donne e bambini si presenta ogni giorno la sfida del sostentamento.

Un recente rapporto del programma Onu per lo Sviluppo (Undp) rileva che il 75% dei 55 milioni di birmani vive oggi in condizioni di estremo disagio, e il 32% della popolazione – nota la Banca Mondiale – è in grave stato di indigenza, con ben 13,3 milioni di individui prossimi alla fame, anche perché il governo militare continua a impedire l’ingresso di organizzazioni umanitarie internazionali nel Paese.

A queste necessità interne vanno incontro parrocchie e realtà cattoliche birmane, in un Paese dove la Chiesa conta 700mila fedeli e mostra di apprezzare i ripetuti appelli che papa Francesco ha rivolto alla comunità internazionale di «non dimenticare il Myanmar».

Le diocesi cattoliche organizzano centri di accoglienza in strutture come parrocchie e scuole, procurano e distribuiscono aiuti, provvedono al sostentamento dei rifugiati. Ma lo sforzo delle comunità cristiane non è solo di carattere umanitario e caritativo, è anche morale e spirituale: fatto di vicinanza, consolazione, condivisione della vita di quanti, per salvarsi, fuggono nelle foreste o in aree isolate e montuose, luoghi nei quali, però, trovare cibo è molto difficile.

Un’esperienza esemplare è quella del «vescovo-profugo» Celso Ba Shwe, pastore di Loikaw, la capitale dello stato Kayah, nel Nord del Paese, costretto dal novembre del 2023 a lasciare la sua cattedrale e l’annesso centro pastorale perché occupati dall’esercito birmano per farne una base militare.

Il vescovo ha trascorso mesi lontano dalla sua Chiesa, dedicandosi a visitare i profughi e celebrando con loro le festività religiose come il Natale, la Pasqua, la Pentecoste. Una condizione di precarietà che ha colto come «un’opportunità per essere più vicino al mio popolo, più vicino alla gente, che ha tanto bisogno di consolazione e di solidarietà», mentre oltre la metà delle chiese della diocesi sono chiuse e svuotate a causa della fuga dei fedeli.

Nella situazione di sfollamento e di tribolazione, il vescovo e i preti della diocesi hanno potuto farsi «pastori con l’odore delle pecore» – espressone di papa Francesco – condividendo la vita degli sfollati e continuando e cercare sostegno e speranza nella vita di fede, nella preghiera, nella celebrazione comunitaria dei sacramenti anche in mezzo ai boschi. La fede per loro resta un baluardo per resistere alle avversità del tempo presente.

Paolo Affatato




Niger. Uno strano golpe


In Niger un colpo di stato ha rovesciato il presidente eletto. La giunta militare non è stata riconosciuta a livello internazionale e le sanzioni economiche stanno colpendo la popolazione. Le prossime mosse del nuovo potere sono imprevedibili e il Paese vive una grande incertezza. Ma si inizia a capire chi c’è dientro.

È l’alba del 19 ottobre, quando i nigerini iniziano a interrogarsi su quanto stia succedendo nella capitale, mentre sui social media impazzano le storie più diverse. Un commando avrebbe tentato di far fuggire il presidente Mohamed Bazoum, deposto il 26 luglio scorso da un colpo di stato militare e, da allora, agli arresti nella residenza presidenziale. Ma sarebbero stati scoperti, grazie a elementi fedeli al generale golpista, Abderramane Tchiani (o Tiani), e la fuga sventata. Il risultato concreto sarà l’isolamento totale dell’ex presidente, al quale viene confiscato il telefono (pare strano che non lo abbiano fatto prima), e che viene condotto, sempre in detenzione, ma in un luogo sconosciuto. Allo stesso tempo, c’è un gran movimento di mezzi blindati nel quartiere Tchangareye, dove una villa è circondata e alcune persone arrestate. Sarebbe il covo dei militari secessionisti.

Militari poco uniti

Al di là della cronaca, poco chiara, questo episodio è il primo tentativo di destabilizzazione della giunta dopo il colpo di stato, e ci dice che all’interno delle forze armate nigerine, ci siano delle divisioni.

Un’altra lettura che si fa in questi giorni a Niamey è quella della messa in scena, ovvero del falso rapimento, con il solo scopo di aumentare l’isolamento del presidente. Chi conosce il palazzo presidenziale ci dice che per arrivare alla residenza occorre passare tre livelli di sicurezza, per cui è improbabile che un commando riesca nell’impresa di entrare e uscire con il prigioniero da liberare. Altrettanto difficile è che un elicottero possa entrare nel paese indisturbato per portare via il presidente.

I fatti

Facciamo un passo indietro.

Il 26 luglio scorso, la guardia presidenziale del Niger ha deposto il presidente Moahmed Bazoum. Il generale Abderramane Tchiani, a capo del sedicente Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp), si è auto proclamato capo di stato (cfr. sito MC, MC notizie, 2 agosto).

Le prime manifestazioni contro il putsch sono state represse, mentre le successive, favorevoli, ampiamente organizzate e promosse dal nuovo potere di Niamey. I manifestanti inneggianti ai golpisti chiedevano a gran voce il ritiro delle truppe francesi presenti nel Paese per la lotta antiterrorista, mentre comparivano le – oramai frequenti nel Sahel – bandiere della Russia.

A livello internazionale, la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), la cui presidenza di turno è assicurata dalla Nigeria, ha condannato il golpe, attivato pesanti sanzioni economiche e minacciato pure un intervento militare per ripristinare l’ordine costituzionale. Ma la stessa Cedeao era divisa al suo interno.

La Francia, ex potenza coloniale, non ha riconosciuto i golpisti, e si è innescato un braccio di ferro diplomatico, che ha infine portato il presidente Emmanuel Macron ad annunciare, il 24 settembre scorso, il ritiro del contingente militare francese (1.500 effettivi).

Restano i militari statunitensi (anch’essi circa 1.500), che si sono tutti trasferiti nella base di Agadez a nord, gli italiani (che da 300 unità sono stati ridotti) e i tedeschi. Gli Usa hanno riconosciuto che c’è stato un golpe solo a ottobre, dopo di che hanno interrotto alcuni finanziamenti.

Nel frattempo, le giunte militari golpiste di Mali e Burkina Faso (cfr. MC maggio 2022) si sono alleate con quella nigerina, fino a firmare, il 16 settembre la «Carta del Liptako-Gourma per una nuova alleanza degli stati del Sahel», un patto di mutuo aiuto militare (cfr. MC notizie, 25 settembre).

E l’Assemblea nazionale (il parlamento) del Burkina ha dato il via libera per l’invio di un contingente militare in Niger, come se i burkinabè non avessero già abbastanza da fare contro i gruppi armati sul loro territorio.

L’impasse

Nel momento in cui scriviamo, a inizio novembre, il Paese vive un’impasse politica e una profonda crisi economica.

«L’opzione di un intervento militare [della Cedeao] si è allontanata – ci dice un nostro interlocutore a Niamey -, ma le sanzioni restano».

Così i beni di prima necessità hanno visto aumentare notevolmente il loro prezzo (un chilo di zucchero è passato da 600 a 900 franchi). «Il Cnsp ha ridotto i dazi doganali su dieci prodotti di base, per tentare di calmierare i prezzi. Di fatto la frontiera con il Benin è chiusa, e Cotonou sarebbe il porto più vicino a Niamey. Così adesso la capitale si rifornisce attraverso il porto di Lomé, in Togo, che ha accettato il corridoio umanitario, ma i camion devono passare anche in Burkina Faso, prima di arrivare nel Paese. Sono convogli scortati da militari».

Il bilancio dello stato, inoltre, si è contratto del 40% a causa del congelamento di aiuti di paesi esteri. A livello generale, l’aumento dei prezzi e l’estrema incertezza per il futuro, hanno prodotto un drastico rallentamento dell’economia. Ancora il nostro interlocutore: «La gente ha meno mezzi, c’è una contrazione delle spese. I consumi si riducono. Anche la situazione incerta induce le persone a risparmiare. Per cui l’economia ristagna. La preoccupazione principale è trovare cosa da mangiare giorno per giorno. Alcune spese non si fanno più. Si punta all’essenziale.

Così gli affari dei commercianti si riducono, mentre alcuni settori, come l’edilizia, sono in crisi, con i cantieri fermi».

Una conseguenza è la precarietà del lavoro: succede che i datori lascino a casa da un giorno all’altro gli impiegati, perché hanno meno introiti. Un circolo vizioso dunque. Questa è la situazione nelle città, mentre nelle campagne, nei villaggi, la gente continua la propria vita, influenzata piuttosto dai capricci della pioggia e della siccità che influiscono sui raccolti. Quest’anno la stagione è stata buona, i granai sono pieni e vacche e greggi sono in carne.

Anticolonialisti o reazionari?

I golpisti, per mobilitare le folle, soprattutto di giovani, hanno fatto leva sul sentimento antifrancese, oramai dilagante in tutta l’area saheliana.

La Francia ha infatti mantenuto una grande influenza geopolitica ed economica in Africa dell’Ovest come in Africa centrale fino dagli anni delle indipendenze (primi anni Sessanta).

Oggi le cose stanno evolvendo, tuttavia chi vede il golpe in Niger solo come espressione del sentimento popolare antifrancese, per liberarsi dell’influenza neocoloniale, ha una visione miope e superficiale.

Il colpo di stato in Niger è strettamente legato alla politica nazionale, come in ogni altro paese, anche se la tendenza è di vedere come causa un generale movimento anticolonialista.

Il sistema messo in piedi dal precedente presidente, Issoufou Mahamadou, durante dieci anni (2011-2021) era oramai arrivato al termine. Non potendosi ricandidare, Issoufou ha mandato avanti il suo leale compagno di partito Mohamed Bazoum (del Pnds-Tarreya, Partito nigerino per la democrazia e il socialismo). L’idea di Issoufou era quella di continuare a controllare dietro le quinte. Per questo motivo ha imposto a Bazoum di mantenere ai loro posti i due generali da lui nominati: Salifou Modi a capo delle forze armate, e Abderramane Tchiani alla guardia presidenziale.

Era inoltre previsto, ci dicono da Niamey, che il figlio di Issoufou, Sani Issoufou Mahamadou, ministro del petrolio fino al golpe, diventasse presidente dopo Bazoum.

Ma Bazoum aveva le sue idee e il suo concetto d’integrità e, ci dicono, «è stato un presidente moderno». Stava cercando di cambiare il sistema di governance, facendola finita con quello clientelare costruito da Issoufou. In carica dall’aprile 2021, ad aprile di quest’anno aveva rimosso il generale Modi e stava per cambiare anche Tchiani. C’erano inoltre stati dissapori con il figlio di Issoufou, che voleva imporre un suo uomo non gradito a Bazoum, alla testa dell’impresa che controllerà l’oleodotto verso il Benin, costruito dai cinesi.

Sperare nel cambiamento

Scrive l’analista Abdoulahi Attayoub, consulente indipendente a Lione: «I nigerini, nella loro maggioranza, potevano sperare in un cambiamento della governance, dato che il sistema messo in piedi da Issoufou Mahamodou aveva raggiunto i suoi limiti e gli eccessi avevano finito per discreditare i membri più integri del Pnds. Issoufou Mahamadou, avendo concentrato l’essenzialità del potere e avendo neutralizzato le opposizioni, non pareva avere limiti nella volontà di installare una vera impresa famigliare chiamata a perennizzarsi al comando del paese. In dieci anni, Issoufou ha accumulato abbastanza risorse per imporre il suo progetto e zittire gli oppositori. Mohamed Bazoum ha tentato una laboriosa rettificazione di questa governance, ostacolato dal clan Issoufou, i calcoli del quale sarebbero all’origine della crisi di oggi».

Il consulente continua affermando che le attuali autorità rischiano di perdere credibilità nei confronti di chi voleva il cambiamento. Focalizzare la crisi politica sulla questione dei rapporti con la Francia è strumentale alla giunta, perché le serve a nascondere le proprie debolezze e difficoltà a uscire dall’impasse. Al punto che «l’attitudine della giunta verso quest’ultimo [Issoufou], sconcerta molti nigerini che si chiedono se davvero ci sia stato un colpo di stato». Ovvero, se prima Issoufou ha tentato di tirare i fili dietro a Bazoum, adesso li vorrebbe tirare dietro a Tchiani e compagnia. Un nostro interlocutore commenta: «Se è possibile che Issoufou sia dentro al golpe, pare adesso che la situazione gli sia scappata di mano».

La transizione in atto è opaca. Sempre secondo Ayoub: «Il Cnsp non avrà alcuna credibilità fintanto che apparirà come l’alleato dell’ala mafiosa del sistema che dichiarano di volere cambiare […]. Il presidente deposto, Bazoum è stato vittima della sua ingenuità e della lealtà verso Issofou».

Da notare che il Pnds, partito storico, al potere dal 2011, è oggi spaccato in due, se non definitivamente defunto, tanto che le due fazioni arrivano a produrre comunicati ufficiali opposti tra loro. Vecchi e nuovi attori internazionalipotranno acquistare margini di collaborazione. La Cina è presente in Niger da tempo e in modo massiccio, mentre Russia, Turchia, India stanno ora facendo capolino. Sono i Brics che in tutto il continente si stanno sostituendo agli antichi paesi coloniali.

Intanto la gente in Niger vive giorno per giorno in una crisi economica sempre più acuta e tra grandi incertezze per il futuro prossimo.

Marco Bello

Uno sguardo dal punto di vista economico

Uranio e petrolio, ma non basta

Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo. Ma è anche tra i primi produttori di uranio. E da qualche anno ha aumentato la produzione di petrolio. Tutti ingredienti della complessa crisi in atto.

Formalmente la Francia ha lasciato l’Africa occidentale e subsahariana nel 1960, ma un totale sganciamento in realtà non c’è mai stato, a cominciare dal fatto che la moneta utilizzata in questi paesi è frutto di un accordo di cooperazione monetaria che, nonostante gli elementi di novità introdotti nel 2019, permette ancora alla Francia di sedere nei consigli di amministrazione delle Banche centrali dei paesi firmatari, di custodire le riserve monetarie di tali paesi, di stampare le loro divise. Ma nelle sue ex colonie, la Francia ha anche conservato il controllo delle attività economiche che considerava strategiche. Prendiamo il Niger come esempio. Analizzando le sue esportazioni si scopre che nel 2021 quattro prodotti hanno determinato l’82% dei ricavi ottenuti dal Niger dalle vendite verso l’estero. Al primo posto ci sono gli idrocarburi (33%), al secondo posto c’è l’uranio (26%), al terzo posto ci sono le cipolle (13%), al quarto posto l’oro (10%). Dei quattro prodotti quello che alla Francia interessa di più è l’uranio, che assorbe in larga parte. Non a caso la Francia figura come primo partner commerciale del Niger tramite l’acquisizione del 21% delle sue esportazioni, quota costituita per la quasi totalità da uranio.

Per Parigi il combustibile atomico è un prodotto fondamentale perché il 70% della sua energia elettrica proviene da 56 centrali nucleari dislocate in tutto il paese. E pur rifornendosi di uranio da una varietà di paesi, fra cui Canada, Kazakhistan e Uzbékistan, il rapporto con il Niger continua a giocare un ruolo determinante.

La società che garantisce la materia prima a Parigi si chiama Orano (ex Areva), ed è posseduta al 90% dallo stato francese. Con un giro d’affari di 4,3 miliardi di euro, Orano è una multinazionale con 17mila dipendenti dislocati in 14 paesi. Anche in Niger è il principale protagonista dell’estrazione di uranio tramite le filiali Somair e Cominak che gestiscono una miniera ciascuno. Ma mentre la prima continuerà le proprie attività fino al 2040, la seconda è in fase di bonifica perché nel 2021 è stata dichiarata esausta. Intanto sono iniziati i lavori per un’enorme miniera nei pressi di Imouraren, la cui apertura è stata però sospesa dalla Francia già nel 2014. Sarebbe una delle più grandi miniere di uranio del mondo.

Purtroppo non esistono informazioni sulle regole fiscali imposte a Orano, né sul rigore con il quale i funzionari pubblici effettuano i propri controlli, per cui è impossibile stabilire se lo stato del Niger ottenga qualche beneficio economico dall’estrazione di uranio o se sia intascato interamente da Orano. Considerato che, secondo una ricerca condotta dal Fondo monetario internazionale, i paesi africani perdono ogni anno dai 470 ai 730 milioni di dollari a causa dell’evasione fiscale attuata da parte delle multinazionali minerarie, non c’è da stare troppo tranquilli. In ogni caso è certo che le miniere del prezioso combustibile creano gravi problemi ambientali sia per quanto riguarda l’accumulo di detriti radioattivi che per quanto riguarda il consumo e la contaminazione dell’acqua.

Dal 2011 nella regione di Diffa si è cominciato a estrarre petrolio (che viene anche raffinato nei pressi di Zinder, ndr) e se inizialmente sembrava una produzione marginale, nel tempo è cresciuta, fino a superare in valore le esportazioni di uranio.

La società estrattrice la China national petroleum corporation (Cnpc), un’azienda di stato, ha anche avviato la costruzione di un oleodotto per fare arrivare il petrolio nigerino al mare attraversando il Benin.

Il tempo ci dirà se l’unico obiettivo dei militari è la conquista del potere lasciando tutto com’è, o se c’è anche la volontà di sganciarsi da potenze consolidate come Usa, Francia, Europa, per spostarsi verso nuove potenze emergenti. La sola cosa che si può dire, senza rischi di essere smentiti, è che al centro della loro attenzione non ci sono i 10 milioni di poveri che in Niger rappresentano il 48% della popolazione. Non è stato così fino ad ora, in un paese che spende il 20% delle entrate pubbliche per l’esercito, e non lo sarà in futuro. I poveri purtroppo non interessano a nessuno, meno che mai a chi è abituato a ragionare solo secondo logiche di potere.

Francesco Gesualdi