Una porta santa nel deserto

 

Quando il vescovo di Inhambane ha annunciato che anche Guiúa sarebbe stata meta del pellegrinaggio giubilare, ci siamo sentiti più che imbarazzati. Certo il titolo di «Santuario di Maria Regina dei Martiri» era stato conferito con tanto di decreto vescovile tre anni fa. Ma il Santuario è appena il cimitero dei nostri catechisti martirizzati nel 1992 con una cappella che ci riunisce ogni 22 del mese per venerae la memoria e il 22 di marzo per il grande pellegrinaggio diocesano.

Essere meta del giubileo vuol dire pellegrinaggio, indulgenza e anche «porta santa». Dove troviamo una porta santa nel deserto di Guiúa?

Padre Gabriele Casadei, uomo di grandi idee e realizzazioni, ha fatto due colonne di mattoni all’entrata del Cimitero dei Martiri, in fondo al grande viale. Ma le porte? In un container spedito anni fa da amici di Lissone (Lecco), c’erano giunte delle grandi lastre di lamiera che erano rimaste nel magazzino perché non avevamo la più pallida idea di come utilizzarle. Ecco, finalmente realizzato il loro destino: diventare la porta santa. Una volta poste una accanto all’altra, appoggiate ai due pilastri, chiudono bene il passaggio al santuario e fanno un figurone. Non è la bellezza della porta, abbiamo spiegato ai fedeli, ma è l’atto di entrare da quella porta nel santuario, come pellegrini bisognosi della misericordia del Signore, che conta. E così abbiamo iniziato la celebrazione.

Ci siamo radunati attorno alla fontana con la statua della Madonna benedicente, e abbiamo iniziato: lettura del Vangelo e della Bolla del papa. Erano tanti i nostri cristiani: la maggior parte proveniente dai villaggi lontani fino a 30 Km. Albertina, anziana catechista di Ngala, era partita alle tre del mattino, assieme a quasi tutto il villaggio. Così pure Filomena, Jacinto, Felizmeta si erano messi in viaggio a piedi sulle dune della nostra terra, per arrivare presto alla missione. Bambini, giovani, adulti e anziani. Vedendo donna Simplícia che, curva su se stessa, reggendosi appena col suo bastone, camminava lentissimamente, ultima nella processione, mi sono chiesto: «Chi glielo ha fatto fare?». La risposta mi è subito venuta: «Solo il Signore e la sua Misericordia, Lui solo». Poi la processione è iniziata con tutta la solennità del caso. Non avevo un piviale viola, ma uno bianco, donato da qualche sacerdote lombardo, arrivato anch’esso con un container: bellissimo. Avevo pensato di indossarlo il giorno del Corpus Domini per la processione, ma aveva piovuto così tanto che non avevo voluto bagnarlo. Questa è stata la sua occasione. Croce, incenso, Vangelo, come il papa in san Pietro, e la processione si è snodata lungo i viali della missione verso il Cimitero dei Martiri. I fedeli cantavano con fervore e gioia, senza stancarsi: le litanie dei santi, canti di giubilo, canti di misericordia… non sentivamo i raggi violenti del sole, né il freno della sabbia.

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Davanti alla porta santa un profondo silenzio. Il tamburo, quello che si usa per gli annunci importanti, rullava lungamente. «Io sono la Porta», dice Gesù nel Vangelo. Io ho pregato: «Aprite la porta della giustizia», e il popolo ha risposto: «I giusti entreranno in essa». Per tre volte ho battuto col martello, e la porta finalmente si è aperta. Applauso, canto, poi in ginocchio in silenzio. Silenzio profondo di preghiera. «Il Signore ci doni la sua Misericordia». Davanti a noi, un bellissimo quadro del Gesù Misericordioso che tutti accoglie col suo cuore che emana luce e calore. Quindi, bagnando la mano nell’acqua benedetta e segnandosi col segno della croce, i fedeli entravano nel santuario, ordinatamente con devozione, preghiera e canto. Nella cappella non ci stavamo tutti. Il sole di dicembre era davvero cocente, ma alcune nuvole e brezza leggera alleviavano la calura, e così, seduti attorno alla cappella, tutti con tanta devozione hanno partecipato alla santa messa.

«Il Dio di misericordia ci perdona e ci accoglie. Adesso, attraversata ancora questa porta, torniamo alle nostre case e portiamo a tutti, in casa e nel villaggio, compassione e misericordia».

Sandro Faedi

DA GUIÚA PER LA MISSIONE

Un altro gruppo di 14 famiglie, formate nel Centro Catechistico Nazionale di Guiúa, ha ricevuto il mandato missionario, per le diocesi del Mozambico.

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«Ricevete la Bibbia, annunciate con la parola e la vita il nome del Signore Gesù». Con queste parole il vescovo di Inhambane, mons. Adriano Langa, durante la Messa del 26 novembre scorso ha inviato 14 famiglie di catechisti alle proprie comunità di origine, dopo il corso realizzato in Guiúa.

Guiúa, è un piccolo villaggio a 12 km dalla città di Inhambane, in Mozambico, sede della omonima diocesi, dove nel 1970 si aprì il Centro di Promozione Umana per formare alla leadership sociale e religiosa i laici più dinamici e inviarli nei villaggi più lontani e remoti della regione. Il centro fu attivo fino al 1987, quando un gruppo di guerriglieri lo assaltarono uccidendo il catechista Peres Manuel e rapendo molti altri, rilasciati solo dopo alcuni mesi. Era la lunga guerra civile.

Nel 1992, quando già il dialogo tra le parti in conflitto era ben avanzato, il centro fu riaperto. Ma nella notte tra il 21 e 22 marzo dello stesso anno ci fu un altro attacco. I guerriglieri sequestrarono tutti, grandi e piccoli, e li radunarono in una radura a 3 km dal centro. Là, furono interrogati, maltrattati e infine barbaramente trucidati. I morti furono 23. Sono i Catechisti Martiri di Guiúa, le cui tombe sono meta di pellegrinaggi e venerazione. Dodici anni dopo, nel 2004, il Centro Catechistico riaprì con 17 famiglie, segnando l’inizio di una nuova tappa nella vita della chiesa del Mozambico.

Al corso appena terminato hanno partecipato 14 famiglie da tre diocesi, per un totale di 70 persone. I catechisti hanno studiato teologia, pastorale, storia, politica e legge al mattino, mentre al pomeriggio hanno fatto pratica di agricoltura, falegnameria, meccanica, informatica per prepararsi a essere animatori della vita sociale e cristiana dei loro villaggi. Le signore, oltre che in teologia e catechesi, hanno migliorato le loro conoscenze di cucina, puericultura, cucito, infermieristica. I bambini si sono sistemati nelle varie scuole secondo l’età. La chiesa missionaria che ha portato a maturità la giovane chiesa africana, può stare tranquilla. Questi fratelli e sorelle, neo catechisti, continueranno con buon spirito evangelico il lavoro che Gesù ha lasciato ai suoi, con dinamismo e creatività, per annunciare a tutti che Lui è il Signore.

S. F.




Storia del Giubileo 4. Un lungo cammino prima del giubileo

This handout picture released by the Vatican press office shows Pope Francis making the symbolic gesture by opening a "Holy Door" at Bangui Cathedral on November 29, 2015, in the Central African Republic capital. AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO/HO RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS / AFP / OSSERVATORE ROMANO / HO
Apertura della porta santa della cattedrale di Bangui.

Comunemente si pensa che l’istituto del Giubileo sia una norma antica, da sempre presente nella Bibbia perché si trova nel Pentateuco, ma non è così perché se guardiamo i testi, cioè le fonti letterarie, scopriamo subito che esso è lo sviluppo di un’altra istituzione precedente che è l’Anno Sabatico. Di questi due istituti giuridici si parla solo in tre libri: Esodo, Levitico e Numeri, cui bisogna aggiungere alcuni accenni in Deuteronomio e Isaia. Possiamo quindi dire che non abbiamo molto. E quel poco che abbiamo è tardivo, non antico; certamente risalente a non prima del sec. VI/V a.C., dopo l’esilio di Babilonia.

Nulla toglie che qualche stralcio di questa tradizione esistesse anche anteriormente, nella tradizione che fa capo al Deuteronomio (sec. VII-V a.C. ca.). Per capire l’importanza, ma anche la natura e il senso dell’istituto giubilare, a beneficio di chi non conosce la storia della Bibbia al di là di quanto appreso al catechismo, è sufficiente riportare alcune date in ordine cronologico per avere uno sguardo d’insieme e collocare gli eventi nel loro contesto sia storico sia teologico. Tratteremo pertanto sia l’Anno Sabatico sia il Giubileo, che spesso sono confusi, mentre sono due realtà distinte e separate, anche se connesse tra loro.

Quadro storico

Di solito si pensa che i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe siano vissuti nel 2° millennio a.C. e da essi avrebbe avuto inizio tutta l’avventura «divino-umana» che è raccontata nella Bibbia. Un lettore che cominciasse a leggerla dalla prima pagina in poi, progressivamente, avrebbe due sensazioni: la prima di trovarsi di fronte a un’opera scritta a tavolino in modo ordinato e uniforme; la seconda quella di provare una «difficoltà» inestricabile per cui molto presto abbandonerà la lettura. Vediamo come stanno le cose e come e quando è nato l’istituto giuridico del Giubileo.

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La cronologia che, in genere, si trova nei libri è la seguente

  • – 1850 ca.: Abramo, profugo da Ur di Caldea (Iraq) approda in Canaan (Palestina).
  • – 1800-1700 ca.: vita dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe in Palestina.
  • – 1700-1250 ca.: peregrinazioni degli Ebrei verso l’Egitto e schiavitù.
  • – 1250-1230 ca.: esodo dall’Egitto e arrivo al Sinai.
  • – 1220-1200 ca.: ingresso nella terra promessa e sua conquista con Giosuè.
  • – 1150-1000 ca.: epoca dei Giudici (confederazione di tribù).
  • – 1010-970 ca.: regno di Davide.
  • – 970-931 ca.: regno di Salomone. Divisione del regno in «Israele» (Nord) e «Giuda» (Sud).
  • – 931-724 ca.: regno d’Israele con venti re che si succedono.
  • – 721: assedio degli Assiri e deportazione degli Ebrei del Nord («Israele») in Assiria.
  • – 931-587 ca.: regno di Giuda con diciotto re che si susseguono.
  • – 597: Gerusalemme è conquistata da Nabucodonosor che deporta gli Ebrei in Babilonia.
  • – 587: seconda conquista e distruzione di Gerusalemme. Deportazione. Fine del regno di Giuda.
  • – 538: editto di liberazione del persiano Ciro (dall’attuale Iran) e ritorno di alcuni Ebrei in Palestina.
  • – 520-430: inizio della ricostruzione del tempio di Gerusalemme (Giudea).
  • – 330: costruzione sul monte Garìzim del tempio dei Samaritani.
  • 323: Giudea dominata dai Tolomei d’Egitto e traduzione della Bibbia dei «Settanta» in greco.
  • – 200: Giudea dominata dai Selèucidi di Antiochia.
  • – 143-134: nascono le correnti dei farisei, dei sadducei ed esseni (Qumran).
  • – 63: Pompeo occupa Gerusalemme.
  • – 7/6 (a.C.): nasce Gesù di Nàzaret.
  • – 1/8 (d.C.): nasce Paolo di Tarso.
  • – 30: muore Gesù.
  • – 34: conversione di Paolo di Tarso.
  • – 66-70: rivolta giudaica antiromana. Distruzione di Gerusalemme. 1a diaspora ebraica.
  • – 74: presa di Masada e divieto agli Ebrei di risiedere in Gerusalemme.
  • – 132-135: rivolta di «Bar Kochba – figlio della stella» in Galilea, sotto Adriano.
  • – 135: Vittoria romana, proibizione agli Ebrei di risiedere in Palestina; 2a e definitiva diaspora.

Nozioni bibliche elementari

La tabella che riportiamo (sopra) serve come riferimento per collocare non solo gli avvenimenti, ma anche le idee, altrimenti si fanno confusioni indebite che non aiutano la chiarezza. In base all’insegnamento catechistico tradizionale, se si prende la Bibbia senza esame critico, i libri di Levitico e Numeri dovrebbero essere collocati tra il 1250 e il 1200, il periodo cioè in cui la cronologia tradizionale collocava l’esodo e l’ingresso nella terra promessa. Purtroppo le cose non stanno così.

In ebraico i libri prendono il nome dalla prima o dalle due prime parole del testo (come avviene oggi per le encicliche papali), mentre la Bibbia greca dei LXX mette come titolo una parola che sintetizza il contenuto. La Vulgata latina di San Girolamo, mentre per il contenuto è più fedele al testo ebraico, per i titoli segue la LXX. Di seguito diamo i titoli greco-latini del Pentateuco e tra parentesi in ebraico:
1. Genesi-Origini (Bereschìt-Nel principio): riporta testi tramandati e scritti dal sec. X al sec. V d.C.
2. Esodo-Uscita (Shemòt-I nomi): riguarda eventi tra il 1250 e il 1200 a.C., rivisitati e scritti nel sec. VI a.C.
3. Levitico-Tribù-di-Levi, addetta al culto (Wayqrà’-E chiamò/convocò);
4. Numeri-Censimento (Bemidbàr-Nel deserto);
5. Deuteronomio-Seconda-Legge (Devarim-Parole).

La tradizione ebraica e, per molto tempo, anche quella cristiana, attribuivano la formazione dei primi cinque libri della Bibbia («Pentateuco») a Mosè, tesi che già dal sec. XVII (Jean Astruc, 1694-1766) ha cominciato a essere messa in dubbio e che nel corso del sec. XIX è stata definitivamente accantonata. Oggi la totalità degli studiosi, con qualche differenza di accentuazione, alla luce delle scoperte archeologiche e letterarie, ormai definitive, è giunta a conclusioni certe, almeno allo stato dei fatti.

La Bibbia non è un libro storico, ma il racconto dell’esperienza religiosa di un popolo che interpreta eventi, situazioni e fatti, alla luce del proprio credo religioso che espone anche attraverso racconti di natura storica, mitica e comunque interpretati religiosamente. È quella che comunemente chiamiamo «Storia della salvezza», espressione equivoca perché il concetto di «storia» degli antichi non è lo stesso che hanno gli storici di oggi.

Di Abramo, Isacco e forse anche Giacobbe, dal punto di vista storico non sappiamo nulla perché le uniche informazioni su di loro si trovano nella Bibbia. La «storia dei Patriarchi» si perde nella notte dei tempi e potrebbe essere anche una «invenzione» posteriore, di quando, dopo l’esilio di Babilonia, si ha la necessità di dare un fondamento «antico» e «teologico» alla ricostruzione non solo del tempio di Gerusalemme, ma anche e specialmente allo spirito del popolo e alle sue istituzioni politiche, sociali, economiche e religiose.

Con questo non si vuol dire che «i Patriarchi» siano frutto di fantasia, ma che non abbiamo documentazione verificabile, se non incerti spiragli insufficienti a fare storia. L’archeologia, per esempio, nulla è riuscita a dirci di Abramo e Isacco, perché, allo stato attuale, essa si ferma, forse, a Giacobbe, il padre dei dodici figli che danno origine alle dodici tribù d’Israele, di cui qualcosa si trova negli scavi di Bersabea, l’ultimo avamposto palestinese verso l’Egitto, via Sinai, prima di avventurarsi nel deserto del Neghev.

È possibile che la memoria collettiva delle antiche tribù o gruppi abbia tramandato ricordi, racconti, saghe, che via via si sono sedimentate come «storia di fondazione». In questo modo, quando si pone mano alla riforma radicale dell’organizzazione della vita del «nuovo Israele», dopo l’editto del persiano Ciro (538) che ha sconfitto e annesso Babilonia, quelle memorie siano state utilizzate e narrate come «radici», cioè pilastri fondativi del nuovo mondo che stava sorgendo.

Dopo l’esilio

Dopo cinquant’anni di esilio, in cui ciascuno era rimasto abbandonato a se stesso, senza autorità e tessuto sociale, la depressione e lo sconforto avevano pervaso chi era rimasto in Palestina (per lo più anziani e poveri). Il senso di rivalsa di coloro che ritornavano da Babilonia pretendeva di rientrare in possesso delle proprietà perdute con l’esilio, ponendo gravi problemi di coesistenza. In questo periodo nascono i due libri, Levitico e Numeri, dove si trovano le norme che riguardano l’Anno Sabatico e il Giubileo. Siamo nel sec. V a.C., il tempo di Esdra e Neemia, autorizzati da Ciro a ricostruire Gerusalemme e il tempio, con il culto connesso, insieme alla vita sociale e civile. Nel 444 a.C. si forma definitivamente il libro del Pentateuco o Toràh per gli Ebrei, come lo possediamo oggi e che costituisce la redazione finale di un processo che ebbe inizio nel sec. X a.C., alla corte di re Salomone in Giudea, e forse anche prima, attraverso la trasmissione orale di generazione in generazione.

Con l’editto di Ciro, gli Ebrei sono autorizzati a ritornare in Palestina. Non tutti gli Ebrei presenti a Babilonia ritornano, ma solo una parte degli esiliati decide di rientrare in Palestina e ricominciare daccapo nella terra d’Israele. Molti, forse la maggioranza, specialmente coloro che erano nati in Babilonia e si erano ormai fatti una vita e una posizione sociale, decidono di restarvi non più da schiavi, ma da cittadini autonomi e liberi di avere una propria vita, un proprio lavoro, un proprio futuro per sé e i propri figli. Molti di costoro si erano accasati «mescolandosi» ai Babilonesi per cui c’erano famiglie «miste» che preferirono continuare la vita ormai avviata e non ritornare per ricominciare dal nulla distruggendo le proprie famiglie, come imponeva la nuova legge.

Il capitolo 10 del libro di Esdra racconta la tragica scelta di rimandare a casa loro le donne non ebree e i figli avuti con loro perché questo sembrava l’unico modo per ridare una identità «certa» all’ebraicità del nuovo popolo postesilico. Da quel momento, vale la norma che è ebreo solo chi nasce da madre ebrea. Questa legge è valida ancora oggi in Israele. Il libro del Levitico serve allo scopo di «fondare» l’identità del «popolo di Dio», ancorandola alla purità cultuale e religiosa. La religione diventa discriminante sociale: chi è ebreo di nascita può fare parte del popolo della ricostruzione, chi non è ebreo, non può nemmeno rientrare nella «terra santa». Le donne babilonesi con i loro figli avuti dagli ebrei sono drasticamente separate e rimandate al loro paese. Famiglie intere sono distrutte in nome di un’esclusività di appartenenza che da questo momento, non prima, farà del popolo ebreo, il popolo di elezione, il popolo «separato tra gli altri popoli», arrivando alla distinzione teologica tra Israele «’am haheloìm – popolo di Dio» e i «goìm – i popoli altri / pagani». Da questo momento la religione non è solo un rapporto con Dio, ma si trasforma in un’identità etnica che in futuro sarà foriera di tragedie immani, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.

L’At riporta due istituzioni, l’Anno Sabatico e il Giubileo, che sono distinti, ma strettamente connessi perché sembra che il secondo sia uno sviluppo del primo. Di questo parleremo nella prossima puntata.

Paolo Farinella, prete
(4, continua)




Storia del Giubileo 3. Giubileo, Misericordia e Volto


Come abbiamo anticipato nella puntata precedente (cf MC 11/2015, p. 45), approfondiamo le parole chiave della bolla di indizione del giubileo di Papa Francesco che troviamo già nel titolo: «Giubileo, Misericordia e Volto».

Giubileo

Il primo termine che esaminiamo è «Giubileo», parola di origine ebraica con una storia che potrebbe sorprendere qualche lettore. In ebraico «jobèl» (plurale jobelìm) significa «corno» (di montone), cioè dell’ariete, il maschio adulto della pecora (Gs 6,5), e unito alla parola «shenàt» (anno – shenàt hajobèl) significa «anno giubilare» (Lv 25,13). La domanda inevitabile è: che c’entra il Giubileo con il montone e le sue coa? Direttamente nulla, ma un nesso esiste, e per capirlo bisogna partire da lontano, da molto lontano.

Il termine «jobèl» ricorre nella Bibbia 21 volte, la quasi totalità delle quali nel libro del Levitico che è un libro formato durante e dopo l’esilio di Babilonia, quindi nel sec. VI-V a.C., per cui possiamo affermare con certezza che si tratta di testi «tardivi». Nel libro di Giosuè, che è un poco anteriore al libro del Levitico, si racconta che sette sacerdoti dovevano suonare sette «shopheròt hajobelìm», trombe di corno di ariete (Gs 6,4), prima di compiere la liturgia delle sette processioni attorno alla città di Gerico. Il nesso tra il suono del corno di ariete, «jobèl», e la celebrazione del Giubileo come ritorno alla libertà, è sviluppato dalla tradizione giudaica riflettendo sull’episodio del sacrificio di Isacco in Gen 22,1-19, racconto che può essere datato intorno al sec. VII a.C., quindi risalente allo stesso periodo del Deuteronomio e del libro di Giosuè.

Chi legge superficialmente la Bibbia, quando incontra il racconto del sacrificio di Isacco, rimane scandalizzato da un Dio disumano che chiede a un padre di sacrificare il figlio per provare la sua fede. Come si permette questo Dio disumano di osare tanto? A una lettura più attenta però scopriamo che l’obiettivo è esattamente l’opposto, ma perseguito secondo i criteri e le modalità di racconto degli antichi, la cui vita era vissuta in riferimento alle divinità e interpretata solo ed esclusivamente alla luce della religiosità diffusa.

Una contestazione di pratiche disumane

Nel 2° millennio a.C. era diffusa la pratica dei sacrifici umani. Il Dio di Israele rifiuta questo culto perché lui dà la vita, non la toglie. L’autore biblico, afferma questo principio con il racconto in cui Dio mette alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare la garanzia del suo futuro: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco… e offrilo in olocausto». Mai padre si era trovato in questa angoscia. Come ubbidire? Il figlio che Dio gli ha dato nella vecchiaia, ora gli viene richiesto indietro. Per avere una posterità deve ucciderlo. Il fatto che Dio metta alla prova Abramo è un modo per dire che tutto dipende dal Creatore: la vita e la morte, il presente e il futuro. Nulla ha senso fuori di Dio.

Abramo si fida, perché Dio gli ha dato un figlio quando era certo di non potee più avere, e perché tutto quello che gli aveva promesso si è sempre verificato. Anche se «adesso» non capisce, Abramo sa che Dio non può venire meno alla sua parola; per questo si abbandona totalmente alla sua volontà, buttandosi nel vuoto e nel buio della fede e affidandosi totalmente alla Parola.

Avendo saggiato il suo abbandono senza riserve, Dio, l’incomprensibile, «ora» restituisce ad Abramo il figlio come se il patriarca lo avesse generato per la seconda volta. Isacco non è solo figlio della natura, ma «ora» è anche figlio dell’obbedienza e della fede.

La tradizione ebraica non si ferma qui – benché il racconto fosse già sufficiente a contestare i sacrifici umani -, e va oltre, facendo fiorire leggende su leggende: insegnano i padri che Isacco avesse 37 anni al tempo dell’episodio del sacrificio, e che, mentre il padre lo legava come un agnello, egli, invece di protestare, lo supplicava di non esitare e di legarlo bene perché non accadesse che per paura si mettesse a scalciare, rendendo nullo il sacrifico. Nel tempio di Gerusalemme vi era un rituale minuzioso per legare gli agnelli del sacrificio, perché potessero essere uccisi in modo da non invalidare il rito.

 

La fedeltà oltre l’irrazionale

Il figlio unigenito incoraggia il padre a legarlo per ubbidire al Signore che sa quello che fa, anche se noi non ne vediamo il senso e la ragione. Isacco, legato alla legna del sacrificio sull’altare di pietra, sul monte Mòria, dove secoli dopo sarebbe sorto il tempio di Gerusalemme, nella tradizione cristiana diventa il simbolo di Cristo, il Figlio Unigenito, legato al legno della croce e ucciso sull’altare dell’espiazione all’età di circa 37 anni.

Aggiunge la Bibbia che Dio fermò Abramo provvedendo per il sacrificio un «ariete» al posto di Isacco: «Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le coa in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e l’offrì in olocausto invece del figlio» (Gen 22,13).

La tradizione giudaica aggiunge che Abramo, compiuto il sacrificio dell’ariete, si rivolse a Dio chiedendogli che, in considerazione dell’atteggiamento di Isacco che non si era ribellato, ma che, anzi, lo aveva incitato a obbedire senza esitare al comando di Dio, quando in futuro i figli di Isacco lo avessero pregato, egli li ascoltasse proprio in memoria dell’Aqèdah – legatura. Per i meriti del figlio Isacco, Abramo ricevette l’alleanza da Dio. Per i meriti di Cristo legato alla croce, noi siamo salvati.

 

Dal simbolo alla storia perenne

Per questo motivo in Israele si suonava il corno di ariete nel tempio di Gerusalemme all’inizio della preghiera, prima di cominciare il «Rosh-ha-shannàh» (anno nuovo), a conclusione dello «Yom Kippur» (capodanno), all’apertura del «Giubileo» ogni sette anni e, ancora oggi, all’inizio dello «Shabàt» (il sabato) e nel giorno d’insediamento del presidente dello stato.

La storia non è una successione di eventi e fatti, in senso cronologico, ma una rete di connessioni e di implicanze, una serie di legami tra cause ed effetti, tra ragioni e motivazioni che illuminano il passaggio tra ieri e oggi e domani, dando all’individuo il senso pieno di appartenenza a una storia che ha le radici in cielo e lo sviluppo in terra. Il Giubileo è il frutto maturo che si realizza tra la promessa di Dio e la fedeltà dell’uomo nella rete della convivenza civile, come vedremo spiegando, nei prossimi numeri, il significato biblico del Giubileo stesso.

Misericordia

Il secondo termine-chiave è «Misericordiae», sostantivo femminile della 1a declinazione latina, derivato dall’aggettivo misericors, composto dalla radice miser – misero /sciagurato / malato e cor-cordis – cuore. Esso esprime un nobile sentimento che nasce dal «cuore» e si muove verso chi è nel bisogno (il misero), un movimento interiore di pietà che diventa attenzione.

Nella lingua corrente popolare ha acquisito anche un senso negativo, in quanto «avere misericordia / pietà di qualcuno» può significare anche un sentimento di disprezzo, se chi lo prova è maldisposto. Nel Medioevo si chiamava «misericordia» il pugnale con cui si dava il colpo di grazia ai guerrieri agonizzanti e senza possibilità di guarigione; in questo caso si era «misericordiosi» perché si dava la morte per compassione: una forma di eutanasia ante litteram. In Toscana dal sec. XIII è il nome di un sodalizio/confrateita che nei secoli passati si prendeva cura dei poveri, dei malati, dei carcerati e dava sepoltura ai morti abbandonati. Oggi prosegue nella stessa direzione e svolge la funzione di pubblica assistenza. Nel parlare popolare è anche un’invocazione di stupore / paura o disappunto: «Misericordia!».

 

Una prospettiva di vita

Se andiamo indietro nel tempo e cerchiamo la radice del senso della parola «misericordia» nella Bibbia, vediamo che il ventaglio semantico si allarga e ci travolge. I lettori di Mc non sono nuovi a questo genere di approfondimenti, perché ne abbiamo parlato diverse volte in questi anni, specialmente nel commento alla parabola del «Padre che fu madre» di Lc 15, più comunemente conosciuta come parabola del «Figliol prodigo». Ciononostante è utile rinfrescarsi le idee, secondo l’adagio latino che «repetita iuvant», anche se a volte anche «stufant». Vedremo di aiutare senza stufare.

In italiano un sinonimo di «misericordia» è «compassione» (da cum-pàti – partecipare lo stesso pàthos / sentimento), anch’esso termine logorato dall’uso, come avviene per «misericordia», per cui assume un senso ambiguo e riduttivo, equivalente a «provare pena». Nella Bibbia tutto questo gruppo di sentimenti è riportato a una sola parola ebraica che è rachàm – ùtero (plurale: rachamìm – viscere). Da qui deriva che il sentimento della misericordia / compassione ha attinenza con la generazione della vita e quindi con la responsabilità della crescita che avviene nella relazione. Avere misericordia o provare compassione, nella Bibbia significa «generare alla vita, essere legati per la vita».

La Bibbia greca traduce questo complesso di significati con due termini «splànchna», che ha lo stesso significato dell’ebraico, e «ele?mosýn?» – simpatia / dono amorevole. Come si può ben comprendere, da questo termine deriva l’italiano «elemosina» che non ha il senso povero e degradato in uso oggi di «dare uno spicciolo a un povero», ma di avvolgere l’altro nella propria simpatia attraverso il dono di sé, tanto che il Siràcide attribuisce all’elemosina un valore sacrificale pari a quello dei sacrifici nel tempio: «L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina (gr. ele?mosyn?) espia i peccati» (Sir 3,30). [vedi nota*]

Possiamo concludere questa prima battuta, dicendo che la misericordia è nient’altro che il sentimento di tenerezza che Dio vive nei confronti dei suoi figli. Il Giubileo è un’immersione in questa tenerezza senza fine che assume per noi il «Volto del Signore Gesù».

Vultus

Il terzo termine è «vultus» che significa «volto / faccia / viso». Quando incontriamo qualcuno, il volto è la prima realtà che guardiamo, e dalla sua espressione intuiamo lo stato d’animo. Nell’AT nessuno può vedere il volto di Dio: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Infatti davanti a Dio «Mosè si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6). Con la morte di Gesù scompare questa impossibilità di vedere Dio, perché possiamo contemplarlo anche nella sofferenza. Nel momento della morte, «il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» (Mc 15,38) rendendo compiuto il desiderio dei Greci che nel vangelo di Giovanni anelano di «vedere Gesù» (Gv 12,20). Il centurione romano, contemplando la morte di Gesù, riesce a vedere «il Figlio di Dio» (Mc 15,39).

Il volto è la persona, e il Dio di Gesù Cristo non è più una divinità astratta e asettica, ma è il Dio dei volti e dei nomi, «il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,16). È il Dio che si può sperimentare e incontrare perché ora è possibile «toccare il Lògos della vita» (1Gv 1,1) e, come per Giacobbe durante la lotta con l’angelo, è possibile vederlo «faccia a faccia» (Gen 32,31) o, come per Mosè, parlargli «faccia a faccia, come un uomo parla con un altro uomo» (Es 33,11).

Il Giubileo non è un’occasione per assicurarsi un’indulgenza o darsi una sciacquata allo scopo di lavarsi via qualche peccatuccio, perché «non si sa mai».

«Giubileo del Volto della Misericordia» significa sprofondare nell’esperienza di Dio, toccarne la vita, assaporae la visione, perché solo nella misericordia Dio compie la pienezza della propria giustizia e del proprio mistero.

Nella prossima puntata esamineremo le ragioni che hanno portato a creare gradualmente due istituti giuridici come l’Anno Sabbatico e il Giubileo, che sono i frutti di una lunga storia.

Paolo Farinella, prete
3, continua

 


[*] vedi anche Sir 7,10; 12,3; 16,14; 29,8.12; 40,24; cf. anche Pr 16,6; 17,5; Tb 4,7-11; Sal 51/50,3.
Nel Nuovo Testamento:
ele?mosyn?: Mt 6,2.3.4; Lc 11,41; 12,33;
eleos: Mt 9,13; 12,7; 23,23; Lc 1,50.54.58.72.78; 10,37;
elee?: Mt 5,7; 9,27; 15,22; 17,15; 18,33(2); 20,30.31; Mc 5,19; 10,47.48; Lc 16,24; 17,13; 18,38.39;
splanchnizomai: Mt 9,36; 14,14; 15,32;18,27; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22; Lc 7,13; 10,33; 15,20;
splanchnon: Lc 1,78; At 1,18; 2 Cor 6,12; 7,15; Fm 7.12.20.




Storia del Giubileo 1. Francesco, papa profeta


C
on la Bolla «Misericordiae Vultus»
(MV) dell’11 aprile 2015, Papa Francesco ha indetto un
Giubileo Straordinario dedicato alla Misericordia. Il
Giubileo durerà un anno, dall’8 dicembre 2015, cinquantesimo anniversario della
chiusura del concilio Vaticano II, al 20 novembre 2016, memoria liturgica della
festa di «Cristo Re dell’universo». Il Papa ha esteso a tutte le chiese
cattedrali diocesane e a quelle più significative di tutto il mondo le stesse
prerogative delle Basiliche vaticane di Roma, per cui – e questo è anche il
desiderio di Papa Francesco – non sarà necessario andare a Roma, come per tutti
gli altri Giubilei, ma si potrà partecipare intimamente anche dalle proprie
città e diocesi.

Questa
scelta è importante perché il Papa, in questo modo, afferma «l’ekklesìa»
universale che si realizza ovunque si celebri la Misericordia di Dio che lo
stesso Francesco nella Bolla di indizione definisce «l’architrave che sorregge
la vita della Chiesa» (MV, n. 10), la quale «vive un desiderio inesauribile di
offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del
Padre e la sua forza diffusiva».

La
rivista MC ha deciso di predisporre dieci puntate (una al mese e quindi per
l’intero anno giubilare) per approfondire il significato del Giubileo nella
Bibbia, quali sono i suoi contenuti, e quale ne è stato lo sviluppo nella
storia della Chiesa, che vide il primo Giubileo nel 1300, indetto da Papa
Bonifacio VIII con intenzioni ben diverse da quelle di Papa Francesco.
Cercheremo di capire meglio – almeno lo speriamo – le ragioni e le motivazioni
interiori che hanno spinto il Papa a fare questo gesto e con modalità diverse
da quelle degli altri Giubilei. Sono grato a MC di avermi affidato questo
compito che, pur essendo impegnativo, mi permette di compiere un atto di
devozione e di ossequio ai nostri lettori, verso i quali MC non può che nutrire
sentimenti di gratitudine.

Non
possiamo però cominciare il racconto della storia del Giubileo senza domandarci
chi sia Papa Francesco. Se è vero, come lui stesso ha detto la sera della sua
elezione a vescovo di Roma (13 marzo 2013), che i «cardinali sono andati a
prenderlo quasi alla fine del mondo», è anche vero che fin dall’inizio egli ha
compiuto gesti e ha detto parole incisive per le persone, per lo stesso papato
e anche per chi non crede. Questo Papa non lascia indifferenti.

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Una profezia scontata

 

Devo iniziare con un riferimento personale. Me ne scuso, ma è
necessario. Nel 1999, quando vivevo a Gerusalemme, pubblicai un romanzo dal
titolo «Habemus Papam, Francesco». Alla vigilia del Giubileo che segnava il
passaggio tra il II e il III Millennio, immaginavo l’arrivo di un papa che
prendesse il nome «Francesco» e cominciasse a riformare sul serio la Chiesa che
già allora, nel declino del pontificato di Giovanni Paolo II, viveva i sintomi
di un sistema ecclesiastico che iniziava a precipitare.

Nel 2012, a richiesta dei lettori, il romanzo fu ripubblicato
dall’Editore Gabrielli con il titolo «Habemus Papam. La leggenda del Papa che
abolì il Vaticano». Questa seconda edizione fu aggiornata al pontificato di Papa
Ratzinger, durante il quale il Vaticano fu teatro di fatti scandalosi e di
corruzione, così gravi da portare lo stesso Papa a rassegnare le dimissioni, le
prime dopo quelle del 1294 di Celestino V, il Papa che con l’istituzione della «Perdonanza»
di Collemaggio (L’Aquila), anticipò di quattro anni il primo Giubileo della
Chiesa Cattolica, proclamato per l’Anno Santo del 1300 dal suo successore, Papa
Bonifacio VIII della famiglia «Cajetani».

L’idea di un papa che prendesse il nome Francesco, anticipata di
tredici anni e poi ribadita l’anno precedente la sua realizzazione, non fu una
preveggenza perché il cristiano non ha bisogno di arti magiche per leggere il
futuro, gli è sufficiente avere gli strumenti adatti alla lettura dei «segni
dei tempi» (Mt 16,2-3; cf Lc 12,54-56; Vangelo [apocrifo] di Tommaso,
n. 91) che sono il Vangelo e la Storia, accostati senza prevenzioni. Usare
questi strumenti è il modo «ordinario» per conoscere il senso e la profondità
di ciò che accade e anche di quello che verrà.

Oggi, ascoltando il papa, spesso gli sento pronunciare le stesse
parole del Papa del romanzo o vedo che compie gesti simili al Francesco
letterario, e non mi meraviglio perché il Papa crede che lo Spirito Santo guidi
la storia e le ragioni profonde dell’agire. Non ha quindi idee o interessi o
privilegi da difendere. Con il cuore libero sa disceere le esigenze del Regno
di Dio, distinte dagli schemi dei propri convincimenti. Papa Francesco è
isolato all’interno del «sistema clericale» e alcuni non lo nascondono nemmeno:
sono gli stessi che prima difendevano il «primato del Papa», ma solo perché il
pensiero del Papa di tuo coincideva con il loro. È sufficiente che un Papa
pensi secondo Dio con spirito di servizio, combattendo la perversione del
potere e lo spirito di casta, che di solito degenera nella corruttela, ed ecco
montare un muro di resistenza strisciante.

Papa Francesco ha il senso di Dio perché è affamato di umanità e
sa di rappresentare sulla terra quel Cristo, che è «Lògos [che] carne fu fatto»
(Gv 1,18). Si presenta all’umanità non come maestro di princìpi e dispensatore
di dottrina, difensore di tradizioni passate e fustigatore di costumi, ma
semplicemente come il servo del Dio incarnato che viene a misurarsi con il
passo delle persone alle quali prospetta e offre un orizzonte che solo nella
libertà e nell’amore è possibile.

Si può dire che Papa Francesco esprima l’anelito e l’ansia
pascaliani di non preoccuparsi del Dio della filosofia e delle dimostrazioni
apologetiche, ma unicamente del Dio incontrato e sperimentato nella sua storia
e in quella dei suoi compagni e compagne di viaggio: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio
di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù Cristo»
(B. Pascal, Memoriale; cf anche Pensieri, 5, 362, 366, 556; 602,
730).

Qualche giorno dopo la morte di Blaise Pascal (1623-1662), un domestico trovò
cucito nella fodera di un suo indumento, un foglio autografo in cui filosofo e
scienziato faceva riferimento a un’esperienza, forse mistica, avvenuta nella
notte del 23 novembre 1654. Il breve documento è conosciuto come «Memoriale» e
riporta la celebre frase: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di
Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù Cristo».



 


Da sommo pontefice a «servo
dei servi»

 

Per capire Papa Francesco e la scelta d’indire un Giubileo
Straordinario sulla Misericordia, bisogna ritornare a quella sera straordinaria
del 13 marzo 2013, quando dopo la fumata bianca e l’annuncio del cardinale
protodiacono: «Habemus Papam … Franciscum», il primo latinoamericano della
storia e il primo gesuita papa, si è affacciato alla loggia delle benedizioni.
Da subito gli addetti del mestiere hanno capito che molto era cambiato, già
solo al vederlo vestito di bianco e senza la mozzetta scarlatta e la stola
cosiddetta di «Pietro e Paolo». Accanto al Papa, alla sua sinistra, stava
terreo e sudato il cerimoniere pontificio che sul braccio teneva piegata la
stola pontificia.
È
stata una scena indimenticabile perché ha segnato il confine irreversibile tra un
«prima» e un «poi» (cf V. Gigante – L. Kocci, La Chiesa di tutti,
prefazione di Paolo Farinella, Altraeconomia, Milano 2013). Per la prima volta
nella storia, un Papa appena eletto non si presentato come «pontefice», ma come
Vescovo di Roma e ha voluto mostrarlo in modo visibile perché nella Chiesa i
simboli sono essenziali. Egli ha rinunciato alla «mozzetta rossa, oata di
ermellino», residuo della clamide rossa indossata l’imperatore come simbolo
della sua autorità di massimo magistrato dello stato. Rinunciando all’indumento
imperiale, il Papa rinunciava a presentarsi come «Sommo Pontefice», titolo
riservato all’imperatore e simbolo del potere temporale. Non indossando la
stola che di solito i Papi portano quando esercitano la loro funzione di capi
di stato, il Papa si è offerto al suo popolo «nudo» come Francesco di Assisi e
ha trasformato in un colpo solo il potere in servizio.

L’ultimo gesto sconvolgente è stata la richiesta al popolo
romano, cioè il «suo» popolo ecclesiale, d’invocare la benedizione di Dio su di
lui vescovo, prima che questi benedicesse il popolo, dando corpo alle parole di
sant’Agostino che nell’anniversario della sua ordinazione diceva ai cristiani
di Ippona: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano» (Sermones,
340, 1 PL 38, 1483). La sera del 13 marzo 2013 dalla loggia centrale del
Vaticano non si è presentato il rappresentante del potere temporale, anche se
stilizzato, il Papa-Re, anche se di un minuscolo Stato di 0,44 km
2, ma «il servo
dei servi di Dio». Non si è presentato soltanto. Ne ha anche avuto coscienza.

 

L’appellativo «Servus servorum Dei» fu utilizzato per la prima volta da Papa
Gregorio I (1145-1241) in risposta al Patriarca di Costantinopoli Giovanni IV Nesteutés,
che significa Digiunatore (582-595), che nel 587 aveva assunto il titolo di
Patriarca «Ecumenico». Papa Gregorio si definì «Servo di Dio» che nell’Amtico
Testamento è un titolo onorifico, sinonimo di ambasciatore/rappresentante, e
per sottolineare l’umiltà del ministero aggiunse «dei servi di Dio», cioè il
Popolo santo dei credenti. L’appellativo, per le circostanze in cui è nato, ha
un richiamo esplicito al profeta Samuele: «Parla, Signore, perché il tuo servo
ti ascolta» (1Sam 3,9-10).



 

La misericordia nel sangue

Francesco di Assisi andava in giro per la città predicando
il Vangelo «sine glossa», cioè senza alcun commento, ma testimoniandolo con la
vita e l’esempio e assumendo la povertà assoluta come misura della sequela di
Cristo. Papa Francesco, che prende il nome del poverello di Assisi, si condanna
da sé a essere inchiodato a una vita di austerità e povertà, anche esteriore,
perché quel nome non è un nome qualsiasi, ma quello di uno che «fece sul serio».
Papa Francesco è coerente e due anni di servizio petrino lo dimostrano: egli è
quello che appare e fa quello che dice (cf Mt 23,3).

Nell’esortazione apostolica «Evangelii Gaudium», Papa
Francesco scrive facendo eco al Santo suo ispiratore e facendo suo il metodo
del «sine glossa»:

«È vero che, nel nostro rapporto con
il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come
nemici che puntano il dito e condannano. Siamo molto chiaramente avvertiti: “Sia
fatto con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16), e “se possibile, per quanto dipende
da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12,18). Siamo anche esortati a cercare di
vincere “il male con il bene” (Rm 12,21), senza stancarci di “fare il bene”
(Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma considerando “gli altri
superiori a se stesso” (Fil 2,3). Di fatto gli Apostoli del Signore godevano “il
favore di tutto il popolo” (At 2,47; cfr. 4,21.33; 5,13). Resta chiaro che Gesù
Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come
uomini e donne del popolo. Questa non è l’opinione di un Papa né un’opzione
pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così
chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che
toglierebbero ad esse forza interpellante. Viviamole sine glossa, senza
commenti. In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la
vita con il popolo fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore del
mondo» (EG, 271).

Questo è l’uomo che ha indetto il Giubileo Straordinario
della Misericordia, parola che segnava la vita di Bergoglio già prima di essere
eletto. Quando nel 1992 era stato eletto Vescovo, secondo la tradizione come
suo motto episcopale scelse il motto latino: «Miserando atque eligendo». La
frase è tratta dalle Omelie di san Beda, detto il Venerabile (672-735),
il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo,
scrisse: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore
[in latino: miserando = avendone misericordia] e lo scelse, gli disse:
Seguimi» (Omelia 21; CCL 122, 149-151).

Non è più tempo di difendere i princìpi a forza di
manifestazioni o urla, oggi è l’umile tempo del sacramento della testimonianza
con la vita, che è il vero martirio che il Vangelo chiede a quanti vogliono
avventurarsi per questa via, senza esaurirsi in una religiosità esteriore e di
convenienza. Annunciando il Giubileo, Papa Francesco, come novello Giona,
attraversa la Ninive della storia, annunciano a tutti non la «Misericordia di
Dio», ma che «Dio è Misericordia». In questo modo egli resta fedele alla sua
storia personale e alla sua vocazione, dando spazio alla Dimora/Shekinàh dello
Spirito nella sua vita. Da Papa ha coscienza di dovee testimoniare la realtà
davanti al mondo e davanti a chiunque incontri. D’altra parte anche Gesù ha
iniziato il ministero pubblico nella sinagoga di Nàzaret, scandalizzando i
cultori del Dio «castigamatti», annunciando per tutti un Dio dal Volto non solo
umano, ma amorevole e carico di tenerezza e di amore a perdere:

«18Lo Spirito del Signore è sopra di me; / per questo mi ha
consacrato con l’unzione / e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto
annuncio,/ a proclamare ai prigionieri la liberazione/ e ai ciechi la vista;/ a
rimettere in libertà gli oppressi,/
19a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 1,18-19).


Ogni tempo è «anno di grazia» perché il tempo di ciascuno è
diverso dal tempo degli altri, ma il tempo di Dio è sempre un «kairòs
occasione propizia» da afferrare, perché Dio ha tutta l’eternità per perdere il
suo tempo con noi, suoi figli e figlie, oggi e domani. Sempre.

 

Paolo Farinella, prete

Paolo farinella




Storia del Giubileo 2. Riscoprire il senso delle parole


Nella puntata precedente (cf MC 10/2015) ho presentato il Papa che ha indetto il Giubileo della Misericordia e ho anche accennato alle novità che egli ha portato con semplicità e mitezza, venendo «dalla fine del mondo» per assumere lo stesso stile pacato e «buono» di Papa Giovanni XXIII che, l’11 ottobre 1962, inaugurò il concilio ecumenico Vaticano II col medesimo programma di Gesù nel Vangelo di Luca: «L’anno di grazia» (cf Lc 4,19):

«Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odiee, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando» (Gaudet Mater Ecclesia, 7.2).

«La medicina della misericordia» è il commento cristiano al «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). È il vino e l’olio che il Samaritano versò sulle ferite dell’uomo incappato nei briganti e lasciato per strada mezzo morto (Lc 10,34). In altre parole è la medicina per curare le ferite e ridare dignità a chi è stato umiliato.

Maschile, femminile e neutro

Papa Francesco su questo punto non ha dubbi:

«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso. La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia» (A. Spadaro, Sj, «Intervista a Papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, 2013 III, pp. 449-477 | 3918 [19 settembre 2013], qui pp. 461-462).

È insegnamento comune della Chiesa (e anche del buon senso), sintetizzato da san Tommaso in una massima di grande effetto: «Prima la vita, poi la dottrina – Prius autem est bene vivere quam bene docere» (san Tommaso d’Aquino, Catena in Mt, cap. 5,1-11). La «misericordia» dice che la Chiesa non può andare nel mondo alla conquista di proseliti, ma deve stare «nel» mondo sapendo di non essere «del» mondo (cf Gv 17,11.15-16) per affermare con la vita e le sue scelte la «signoria» di Dio e il primato di Cristo, anzi della sua «Agàp?» che è amore a perdere, cioè donarsi senza chiedere in cambio nulla.

Papa Francesco ha intitolato la Bolla d’indizione del Giubileo «Misericordiae Vultus», parole che meritano una riflessione non superficiale, un’attenzione di stampo esegetico. Sono tre parole: «Giubileo» (in latino Iubiléum), «Misericordiae – della Misericordia» e, infine, «Vultus – Volto/faccia/viso»; tre parole, tre sostantivi: uno neutro (Iubiléum), uno femminile (Misericordiae) e uno maschile (Vultus), quasi ad assommare l’intera creazione, ciò che è animato (maschile e femminile) e ciò che è inanimato (neutro), perché l’istituto del Giubileo riguarda non solo le persone e le relazioni tra loro, ma anche la terra, le piante, le cose. Nulla può essere escluso dalla sua sfera di giustizia e di grazia.

Se, infatti, il maschile e femminile fanno riferimento alle due componenti essenziali alla vita e alla conservazione della specie, il neutro ci porta nel cuore della terra che la norma del Giubileo tratta come «una persona» dal momento che non può essere sfruttata senza limiti, ma solo per lo stretto necessario alla vita. Il Giubileo riguarda tutti e tutto, senza distinzione di ruoli, di sessi, di funzioni. Riguarda gli animali, e quella che Papa Francesco chiama la «casa comune», la Madre Terra, cui ha dedicato la sua ultima enciclica «Laudato si’», che ha come sottotitolo appunto «Enciclica sulla cura della casa comune», non a caso pubblicata il 24 maggio 2015, giorno in cui la liturgia cattolica ha fatto memoria solenne del giorno di Pentecoste, il giorno dell’esplosione dello Spirito che secondo la profezia di Gioele «è effuso su ogni carne – ‘al kol basàr» cioè su tutto ciò che ha una qualsiasi forma di alito di vita (Gl 3,1).

Per approfondire in modo sistematico il termine «misericordia», suggeriamo la lettura di Paolo Farinella, Il Padre che fu Madre. Una lettura modea della parabola del Figliol Prodigo, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR) 2010, dove la parola è rintracciata in tutta la Bibbia e nei diversi contesti, ed è sviscerata in modo particolare in Lc 15, pericope in cui si espone la parabola appunto del Padre che fu Madre nei confronti di un figlio senza ritegno e senso della vita. Si consiglia inoltre di leggere il testo della Bolla d’indizione del Giubileo, «Misericordiae Vultus», di Papa Francesco (reperibile sul sito https://w2.vatican.va).
È anche opportuno leggere l’ultima enciclica di Francesco, «Laudato si’» che con parole semplici e ragionamenti non specialistici fa un’impressionante fotografia della situazione reale della Terra, e quindi del genere umano, richiamando ciascuno alle proprie responsabilità (il testo della lettera enciclica è reperibile in qualsiasi libreria, pubblicata da diverse case editrici o, anche questo, nel sito del Vaticano).

Dare senso alle parole

Esamineremo nelle prossime puntate di questa rubrica i tre termini, giubileo, misericordia e volto, allo scopo di scoprire su quale orizzonte ci vogliono collocare. Anche a costo di sembrare pedante, non rinuncerò ad assaporare le singole parole, in contrasto con un ambiente culturale superficiale che sta svuotando la lingua del suo significato, che sta facendo correre all’umanità di oggi il rischio di trovarsi in futuro – sempre che già non si trovi – in una nuova Babele dove nessuno può comunicare con gli altri perché ciascuno dà a ogni parola significati diversi (cf Gen 11,1-9).

Oggi le parole sono trattate in modo violento e osceno, in un inverecondo «usa e getta». Dicono le statistiche che ogni giorno in Italia, tramite cellulare (solo messaggi) si trasferiscono non meno di un miliardo di parole, dando ragione all’anelito del poeta indiano Rabíndranáth Thákhur, occidentalizzato in Tagore (1861-1941): «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio».

Penso che solo gl’innamorati sappiano valorizzare il silenzio come comunicazione del profondo, perché solo essi sanno superare la barriera del tempo e vivere una dimensione di eternità stando insieme, e comunicare «senza parlare» perché la pienezza dei sentimenti vissuti e condivisi non possono essere espressi in insufficienti parole. Vi sono momenti ed emozioni che solo nell’estasi possono esprimersi ed essere compresi.

Se la parola non ha come contorno il silenzio, essa è solo un suono vuoto, o peggio perduto, e dovrebbero saperlo bene i cristiani che affermano di essere i testimoni del Lògos – la Parola per eccellenza – che diventa fatto/evento, in termine evangelico «carne», cioè fragilità (cf Gv 1,14). Per definire, oggi, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, si ricorre all’espressione «religioni del Libro», cioè della parola, non solo detta, ma sigillata nello scritto perché rimanga fissata a dare senso di marcia a chi ascolta e alle generazioni future. La parola scritta è garanzia e promessa verso il futuro perché trasmette lo stesso «significato» per dare un legame intimo alle generazioni distanti tra loro.

Dice la Mishnàh giudaica (VI, 1) che al crepuscolo della creazione, cioè la sera di venerdì, un momento prima che entrasse lo Shabàt . Sabato, giorno in cui «Dio si riposò», egli creò le lettere dell’alfabeto e le conservò con cura perché con esse avrebbe scritto sul monte Sinai la Toràh con i comandamenti e le norme dell’alleanza sponsale. Che idea geniale! Dio conclude la settimana della creazione con l’alfabeto e inaugura il riposo festivo conservando, anzi custodendo le parole del futuro. Si sottolinea così la preziosità non solo delle parole, ma anche delle singole lettere che non possono essere sciupate perché con esse possiamo dire chi siamo e possiamo andare oltre noi stessi comunicando con gli altri. Per questo motivo gli Ebrei usano scrivere il testo della Bibbia in ebraico, ponendo coroncine decorative su ogni singola lettera, pratica che in campo cristiano si è evoluta nell’arte dei codici miniati.

Il silenzio, parola suprema

Ascoltare il silenzio è la premessa per potere parlare quando ve n’è bisogno. I monaci che vivono nel silenzio sanno distinguere ogni minimo segnale, ogni piccolo fruscio, ogni suono infinitesimale perché nel silenzio il loro animo è educato all’importanza di ogni singola eco, come magistralmente mostra il film del regista tedesco Philip Gröning, «Il grande silenzio» (2005, girato nel monastero della Grand Chartreuse certosina di Grenoble).

Per approfondire, suggeriamo: H. J. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Queriniana, Brescia 2008. Philip Gröning, Il grande silenzio – Die Große Stille (2005), durata 162 m., durante i quali lo spettatore è immerso in una giornata monastica, partecipandovi attivamente, condotto per mano a immedesimarsi nei passi lenti e pacati dei monaci che di notte si avviano al coro e di giorno alle loro attività consuete. Il regista è capace di fare comprendere come la Parola diventa Regina perché vive sul trono del Silenzio.

Il Sapiente biblico che rivive la prima Pasqua dei suoi antenati, partecipa al terrore della Parola che, nel cuore del silenzio attonito dell’universo, piomba come una spada di morte per sterminare la desolazione della schiavitù:

«14Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, 15la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale,  guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile» (Sap 18,14-15).

Il Popolo di Dio redento dal Figlio, sperimenta invece «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) e riceve il «Lògos-Cae» da cui ascolta l’esegesi del Padre (Gv 1,14.18) perché è giunto il tempo in cui «una voce grida nel deserto» di preparare la via del Signore che viene (Mc 1,2). E davanti al Signore che parla e agisce sanando i malati si resta in silenzio, contempliamo la Parola che risana (Lc 14,4), e davanti a noi «si apre il settimo sigillo» della rivelazione dell’amore di Dio (Ap 8,1).

Nell’eco del silenzio interiore, proviamo a fare risuonare le tre parole della storia che stiamo raccontando: Giubileo, «Il Volto della Misericordia». Se saremo capaci di penetrare l’anima del Giubileo, saremo anche in grado di fare un cammino di grazia che ci aiuterà a rapportarci meglio con Dio, e forse a purificare lo stesso nome di Dio che spesso usiamo impropriamente, come arma contundente. Il Giubileo non è acquisire qualche «indulgenza» e mettersi l’anima in pace o assicurarsi un posto al sole, ma è un esodo faticoso e purificante che conduce dal deserto della schiavitù dell’individualismo e dell’egoismo alla terra promessa della comunione con gli uomini e le donne e con Dio. È un cammino di fede che esige la «conversione» nel senso espresso dal Vangelo di Mc: «Metanoèite kài pistèuete en t? euanghelìou – cambiate modo di pensare e credete “nel” Vangelo» (Mc 1,15).

La «conversione» di cui parla Marco non è un tocco di belletto, ma una radicale incisione nei criteri del pensiero, là si formulano le ragioni del nostro agire e delle nostre scelte: è un ribaltamento, una inversione a «U» del nostro modo di ragionare per immergerci nell’acqua fresca del Vangelo che qui è sinonimo della Persona di Gesù. Non si crede in un libro o in una teoria, ma si crede in una Persona perché essa garantisce con la propria esistenza e con la propria vita, vissuta quotidianamente.

L’occasione del Giubileo della Misericordia è l’occasione propizia per ciascuno di noi di scoprire il senso della propria «parola», della propria esistenza, di «stare in silenzio», coltivando il silenzio interiore, riducendo la dispersione e la vacuità (tv, chiacchiere, letture inutili, ecc.) e fare spazio all’alito dello Spirito che c’invita alla circoncisione del cuore. Nella prossima puntata esamineremo le prime tre parole chiave: Giubileo, Misericordia e Volto.

Paolo Farinella prete

(2, continua)

Paolo farinella