Dallo Zaire al Congo



Tra guerre e dittature, 50 anni di strada

Partire dalle minoranze

Primi anni ‘70, periodo di grande fermento. La Consolata cerca un’esperienza di missione molto vicina alla gente, nella quale coinvolgere i giovani missionari. In un contesto di periferia, magari di foresta. Un’occasione si profila all’orizzonte.

L’Istituto Missioni Consolata (Imc) ha visto nell’andare in Congo, all’epoca Zaire, una presenza missionaria nuova. Prima di allora avevamo un’esperienza di missione in foresta solo in America Latina, ma non in Africa. In Tanzania e Kenya lavoravamo in territori semi aridi e di savana. La domanda di base, pensando a un nuovo contesto ambientale e umano, era: quali sono le sfide che possono nascere? I pilastri su cui volevamo costruire la missione in Congo erano i seguenti tre.

Aprire l’Istituto a un’esperienza nuova, molto coinvolgente e vicina alla gente. Dal dopoguerra si notava che le missioni diventavano sempre più grandi ed estese. Le strutture – dispensari, scuole, cappelle, chiese – erano cresciute, ma mancava l’accompagnamento delle persone.

Mandare giovani missionari che facessero un’esperienza forte fin dalla loro prima destinazione. In effetti, quando sono arrivato io, nel 1982, la cosa che colpiva era vedere missionari tutti molto giovani che mostravano grande spirito di fraternità. Il Congo era diventato un punto di riferimento per tutto l’Istituto: molti di noi volevano andarci, era la missione più desiderata.

Infine, già allora l’Istituto aveva fatto la scelta preferenziale per le periferie, che veniva confermata.

Il pretesto

Il motivo concreto del nostro arrivo in Zaire è stato l’invito da parte dei vescovi del paese di padre Noè Cereda a Kinshasa, per insegnare sociologia all’università. Il Congo dopo la guerra civile degli anni ’60-’64 si è ricostruito intorno alla cultura. L’unità nazionale è stata data dalla chiesa cattolica, che ha rappresentato sempre l’unica istituzione che dava spazio ai giovani.

La chiesa a Kinshasa aveva aperto un’università cattolica, che era più importante della statale. Per fare questo, i vescovi avevano fatto specializzare alcuni preti, oppure li avevano fatti arrivare dall’estero, come padre Noè.

Quando il superiore è andato poi a trovarlo, ha incontrato alcuni vescovi che si sono mostrati sensibili alla nostra presenza. Così, nel 1972, abbiamo aperto, ma non in capitale, bensì a Nord, nella foresta. A Wamba e a Doruma. Una scelta della periferia.

A Kinshasa abbiamo avuto sempre un pied-à-terre, la piccola parrocchia Mater Dei, che ancora oggi è il nostro quartier generale in Congo.

Facciata della casa della missione di Mater Dei a Kinshasa

Wamba

Il 7 novembre del 1972 è partito dall’Italia padre Antonio Barbero, il primo (se non si conta padre Noè) a iniziare una missione della Consolata in Congo (vedi sotto).

La due prime missioni sono state Doruma e Wamba, che distano tra loro 400 km di strada sterrata. Wamba, nella diocesi omonima, si trova in piena foresta, dove ci sono anche i Pigmei. Fin da subito i nostri missionari hanno fatto l’opzione per i Pigmei, iniziando visite e accompagnamento. Questi sono sempre stati visti dagli altri congolesi come terza categoria, meno degli animali.

La missione a Wamba è stata caratterizzata da una presenza bella e semplice, senza grandi strutture. Abbiamo retto per tanti anni il centro catechistico, che è stato il cuore della diocesi. Lì i nostri padri formavano le famiglie, per tre o sei mesi, a essere animatrici nei propri villaggi di provenienza. C’era la scuola, la formazione delle donne, e molto altro.

Negli ultimi tempi (negli anni ’90-’91) abbiamo aperto una radio per fare alfabetizzazione. Anche i Pigmei la ascoltavano, in swahili o in kibutu, che è la loro lingua. Il centro è stato in seguito passato alla diocesi.

Segno di mitragliata sui muri della missione di Wamba

Dobbiamo ricordarci che Wamba è stato l’epicentro della ribellione dei Simba (1964-65), e che vi sono stati ammazzati il vicario apostolico, Joseph Pierre Albert Wittebols, con 250 altri europei tra cui tanti preti e suore. Prima c’erano i Dehoniani, che però non riuscivano più a reggere tutte le missioni. Noi siamo arrivati dopo la ribellione, nel 1972, quando Mobutu aveva preso il potere. Abbiamo cercato di dare speranza, impegnandoci molto sul piano sociale, e nel centro catechistico.

Padre Piero Manca è stato il pilastro dei catechisti, ha lavorato tantissimo alla promozione umana. Poi c’era padre Angelo Baruffi, che è stato per anni coordinatore di tutte le scuole cattoliche della diocesi. Padre Ivano Magnani, punto di riferimento per tanti giovani preti, anche locali, è stato vicario diocesano. Padre Enrico Casali è stato l’uomo spirituale, lui ha portato molta animazione e ha fondato il gruppo dei Focolarini. C’era pure padre Flavio Pante, che oggi è di nuovo lì, tornato per un secondo periodo, una presenza di spicco, molto apprezzato e molto vicino alla gente.

A Pawa, sempre nella diocesi di Wamba, avevamo il dispensario e seguivamo pure i lebbrosi. Un’altra missione era a Bafwabaka.

Ordinazione a Wamba di padre Stefano Camerlengo e padre Alvaro il 19/03/1984

Doruma

Più a Nord, sempre nel ’72, abbiamo aperto a Doruma, nella diocesi Dungu-Doruma, vicino al confine con il Sudan. Seguivamo anche alcuni villaggi in Sudan. Alla frontiera c’era un lebbrosario che accompagnavamo.

Doruma è un’altra regione, e vi vive un’altra tribù, gli Azande, gli antichi abitanti del Congo, con il loro sistema di re, e come lingua usano il lingala più antico.

Avevamo anche la parrocchia di Bangadi, e padre Giuseppe Ronco è stato in entrambe.

È una zona molto vasta e, se a Wamba la gente è concentrata, a Doruma è più dispersa.

Erano missioni ereditate dai padri agostiniani, e la presenza missionaria era caratterizzata dalla vicinanza alla gente.

Nelle missioni antiche c’era la vecchia idea della collina con la chiesa, la casa dei padri, la scuola, la falegnameria, ecc. E la gente si radunava attorno. Il cambio di stile missionario che abbiamo vissuto, è stato impostato dai padri Bianchi (i missionari d’Africa), grandi maestri della missione africana, che hanno rovesciato il paradigma: non è la gente che deve venire da noi, ma siamo noi ad andare nelle comunità. I missionari partivano per visitare i villaggi e stavano 10-15 giorni con i loro abitanti.

Quello che ci è mancato è stato lasciare traccia scritta, perché la riflessione è stata fatta. Quello che aiutava i nuovi arrivati, erano i diari della missione, che ancora si tenevano.

Quando i missionari tornavano alla sera – ai tropici viene buio presto – si trovavano seduti intorno a una candela, e si raccontavano quello che era successo nella giornata.

La chiesa di Doruma nel 1983

Ampliamenti e cambiamenti

A Wamba, negli anni ‘90, si è confermata e rafforzata l’opzione per i Pigmei, aprendo una missione a Bayenga, al centro del loro territorio.

A Doruma, durante la guerra di Kabila (prima guerra del Congo 1996-97), sono passati svariati eserciti e la missione è stata attaccata diverse volte, così si è deciso di lasciarla. Siamo andati ad aprire a M’bengu, nella stessa diocesi. Una località «fuori dal mondo», ancora più sfidante.

Lì abbiamo realizzato una scuola. È una convinzione dei Missionari della Consolata, infatti, quella di investire nella cultura: se aiuti le persone a pensare, il mondo cambia. Non è il pane che ti cambia, anche se è necessario.

Per essere presenti anche in capitale, a Kinshasa, si è deciso di aprire una nostra missione a Samukassa, con i padri Santino Zanchetta e Antonello Rossi. Vi siamo stati 25 anni, per poi passarla alla diocesi.

Nel Nord, nella diocesi di Isiro, avevamo già aperto nel capoluogo (nel ’75), e siamo andati a Neisu (nell’84), che era un piccolo villaggio a 70 km di distanza, dove si andava già a celebrare la messa.

Da Isiro partiva padre Antonello con padre Oscar Goapper. Oscar aveva un interesse particolare per la medicina: un giorno ha cercato di curare una bambina, che però è morta. Ha deciso che non poteva più permettere che questo accadesse. Ha quindi studiato medicina per poi aprire l’ospedale di Neisu. Il villaggio si è ingrandito e adesso è un grosso centro. È oggi un nostro fiore all’occhiello.

Durante la guerra di Kabila non si poteva viaggiare tra la capitale e il Nord, che si raggiungeva solo attraverso l’Uganda. Siamo stati costretti a separare le due realtà (1999). Io ero il superiore delegato a Kinshasa, dove abbiamo aperto due parrocchie e il seminario teologico. Solo quando sono partito nel 2005, destinato a Roma, ho capito tutto quello che avevamo fatto in quegli anni. Il cardinale Frédéric Etsou, aveva fatto un consiglio personale, nel quale aveva chiamato anche me e l’attuale cardinale di Kinshasa.

Padre Oscar Goapper a Neisu nel 1983, quando i malati erano curati in un capannone e l’ospedale era ancora da venire.

Verso quale futuro

Il Congo, oggi Rdc, ha bisogno di stabilità, perché è tormentato da sempre. È un paese ricchissimo con molte potenzialità e gente capace, ma ha una corruzione endemica, e tutti ci stanno bene o sanno conviverci. Come ottenere questa stabilità? Con la serietà nel lavoro, educazione alla giustizia e alla pace. È fondamentale. La chiesa, e il nostro Istituto in particolare, non possono tirarsi fuori, perché non si può benedire una situazione di ingiustizia. Onestà e trasparenza, sono priorità da perseguire a tutti i livelli. Insistiamo nel dare la precedenza a situazioni di minoranza o povertà, ecco perché riaffermiamo la scelta preferenziale per i Pigmei.

Nei pressi a Beyenga, esistono piste di atterraggio clandestine, dove arrivano aerei per portare via il coltan (minerale di cobalto e tantalio, ndr) e l’oro. I ragazzi vanno a raccogliere il minerale per i trafficanti, guadagnando 10 dollari alla settimana, quanto prende il papà in un mese di lavoro. Tutto questo complica la situazione sociale. Non si può stare in silenzio.

Sarebbe importante portare il tema dei Pigmei a un livello internazionale: c’è un gruppo di persone che non è rispettata, che va scomparendo, che non ha gli anticorpi per un raffreddore.

L’altra questione importante è la promozione umana, che deve essere portata avanti dalla gente. Anche la cooperazione non ha più senso farla con progetti nostri, ma va fatta con progetti che la popolazione prenda in mano e porti avanti.

Stefano Camerlengo

Da sx: i diaconi Stefano Camerlengo e Alvaro Dominguez, padri Magnani Ivano, Marcolongo Renzo e Mazzotti Giacomo a Wamba 1983


Dal diario del pioniere della Consolata in Congo

Prime lettere dallo Zaire

È una domenica di inizio dicembre del ‘72. Finalmente padre Antonio raggiunge la sua destinazione, a lungo sognata. Ha viaggiato 25 giorni e visitato diverse località del Nord Zaire. E inizia lì, a pochi passi dal confine con il Sudan, la sua avventura missionaria.

Padre Antonio Barbero è stato il primo missionario della Consolata inviato dall’Istituto per aprire una missione in Congo, all’epoca Zaire. A Kinshasa si trovava già padre Noè Cereda, invitato dalla Conferenza episcopale per impartire lezioni all’università cattolica della capitale.

Padre Antonio è partito il 7 novembre 1972 dall’Italia, aveva 44 anni. Arrivato in Zaire si è diretto nel Nord Est. A Doruma ha iniziato il lavoro della Consolata. È stato poi raggiunto da fratel Alberto Donizetti (partito il 16 dicembre) e dai padri Tiziano Basso, Enrico Casali e Pietro Manca, che avevano lasciato l’Italia il 19 dicembre.

Padre Antonio ha scritto un diario in forma epistolare che rimane un documento importantissimo per tracciare le prime fasi della presenza dell’Imc in Congo-Zaire. Ne riportiamo alcuni passaggi.

Sabato 18 novembre 1972.
Padre Antonio si trova a Kisangani, e sta per andare per la prima volta a Isiro, e poi a Wamba e Doruma, sua destinazione di missione.

Il Fokker copre la distanza Kisangani – Isiro in un’ora. Come al solito, sotto di noi si presenta la stessa panoramica: foresta interrotta ogni tanto da corsi d’acqua, da piste tracciate nel verde, villaggi disseminati lungo le piste e i fiumi. […].

La pista è in terra battuta, ma così solida che pare cemento. Il Fokker si ferma proprio davanti all’uscita: i bianchi sono invitati all’ufficio di controllo, solo io vengo scritto nel registro, perché è la prima volta che tocco questo suolo. Mentre attendo le valigie, vedo una suora e vado a domandare se per caso andasse alla procura. Mentre parlo con lei mi si presenta un italiano, signor
Casale dell’Aquila, macellaio a Isiro, il quale si offre di accompagnarmi a St. Anne, dove è parroco padre Colombo, comboniano, superiore regionale. L’accoglienza è più che fraterna […].

Lunedì 20 novembre.
Sono sempre in attesa di un’occasione per recarmi a Wamba. Finalmente se ne presenta una, il curato di Babonde che è venuto in città per compere. Faccio anche io una passeggiata attraverso la città, entro in qualche negozio […]. Molta gente siede oziosa a guardare i passanti. Altrove c’è qualche mamma seduta per terra con il proprio bimbo, davanti a lei una bacinella ripiena di una specie di polpette di manioca, di pane zuccherato […].

Verso le 16, a bordo di un pulmino Wolkswagen, carico un po’ di tutto, prendiamo la via di Wamba. La via diretta è interrotta perché alcuni ponti sono in via di ricostruzione in cemento, perché erano di tronchi d’albero. Quindi prendiamo per Ibambi, facendo così un lungo giro su una strada che non è degna di questo nome. Ci sono tratti in cui anche in prima pare di essere sulle montagne russe. La strada si snoda nella savana arborata, su di un terreno ondulato rossiccio, che qui chiamano «limenite» (laterite, ndr), un terreno di origine vulcanica, un po’ ghiaiosa. Spesso a destra e a sinistra compaiono villaggi formati da casette in mezzo al verde, di costruzione sempre uguale, davanti alle quali giocano molti bambini e prendono il fresco uomini e donne sulle proprie sdraio. Si notano spesso piantagioni di caffè […].

Nel viaggio ci sono molti fiumi da attraversare, ma spesso i ponti sono in totale rovina a causa della guerra e poi dell’incuria.

Martedì 21 novembre.
Il bac è una specie di chiatta fatta di piroghe (tronchi scavati) che sfrutta la corrente per fare attraversare persone, cose, camion e Land Rover. Le operazioni sono così lente che mettono a prova la nostra pazienza, ma non la loro… perché la fretta non è la loro virtù o il loro vizio.

La cattedrale di Wamba nel febbraio 1983

Wamba

Il secondo campo di lavoro della Consolata in Zaire è situato un grado sopra l’Equatore, 120 km da Isiro, ad una altezza media di 500 m, un pianoro ondulato nella savana arborata, per non dire foresta. Vicariato apostolico dal 1949, affidato ai padri dehoniani, diocesi dal ‘59, nel ‘64, il 2 novembre, eccidio del vescovo con 15 padri e altrettante suore, gettati poi nel fiume Wamba e non più ritrovati. In sede è rimasto solo il vescovo nero, mons. Olombe e padre Martin, parroco, con quattro suore vincenziane e tre africane. Diecimila abitanti circa, la metà cattolici […].

La missione doveva essere un gioiello. Costruzioni in mattone: scuole, case per i maestri, conventi, laboratori, tipografia, coltivazioni di caffè, ecc. Di nuovo c’è la cattedrale: opera originale iniziata prima della rivoluzione e terminata due mesi fa. Forma circolare, il tetto in lamiera […]. A me è parsa una nota stridente con le abitazioni del popolo, ma mi si rispose che i neri pretendono che la casa di Dio sia molto più bella e grande della loro, perché deve costituire un ideale, un punto di arrivo.

Mercoledì 22 novembre.
Ebbi una lunga conversazione con il vescovo, in merito alla nostra futura presenza nella sua diocesi. Monsignor Olambo si sente felice, gli pare di rivivere pregustando la gioia di avere del personale giovane, disponibile alla missione per fare rifiorire la cristianità rimasta senza pastori.

Con padre Martin visitai i diversi rioni della città e dovunque passavamo tutti uscivano incontro a salutare e a invitarmi a rimanere con loro. Con questa gente non bisogna elemosinare strette di mano perché sarebbe un insulto il rifiutare la mano. Ci fermiamo all’ospedale: ma non pensate che sia come da noi, ma all’africana. Le medicine sono provviste dallo stato, ma al cibo ci pensano i parenti, e allora quando la mamma è all’ospedale, tutta la famiglia vi si trasferisce e fuori nel cortile vedete tanti fuocherelli e gente seduta intorno a preparare il cibo […].

Doruma

Mercoledì 29 novembre.
Rifaccio i miei bagagli e, appena consumato pranzo alla procura di Isiro, a bordo di un camion ribaltabile carico di fusti di nafta e di provvigioni per il collegio di Dungu, abbordiamo i 220 km che ci separano da Dungu. I fratelli Richard e Fabien si alternano al volante, perché la strada non differisce da quelle descritte precedentemente. Il sole è arrabbiato, in cabina siamo un po’ scomodi: tre persone più gli oggetti delicati, che sono molti. […].

Facciamo sosta a Rungu dove lavorano i padri comboniani italiani […].

Riprendiamo il nostro viaggio, il paesaggio è quasi sempre uguale: foresta a destra e a sinistra, vegetazione lussureggiante […].

Dopo altre due ore di percorso arriviamo alla savana, con erbe che sorpassano i due metri di altezza. Pochissimi si contano gli alberi a basso fusto […]. Però per quasi tutto il percorso nella savana non si è notata la presenza di una capanna, e questo per 30 km circa. […]

Verso le nove finalmente arriviamo a Dungu.

[…]. Rimango ospite dei fratelli per tre giorni, sempre in attesa di una prossima occasione per Doruma. Nel frattempo, visito la missione di Dungu, diventata sede della diocesi, perché più centrale (diocesi di Dungu-Doruma), mentre Doruma è posta verso i confini della diocesi stessa. […].

Sabato 2 dicembre.
Raccolgo i miei effetti per la penultima tappa verso Doruma. Fratel Fabien deve recarsi a Bangadi in serata e il giorno seguente avrebbe fatto vela per Doruma. Ne approfitto anch’io. Si parte verso le due del pomeriggio. Carichiamo come si conviene il pulmino e tra le tante cose trovo un posto anche per la mia piccola persona.

Per la strada più stretta del solito, attraversiamo i fiumi Dungu e Kigali e tra due sponde di alberi e di erba altissima ci dirigiamo a una velocità discreta a seconda dello stato della pista (zairoise). In quattro ore copriamo la distanza di 110 km e giungiamo a Bangadi […].

Domenica 3 dicembre.
Era domenica e passando nei villaggi si notava un movimento insolito: mercato lungo i viali alberati, assembramenti di gente attorno alle scuole cappelle dove si erano radunati a fare la preghiera con il catechista. Al nostro passaggio tutti ci salutavano con la mano.

Dopo due lunghe ore di corsa giungemmo finalmente in vista della missione che da mesi cercavo di immaginarmi, senza avere alcuni elementi concreti a cui aggrappare la mia fantasia. Mi assalì una certa emozione che cercai di controllare senza riuscirci pienamente. Alla mia destra vidi subito spuntare tra i palmizi la cattedrale in mattoni rosa pallido, la facciata della missione e il complesso delle scuole primarie e secondarie. Ebbi subito la sensazione dell’ordine, della pulizia, del buon gusto. Erano le 11 del tre dicembre, festa di san Francesco Saverio, grande missionario, il quale impiegò sei mesi per raggiungere le Indie (e io impiegai solo 25 giorni per raggiungere la mia destinazione) […].

Verso le 22 raggiunsi la mia cameretta: ero stanco per tutte le emozioni provate e per il viaggio, tuttavia mi fu difficile prendere sonno. Ringraziai il Signore per avermi concesso di coronare il mio sogno missionario. Pregai san Francesco Saverio perché infondesse in me un po’ del suo spirito apostolico onde non deludere le aspettative di Dio e delle anime a cui ero stato inviato. […].

Antonio Barbero

 Padre Antonio ci ha lasciati prematuramente nel febbraio 1982, ma il seme che aveva gettato continua a dare frutto.
Selezione dai testi originali a cura di Marco Bello.


La nuova avventura della Consolata in Congo

Kisangani, ultima periferia

Kisangani è la più grande città del Nord del Congo. È snodo per l’Oriente e per le martoriate province dell’Est. Nel periferico quartiere Segama, in continua crescita, padre Honoré ha iniziato una presenza nel 2019. Quasi tre anni dopo è stato affiancato da padre Rinaldo Do. I progetti sono tanti e i bisogni pure.

Kisangani è la terza città del Congo dopo Kinshasa e Lubumbashi. Si affaccia sulle rive del fiume Congo a duemila chilometri dalla sua foce, nella zona equatoriale, centro Nord del paese. Padre Honoré Tsiditeta, congolese di 57 anni, vi è arrivato nel gennaio 2019. Raggiungiamo telefonicamente padre Rinaldo Do sul posto. Missionario della Consolata, in Congo dal 1991, ci racconta la genesi di questa missione, in una zona nuova per l’Istituto. Innanzitutto, ci spiega la scelta: «C’era il desiderio di uscire dalle nostre aree classiche, di Isiro e Kinshasa, e di avere un punto di riferimento, anche logistico. Ci sono, infatti molti problemi con gli aerei, per noi che lavoriamo al Nord. Si arriva qui da Kinshasa ed è importante avere una casa di passaggio, dove ci si possa fermare, per poi prendere un fuoristrada o una moto e arrivare nelle missioni. Così i superiori, qualche hanno fa, hanno cominciato a dialogare con il vescovo di Kisangani, il quale, ben contento, ci ha dato un terreno che era stato comprato dalla diocesi in vista dell’allargamento della città».

La nuova missione è nel quartiere Segama, a circa 10 chilometri dal centro di Kisangani. Si tratta di una zona urbana nuova, dove si stanno costruendo molte casette, senza alcuna pianificazione e senza servizi: non c’è acqua né elettricità.

«Vi abitano diverse tipologie di persone. Gente che lascia il centro città, altri sono rifugiati del Congo Brazzaville mandati lì chissà perché o scappati, poi ci sono gli sfollati dalle province di Ituri e Kivu, a causa della guerriglia che continua in tutta quella zona di frontiera con Uganda e Rwanda. Si parla di oltre 100 gruppi armati presenti».

Nell’area di Kisangani c’è pace, assicura padre Rinaldo, ma il quartiere non è così tranquillo, si registra molto banditismo notturno: «La gente desidera la nostra presenza anche perché la chiesa può rendere più stabile la situazione».

Piccoli passi

Nel momento in cui parliamo con padre Rinaldo, si stanno ultimando i lavori della casa, base della missione e anche punto di appoggio per missionari che lavorano in altre zone. Poi si inizierà a costruire la chiesa, e in seguito altri progetti. «Adesso abitiamo in centro presso i padri dehoniani e in procura (centro servizi della diocesi, ndr), e andiamo al cantiere tutti i giorni. Quattro volte alla settimana celebriamo l’Eucarestia (la prima è stata celebrata il 27 gennaio 2019, ndr), e questo lo facciamo sotto tendoni che sono montati e smontati per l’occorrenza. Finita la celebrazione vanno infatti tolti, altrimenti si rischia che li rubino. Ma quando potremo abitare sul posto cominceremo a conoscere la comunità, fare un progetto pastorale, i consigli, le commissioni, perché la chiesa è abbastanza viva. C’è una grande voglia di parrocchia. L’area è proprio in mezzo alla gente, e, per noi, è tutto da iniziare, da conoscere, creare i rapporti personali con gli abitanti. Abbiamo iniziato a visitare qualche malato»

E ancora: «Ci sono problemi per mancanza di elettricità, di acqua. Vengono realizzati pozzi artigianali. Noi ne abbiamo fatto uno e la gente viene a prendere acqua alla missione. Pensiamo di realizzarne anche altri nel quartiere, come anche altri progetti da decidere e portare avanti con la nostra gente».

Padre Rinaldo continua con le motivazioni della scelta: «La nostra è una scelta di periferia, dove c’è la gente che ha bisogno di una presenza della chiesa, di consolazione. Abbiamo poi la prospettiva, in un altro terreno, di costruire un centro sanitario, perché sulla salute la gente è abbandonata. Ci sono tanti piccoli centri nel paese. Anche qui a Kisangani ce ne sono alcuni, ma sono, spesso, gestiti dai missionari o dalla chiesa, oppure ci sono le cliniche private, che però hanno prezzi molto elevati».

Padre Rinaldo ha lavorato nella maggior parte delle missioni della Consolata in Rdc. È arrivato a Kisangani nell’ottobre del 2021, per affiancare padre Honoré. Prima era a Saint Hilaire, a Kinshasa, e prima ancora a Neisu, nella diocesi di Isiro.

«La notte di Pasqua abbiamo potuto accendere delle luci, usando un generatore, grazie alla casa quasi terminata. Cosa che a Natale non avevamo potuto fare. Un passo alla volta. La società elettrica dovrà elettrificare anche il nostro quartiere, ma non si sa quando.

A Kisangani, anche in centro, sovente ci sono tagli di elettricità. Anche se si potrebbe dare luce a tutti, perché passa il fiume Congo e ci sono delle cascate».

Infine ci regala qualche considerazione più generale: «C’è un grande abbandono di questo paese. Siamo stati a celebrare la Pasquetta in una zona della città dove c’è una fabbrica di tessuti. Fino a qualche anno fa impiegava duemila operai, adesso è praticamente chiusa. Ce ne sono un centinaio, ma sono in sciopero, perché da sedici mesi non ricevono salario. Questo succede anche in altre zone del Congo: fabbriche abbandonate, lavoratori non pagati. Vediamo situazioni analoghe di insegnanti, infermieri, agenti dell’amministrazione statale. E il governo fa la sua politica, ha regalato 600 auto, una per ogni deputato e senatore. Per tenerseli buoni, ma si dimentica della gente che lavora. Così, spesso, ci sono scioperi che durano settimane, mesi. La situazione è triste, un paese ricco che non è per nulla gestito».

Marco Bello


Il racconto di due decenni vissuti appassionatamente

Con il cuore, si vince

Un’esperienza particolare. Due decenni da missionario sul campo. Il primo in Zaire, il secondo in Rdc. Il primo da giovane alle prime armi, il secondo da veterano con la barba bianca. Tante diversità, altrettante similitudini, cristallizzate nel tempo. Ma sempre la gioia di essere amico, fratello di tanti.

Due decenni vissuti in tempi diversi, in un paese collocato nel cuore dell’Africa (e con due nomi differenti): gli anni più belli della mia vita missionaria, anche se mescolati a tanta fatica, sogni e non poche delusioni.

Un altro mondo

Era il 20 gennaio del 1980; ricordo che, partito da Roma, dopo solo sei ore di volo toccavo il suolo dello Zaire, e non ci volle molto tempo per rendermi conto di essere bruscamente arrivato in «un altro mondo». Con la prima, grande emozione: dopo neanche tre ore dall’arrivo, essendo domenica, la celebrazione della mia prima messa africana in una piccola cappella nella boscaglia (di eucaliptus), con i canti al ritmo dei tamburi, una lingua incomprensibile, i chierichetti con tanto di tuniche colorate e a piedi nudi che precedevano noi preti a passo di danza e tante facce nere (soprattutto di bambini) che guardavano incuriositi i nuovi venuti.

E, dopo pochi giorni, «l’impresa» di arrivare al Nord del paese, sorvolando l’immensa foresta equatoriale, e l’arrivo, su strade rosse e polverose, a Isiro, la modesta cittadina (sede della nostra casa provinciale) dove, la notte del primo dicembre del ’64, era stata uccisa Anuarite, una giovane suora, durante la tristemente famosa «Ribellione dei Simba» che, scoppiata qualche anno dopo l’indipendenza del Congo (1960), aveva prodotto centinaia di vittime tra i locali e tra i missionari stranieri.

Ricordo anche che al mio arrivo in Zaire, la gente era ancora sotto shock per «il regalo» di Natale 1979 del presidente Mobutu: la «demonetizzazione», cioè il cambio senza preavviso delle banconote, passate dal colore azzurro al verde (come la foresta e le foglie di manioca). Nonostante i missionari si fossero dati da fare per trasportare le persone, con i loro vecchi soldi, dai posti più lontani alle banche cittadine, la maggior parte della popolazione non riuscì a cambiare le ormai inutili banconote, che tenevano celate negli angoli più nascosti delle capanne.

Dopo mesi faticosi per imparare il kiswahili, cominciai a scorrazzare su una vecchia Land Rover per la quarantina di villaggi della nostra estesa parrocchia di Wamba, disseminati tra file di palme, campi di riso e manioca, bananeti e chiazze di alte erbe (con qualche serpente annesso). Sperimentavo, così, la gioia e la difficoltà di testimoniare il vangelo di Gesù, non solo in un’altra lingua e cultura diverse dalle mie, ma anche con «l’aiuto» dei catechisti, senza i quali non avrei potuto avvicinare, conoscere, capire e amare la gente dei villaggi. Mi appassionava lavorare con loro, valorizzando le loro conoscenze, il loro modo di vita, la fede semplice e severa di alcuni che, formati senza zucchero dai missionari belgi, erano passati attraverso il crogiolo della persecuzione (e anche del martirio). Fu questa mia passione per loro (forse) che spinse la mia nomina a responsabile del Centro catechistico diocesano, per sei anni, in cui tentai un’impostazione nuova, per formare non soltanto dei «bravi maestri nella fede», ma dei veri leader e animatori per lo sviluppo umano, l’insegnamento, la salute e, soprattutto, la giustizia e l’onestà in quel contesto difficile e così avaro di sogni per qualche cambiamento.

Padre Giacomo Mazzotti a Wamba

Ma fu proprio un cambiamento (non certamente da me sognato) a interrompere il mio lavoro missionario con i catechisti. Nel 1990 venivo, infatti, richiamato in Italia per lavorare nelle nostre riviste e nell’animazione missionaria. Confesso che avevo accettato con non poca fatica, perché dover lasciare l’Africa, dopo solo dieci anni, sembrava un’evidente ingiustizia nei miei confronti. Confidavo, però, nel fatto che la permanenza nel Belpaese non sarebbe stata troppo lunga, ma solo una parentesi da smaltire il più in fretta possibile. Invece, i pochi anni previsti si protrassero più del dovuto, fino a metà del 2005 quando, approfittando della nomina del nuovo superiore generale, feci la richiesta di poter ripartire. E così, il 12 gennaio 2006, riprendevo l’aereo per cominciare la seconda tappa della mia avventura missionaria.

Molti mi avevano ricordato che il Congo (ora si chiamava così) che avrei trovato non sarebbe stato sicuramente come l’avevo lasciato: lunghi anni di guerra, violenza e confusione politica avevano stremato la popolazione, rendendola più povera e sfiduciata. Era ormai scomparso dalla scena Mobutu (morto in esilio, in Marocco, nel 1997), lasciando il paese al collasso economico, in conflitto con i paesi vicini e la guerra civile al proprio interno.

Stavolta, ero stato nominato nientemeno che parroco nella periferia di Kinshasa, in una nostra parrocchia santuario (Mater Dei), dove si venera l’immagine della Madonna di Czestochowa, dono di Giovanni Paolo II, nella sua prima visita allo Zaire (1980). Avevo accettato l’incarico con molta riluttanza e timore, pensando a ciò che mi aspettava, anche se, un mese dopo il mio arrivo, avevo potuto condividere un momento epocale del nostro Congo: per la prima volta, dopo più di trent’anni, le elezioni libere e democratiche per la scelta del presidente e del nuovo governo. Ho rintracciato nel diario questa annotazione: «30 luglio 2006. Dopo tante voci negative, finalmente la gente può esprimersi anche se la scelta non è certamente libera e oggettiva per via dei troppi candidati e degli interessi immediati. Ma è un’occasione importante e cerco di spiegarlo nelle due messe che celebro qui in parrocchia, pur nel mio povero lingala. Il seggio del quartiere è proprio accanto a noi. Poco prima della chiusura delle urne, faccio una scappata a vedere com’è l’ambiente e a scambiare due chiacchiere con la gente […]». Fondamentale era stata l’opera di coscientizzazione che la chiesa aveva cercato di fare nei mesi precedenti le elezioni: una vera mobilitazione, soprattutto a livello delle piccole comunità di base, per informare, far discutere, capire e scegliere con un po’ di consapevolezza; dibattiti semplici, ma vivaci, sostenuti e guidati da persone preparate e che avevano coinvolto i nostri cristiani in quella svolta storica della loro democrazia.

Nel «cuore» della foresta

Ma l’esperienza di parroco cittadino non durò molto. Dopo tre anni, ricevevo una nuova destinazione, che fortunatamente veniva incontro anche al mio desiderio: il ritorno alla foresta, al Nord del Congo e a Neisu, un piccolo, ma vivace villaggio, diventato famoso per l’ospedale costruito dall’indimenticabile nostro missionario dottore, Oscar Goapper, morto – ahimè – troppo presto. Era il 16 agosto 2009 quando toccavo di nuovo – dopo vent’anni esatti – la pista di atterraggio dell’aeroporto di Isiro. Ma che cambiamento! Un’occhiata alla cittadina, un tempo vivacissima per la varietà di persone, il commercio, le numerose scuole primarie e superiori mi intristì il cuore. E anche quando arrivai a destinazione, Neisu (che in lingua kimgbetu significa cuore) mi sembrò che il tempo si fosse fermato: strade impossibili, case di fango e paglia, gente che si spostava con biciclette stracariche.

Kinshasa era ormai lontanissima e i ricordi dei pochi anni passati laggiù svanirono in fretta, perché ora il mio mondo era proprio questo: una parrocchia nata dal nulla, sapientemente accompagnata da missionari appassionati della gente, un centinaio (104, per l’esattezza) di villaggi, piccoli o modestamente grandi nei quali, accanto a rabbia e rassegnazione c’era ancora spazio per una timida speranza, la voglia di pace e ingarbugliati tentativi per il développement (sviluppo).

Ed è stato qui che, pure invecchiato e reso più fragile dagli acciacchi, dalla malaria (mai avuta prima) e dalla povertà di mezzi, ho gustato di nuovo la gioia di essere ancora fratello, amico, compagno di viaggio per tanti. Ho ripreso a scorrazzare (non più in Land Rover, ma in moto) sugli infiniti sentieri della foresta, costeggiando, magari, qualche tratto della linea ferroviaria costruita dai belgi e ormai invasa dalla vegetazione; sostando, senza fretta, nelle piccole cappelle di ogni villaggio per pregare, istruire i tanti catecumeni che ancora chiedevano di conoscere Gesù; organizzare progetti e iniziative soprattutto per i due «chiodi fissi» dei programmi pastorali di ogni anno: scuola e salute; e appisolarsi per la stanchezza alla sera su una sdraio, mentre bambini e giovani si scatenavano nelle danze in mio onore, attorno al fuoco.

Che sia questa la «missione nuova», o meglio, il modo nuovo di fare missione? E dov’è «il luogo di contatto» tra il Vangelo, i missionari e le persone? «La risposta è chiara: l’ordinarietà della vita di tutti, questo è il territorio della missione. Un cuore missionario riconosce la condizione reale in cui si trovano le persone reali, con i loro limiti, i peccati, le fragilità, e si fa “debole con i deboli e si mette a camminare al loro passo”» (Papa Francesco).

Con il cuore, allora… si vince sempre!

Giacomo Mazzotti


La repubblica democratica di Félix Tshisekedi

Un meccanismo ben oliato

Dopo 18 anni di presidenza di Joseph Kabila, dal 2019 l’Rdc è governato da un gruppo di potere solo in apparenza diverso. Nella realtà, il sistema è uno e collaudato da decenni. E anche le teste sono sovente le stesse.

«Dopo 25 anni di crimini di massa e saccheggio delle nostre risorse da parte dei nostri vicini,

l’autorizzazione del presidente (Félix Tshisekedi, ndr) all’Updf (Uganda people defence force, esercito ugandese, ndr) e gli accordi di cooperazione militare con l’Rdf (Rwanda defence force, ndr) sono inaccettabili. No ai piromani-pompieri! […]». Con questo tweet, il 28 novembre 2021, il medico Denis Mukwege, premio Nobel per la pace (2018), commentava l’ingresso in forma ufficiale di truppe ugandesi in Ituri, provincia dell’Est del paese, sancito poi da un accordo militare il 9 dicembre successivo.

Ma perché il presidente Félix Tshisekedi, in carica dal gennaio 2019, è sceso a patti con il nemico di ieri? Come sta gestendo la sicurezza nell’Est del paese, provato da una guerra che dura, praticamente, dal 1998?

Cerchiamo di fare il bilancio della presidenza del figlio del più noto oppositore politico congolese, Etienne Tshisekedi, scomparso nel 2017.

Democratic Republic of Congo (DRC) President Felix Tshisekedi speaks after he and his Kenyan counterpart, Uhuru Kenyatta (not seen) signed a treaty integrating the DRC into the East Africa trade block at State House in Nairobi on April 8, 2022. – (Photo by Tony KARUMBA / AFP)

Un mandato

Thisekedi è stato eletto il 30 dicembre 2018, in elezioni posticipate di due anni, senza motivazione ufficiale, da Joséph Kabila. Questi governava dal 2001, quando aveva preso il potere alla morte del padre Laurent Désiré Kabila, facendosi poi eleggere per due volte consecutive (2006 e 2011).

«L’arrivo al potere di Tshisekedi è, di fatto, il risultato di un accordo tra questi e Kabila, che avrebbe lasciato il campo libero, a patto che non si andasse a “frugare” nel passato. L’accordo sarebbe stato concluso a Nairobi», ci dice un nostro contatto congolese. Joseph Kabila resta di fatto un uomo molto ricco e potente in Congo, ha molti affari da seguire, anche nel settore minerario, per cui gradisce non essere disturbato.

Il primo governo dell’era Tshisekedi era in coabitazione con la coalizione di Kabila, il Fronte comune per il Congo (Fcc), che aveva riportato, alle stesse elezioni, una maggioranza all’Assemblea nazionale. Qui il Cach (coalizione facente capo a Tshisekedi), poteva contare su una cinquantina di deputati su 500. Si trattava, in qualche modo, di un governo di coalizione di 66 posti, dei quali 23 erano andati al Cach e 42 al Fcc (cfr MC ottobre 2019). Ma a inizio dicembre 2020 Tshisekedi rompe la coalizione, con la scusa che «non permette di mettere in opera il programma di governo». E poi affida a un fuoriuscito eccellente del Fcc, Modeste Bahati Lukwabo, presidente del Senato, la missione di «informatore» per verificare i numeri di una nuova coalizione, che chiama l’Union sacrée (l’unione sacra). Di fatto Tshisekedi aveva «operato» per assicurarsi il cambio di casacca di un buon numero di parlamentari.

«Il politico congolese, il parlamentare in generale, è come una prostituta, va con chi offre di più. Anche quelli che erano con Kabila, erano lì perché lui offriva di più. La coalizione dell’ex presidente esiste ancora, ma ha perso molti parlamentari. Con la maggioranza che ha adesso, Félix può fare molte cose». Il presidente è dunque riuscito ad «acquisire» una maggioranza confortevole e, dopo un paio di mesi di negoziazioni (perché accontentare tutti non era facile) ha varato, il 12 aprile 2021, il suo nuovo governo, questa volta a lui totalmente fedele. Il premier è Sama Lukonde Kyenge, e ne fanno parte, oltre a uomini e donne (sono il 27% su 57 posti) del Cach, gente di Moise Katumbi, di Jean-Pierre Bemba e molti transfughi del Fcc che hanno mollato Kabila.

A tutto campo

Continua la nostra fonte: «Tshisekedi è poi riuscito a modificare la Corte costituzionale, in modo da controllarla. Non è stato facile, perché l’ha cambiata senza usare le procedure costituzionali.

Inoltre, ha imposto anche il presidente del Consiglio nazionale elettorale indipendente (Ceni), in modo arbitrario». Il Ceni è un organo per il quale la neutralità è fondamentale, in quanto ha il ruolo di organizzare le elezioni. All’imposizione di Denis Kadima, un suo fedelissimo, ha cercato di opporsi la Conferenza dei vescovi cattolici del Congo (Cenco), ma senza grande successo.

«La corruzione è il sistema, per cui pagando, tra l’altro con soldi pubblici, si ottiene qualsiasi cosa. Lo scorso anno (2021) il presidente ha regalato un fuoristrada del valore di circa 50mila dollari a ognuno dei 500 deputati». Si parla di circa 25 milioni di dollari, sottratti a opere per la popolazione, come scuole, strade, centri di salute.

Secondo il nostro interlocutore, inoltre «il problema grosso è che Tshisekedi, si è circondato di nullafacenti, spesso disonesti, di cui molti vivevano all’estero da anni, e alcuni sono stati pure arrestati nei paesi in cui erano residenti».

Siamo verso la fine del mandato, in quanto le elezioni sono previste per il 2023, ma «per le questioni sociali ed economiche, le cose stanno peggio di quando c’erano Mobutu, Laurent
Désiré Kabila, o addirittura Joseph Kabila. Perché la cricca al potere è una sorta di gruppo mafioso, tribalista. Tshisekedi ha messo tutta gente della sua etnia nei posti chiave».

Fronte dell’Est

Torniamo a Est, dove la guerra non si è mai realmente fermata dal 1998. È la seconda guerra del Congo.

Uno degli obiettivi del presidente e del suo governo era riportare la stabilità nella regione. Qui imperversano un centinaio di gruppi armati e di sbandati, alcuni legati al Rwanda (come l’M23) altri ai ribelli ugandesi (come l’Adf, Allied defence force). C’è poi la presenza dei caschi blu dell’Onu, la Monusco (operativa dal febbraio 2000, con circa 17mila effettivi).

Qui, più precisamente nel Nord Kivu, il 22 febbraio 2021 sono stati uccisi in un’imboscata l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. Vittime eccellenti tra milioni di morti nell’area. L’inchiesta è ferma su un binario morto, come ha recentemente denunciato Salvatore Attanasio, il padre dell’ambasciatore, chiedendo verità e giustizia.

Il presidente Tshisekedi, nel maggio 2021, ha dichiarato lo «stato di assedio» in due province dell’Est, il Nord Kivu e l’Ituri. Il che vuol dire sospendere gli eletti e le assemblee locali, sostituire i governatori con dei militari, e dare all’esercito potere di controllo del territorio. Ovvero la militarizzazione dell’area. Nonostante questo, gli attacchi ai civili e gli scontri non sono cessati, anzi. A fine marzo scorso è riaffiorato l’M23, gruppo paramilitare appoggiato dal Rwanda, che era stato sconfitto nel 2013. Tale milizia è strumentale allo sfruttamento delle risorse minerarie della regione da parte del piccolo, ma bellicoso, paese guidato da Paul Kagame. Tra fine marzo e inizio aprile, ha condotto diversi massacri, in villaggi nella zona di Rutshuru, Nord Kivu, nei pressi del confine triplo con Uganda e Rwanda (cittadina a 70 km da Goma, la stessa zona dell’assassinio di Attanasio).

Relazioni internazionali

«Tshisekedi ha avuto un avvicinamento al regime di Kigali, dicendo che Kagame è un suo fratello. La moglie del presidente congolese ha parenti altolocati in Rwanda. Così, invece di mettere fine all’insicurezza all’Est, come aveva promesso, Tshisekedi ha fatto accordi con i carnefici. Gli stessi governatori militari, che ha imposto con lo stato di assedio, sono persone dal passato molto opaco».

Nel mese di maggio dello scorso anno, un’impresa ugandese ha vinto diversi appalti per la costruzione di strade nel Nord Kivu, verso l’Uganda. L’accordo punta anche a proteggere i cantieri, oltre a combattere l’Afd, ribelli ugandesi, di matrice islamista, attivi dal 1995 e basati in queste aree del Congo.

«Ma in queste terre così ricche, un’impresa che scava per fare strade, può facilmente portare via minerali».

Ricordiamo che l’Rdc è il primo produttore mondiale di cobalto, essenziale per le batterie e i dispositivi elettronici, con 174mila tonnellate all’anno (70% del totale). È il primo produttore africano di rame, e grande produttore di diamanti, oro, zinco. La ricchezza del suo sottosuolo è stata definita uno «scandalo geologico». Minerali che vengono sfruttati da altri: «Si calcola che su 41 miliardi di dollari prodotti ogni anno dalle miniere del Congo, solo un miliardo resti nel paese». Con un Pil pro capite di 540 dollari all’anno (Banca Mondiale, 2020), è come dire che l’intera popolazione, 90 milioni, sopravvive con 1,5 dollari al giorno.

Il 29 marzo scorso Félix Tshisekedi ha firmato per fare entrare l’Rdc nel East african community (Eac, il mercato comune Est africano), che comprende Kenya, Tanzania, Uganda, Sud Sudan, Rwanda e Burundi. Questi paesi vedono l’Rdc come un paese di enormi ricchezze (da sfruttare), ma anche un grande mercato per il loro export, che vedrà, grazie a questa firma, ridursi drasticamente i dazi doganali. Non è chiaro, invece, il beneficio che ne avrà il Congo, la cui fragile economia rischia contraccolpi negativi.

È del 14 aprile una notizia inquietante. Il Regno Unito ha firmato un accordo con il Rwanda per cui questo accoglierà i migranti e richiedenti asilo indesiderati sul suo territorio in cambio di 120 milioni di sterline. I militanti dei diritti umani hanno bocciato il progetto come inumano e barbaro. Anche l’opposizione britannica è contraria e l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu vi si oppone con fermezza, in quanto contrario alla convenzione di Ginevra sui rifugiati.

Il Rwanda è un paese piccolo e sovrappopolato, con una densità di quasi 500 abitanti al km2, 2,5 volte quella dell’Italia. «Dove pensate che Kagame voglia mettere i migranti deportati dal Regno Unito?».

Questo è il paese che Papa Francesco visiterà dal 2 al 5 luglio prossimo, fermandosi a Kinshasa e Goma, per poi proseguire per il Sud Sudan.

Marco Bello

Isiro cattedrale con tomba di suor Anuarite


Hanno firmato il dossier:

  • Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata.
  • Antonio Barbero. Nato a Marene (Cn), nel 1928, ha aperto le prime missioni della Consolata in Zaire. È scomparso prematuramente a Torino nel 1982. Ringraziamo padre Mario Barbero, fratello di padre Antonio, per averci messo a disposizione le lettere originali dalle quali abbiamo tratto alcuni stralci.
  • Giacomo Mazzotti. Missionario della Consolata in Zaire (1980-90) e in Rdc (2006-2016), redattore della rivista Amico (‘90-2005). Oggi postulatore per la causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano.
  • Marco Bello. Giornalista redazione MC.

Archivio MC

Luca Lorusso, Perché abbiano la vita, gennaio 2022.
Luca Pistone, Ripartire dalle donne, dicembre 2020.
Marco Bello, Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?, ottobre 2019.
Giusy Baioni, Quando il «re» decide di lasciare, novembre 2018.

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IMC Venezuela 50: tra indigeni, afrodiscendenti e periferie

Alla fine del 1970, padre Giovanni Vespertini visita il Venezuela per valutarvi una nuova apertura dei Missionari della Consolata. Con il successivo arrivo di diversi confratelli, la presenza dell’Istituto nel paese si estende. A fine 2021, mentre si chiude l’anno di celebrazioni per i suoi 50 anni in Venezuela, l’Imc è presente a Barlovento (Panaquire, El Clavo, Tapipa e Caucagua), nell’arcidiocesi e città di Barquisimeto, a Tucupita (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

  1. Popoli indigeni, afro e periferie
  2. La scelta degli indigeni della Guajíra
  3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
  4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
  5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
  6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Popoli indigeni, afro e periferie

È il 13 dicembre 1970: attraversato il ponte internazionale Simón Bolívar di Cúcuta, frontiera tra Colombia e Venezuela, padre Giovanni Vespertini accelera puntando verso Nord. A Caracas lo attende un colloquio con il cardinale José Humberto Quintero Parra, arcivescovo della capitale.

È il primo missionario della Consolata a calpestare il suolo venezuelano. Dopo aver lavorato per 10 anni in Mozambico, è sbarcato in Colombia dove ha esercitato il suo apostolato missionario a Puerto Leguízamo, Armero e Bogotá.

In Colombia i Missionari della Consolata sono presenti dal 1947. Padre Vespertini, vedendo i buoni frutti di vita cristiana che stanno maturando nel paese, pensa che sia giunto il momento di misurarsi con nuove sfide.

I tempi sono favorevoli per la creazione di piccoli gruppi di missionari in paesi nei quali l’Istituto non è ancora presente. Il missionario trevigiano pensa che il Venezuela abbia le condizioni per crearne uno.

La Quebrada e le altre

Nel paese, l’80% del clero è straniero, e per l’85% è composto da religiosi. Padre Vespertini ottiene dalla direzione generale il mandato di esplorare la possibilità di espandere la presenza dei Missionari della Consolata in Venezuela prospettando un fruttuoso lavoro di promozione vocazionale. Visita, quindi, diverse diocesi, tra cui Valencia, Puerto Cabello, San Cristobal, Trujillo. I vescovi lo ricevono con entusiasmo e gli offrono parrocchie vecchie, nuove e future, ma, per il momento, si tratta più che altro di buone intenzioni che, spesso, non rispondono al progetto di animazione missionaria e vocazionale dell’Imc.

Così, in attesa di proposte valide, padre Vespertini accetta di prendersi cura della parrocchia La Quebrada, nella diocesi di Trujillo, in una zona delle Ande ritenuta propizia per le vocazioni.

Successivamente, l’offerta da parte dei vescovi di altre parrocchie favorisce l’arrivo in Venezuela di altri missionari finché il 28 settembre 1974, padre Mario Bianchi, superiore generale, istituisce ufficialmente il «gruppo Venezuela». Pochi giorni dopo arriva dalla Spagna padre Francesco Babbini con la nomina di capogruppo.

Cantiere in costruzione

Nel 1976 il gruppo prende diverse decisioni che avranno un certo peso nel futuro dell’Imc nel paese. Decide di aprire una casa a Caracas allo scopo di accogliere i padri destinati all’animazione missionaria in Venezuela e gli eventuali candidati venezuelani a entrare nella famiglia della Consolata. La casa, nel quartiere La Pastora, diventerà sede della delegazione. Oltre all’apertura a Caracas, i missionari decidono di aprire anche nel Vicariato di Machiques, zona della Guajíra. Inoltre, risponde positivamente alla richiesta di collaborazione da parte delle Pom (Pontificie opere missionarie) per l’organizzazione dell’ufficio e delle sue iniziative.

Mano a mano che i Missionari della Consolata aumentano di numero, assumono nuovi campi di lavoro. Nel 1977 l’Istituto è presente in quattro centri: Caracas, dove è iniziato il seminario maggiore con sei giovani venezuelani, Trujillo con le parrocchie di La Quebrada e La Puerta, San Cristobal con la parrocchia di Zorca, e nella Guajíra, tra gli indigeni.

Nel 1978 si pone come priorità la promozione vocazionale, l’animazione missionaria e la formazione dei seminaristi venezuelani, soprattutto in vista della missione tra gli indigeni della Guajíra. Viene assunta la parrocchia di Los Castores, offerta dal vescovo di Los Teques, sulle pendici delle Ande costiere, a 30 Km a Ovest di Caracas.

Qui viene spostato il seminario con padre Sandro Faedi come formatore, mentre i padri Francesco Babbini e Alberto Minora vengono destinati al lavoro apostolico tra gli indigeni della Guajíra.

Una missione che si apre

Alle scelte fatte nel primo decennio di presenza nel paese che hanno dato al gruppo la sua fisionomia specifica, ne seguiranno altre, anche particolarmente coraggiose. Nel 1986, ad esempio, i Missionari della Consolata decidono di dedicarsi alla popolazione degli afrodiscendenti di Barlovento. Nel 1999, poi, scelgono di stabilire una loro presenza nella baraccopoli di Carapita, periferia urbana della capitale Caracas. Nel 2007, alcuni anni dopo aver lasciato la Guajíra e il lavoro con gli indigeni di quelle terre, tornano a lavorare con i popoli originari, questa volta con i Warao a Nabasanuka e Tucupita, sulla foce del fiume Orinoco. Infine, con l’esodo degli indigeni Warao verso il Brasile, i Missionari della Consolata danno vita, nel 2018, a un’équipe itinerante, per accompagnare pastoralmente questo popolo emarginato e costretto all’emigrazione.

Sergio Frassetto


Quattro scelte

Stefano Camerlengo, superior generale dei missionari della Consolata, scrive ai confratelli in Venezuela.

«Nel formularvi gli auguri miei e dell’Istituto per questo vostro giubileo – scrive padre Stefano Camerlengo -, vi inviterei a fare memoria di quanto è stato realizzato dai confratelli che vi hanno preceduto […]».

Egli poi sintetizza il cammino fatto dalla delegazione in quattro scelte ancora oggi valide e urgenti: «Il servizio alle popolazioni indigene; la presenza tra gli afroamericani; l’inserimento nelle periferie urbane; l’animazione missionaria della chiesa locale e la cura delle vocazioni».

Ricordando la dedizione dei missionari che mossero i primi passi in Venezuela negli anni Settanta, infine, il superiore generale dell’Imc ringrazia i confratelli che ancora oggi lavorano nel paese, «per il generoso impegno missionario che continuate a offrire, in un momento tanto critico della vita del paese. In questo modo continuate a scrivere altre belle pagine di servizio missionario per le quali – sono sicuro – il nostro beato Fondatore e i missionari che vi hanno preceduto gioiranno dal Cielo».

S.F.


Il primo

Giovanni Vespertini, classe 1916, originario di Vedelago (Tv), diventò missionario nel 1942. Nel ’44 fu arruolato come cappellano militare. Alla fine della guerra fu dato per morto e si celebrarono messe in suffragio, ma un giorno riapparve vivo e vegeto. Alto, magro, pelle bruciata dal sole, intelligente e risoluto, dal 1948 al 1958 fu missionario in Mozambico e, successivamente, in Colombia. Alla fine del 1970 andò in Venezuela dove si insediò come parroco di La Quebrada, un paesotto sulle Ande della diocesi di Trujillo. Vi rimase per 14 anni.

Fu sempre esigente con i suoi cristiani perché li voleva tutti d’un pezzo e non ammetteva compromessi. Nello stesso tempo era spassoso nelle relazioni personali ottenendo una partecipazione «bulgara» alla vita della chiesa. Padre Giovanni non conosceva la paura e non esitò mai di fronte al lavoro che gli veniva richiesto per il bene della gente, e questa lo seguiva volentieri apprezzando la sua coerenza e il suo amore fatto di gesti concreti, soprattutto verso i poveri. Tornato in Italia per una breve vacanza, morì d’improvviso il 17 marzo 1984.
I missionari lo considerano l’iniziatore della loro presenza in Venezuela.
A La Quebrada aveva preparato la sua tomba che rimase vuota. A distanza di anni i suoi cristiani hanno richiesto il ritorno dei suoi resti mortali, segno che quel missionario è rimasto nel loro cuore.


Lo stratega

Francesco Babbini, nato nel 1932 a Montepetra di Sogliano Rubicone (Fc), divenne missionario della Consolata nel 1960. Lavorò sei anni in Italia e otto in Spagna nel settore dell’animazione missionaria e vocazionale. Nel 1974 venne destinato come capogruppo in Venezuela. Vulcanico nelle idee e realizzazioni, fu il vero artefice dello sviluppo dell’Imc nel paese.

In pochi anni organizzò il lavoro apostolico dei missionari estendendo la presenza dell’Istituto in tre diocesi. Diede inizio alla missione tra gli indigeni guajíros, aprì il seminario per giovani venezuelani, collaborò all’organizzazione delle Pom del Venezuela e viaggiò molto facendo conoscere la Consolata in numerose diocesi.

Nel 1980, concluso il suo mandato di capogruppo, andò a lavorare in Guajíra tra gli indigeni. Lì diede il meglio di sé come apostolo della carità verso tutti, specialmente i più poveri. Lo sostenevano la sua grande fede, l’amore alla Chiesa e la convinzione che servire il prossimo era amare Gesù in persona.

Nel 1982 venne richiamato in Italia per l’animazione missionaria, e fu molto attivo in Puglia. Il 19 marzo 1984, morì per infarto cardiaco. Aveva 52 anni. La missione di Guarero, in Guajíra, ha dedicato al suo nome l’oratorio parrocchiale e la strada che porta alla chiesa.

S.F.




IMC Venezuela 50: la scelta dei popoli indigeni

I Missionari della Consolata in Venezuela hanno tra le loro finalità principali l’animazione missionaria e vocazionale. Presto il loro carisma ad gentes li spinge anche sulle frontier dell’annuncio, tra i popoli indigeni. Nasce così la scelta della Guajíra che li vedrà impegnati sul suo vasto territorio per 22 anni, dal 1976 al 1998.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

La scelta degli indigeni

La Guajíra

Il fuoristrada solca veloce il deserto lungo piste invisibili ma ben conosciute dall’indigeno che guida. Il sole spacca le pietre e il vento sferza la faccia riempiendo gli occhi di sabbia.

Dopo tre ore di sobbalzi e sbandate, giungiamo alla meta: un piccolo cimitero cresciuto nel nulla di una landa sconfinata, popolato da morti e frequentato da una tribù di vivi. Qualcuno tra i vivi dorme appollaiato nella sua amaca, qualcuno mangia, qualcun altro beve e gioca a domino.

«Casáchiqui tawala you» («buongiorno amico»). Appena il mio saluto viene udito, un gruppo di donne vestite di mante nere si avvicina alla bara del defunto e inizia il pianto rituale.

Dopo la messa, vengono sacrificati alcuni animali e si consuma un banchetto in onore del defunto. Il tempo passa tra saluti, chiacchiere e racconti, fino all’ora di tornare in parrocchia.

Siamo alla fine degli anni Settanta. Ci troviamo nella Guajíra, la penisola al confine con la Colombia che si sporge nel Mare dei Caraibi all’estremità Nord occidentale del paese, creando il Golfo del Venezuela. È il mondo dei Wayú che, dopo aver saggiato l’amicizia dei missionari, li accolgono con simpatia e li rendono partecipi dei loro riti ancestrali sulla vita e la morte.

E pensare che a fine 1976, quando sono arrivati i Missionari della Consolata nel villaggio di Guarero, quasi al confine con la Colombia, al loro passaggio, la gente si nascondeva. I missionari vedevano solo le ombre muoversi furtive dietro i canneti. È stato grazie a suor Maria, una missionaria laurita, che è sorta l’amicizia tra i missionari nuovi arrivati e la gente.

Suor Maria, colombiana, da cinquant’anni calca il deserto della Guajíra, ed è difficile trovare qualcuno che non la conosca, che non abbia ricevuto una sua visita, un suo aiuto, una medicina, una preghiera. È la carità fatta carne, e i Guajíros, quando hanno bisogno di qualcosa, cercano sempre lei, sicuri di trovare aiuto.

Guarero

Padre Francesco Babbini, fin dal suo arrivo in Venezuela nel 1974, aveva svolto un’intensa opera di animazione missionaria in diverse diocesi del paese. Aveva visitato anche i vicariati apostolici del Caroní (nella zona Sud Est) e di Machiques (nella Guajíra, a Nord Ovest), affidati ai Cappuccini spagnoli, ottenendo di poter stabilire anche lì una missione Imc.

Nell’ottobre del 1976 padre Tullio Bosello, seguito da padre Miguel Sotelo, hanno iniziato a lavorare nella missione di Guarero, l’ultimo avamposto venezuelano prima della frontiera con la Colombia e della città di Maicao, da cui dista appena 20 chilometri, centro del commercio e del contrabbando di tutta la regione.

Guarero vive nel marasma tipico dei posti di frontiera, con la dogana, i venditori ambulanti di cibi, le bevande e migliaia di persone che transitano o attendono impazienti il disbrigo delle pratiche doganali.

Nella missione dedicata al Sacro Cuore di Gesù, le suore missionarie di Madre Laura (di fondazione colombiana) lavorano nel collegio per bambine povere che comprende l’asilo infantile, la scuola elementare, un atelier di arti e mestieri e il centro giovanile. Una volta alla settimana, i missionari visitano i villaggi più importanti dove celebrano la liturgia domenicale. Nei giorni feriali, il lavoro di catechesi nelle numerose scuole della regione è intenso.

Paraguaipoa

Nel 1981, i Missionari della Consolata estendono la loro presenza alla missione di Paraguaipoa, il centro più importante della Guajíra venezuelana. Qui convergono gli indigeni da tutta la penisola per comprare o vendere nel mercato di Los
Filuos, per iscrivere i neonati all’anagrafe o cercare, nell’archivio parrocchiale, il documento di battesimo con cui farsi fare la carta d’identità.

Nel febbraio del 1982, giungono a Paraguipoa, chiamate da padre Sandro Faedi, anche le missionarie della Consolata.

La visita quotidiana alle famiglie, facendosi carico di tanti casi difficili di povertà ed emarginazione, le attività di promozione della donna, dei bambini e della gioventù, e la capacità di dialogo e accoglienza dei missionari e missionarie sono le carte vincenti.

Lavorando in équipe, padri e suore si inoltrano nel deserto della Guajíra seminando, anche nei villaggi più lontani, il Vangelo fatto di amicizia e interesse per i problemi della gente.

Sulla scia di queste visite, nascono scuole e asili, ambulatori, centri comunitari, pozzi per l’acqua e centri di culto.

Sinamaica

Sinamaica, che l’Imc prende in carico nel 1983, è la più antica delle tre missioni, e la più meridionale. Sorge su alcune dune della costa atlantica. È circondata a Est da grandi saline naturali, a Ovest dalla laguna omonima, disseminata di misere palafitte abitate dagli indigeni paraujanos.

Il lavoro di evangelizzazione è rivolto innanzitutto alla scuola della missione, frequentata da oltre 700 alunni, e poi ai villaggi circostanti, dove sorgono piccole comunità del Vangelo, impegnate a vivere la fede e a cercare soluzioni alla povertà e all’emarginazione.

Le feste patronali di san Bartolomeo apostolo, le celebrazioni in onore di san Benito da Palermo, i riti del Natale e della Settimana Santa sono molto sentiti e vengono celebrati nelle forme tipiche della religiosità popolare, ricca di spunti folcloristici e suscettibile di un ampio lavoro di evangelizzazione.

Sergio Frassetto

I Guajíros

Diviso in due dal confine tra Venezuela e Colombia, il popolo indigeno della Guajíra lotta da secoli per preservare identità, tradizioni e lingua. Molti si stanno urbanizzando. Molti altri resistono.

I Guajíros sono una vasta etnia che abita le terre desertiche della Guajíra, la penisola che si protende verso il mare dei Caraibi, a cavallo tra Colombia e Venezuela. Si conoscono tra loro come wayú (persona) e chiamano alijunas (stranieri) i bianchi e i meticci.

Dal 1833 vivono divisi da una frontiera arbitraria che assegna un quinto del loro territorio al Venezuela, e tutto il resto alla Colombia.

Le alte temperature unite agli scarsi rilievi montagnosi, la mancanza di corsi d’acqua e i forti venti dell’Est, fanno della Guajíra un deserto semi arido e inospitale, dove possono trascorrere mesi, e a volte anni, senza che si registrino precipitazioni importanti.

Secondo l’ultimo censimento del 2011, la popolazione wayú residente oggi nella parte venezuelana della penisola, conta 415mila persone (380mila nella Guajíra colombiana). Una forte migrazione verso la vicina città di Maracaibo, importante centro petrolifero del paese, ha formato interi quartieri nei quali vivono, pare, più di 60mila Guajíros.

Nel contesto urbano di Maracaibo si è determinato un veloce processo di perdita dell’identità culturale da parte degli indigeni che hanno subito l’imposizione dei modelli della società dei «bianchi». Molti abbandonano le tradizioni, perdono il senso dell’importanza dei clan, e persino la loro lingua madre.

Per quanto riguarda la condizione economica, in Guajíra non esistono fonti di lavoro o di guadagno: alcuni, pochi, si dedicano alla pastorizia, all’agricoltura o alla pesca. La maggioranza sopravvive nella marginalità con attività informali, tra le quali il narcotraffico e il contrabbando dalla Colombia.

Quest’ultimo contribuisce a indebolire la famiglia, i cui componenti passano gran parte della vita viaggiando. Nelle case rimangono anziani e bambini abbandonati a se stessi.

La Guajíra autentica

Nonostante questo processo, però, la Guajíra autentica esiste ancora. La si trova, ad esempio, nel mercato di Los Filuos, alle porte di Paraguaipoa, dove confluiscono gli indigeni da tutta la penisola per vendere e comprare capre, pecore, pelli e prodotti del loro artigianato, per rifornirsi di filuos (banane da cuocere), riso, carburante, utensili, qualche machete, e anche pallottole.

La Guajíra si scopre nei cimiteri dispersi nella penisola, durante i velorii (veglie funebri) per i morti: là gli uomini, a volte ancora in guayuco (perizoma), e le donne, avvolte nella manta (vestito dai colori vivaci, lungo fino ai piedi), celebrano i riti della vita e della morte, seguendo una tradizione antica.

La Guajíra si scopre ancora nelle carovane di donne e bambini che attraversano la savana polverosa, abbarbicati sui loro asini sotto il sole inclemente, per cercare l’acqua lontana. E si ritrova ancora di più inoltrandosi tra i palmeti dove sorgono piccoli abitati di poche case nascoste tra le dune: minuscole monadi, tagliate fuori dal mondo, fatte di silenzio, lavori di tessitura, orticelli coltivati a mais e yuca (manioca), recinti di capre e pecore. Ambienti familiari semplici: capanne nelle quali di notte si appendono le amache per dormire, con un recinto di pali riservato alla cucina e la enramada (tettoia) di rami di palma, alla cui ombra si svolgono le attività diurne, si ricevono i visitatori e si legano le amache per fare la siesta nei momenti più caldi della giornata.

Questi piccoli villaggi si chiamano rancherie e sono distanti qualche chilometro l’uno dall’altro per facilitare il maneggio delle greggi. (S.F.)


Nascita di una Chiesa  L’alta Guajíra

Cojoro, la selvaggia

La vita cresce dispersa a Cojoro, uno dei villaggi della missione di Paraguaipoa. L’intenso lavoro di promozione umana dei missionari la fa rifiorire. E la costruzione della chiesa dà un cuore e un’identità a questo «non popolo» del deserto.

La savana attorno a noi sembra non avere confini, la vastità del deserto si confonde con l’arco del cielo. Il nostro andare per l’alta Guajíra ha quasi il sapore della profanazione di una cattedrale fatta di silenzio e solitudine. Ci accompagna un sole abbacinante e un sibilo di vento sulla sterpaglia. Qua e là, un albero spinoso resiste all’accanimento del vento. I cactus alzano le loro braccia al cielo, indifferenti.
Un jaguey (stagno) pantanoso, un gregge di capre sonnolente, una capanna di stecche di cactus, dicono che, anche nel deserto, fiorisce la vita. È il 1981. Arriviamo a Cojoro, piccolo villaggio nel territorio della missione di Paraguaipoa nell’alta Guajíra. Ci sono poche capanne avvolte nel silenzio e poi cimiteri che sanno di altre epoche dalle quali dipanano i fili dei numerosi clan dispersi nella penisola.

In lontananza emerge l’ombra rassicurante dei rilievi montuosi di Macuira e la cima del Litujulu, l’Olimpo del popolo wayú. Proprio lassù si consumò il duello tra Maleiwa e il Mare che pretendeva di inondare la terra. Con potenti sassate e frecce di fuoco, Maleiwa mise in fuga il Mare e salvò la terra. I reperti archeologici marini che, ancora oggi, si trovano su quella montagna, costituiscono, per i Guajíros, la testimonianza perenne di quella lotta primigenia.

Dopo la lotta contro il Mare, Maleiwa scese verso la spiaggia bianchissima di Cojoro dove modellò, col fango, uomini e animali: i Wayú innanzitutto, e poi tutti gli altri.

È qui, dunque, nella selvaggia Guajíra, che i missionari, meravigliati, incontrano storie che assomigliano a quelle bibliche, e semi di quella verità con cui Dio arricchisce ogni popolo. Egli non «manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali» (Redemptoris missio 55). Questi miti servono come supporto per innestare la buona notizia del Vangelo.

Dalla dispersione all’unità

La vita cresce dispersa a Cojoro. Visitando le capanne si palpa un senso di abbandono e desolazione. La lontananza, la durezza della vita, la diffidenza reciproca, hanno fatto dimenticare ai suoi abitanti la bellezza dell’incontro, il senso della festa, lo spirito del clan.

La presenza del missionario e delle suore serve a smuovere quelle acque stagnanti.

Si comincia con il catechismo nella scuola, e si cercano testi scolastici con i quali i bambini possano studiare. La ristrutturazione del dispensario medico, in completo abbandono, motiva il rincontrarsi della comunità. Si organizza il processo di iscrizione della gente all’anagrafe. Si forma una commissione che vada dal governatore a chiedere acqua per la regione.

Giorno dopo giorno, gli abitanti di Cojoro cominciano a interessarsi dei problemi della comunità per risolverli.

Dato che manca un luogo di coesione che vinca la dispersione geografica, ma soprattutto interiore, sorge la chiesetta, e in essa viene ad abitare la Madonna Consolata. Attorno a questa madre di popoli, un popolo disperso trova motivi per incontrarsi, celebrare e fare festa.

Cojoro, la selvaggia, non è più completamente sola: nel deserto ora fiorisce la vita e nei cuori rinasce la speranza.

Comunità del Vangelo

Animati da questo spirito che ci spinge a cercare la gente del deserto di Cojoro, raggiungiamo i luoghi più isolati della penisola. Fuori dei villaggi costituiti in epoca coloniale, l’indigeno guajíro tende a sistemarsi lontano dagli altri. Il movimento delle greggi esige grandi spazi. La necessità di autodifesa vuole una zona di sicurezza attorno alla casa per avvistare i nemici e non esserne sorpresi.

A questo si aggiunge la realtà del contrabbando, per cui componenti della famiglia passano la maggior parte del tempo lontano da casa, viaggiando da una città all’altra. Per queste ragioni non è pensabile poter formare grandi comunità cristiane. In Guajíra difficilmente sorgerà un cristianesimo di massa.

Coscienti di questa realtà, i missionari passano di casa in casa offrendo parole di amicizia e cercando di stimolare la nascita di interessi comuni tra vicini, non basati semplicemente sulla parentela o lo scambio di favori, ma sulla Parola annunciata da Gesù che riguarda l’unico Padre che ci rende fratelli. Questa verità si esprime concretamente nel gesto di ritrovarci periodicamente per leggere la Parola, celebrarla nell’eucaristia e attuarla in un «darsi da fare» a favore di tutti.

In questo modo nasce la chiesa della Guajíra: una realtà costituita da tante piccole «comunità del Vangelo», dove i gesti della condivisione e della testimonianza sono segno della presenza di Gesù che consola, infonde speranza, e offre salvezza.

Sergio Frassetto


Un’evangelizzazione inculturata

L’opera missionaria nella Guajíra è una sorta di pellegrinaggio nel quale i missionari «camminano assieme» alla gente, accompagnando il popolo in atteggiamento di ascolto, accoglienza e dialogo. Nel rispetto della coscienza dei Guajíros e delle loro tradizioni culturali.

L’anima religiosa dei Guajíros si esprime innanzitutto in relazione ai defunti che costituiscono una presenza importante e, a volte, dominante nella vita delle famiglie. Far celebrare messe per i defunti, rispettare i voti fatti a san Benito da Palermo (un santo nero la cui devozione è stata diffusa dai Cappuccini), battezzare i bambini, guardare la processione che passa, sono alcuni dei modi tramite i quali molta gente esprime la propria fede in Dio.

In questo contesto, dal 1976 al 1998, l’opera di evangelizzazione dei missionari della Consolata si è concretizzata, innanzitutto, nell’amicizia e nella vicinanza alla quotidianità delle persone.

La testimonianza è diventata annuncio, e l’annuncio ha favorito l’acquisizione di valori fondamentali come la famiglia, il perdono, il senso della comunità, e la coscienza che Dio è «padre dei viventi». Questo lavoro è avvenuto innanzitutto mediante la catechesi nelle decine di scuole del territorio visitate ogni settimana.

Nella Guajíra non si può immaginare una catechesi «preconfezionata», estranea alla cultura e alle modalità della narrazione, del racconto, dell’immagine, del gesto.

Così i missionari, rimettendo i panni degli studenti, hanno imparato che, invece di parlare di Dio, è più comprensibile per gli indigeni il nome di Maleiwa, il demiurgo mitico che salvò la terra dall’invasione delle acque e modellò gli uomini con il fango. Il demonio è meglio conosciuto come Wanülü, lo spirito del male, che provoca malattie e morte in chi lo incontra, o Yolujá, lo spirito dei morti, altrettanto pericoloso.

E per spiegare agli alunni la somiglianza dell’uomo con Dio, anziché ricorrere alla filosofia, è più efficace usare uno specchio: la faccia che vedono riflessa assomiglia a quella di Dio.

Tra il sabato e la domenica, i Missionari della Consolata raggiungevano quasi tutte le cappelle e offrivano alle comunità la celebrazione eucaristica in un tour de force che, alla fine, lasciava esausti.

A volte si celebrava la messa, spesso soltanto la liturgia della Parola. L’importante era valorizzare il momento comunitario in modo che diventasse tempo di salvezza per i partecipanti.

I missionari, per comunicare la vicinanza di Dio alla vita quotidiana delle persone, rinunciavano al ruolo di maestri. Questo permetteva agli indigeni di essere soggetti della loro scoperta di Dio e della loro fede, con la loro identità e secondo i paradigmi della loro cultura.

Nell’accompagnare il cammino storico dei Wayú, illuminandoli con l’annuncio della buona notizia, la missione diventava pellegrinaggio spirituale verso il Regno. Si trattava di «camminare assieme» accompagnando un popolo in atteggiamento di ascolto, di accoglienza e dialogo.

Molti segni, negli anni, hanno indicato che i Guajiros camminano verso la propria realizzazione storica. L’impegno e la testimonianza di un piccolo gruppo di cristiani, uniti alla diffusione di tante comunità ecclesiali, nate dal lavoro dei missionari, sono realtà tangibili. Si tratta di «comunità del Vangelo» nelle quali crescono rapporti umani di solidarietà e impegno per la trasformazione della realtà alla luce della parola di Dio. (S.F.)

Nascita di una Chiesa – Sinamaica

Tra le palafitte della laguna

A Sinamaica, il popolo añú (del gruppo Aruache, che nell’ultimo censimento del 2011 contava circa 21mila unità) vive in una condizione di marginalità e indigenza, anche a causa dello sfruttamento ambientale che degrada il territorio. Al loro arrivo, i missionari cercano di promuovere la vita a tutti i livelli: da quello materiale a quello spirituale.

Nel 1983 la missione ci spinge a navigare anche per la laguna di Sinamaica alla ricerca del popolo añú. Sembra di sognare quando ci addentriamo, per la prima volta, in questo angolo di paradiso. Di fronte a noi si presenta la visione di una placida distesa di acquitrini, solcata da canali, disseminata di palafitte e abbellita da una vegetazione lussureggiante. L’insieme dà l’impressione di un mondo incantato. Eppure capiamo presto che si tratta di una quiete agonica. La laguna, che con le sue palafitte e canali può evocare una lontana piccola Venezia o «Venezuela», sta morendo.

Una laguna che muore

La canalizzazione del lago di Maracaibo, per consentire alle navi petroliere di accedere ai ricchi giacimenti dello stato di Zulia, ha compromesso il delicato equilibrio ecologico di quest’ambiente, provocando la salinizzazione delle acque, la distruzione delle risaie e la scomparsa di molte specie vegetali e marine.

Di lì è iniziato pure il calvario di questi indigeni (chiamati anche «Paraujanos», o abitanti della costa del mare), causato dall’abbassamento e inquinamento delle acque, dalla loro sedimentazione e dall’impaludamento della laguna. Le eliche dei motori delle barche si rompono sui fondali a causa dell’acqua troppo bassa, ed è difficile raggiungere le palafitte che rimangono piantate nel fango.

Bisogna entrare in esse per conoscere la deplorevole condizione di miseria e abbandono in cui vive la gente. Colpisce il sovraffollamento di questi tuguri, stanzette dove vivono anche venti persone con gli occhi fissi sull’acqua torbida.

È la conseguenza delle disuguaglianze economiche e sociali, dell’abbandono e dell’ingiustizia.

Oltre alle persone, nelle palafitte ci sono poi altri inquilini: galline, cani, gatti e addirittura maiali.

La quantità di persone con disabilità ci fa sorgere numerosi interrogativi.

Di fuori, sul pontile, c’è un eterno fuoco sul quale si abbrustolisce il pesce, e grandi fasci di enea, il giunco che cresce nei pantani, ai margini della laguna, e che serve per fare stuoie, l’unica povera ricchezza di queste famiglie.

Privati della loro lingua, l’añú, che ormai più nessuno parla, e della loro cultura, gli stessi indigeni stanno morendo di stenti e malattie. Vivono nell’acqua, eppure ne sono privi, perché salmastra, inquinata, putrida. Alto è anche il tasso di mortalità infantile dovuto ai parassiti che aggrediscono l’intestino dei bambini. Gli uomini sono costretti a emigrare a Sud di Maracaibo, verso i porti di Altagracia, dove si dedicano alla pesca al servizio di grandi compagnie. Le donne, come la maggioranza dei Guajíros, praticano il contrabbando. Chi rimane nella laguna, si dedica alla pesca o alla raccolta di enea.

 

Una realtà da promuovere

In quest’ambiente, la Chiesa è chiamata a costruire il Regno di Dio tramite gesti di solidarietà concreta, specialmente verso i più poveri. È così che le suore missionarie Laurite decidono di andare a vivere nella laguna per incarnarsi nella sua realtà e condividere la vita dei suoi abitanti.

La scelta dell’inserzione, del radicamento, permette ai missionari di accompagnare gli Añú nella vita quotidiana aiutandoli a scoprire i loro carismi e possibilità.

I frutti non tardano: sorge l’asilo per i bambini, la scuola di tessitura dell’enea e della lavorazione del legno per i giovani. In un edificio costruito appositamente, si realizza l’esposizione e la vendita permanente dell’artigianato locale. Si crea un mercatino dove si commerciano al prezzo di costo i prodotti più comuni della dieta.

L’attenzione si rivolge anche alle tagliatrici di enea: quasi tutte donne anziane, costrette a stare l’intera giornata nell’acqua con il pericolo dei serpenti e delle razze marine.

Si tratta di un lavoro duro che, alla lunga, rompe le ossa, e che i commercianti di stuoie pagano una miseria. Bisogna promuovere una forma di lavoro solidale che sostenga la produzione e assicuri una più giusta retribuzione. Con difficoltà si riesce a vincere la loro riluttanza a riunirsi e si forma la «Cooperativa delle tagliatrici di enea»: una specie di sindacato che decide il prezzo unico e giusto del loro lavoro. Queste iniziative smuovono le acque, la gente si anima e crea la «Fondazione pro Laguna», costituita da rappresentanti del popolo añú. La fondazione si propone di migliorare le condizioni di vita della popolazione. I risultati positivi sfociano nella visita del presidente della repubblica Luis Herrera, e in quelle successive di sua moglie. L’acqua potabile arriva fino al porto, è installata l’elettricità in un settore della laguna e cominciano i lavori per dragare i canali tappati dalla sedimentazione delle acque.

Una chiesa su palafitta

La Madonna del Carmine rappresenta una lunga tradizione di fede per il popolo añú. Una piccola statua scrostata langue in una palafitta che, secondo il dire di alcuni, un tempo fungeva da cappellina.

In una notte di burrasca il fiume si porta via la chiesetta, vecchia e malandata, ma con l’aiuto di alcuni benefattori e il lavoro degli Añú, i missionari ne fanno sorgere una nuova, più grande ed elegante: si tratta, naturalmente, di una robusta palafitta dallo stile in perfetta armonia con le abitazioni dei Paraujanos. Le colonne possenti in legno, le travature a vista, le pareti a forma di palizzata e il tetto di giunco ne fanno un luogo di pace particolarmente adatto alla preghiera.

Qualcuno regala una nuova immagine della Madonna e qualcun altro una campanella, delizia dei bambini che non smettono di suonarla. Le feste patronali si fanno più sentite e partecipate. La regata della Madonna, lungo i canali, diventa una tradizione di incomparabile bellezza. Sboccia un germoglio di vita liturgica con le prime comunioni, qualche messa per i defunti e il primo matrimonio religioso.

Nella Laguna di Sinamaica si cerca di concretizzare il Vangelo attraverso uno sforzo di promozione umana non indifferente. Da qui nasce la Chiesa: una piccola comunità di cristiani, uniti da vincoli di carità, impegnati in prima persona nella crescita della loro gente.

Sergio Frassetto


Identificazione piena

I Missionari della Consolata nei 22 anni della loro presenza nella Guajíra, hanno cercato di identificarsi con il popolo, senza paura di perdere la loro dignità. Tra gli avventizi di Campamento, sotto una capanna, o tra i baraccati della Rancheria, sotto una tettoia di palme e, ancora, nell’emarginata Laguna del passero, sotto un albero. Si sono fatti transumanti come il popolo wayú, e l’hanno accompagnato, nomadi, attraverso il deserto, dietro le sue greggi, nei cimiteri con i suoi antenati, nei luoghi di festa condividendo le sue tradizioni, sulle strade del contrabbando mentre cercava la propria sopravvivenza.

È stato un cammino difficile, così come lo fu quello di Israele durante i 40 anni trascorsi nel deserto: quel gruppo di israeliti ex schiavi ebbe modo di sperimentare la presenza di Dio come di colui che si china sul povero per liberarlo dalla miseria e dall’oppressione. Per questo divenne l’«opzione» dei poveri d’Israele.

Allo stesso modo, i missionari e le missionarie della Consolata, nella Guajíra, hanno cercato di dare voce, attraverso la loro voce, alla parola di Gesù, di attualizzare negli eventi sacramentali i suoi gesti, di essere testimonianza del suo amore mediante uno sforzo di conoscenza e assunzione della realtà umana in cui erano chiamati a operare a favore dei poveri. In questo modo sono diventati il sacramento della compassione di Gesù che si china su coloro che hanno fame e sete, che piangono e soffrono, che muoiono. È così che la Chiesa ha conquitato il cuore della Guajíra e che Gesù è diventato l’opzione dei suoi poveri. (S.F.)

1976-1998: Guajíra, missione compiuta

La Guajíra che faceva parte del vicariato apostolico di Machiques, nel 1998 è diventata parte dell’arcidiocesi di Maracaibo, e i Missionari della Consolata, dopo 22 anni di presenza, si sono ritirati per aprirsi a un nuovo campo di lavoro.

Padre Giano Benedetti, ai tempi superiore della delegazione, ha descritto l’addio così: «Il 4 luglio 1998, durante una concelebrazione eucaristica presieduta da mons. Ovidio Pérez, arcivescovo di Maracaibo, abbiamo consegnato la parrocchia di san José di Paraguaipoa al clero diocesano. Sinamaica e Guarero erano già state consegnate, rispettivamente a marzo del ’97 e del ’98. I Missionari della Consolata sono stati ringraziati, all’inizio e alla fine della messa, per il lavoro che hanno svolto fin dal 1976, quando era stata affidata loro la parrocchia di Guarero.

Sono stati ricordati per nome e cognome tutti i Missionari della Consolata che hanno annunciato il Vangelo nella Guajíra venezuelana. Anche mons. Ovidio ha ringraziato per la nostra opera e ci ha ricordato che le porte della sua arcidiocesi rimanevano aperte per noi.

I Missionari della Consolata hanno lasciato la Guajíra, ma la Consolata e il nostro carisma rimangono nella terra dei Wayú. Le Missionarie della Consolata continueranno [per qualche anno] la loro presenza a Paraguaipoa, e la
Madonna continuerà come patrona dei caseríos di Cojoro e san Rafael de Paraguachón.

Lasciando questa terra abbiamo ringraziato Dio per il dono della vocazione missionaria, coscienti d’averla vissuta con il nostro servizio, affinché anche i Wayú fossero un’offerta gradita a Dio e perché abbiamo cercato l’unica ricompensa di tutti gli apostoli: annunciare gratuitamente il Vangelo». (S.F.)

Le missionarie della Consolata

In Venezuela dal 1982, hanno collaborato con i loro fratelli missionari a Paraguaipoa, in Guajíra, e poi, dal 2006 al 2015, a Nabasanuka, tra i Warao. Si sono spinte fino al vicariato apostolico di Puerto Ayacucho, dove svolgono apostolato urbano in città; nella missione di Tencua, in piena selva amazzonica, tra gli indigeni Yecuana. La collaborazione con i missionari prosegue nel campo dell’animazione missionaria a Caracas.

 




IMC Venezuela 50: con gli afro discendenti

La regione di Barlovento, caratterizzata da un clima tropicale caldo umido, è particolarmente adatta alla coltivazione del cacao. Questo ha determinato la maggiore concentrazione di afrodiscendenti di tutto il Venezuela. I padroni delle piantagioni sono i bianchi, gli stessi di un tempo, mentre i discendenti degli schiavi deportati dall’Africa continuano a raccogliere il cacao come i loro antenati.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana


Nella terra del cacao

Tra gli afro di Barlovento

«Barlovento, Barlovento, tierra ardiente y del tambor», canta l’afro quella terra «calda e del tamburo» che lo vide schiavo, costretto a lavorare nelle piantagioni di cacao dei padroni europei, ma libero di danzare al ritmo del tamburo che ricorda quelli lontani dell’Africa, sua terra di origine.

«Barlovento» è il nome di una regione prospicente al Mare dei Caraibi, a un centinaio di chilometri a Est della capitale Caracas, abitata in prevalenza da afrodiscendenti1.

Il clima tropicale, caldo umido, insieme a particolari correnti ventose marine, provoca precipitazioni quasi quotidiane che fanno arrivare l’umidità fino al 70%. La produzione del cacao è in mano a pochi latifondisti originari delle isole Canarie, e la popolazione continua a raccoglierlo come al tempo della colonia.

I popoli afrodiscendenti costituiscono nel 2020 un terzo degli abitanti dell’America Latina. Insieme ai popoli indigeni, sono la fetta di popolazione più svantaggiata, soprattutto per quel che riguarda l’istruzione, il lavoro, la salute, le infrastrutture, l’accesso ai servizi pubblici in generale e la povertà.

Tutto ciò è il prodotto di una situazione di esclusione e discriminazione strutturale, legata a secoli di razzismo.

Eppure, anche se vivono ai margini, loro sono lì, cantano e ballano al ritmo dei tamburi, offrendo i loro valori originari e originali. Chiedono rispetto, dignità e opportunità. La famiglia missionaria della Consolata cammina con loro dal 1986.

Un po’ di storia

A Barlovento, i Missionari della Consolata oggi lavorano nelle parrocchie di Tapipa, Panaquire, Il Clavo e Caucagua, paesi a un centinaio di chilometri a Est da Caracas. Vi sono arrivati nel 1986.

L’antefatto della presenza dell’Imc nella zona sta nell’arrivo dei nostri missionari, nel 1978, alla parrocchia della Sacra Famiglia di Los Castores (piccolo centro urbano a pochi chilometri a Sud di Caracas, lontana 100 km da Tapipa, Panaquire e Il Clavo, ma ai tempi nella stessa diocesi).

Lì, a Los Castores, erano stati chiamati da mons. José Bernal, vescovo di Los Teques. Era una realtà pastorale relativamente giovane che si innestava sul fenomemo dell’urbanizzazione residenziale della media borghesia che lavorava nella capitale. Era una bella parrocchia, con una buona partecipazione della gente alla messa domenicale e alle altre attività, e un elevato spirito missionario che si esprimeva in aiuti concreti e sostanziosi alle missioni della Guajíra. La parrocchia costituiva anche un aiuto finanziario per il gruppo della Consolata in Venezuela che non aveva molte altre entrate.

Dopo qualche anno, il vescovo mons. Pio Bello, successore di mons. Bernal, ha chiesto all’Istituto di assumere la responsabilità pastorale anche delle tre parrocchie di Barlovento (oggi nella diocesi di Guarenas-Guatire). «Avete una parrocchia buona – ha detto – ed è giusto che ne prendiate altre più bisognose, perché povere e senza prete».

Fin dall’inizio dell’Istituto, i missionari della Consolata si erano dedicati all’Africa e, stando in America, il campo più appropriato cui dedicarsi sembrava quello degli indigeni. Inoltre il numero di missionari, piuttosto ridotto, non sembrava poter assicurare una presenza duratura in queste nuove aperture. Ciò nonostante in Venezuela hanno deciso di rispondere positivamente alla proposta del vescovo, anche grazie alle esortazioni del superiore generale di allora, padre Giuseppe Inverardi: «Los Castores e La Puerta sono due parrocchie che hanno permesso il nostro consolidamento e sviluppo in Venezuela, anche attraverso l’aiuto finanziario. Tuttavia, per fedeltà a noi stessi e alle nostre finalità, credo che non possiamo perpetuare la nostra presenza in queste parrocchie. […] Da anni si parla di questa apertura tra gli afroamericani della zona di Barlovento. Non può rimanere, tuttavia, una semplice prospettiva. È un discorso da concludere il prossimo anno […]».

Presa la decisione, è stato necessario valutare quale delle parrocchie nelle quali eravamo presenti avremmo lasciato. La scelta, alla fine, non è caduta su Los Castores o La Puerta, bensì su Zorca, una parrocchia nella regione del Táchira, a 800 km a Sud Ovest, ai confini con la Colombia.

 

Il superiore della delegazione, padre Nelson Lachance, ha scritto ai suoi confratelli per l’occasione: «Il 2 settembre 1985, dopo 10 anni di infaticabile attività pastorale, i padri lasciano Zorca, dopo aver ricevuto da tutta la parrocchia una grande manifestazione di affetto e di gratitudine. Per la gente di Zorca il saluto commovente e grandioso vuole essere non un “addio”, ma solo un “arrivederci a presto”. Così la Delegazione del Venezuela conserva l’incarico di due sole parrocchie: quella di La Puerta (Diocesi di Trujillo) e quella di Los Castores (Diocesi di Los Teques) e si assume il compito di aprire un seminario in Caracas per il corso di filosofia e di iniziare una missione nel territorio di Barlovento tra gli afroamericani».

Nel 1986, tre missionari sono stati destinati a lavorare tra gli afrodiscendenti di Barlovento. Facendo vita comune a Tapipa, la prima delle tre parrocchie, hanno iniziato a servire anche le altre due: Panaquire a 10 km e Il Clavo a 30 km.

A novembre del 2018, dopo 32 anni, la responsabilità pastorale dei missionari della Consolata che lavorano a Barlovento, si è estesa alla vicina parrocchia di Caucagua, il capoluogo della regione, dove si sono trasferiti e da dove continuano a servire le parrocchie precedenti e le altre comunità cristiane (circa una quarantina), sparse sul territorio.

Sergio Frassetto

Nota:

1 – Con il termine afrodiscendenti si intende tutti i popoli e le persone di discendenza africana nel mondo. In America Latina, il concetto si riferisce alle diverse culture «nere» o «afroamericane» emerse dai discendenti degli africani, quelle sopravvissute alla tratta degli schiavi avvenuta nell’Atlantico dal XVI al XIX secolo.


Fino al 1854: la schiavitù

La tratta degli schiavi in Venezuela fu un fenomeno relativamente contenuto rispetto a altre nazioni come Cuba, Brasile, Colombia e Perù. La colonia spagnola del Venezuela era una delle poche che non possedeva metalli preziosi o altri prodotti che avrebbero permesso una prosperità economica immediata, così gli appetiti degli schiavisti furono attirati da altre regioni. I documenti dell’epoca indicano che, alla fine del XVIII secolo, il Venezuela aveva «a malapena» 60mila schiavi, una piccola cifra rispetto ai 450mila neri e mulatti liberi residenti allora nel paese.

Sfumato il mito dell’«El Dorado», i coloni si dedicarono all’agricoltura, e lo fecero sfruttando dapprima la manodopera indigena, e poi quella africana. Quest’ultima fu utilizzata nelle piantagioni costiere di zucchero, cacao, tabacco e caffè.

Il cacao, soprattutto, coltivato nella regione di Barlovento, fu all’origine di un processo relativamente rapido di accumulo di capitale e di ricchezza da parte dei coloni.

Lo schiavo era un investimento economico utile alla produzione di una determinata merce da collocare sul mercato internazionale. I diritti del padrone, codificati, recitavano: «I padroni hanno diritto di frustare i loro schiavi, di incatenarli o metterli ai ceppi, ma non di ferirli o di ucciderli. Se la punizione è stata eccessiva al punto di diventare scandalosa, il padrone può essere obbligato a vendere lo schiavo maltrattato a una persona meno crudele. E deve venderlo al prezzo di acquisto».

Il lavoro forzato e le sofferenze indicibili della schiavitù portarono molti uomini e donne alla ribellione e alla fuga. Nel 1721 le autorità calcolavano che fossero circa 20mila i fuggitivi chiamati «Cimarrones», nella zona di Caracas. I nomi Cumbo, Cumbito, Maroma, Quilombo, Rochelas, Palenque, ricordano ancora oggi quelle ribellioni e i luoghi nei quali avvennero.

Durante tutto il tempo della colonia, la Chiesa battezzò e catechizzò gli schiavi. Secondo molti, questo atteggiamento favorì l’istituzione della schiavitù. Secondo altri fu un’opera di misericordia per alleviare le loro sofferenze e aiutarli attraverso la famigliarità e la solidarietà che nascevano dal professare la stessa fede nell’unico Dio.

Rovesciato il regime coloniale spagnolo, nel 1811 la Giunta suprema di Caracas abolì la tratta degli schiavi, ma non la schiavitù che fu abolita del tutto solo nel 1854. (S.F.)

Religiosità afro

Le celebrazioni comunitarie, il gusto di fare processioni insieme, di rullare i tamburi per dare ritmo al canto, alla danza e alla musica, sono elementi caratteristici della cultura degli afrodiscendenti dell’America Latina.

L’aspetto religioso occupa un posto rilevante nella vita degli afroamericani ed emerge, soprattutto, nei periodi di crisi, negli eventi più importanti della vita, come la nascita e la morte, e nei tempi significativi della comunità, come le feste patronali, la Settimana Santa, il Natale.

Le espressioni della loro religiosità affondano le radici nell’incontro tra i culti e le tradizioni che i neri portarono dall’Africa e la prima evangelizzazione. Ne sono scaturite peculiari espressioni della fede che chiamiamo «religiosità popolare».

La suggestione simbolica delle immagini di Cristo e dei santi, proposte dai primi missionari, è calata nell’anima delle popolazioni afro, ma è vissuta quasi sempre in maniera slegata dalla storia evangelica.

Oltre alle radici religiose degli afrodiscendenti, e ai nuovi modelli sociali nei quali si sono venuti a trovare, ha contribuito a reinterpretare il significato di tali immagini l’esigenza degli schiavi di ritrovarsi, in terra d’esilio, per celebrare i riti dell’Africa e capirsi tramite il linguaggio dei tamburi.

Attraverso il culto dei santi, hanno cercato scampo alla dura condizione imposta loro dagli europei e hanno mantenuto vivo il dialogo con le divinità delle loro origini. (S.F.)


La Settimana Santa e la croce fiorita di maggio

Tra folklore e fede

Tra il venerdì che precede la Settimana Santa, chiamato «Venerdì del concilio», e il Sabato Santo, si susseguono a Barlovento otto processioni, chiamate «Passi», nelle quali si evocano i vari aspetti della passione del Signore. Ogni passo viene «illustrato» da immagini sacre collegate ciascuna a una confraternita che gestisce la processione con tutti i suoi corollari: candele, fiori, banda musicale e mortaretti.

Il sentimento religioso degli afroamericani di Barlovento si manifesta in modo speciale nelle celebrazioni della settimana santa che cominciano il venerdì che precede la domenica delle palme. Viene chiamato «venerdì del concilio», con riferimento al conciliabolo tra il Sinedrio e Giuda che, per 30 denari, vende Gesù.

Il venerdì del concilio è una giornata a carattere penitenziale. Viene esposta alla venerazione dei fedeli l’immagine della Madonna «dolorosa», una statua rivestita di un manto nero, con parrucca e merletti di foggia spagnola cinquecentesca, e con il cuore trafitto da spade.

La domenica delle Palme moltissima gente si accalca per ricevere il ramo d’ulivo benedetto; quindi, si inaugura la prima di una serie impressionante di processioni, che si susseguiranno per tutta la settimana. Le processioni costituiscono un elemento fondamentale della religiosità popolare afroamericana. Esse esprimono la dinamica delle peregrinazioni e simboleggiano il tema della vita: chi è vivo cammina e si accompagna agli altri.

Ogni giorno della settimana santa ha luogo un «passo», cioè la rievocazione di un episodio della passione del Signore per accompagnare Cristo sofferente, con il quale ci si identifica.

La domenica delle palme, alla sera, ha inizio il primo «passo», che ricorda Gesù che suda sangue nel Getsemani: viene portata in processione un’enorme statua di Cristo in ginocchio, sovrastato dall’angelo che gli porge il calice della passione.

Nei giorni seguenti si va in processione con altre statue: il lunedì con quella di «Gesù flagellato alla colonna», il martedì con quella di Cristo «umiltà e pazienza» e il mercoledì santo con quella del Nazareno che si apre la strada verso il Calvario.

Il Nazareno

Il Nazareno rappresenta Gesù, vestito di una tunica viola, che sale la collina del Calvario con la croce sulle spalle. È l’«uomo dei dolori», cantato dal profeta Isaia, che personifica tutto ciò che la gente vive e soffre. Nello stesso tempo riflette il volto di un Dio solidale, che si mette nel cammino della vita condividendone con noi i rischi e le conseguenze.

In questo giorno si «pagano» le promesse e i voti fatti a Dio durante l’anno: alcuni si vestono da «nazareni», altri fanno il «velorio», ossia vegliano accanto alla statua durante tutto il giorno, con una candela accesa in mano. La gente compie sacrifici che non farebbe in nessun’altra occasione.

Alla sera la gente partecipa alla processione: centinaia di mani sorreggono la portantina per tutte le strade del paese mentre si canta e si prega, rivivendo le stazioni della via crucis. Ogni cento metri la banda intona una marcia funebre. La processione si blocca e la statua viene fatta «ballare» avanti e indietro per tutta la durata della musica.

La processione dell’incontro

Il giovedì santo, dopo la messa vespertina, «si fa morire» Cristo prima del tempo, portando in processione il crocifisso.

Il venerdì, le processioni sono due. Al mattino, i fedeli accompagnano il crocifisso, seguito dalla bara di cristallo, alla cappella del Calvario, situata in cima al paese dove viene rievocata la deposizione dalla croce e la sepoltura.

Nel pomeriggio, la gente si riunisce di nuovo in chiesa per la tradizionale «adorazione della croce» e il «sermone» sulle «sette parole» pronunciate da Gesù in croce.

Alla sera, la popolazione si divide in due gruppi: il primo parte dalla chiesa parrocchiale portandosi dietro le statue della Madonna dolorosa, di san Giovanni e Maria Maddalena, ognuna montata sul proprio carroccio. Il secondo gruppo si raccoglie all’altro estremo del paese, nella cappella del Calvario. Da qui discende lentamente verso la chiesa, accompagnando il «santo corpo». È la «processione dell’incontro». A metà strada, infatti, la Dolorosa e le altre due immagini s’incontrano con Cristo morto, e gli fanno «la riverenza».

È il momento culminante della tradizione religiosa degli afroamericani, nessuno è disposto a perderselo. La gente si accalca, la banda fa ricorso alle note più ispirate e commoventi. Il carroccio della Madonna viene sollevato di peso e piegato in avanti: è la madre che fa la riverenza al figlio. Il rito si ripete per tre volte. Seguono le riverenze di san Giovanni e della Maddalena. Il popolo accompagna con esclamazioni di approvazione e applausi.

La Pasqua di Giuda

Per la maggioranza della gente la settimana santa termina il venerdì. Il sabato, dopo una veloce processione mattutina, chiamata «della solitudine», in cui la Madonna va in cerca del figlio morto, la gente dedica il resto della giornata all’allestimento del pupazzo di Giuda, in collaborazione con amici e vicini. Una volta pronto, il pupazzo viene esposto nei crocicchi delle strade.

La domenica di Pasqua, la gente diserta la chiesa e nel pomeriggio si lancia nell’ultima processione. Il «santo di turno» è proprio lui, Giuda Iscariota. I tamburi rullano, i balli sono sfrenati, i lazzi e le battute si sprecano senza pietà. Giunti sul luogo prestabilito, viene letto il «testamento di Giuda», nel quale sono nominate le persone a cui lascia i suoi averi. È l’occasione per prendere in giro le persone del paese che durante l’anno, per diversi motivi, sono state protagoniste della cronaca locale. Alla fine, il povero Giuda, impiccato al ramo di un albero, viene bruciato.

La croce fiorita di maggio

La Pasqua, tuttavia, non è dimenticata, ma viene «rimandata» al 3 di maggio, alla festa della Santa Croce. In questa ricorrenza legata alla fertilità e alla vita che rinasce, viene ricuperato il senso completo del mistero pasquale.

Popolarmente è chiamata «velorio», o veglia della croce. Comincia la sera della vigilia e si protrae fino al giorno seguente, intercalando preghiere e balli culminanti in una grande festa popolare.

Le radici della festa vanno cercate nelle tradizioni cristiane giunte dalla Spagna. Nei tempi più antichi, in Spagna si eleggeva una regina col nome di Maya, la quale evocava l’omonima dea romana e presiedeva le feste contadine di maggio e giugno; il suo trono veniva posto vicino a un albero.

A poco a poco si riempì questa ritualità con un contenuto cristiano: invece dell’albero si iniziò a piantare una croce e, dal primo giorno di maggio, la gente cominciò a collocare, all’entrata delle case, su piccoli altari, croci adornate di fiori. Si facevano offerte, non più a Maya, ma alla croce, che diventò quindi oggetto della festa popolare.

Questa tradizione, combinata con elementi religiosi autoctoni, ha dato origine all’attuale festa della «Croce fiorita di maggio». Oggi si celebra in tutto il paese, ma è soprattutto nella regione di Barlovento, tra gli afroamericani, che assume il carattere di manifestazione tipica della religiosità popolare.

Nel luogo prescelto, l’altare viene abbellito con fiori e teli colorati, quindi viene sistemata la croce vestita a festa: è bianca, sormontata da una ghirlanda di fiori, con ornamenti colorati sulle braccia. Sulla croce non c’è l’immagine di Cristo crocifisso. Egli, infatti, ha vinto la morte ed è risorto. Si tratta dunque di una croce pasquale.

La veglia dura tutta la notte ed è caratterizzata da rosari intervallati da litanie e balli cadenzati dai tamburi.

Il giorno dopo si celebra la messa solenne, alla quale i membri della confraternita partecipano con la loro uniforme rosso sangue. Segue la processione al monte della croce dove il presidente della confraternita offre al bacio della gente un ostensorio con una improbabile reliquia della croce.

Data la stretta relazione con la natura e la fertilità, la celebrazione della croce fiorita di maggio parla di creazione, vita, vittoria sulle forze del male, in altre parole, esprime la dimensione pasquale del mistero di Cristo.

Si stabilisce così una connessione ideale con il venerdì santo, quando le celebrazioni della Pasqua terminavano con la venerazione di Cristo nel sepolcro. Quello che apparentemente era un finale senza relazione con la risurrezione, trova la sua proiezione in questa festa: Cristo viene celebrato come vincitore della croce e della morte.

Sergio Frassetto


Il riscatto dell’identità afroamericana

L’attività pastorale dei Missionari della Consolata a Barlovento è tesa afar emergere i «semi del Verbo» presenti nella cultura degli afrodiscendenti. Essa è motivo di fiducia e speranza nell’attuale difficile situazione socio-economica.

Durante il periodo coloniale, agli schiavi, deportati per lavorare nelle fattorie di cacao della costa venezuelana, fu proibito manifestare la loro cultura e religione. Fu loro imposto il cattolicesimo, dando luogo a un sincretismo nel quale le immagini del culto cristiano vennero assimilate alle divinità delle loro religioni tradizionali.

I Missionari della Consolata, provenienti da altri contesti socioculturali e religiosi, sono andati incontro al popolo afro solidarizzando con la sua cultura e cercando di valorizzarla nelle sue multiformi espressioni.

L’obiettivo era, ed è, quello di riscattarne l’identità e i valori negati lungo i secoli, facendo crescere nel popolo la coscienza che «essere afro» è un valore che può integrarsi nella pratica di una vita cristiana autentica e che può incidere nella società.

Incontrare il popolo nella sua identità

Come dichiara il Documento di Aparecida (il documento conclusivo della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano e dei Caraibi – Celam -, tenutosi nella città brasiliana di Aparecida dall’11 al 31 maggio 2007): «Conoscere i valori culturali, la storia e le tradizioni degli afroamericani, entrare in un dialogo fraterno e rispettoso con loro, è un passo importante nella missione evangelizzatrice della Chiesa […]. La Chiesa con la sua vita di predicazione, sacramentale e pastorale aiuterà affinché le ferite culturali ingiustamente subite nella storia degli afroamericani non assorbano, né paralizzino dall’interno, il dinamismo della loro personalità umana, della loro identità etnica, della loro memoria culturale, del loro sviluppo sociale nei nuovi scenari che si presentano» (Aparecida n. 532).

Per lungo tempo la Chiesa non ha riconosciuto l’identità del popolo afro ed è necessario lavorare ancora molto per superare tante resistenze. Basti ricordare un piccolo esempio, ma dal forte valore simbolico: il rintocco delle campane, nel passato, serviva ad avvisare della fuga di uno schiavo. La chiesa non può usarlo per invitare il popolo nero a partecipare alle celebrazioni liturgiche. Succede infatti oggi che la campana sia lassù, nella torre campanaria, ma che l’invito alle celebrazioni venga fatto con la musica.

È un processo lento, quello dell’incontro della Chiesa con il popolo nero, portato avanti insieme alla gente, per individuare nelle espressioni proprie della sua religiosità «i semi del Verbo» e portarli a maturazione dando origine a una Chiesa dal volto afroamericano.

I missionari della Consolata di nuova generazione, provenienti dall’Africa e da altri paesi del continente americano, accompagnano gli afrodiscendenti di Barlovento nel percorrere questo cammino.

La violenza non ferma i missionari

Essi portano avanti la loro azione pastorale, fatta di incontro e di rispetto, a volte scontrandosi con grandi difficoltà, non ultima quella della sicurezza personale.

L’intero territorio di Barlovento, infatti, è controllato da gruppi criminali che attaccano, rapinano o rapiscono chi viaggia per le strade, come fanno, appunto, i missionari. Questi gruppi di «malandros» sono costituiti da ragazzi molto giovani. In diverse occasioni, i missionari e persino il vescovo locale, si sono ritrovati con le armi puntate alla tempia.

Non è un problema della sola zona di Barlovento. In Venezuela la violenza aumenta un po’ ovunque: secondo le statistiche, il paese ha 30 milioni di abitanti e circa 15 milioni di armi nelle mani dei civili. Nel 2020 sono state uccise circa 25mila persone. In assenza dello stato, le bande armate si organizzano nei loro feudi, come ad esempio nelle miniere d’oro clandestine, dove prevale la legge del più forte.

Nonostante tutto, i missionari continuano il loro servizio al fianco della gente. Non smettono di visitare le comunità per celebrare i sacramenti, organizzare catechesi, formare animatori, fare attività con i giovani e accompagnare le famiglie più bisognose.

A Barlovento la presenza dei Missionari della Consolata è motivo di fiducia per la gente che ha fede in un Dio che dà sempre a chi chiede ciò di cui ha bisogno, che si rende presente per chi lo cerca e che apre la porta a chi bussa.

Essi, oltre a venire incontro ai bisogni materiali delle persone, si preoccupano di mantenere viva la speranza divenendo presenza di consolazione spirituale.

Nella loro azione pastorale non pensano solo ai sacramenti. «Non importa se celebriamo messe o semplicemente visitiamo – dice uno di loro – basta passare per strada ed essere visti perché la gente dica che non è sola».

Di fronte alla drammatica situazione socio-economica vissuta dal Venezuela, molte persone vorrebbero andarsene dal paese, come quei cinque milioni e mezzo che sono emigrati in altre nazioni del continente. Ma vedendo che i missionari rimangono, cambiano di idea e restano a lottare.

Jaime Carlos Patias




IMC Venezuela 50: nelle periferie urbane

Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale. La città di Caracas sorge al fondo di una valle, ed è circondata da baraccopoli, chiamate «barrios» o «barriadas»: terreno favorevole per i politici di turno che soffiano sul fuoco dell’emarginazione e della povertà.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Nei «barrios» di Caracas

Periferia esistenziale

Santiago de León de los Carácas (San Giacomo di León dei Carácas), così era stata battezzata dagli spagnoli questa terra abitata dagli indigeni carácas. La città, che oggi conta circa due milioni di abitanti, si distende al fondo di una valle a forma di Y, circondata da cerros (montagne) scoscese e franose. A chi viene da fuori, scendendo dalle pendici delle Ande della costa, e guardando dall’alto, la città appare trapuntata di palazzi e grattacieli, strade, piazze e giardini. Una moderna metropoli sudamericana.

Attraversandola, invece, percorrendo l’Autopista dell’Est che scorre al fondo della valle lungo tutto l’asse longitudinale della città, la visione ravvicinata è radicalmente diversa: ciò che colpisce l’occhio non sono i palazzi, ma le barriadas o rencherias, come vengono chiamate qui, ossia le baraccopoli cresciute lungo le dorsali dei cerros, inerpicandosi fino a raggiungerne la cima.

Sono le grandi periferie della capitale, i «quartieri popolari» come eufemisticamente vengono chiamati nei documenti ufficiali, veri e propri alveari umani formatisi nei decenni, al tempo delle vacche grasse in Venezuela.

Promesse (non mantenute) di Caracas

Dopo la caduta della dittatura militare nel 1958 e l’inizio della democrazia, le grandi città venezuelane hanno sperimentato una crescita demografica senza precedenti. Le speranze generate soprattutto dalle royalties del petrolio gestito dagli americani, hanno spinto la gente ad abbandonare le campagne aride e povere e a stabilirsi negli spazi liberi sui cerros, attratti dall’illusione di un lavoro redditizio e di un benessere immediato. È stato un fenomeno socioculturale importante che ha portato alla nascita dei barrios.

Molti, cercando fortuna, sono giunti anche da altri paesi come Colombia, Ecuador e Perù. Altri sono venuti da Cuba e dalle numerose isole dei Caraibi. Lo stesso dicasi di tanti italiani emigrati in Venezuela cercando un riscatto dalla povertà del loro paese d’origine.

La capitale, tuttavia, non ha risposto alle speranze della gente. La maggioranza delle persone migrate non ha incontrato quella «fortuna» che inseguiva. Poco a poco si è andato formando un esercito di gente disoccupata, sfruttata, delusa, frustrata e arrabbiata.

Il populismo di Chávez e Maduro

Proprio da queste periferie, il 27 febbraio 1989 sono scese le folle degli arrabbiati che hanno inscenato il famoso «Caracazo», una vasta manifestazione di protesta con saccheggi e devastazioni, che si è estesa anche ad altre città e che il presidente Carlos Andrés Pérez ha soffocato nel sangue con l’esercito lasciando sul terreno migliaia di morti. Ed è soffiando sul malcontento che ribolliva nelle barriadas che Hugo Chávez, il 4 febbraio 1992, ha tentato il colpo di stato contro Carlos Andés Pérez fallendo e finendo in prigione. Due anni dopo, il nuovo presidente, Rafael Caldera, lo ha liberato e, nella seguente tornata elettorale, il 6 dicembre 1998, Chávez è diventato presidente del Venezuela per la prima volta.

Qui, nelle barriadas, Chávez prima e, dopo la sua morte per cancro, Maduro poi hanno costruito lo zoccolo duro del loro potere alimentandolo con la borsa di viveri quindicinale, i medici cubani che, non avendo altro, distribuiscono la stessa pillola per ogni malattia, i concerti di salsa e merengue ad ogni angolo di quartiere, le magliette colorate con la faccia del «comandante». E molte altre trovate degne del populismo più bieco.

I missionari nel barrio

I Missionari della Consolata che negli anni Settanta muovevano i primi passi in Venezuela, attraversando la città, non potevano non osservare con curiosità mista a timore quegli alveari di mattoni, lamiere e cartone che dal bordo delle strade si innalzavano fin quasi a nascondere il cielo.

Quando hanno deciso di stabilire una loro presenza anche lì, tra i poveri e gli emarginati urbani, era il 2000. E da allora continuano a lavorarvi per portare consolazione.

Sergio Frassetto


Carapita

Salita al barrio

Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale.

Percorrendo l’autostrada dell’Est, ai piedi delle baraccopoli di Caracas, un pensiero si affaccia nella mente dei missionari: ci sarà una chiesa in mezzo a quel formicaio umano? Chi può essere quel prete che ha il coraggio di spingersi in una simile realtà? Magari, noi. Ma il pensiero viene subito scacciato come una tentazione.

Con il passare degli anni, tuttavia, ci si abitua a tutto, e anche le barriadas diventano famigliari nello scenario urbano.

Ad azzardare i primi passi nel barrio di Carapita è padre Sandro Faedi, negli anni Novanta, accompagnando i seminaristi diocesani, dei quali è insegnante di liturgia e morale, a fare apostolato.

Successivamente, vi si spinge anche padre Andrea Bignotti, superiore delegato.

Lo invita suor Juanena che, durante la settimana, lavora presso un anzianato frequentato da padre Andrea e, nel weekend, fa apostolato in una delle cappelle del barrio.

Primi passi a Carapita

Parroco di Carapita è padre Andrés, sacerdote fidei donum belga. Sono alcuni giovani della sua parrocchia, membri del gruppo Joven misión delle Pom (Pontificie opere missionarie), a invitare i seminaristi nel loro barrio e nella loro chiesa. Ne nasce un’amicizia che sfocia in una collaborazione stabile di padre Andrea Bignotti e dei seminaristi con la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna di Carapita.

È proprio da questa collaborazione che, a poco a poco, matura l’idea di assumere la responsabilità pastorale della parrocchia.

Un discernimento fatto con attenzione

Il progetto emerge durante la visita canonica in Venezuela del superiore generale dei Missionari della Consolata padre Pietro Trabucco nel 1998. «Pensando ad un ulteriore incremento di missionari – scriverà -, si sta ipotizzando la possibilità di assumere una parrocchia nella zona periferica di Caracas, dove maggiore è la povertà della gente e il bisogno di un servizio missionario».

Quella di stabilire una nuova presenza in questa difficile periferia non è una scelta facile, e la comunità Imc nel paese ne è consapevole: «La nostra capacità di consolazione e liberazione è messa alla prova dalla situazione generale di povertà, marginalità, disoccupazione, disintegrazione famigliare, mancanza di sicurezza sociale, violenza, droga e prostituzione che condiziona un po’ tutte le nostre comunità, […] a questo bisogna aggiungere la situazione complessa di Patarata [una delle cappelle della parrocchia di El Ujano, nella città di Barquisimeto, nella quale i Missionari della Consolata lavoravano già dagli anni Ottanta] e di Carapita, comunità molto eterogenee e con gruppi umani di immigrati che hanno perso le loro radici culturali e che devono lottare per sopravvivere in una realtà a loro ostile», scriveranno i missionari negli atti della Conferenza della Delegazione Venezuela Imc celebrata a settembre del 2000.

Lo stesso arcivescovo di Caracas Antonio Ignacio Velasco García rimane sorpreso della disponibilità espressa dai missionari. «Ricordo che quando sono andato a parlare con l’arcivescovo di Caracas circa la possibilità di assumerci un impegno pastorale nella capitale, egli ci proponeva altre opzioni – scrive padre Agustin Barboza, superiore delegato nel 2000 -, ma noi abbiamo insistito per Carapita perché sentivamo che questa rispondeva meglio al nostro carisma; ed egli, ridendo, disse: “Questa vostra opzione vi fa onore perché Carapita è la parrocchia più difficile e chi va a Carapita certamente non sta cercando di fare carriera ecclesiastica”».

I missionari si sentono motivati dalle opzioni della Chiesa latinoamericana che a Puebla (1979) ha chiesto alle chiese locali di dare priorità nell’evangelizzazione, tra le altre, alle grandi periferie urbane che «vivono in una situazione di fede precaria, esposti all’influsso delle sette e di ideologie che non rispettano la loro identità, confondendo e provocando divisioni» (Puebla 366).

La priorità, del resto, è ribadita anche dal X Capitolo Generale dell’Istituto Imc tenutosi nel 1999, il quale, nel contesto del mondo attuale, vede realizzato l’essere missionari ad gentes anche nell’opzione per «le povertà urbane» nelle quali si trovano «i nuovi poveri, emarginati in tutto» (X CG 47).

Missionari delle periferie

Il 5 settembre 2000 i Missionari della Consolata assumono la responsabilità pastorale della parrocchia di Carapita durante una celebrazione eucaristica presieduta da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas. Lo accompagnano padre Manolo Collado, superiore delegato, padre Carlos José Osorio, nominato amministratore parrocchiale, i seminaristi Imc di filosofia e i fedeli della parrocchia.

È un passo fondamentale che, dopo l’apertura agli indigeni e agli afrodiscendenti, caratterizza l’opera dei missionari in Venezuela come rivolta anche alle «grandi periferie esistenziali del mondo», espressione che si udirà in tutta la Chiesa, solo nel 2013, quando il cardinale
di Buenos Aires, Mario Bergoglio, diverrà papa Francesco.

Sergio Frassetto


Vita nelle barriadas

Missione nei vicoli dell’alveare

Il lavoro di evangelizzazione e di cura pastorale nella parrocchia di Carapita è immenso. La popolazione del territorio conta 100mila abitanti, dei quali molti in condizioni di vita critiche. I Missionari della Consolata, ispirandosi alle indicazioni della chiesa latinoamericana, danno vita a una pastorale fatta di corresponsabilità dei laici e vicinanza ai poveri.

«Carapita è un alveare umano abbarbicato su una montagna franosa che fa da corona alla zona occidentale della città. Qui, più di 100mila persone vivono addossate le une alle altre in casupole di mattoni, lamiere e cartone», scrivono nel 2000 i missionari stabilitisi da poco nella realtà della baraccopoli. «È una situazione di totale emarginazione dove, non senza difficoltà, stiamo cercando di ambientarci. Qui vivono gli esclusi della società; qui si rifugia la criminalità rendendo pericolosa la convivenza umana. La maggioranza della popolazione è composta da lavoratori e da famiglie più o meno costituite; molte le persone dedite al commercio informale e ai lavori saltuari, ma per tutti, soprattutto per i giovani, la disoccupazione rimane il dramma principale e il terreno più propizio alla delinquenza finalizzata al guadagno facile.

Carapita è un mondo brulicante di umanità che si muove, lavora, canta, balla, litiga, minaccia, urla, batte, rompe, si lamenta, soffre… dal mattino alla sera e anche di notte, senza sosta. E, nonostante tanta precarietà, qui c’è gente generosa, buona, collaboratrice, che desidera essere aiutata a vivere ed esprimere la sua fede».

Ecclesiasticamente, il territorio è stato eretto a parrocchia dell’arcidiocesi di Caracas nel 1990. Il terreno su cui sorge il salone che fa da chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Gioacchino e Anna, era stato occupato nelle «invasioni» del 1984.

«La nostra comunità – proseguono i missionari – è costituita da tre confratelli. Ci aiutano un diacono permanente che vive e lavora in una delle cappelle della parrocchia, e tre comunità religiose femminili: las Misioneras de Cristo Jesús, las Hermanitas de los Pobres de Maiquetía e le Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta».

Oltre alla chiesa parrocchiale, esistono altre tre costruzioni che fungono da cappelle: La Gruta, Bicentenario e Santa Eduvige. Attorno a queste strutture si sono organizzate piccole comunità cristiane.

«Inoltre i nostri seminaristi – concludono -, con il loro formatore e alcuni laici del barrio, stanno iniziando un lavoro di incontro e amicizia con la gente. Sembriamo in tanti, ma in realtà siamo molto pochi dato che la popolazione che dobbiamo attendere si aggira attorno ai 100mila abitanti. Di tutta questa marea umana possiamo curare solo una piccola minoranza che non va oltre il 3%. Il lavoro da fare è enorme».

Tra pendenze e spazi risicati

Tra i problemi che i missionari devono affrontare fin dall’inizio c’è la mancanza di mezzi di trasporto: solo i veicoli a doppia trazione possono superare la pendenza vertiginosa dei vicoli del barrio. In più, il fatto di avere un veicolo proprio, vuol dire esporsi al pericolo delle bande che derubano e uccidono per molto meno. Così bisogna adattarsi ai «carritos por puesto», le jeep private che trasportano la gente su e giù per la montagna, che partono quando sono piene e arrivano quando possono.

Un altro problema è la mancanza di spazi adeguati a realizzare le attività parrocchiali. I missionari, quindi, lottano per accaparrarsi centimetro dopo centimetro lo spazio sufficiente per costruire, con l’aiuto dei tanti benefattori, un centro parrocchiale. Quando verrà ultimato nel corso del 2021, esso servirà da abitazione per i missionari e da struttura nella quale si svolgeranno la maggior parte delle attività formative, sociali e culturali della parrocchia.

Parrocchia missionaria

Il lavoro di evangelizzazione in questo contesto così vasto ed eterogeneo è molto complesso: è una vera sfida, sotto tutti i punti di vista.

I missionari, dopo aver analizzato la realtà, scelgono alcune priorità sulle quali concentrare le loro forze: la formazione delle Cebs (le comunità ecclesiali di base), per cercare di raggiungere le persone totalmente slegate dalla Chiesa; la pastorale della gioventù, dato che sono molti i giovani che vivono immersi nel mondo della droga e della violenza; la formazione di ministri laici, date le molteplici necessità; la pastorale più specificamente missionaria che include un lavoro sulla giustizia e la pace; la formazione sulla liturgia e la sua organizzazione.

Sono scelte perfettamente in linea con le opzioni della chiesa latinoamericana emerse a Puebla, Santo Domingo e, in seguito, ad Aparecida: «Sentiamo la necessità di creare una nuova forma di “fare” pastorale e di organizzare la parrocchia partendo da una pastorale più aperta, flessibile e missionaria» (Puebla 649; Santo Domingo 257), «promovendo le comunità ecclesiali di base e la formazione ministeriale dei laici» (Puebla 804-805; Santo Domingo 94-103).

Di qui lo sforzo di coinvolgere tutte le forze vive della parrocchia nell’elaborazione ed esecuzione del programma pastorale. Come aggiunge il Documento di Aparecida: «La conversione pastorale delle nostre comunità esige che si passi da una pastorale di mera conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (DA 370), concludendo che «i laici devono partecipare al discernimento, alle decisioni, alla pianificazione e all’esecuzione» (DA 371). Bisogna, dunque, avere «un atteggiamento di apertura, dialogo e disponibilità per promuovere la corresponsabilità e la partecipazione effettiva di tutti i fedeli nella vita delle comunità cristiane» (DA 368).

Organizzare una parrocchia immensa

I settori della parrocchia di Carapita, inizialmente cinque, con il tempo diventano sette, incluso quello della chiesa parrocchiale. Ogni settore rappresenta una comunità di base molto attiva, ciascuno ha la propria cappella (tra cui una dedicata anche alla Consolata), ogni cappella ha un responsabile e un consiglio pastorale con una propria giunta direttiva.

I coordinatori delle comunità e delle diverse pastorali formano il consiglio pastorale parrocchiale che, a sua volta, ha una giunta direttiva, guidata dal piano pastorale generale che contempla tutte le dimensioni della vita della parrocchia.

In ogni settore vengono portati avanti i vari aspetti della pastorale, suddivisa in 10 ambiti, tra cui catechesi, giovani, famiglia, donne, pastorale sociale, missione.

Sono presenti anche vari movimenti ecclesiali: «La Legione di Maria», «Luis Variara», «Ho sete» e «Lacci di amore mariano».

Come indica il Documento di Aparecida: «I maggiori sforzi delle parrocchie, in questo inizio del terzo millennio, devono tendere nella convocazione e formazione di laici missionari. Solo attraverso la loro moltiplicazione potremo rispondere alle esigenze missionarie del momento attuale» (DA 174). «A questo scopo – aggiungono i missionari in un altro documento-, a Carapita si cerca di diffondere la coscienza missionaria tra i fedeli. Un primo frutto è stato la nascita del gruppo missionario che […] va di casa in casa, nei settori più appartati del barrio, per evangelizzare le famiglie. Questo lavoro ha permesso la nascita di una nuova cappella, in un settore lontano, finora dimenticato dal lavoro pastorale. La cappella, intitolata alla Consolata, è stata benedetta il 15 giugno 2002, da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas, che si è complimentato con i Missionari della Consolata per il lavoro che stanno portando avanti».

Il grande impegno è quello di fare della parrocchia una «Comunità di comunità, evangelizzata ed evangelizzatrice, discepola e missionaria».

La «olla solidaria»

Fedeli al loro carisma, i missionari cercano di integrare l’evangelizzazione con la promozione umana. Il beato Giuseppe Allamano diceva: «Ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra». Il Documento di Aparecida aggiunge: «Il ricco magistero sociale della Chiesa ci indica che non possiamo concepire un’offerta di vita in Cristo senza un dinamismo di liberazione integrale, di umanizzazione, di riconciliazione e di inserzione sociale» (DA 359).

L’instabilità politica e sociale del Venezuela del 2021 crea squilibri nella popolazione a tutti i livelli e costituisce una sfida alla missione della Chiesa. La crisi è più evidente nei servizi e nella mancanza di mezzi economici per acquistare i generi di prima necessità.

L’87% della popolazione vive in povertà  e, di questi, il 25% in povertà estrema. La maggior parte delle famiglie non riesce a sopravvivere con un solo salario minimo e molti si vedono costretti a frugare nella spazzatura per racimolare qualcosa da mangiare.

Come mezzo per alleggerire le difficoltà della popolazione più bisognosa, ogni domenica, dopo la messa, un gruppo di volontari della parrocchia prepara «la olla solidaria» (la pentola solidale): una grande pentola di zuppa che viene servita a circa 300 persone. Gli ingredienti sono provvisti dalla Caritas, da La Confraternidad e dall’Università Cattolica Andrés Bello (Ucab). Non mancano le donazioni private e la solidarietà di molta gente che condivide quel poco che ha. Così, in questo tempo di crisi, i cristiani di Carapita vivono con più fervore il comandamento dell’amore.

Nello stesso tempo, dal lunedì al venerdì, più di 300 bambini ricevono cibo nell’ambito del progetto «Fundación techo», nei locali della parrocchia, dove, tra l’altro, si svolgono la catechesi, i corsi di taglio e cucito per le donne, il doposcuola per i ragazzi, i corsi di musica, e si organizzano «giornate mediche» per tutti, in particolare per bambini e anziani.

Nella grande periferia esistenziale di Carapita, la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna si caratterizza per il servizio gratuito e totale a favore dei più deboli e diventa centro di incontri, di collaborazione e di comunione tra persone, gruppi e istituzioni. Il famoso «ospedale da campo» tanto caro a papa Francesco.

Un parroco psicoteraperuta

D’altra parte padre Rodrick Tumaini Minja, parroco di Carapita, laureato nel 2018 in psicoterapia, presta la sua collaborazione come parte del team interdisciplinare che si occupa del recupero e riabilitazione dei tossicodipendenti che vivono in strada e che chiedono assistenza alla Casa di accoglienza situata nel barrio di San Andrés; un progetto in cui lavorano tre congregazioni di religiose: Compacionistas, Missionarie di Cristo Gesù e Piccole Suore dei Poveri di Maiquetía.

«La nostra – dice il missionario – vuole essere, quella che il card. Baltazar Porras, amministratore apostolico della diocesi di Caracas, chiama “pastorale di speranza” e che l’Allamano chiamava “consolazione”: consolare la gente nella sua afflizione per i tempi difficili che sta vivendo».

Padre Jaime Patias, consigliere generale Imc, in occasione di una sua visita alla parrocchia, effettuata nell’estate del 2019 con il Consiglio Continentale dei Missionari della Consolata in America, scrive: «Ho potuto palpare da vicino lo sforzo grandioso e la dedizione dei missionari che lavorano in Venezuela, così come la vicinanza e l’affetto della gente. La situazione di crisi continua a colpire i più poveri e bisognosi. In comunione con loro, ringrazio Dio per la dedizione dei nostri missionari e missionarie e per la solidarietà di tutti con il popolo venezuelano, in particolare verso i migranti».

Sergio Frassetto

 




IMC Venezuela 50: la missione alla foce dell’Orinoco

I missionari e le missionarie della Consolata iniziano, insieme, la missione a Nabasanuka il giorno della Consolata del 2006. Dopo otto anni da quando hanno lasciato la Guajíra, affidano a lei l’opera di evangelizzazione di un altro popolo indigeno, quello dei Warao.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

 


La missione alla foce dell’Orinoco

Nabasanuka, porto dei Warao

La curiara (canoa) solca veloce le acque del fiume che, pigro, scorre tra ali di maestosa foresta tropicale mentre uccelli, come usciti dalla tavolozza di qualche pittore naïf, intonano il loro concerto mattutino osservando incuriositi il passaggio di alcuni naviganti, «turisti per caso».

Siamo nello stato Delta Amacuro, un paradiso di acque, animali e piante creato dalla foce dell’Orinoco, il fiume più grande del Venezuela che, avvicinandosi all’Atlantico, per una lunghezza di 200 km, crea in una fitta ragnatela di canali, lagune e zone palustri che si intrecciano tra loro.

La barca, partita col buio, sette ore fa dalla città di Tucupita, sta per giungere alla meta: Nabasanuka, la casa del popolo warao.

Diciotto anni dopo la Guajíra

È il 20 febbraio 2006, quattro giorni dopo la festa del beato Giuseppe Allamano. I missionari e le missionarie della Consolata iniziano il loro lavoro apostolico a Nabasanuka, affidandosi al fondatore e alla Consolata, chiedendo di poter essere presenza di consolazione in mezzo ai Warao.

Prende forma così un sogno coltivato a lungo dai missionari in Venezuela. Dopo aver lasciato la Guajíra nel 1998, essi non hanno mai rinunciato alla speranza di tornare a lavorare tra gli indigeni per esprimere pienamente e al meglio il loro carisma missionario.

È stato proprio inseguendo questo sogno che, nel duemila, durante la V Conferenza della Delegazione, essi hanno deciso di iniziare una nuova presenza fra i popoli indigeni, possibilmente in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’anno successivo, i Consigli generali dei due istituti hanno approvato la decisione che nel 2004 è poi sfociata nella scelta del vicariato di Tucupita, degli indigeni warao.

Nel 2005 due équipe di padri e suore, hanno raggiunto la missione di Nabasanuka in tempi diversi e, durante varie settimane, hanno realizzato un primo approccio con l’ambiente e la popolazione locale. L’obiettivo era di conoscere la realtà e di fare l’esperienza del vivere in équipe: era, infatti, la prima volta che padri e suore lavoravano insieme vivendo sotto lo stesso tetto.

Missionari e missionarie insieme

Il 20 febbraio 2006 i padri Josiah K’Okal e Vilson Jochem giungono a Nabasanuka e iniziano una presenza stabile. Tuttavia, come è stato programmato, l’inizio ufficiale della loro missione insieme alle missionarie della Consolata nel vicariato di Tucupita avviene il 20 giugno 2006, festa della Consolata. La messa solenne è presieduta dal Vicario apostolico, mons. Felipe González, accompagnato da tutti i Missionari della Consolata e dai Cappuccini. Durante la celebrazione sono presentati alla comunità i missionari e le loro consorelle, le suore Carla Pianca, Luigina Goffi, Rosemary Kabbis e Ivana Cavallo che da oggi condivideranno la vita dei Warao a Nabasanuka.

Coinvolgere i laici

L’alto numero di comunità, le notevoli distanze e la difficoltà delle vie di comunicazione, rende impossibile visitarle con frequenza. Per questo, nel loro programma pastorale, i missionari decidono di dare la priorità alla formazione di animatori e di catechisti capaci di coltivare la vita cristiana nei loro villaggi anche in assenza del missionario. L’iniziativa parte fin da subito nelle comunità di Nabasanuka, Bononia e Araguabasi: si radunano una quarantina tra uomini e donne che, in futuro, rappresenteranno i pilastri dell’evangelizzazione nella parrocchia.

Per venire incontro ai costi dei viaggi, la missione crea un piccolo fondo che, grazie alla Provvidenza, non si esaurirà per molto.

P. Juan Carlos Greco con parte della comunità di Janabasaida

Il Vangelo si incultura

Nell’ottobre del 2007 si tiene un’assemblea allargata degli agenti di pastorale, laici e religiosi, che lavorano nelle diverse comunità del vicariato nel quale, tra l’altro, si è deciso di creare una équipe di Pastorale indigena con l’obiettivo di costruire una chiesa inculturata, con un’identità propria, dove l’esperienza di fede sia espressione del mondo warao, della sua cultura e lingua, delle sue tradizioni e valori.

Da questo obiettivo nasce un piano di pastorale suddiviso in otto ambiti principali: la religiosità, la spiritualità e l’inculturazione; la promozione della cultura warao e l’assunzione dei valori presenti in essa; la lotta contro la povertà e l’impegno per uno sviluppo solidale; la democrazia partecipativa; la difesa della terra e dell’ambiente; lo sviluppo umano tramite la salute e l’educazione; l’appartenenza e l’integrazione nazionale e internazionale; la promozione e la difesa dei diritti umani.

Nel 2008, i missionari e le missionarie, alla luce di questo piano, e rispondendo alle attese della comunità, redigono il loro primo progetto apostolico nel quale l’evangelizzazione viene definita come «inculturazione del Vangelo a partire dalla spiritualità e religiosità tradizionale dei Warao, preservando, promuovendo e difendendo la loro identità culturale e i loro diritti come nativi del Delta Amacuro».

Percorrendo questa strada, i missionari scoprono nel mondo spirituale warao molti semi del Vangelo che attendono solo di giungere a maturazione. Bella, per esempio, è l’espressione che gli indigeni usano per indicare il Regno di Dio: «Dioso a Janoko», che letteralmente vuol dire «la casa di Dio». Non c’è immagine migliore per definire l’opera dei missionari: fare di questo popolo una casa dove ci si accoglie e si collabora fraternamente.

Promozione umana

Percorrendo i canali del delta, fermandosi a ogni attracco di barche, entrando in questa o quella palafitta, i missionari possono constatare che, al di là della facciata da cartolina, vi è una realtà di povertà e di abbandono, di fame e di malattie endemiche che lasciano sgomenti: bambini denutriti, ragazzi non scolarizzati, anziani abbandonati a se stessi e senza cure mediche.

In tutta la regione (15mila km2, un territorio più grande del Trentino Alto Adige) c’è un solo dispensario, con un medico residente che, volontariamente, si prende cura di questa gente.

Per quanto riguarda l’educazione, in tutto il territorio ci sono due scuole secondarie. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei giovani termina solo il ciclo della scuola elementare. Inoltre, l’insegnamento non eccelle per serietà e rendimento, a causa della mancanza di maestri professionalmente qualificati.

Questa situazione spinge i missionari a impegnarsi come insegnanti nel liceo di Nabasanuka dove confluiscono studenti provenienti da una quindicina di comunità. Un impegno in più nel già gravoso lavoro di evangelizzazione, ma anche un’opportunità per conoscere i giovani e accompagnarli nella loro crescita umana, culturale e religiosa.

Va ricordato che il popolo warao è sempre stato nomade, migrando da un luogo all’altro in cerca di migliori condizioni di vita. Per fermare la migrazione e migliorare la qualità della vita delle persone, l’équipe missionaria porta avanti progetti in ambito sanitario come giornate mediche nelle comunità, distribuzione di medicine e forniture sanitarie, e un programma di assistenza medica e alimentare per chi convive con Aids e tubercolosi. «Molti, purtroppo, sono morti aspettando un mezzo di trasporto», esclama un missionario. Ecco perché la missione cerca anche di aiutare con ambulanze fluviali e terrestri per trasferire i malati in città.

Altri progetti riguardano il settore dell’istruzione con borse di studio per studenti, il «Computer Center» (una sala computer a uso comunitario), con l’equipaggiamento necessario per studiare via internet, e la fornitura di materiale scolastico (quaderni, matite, divise).

La generosità fa sbizzarrire la fantasia. Così nascono progetti di micro auto sostenibilità per accedere all’energia solare, per l’acquisto di reti e accessori utili per la pesca, sementi per piantare, tessuti per i corsi di taglio e cucito per le donne.

Sergio Frassetto


I Warao

Warao è un termine che significa «Gente di canoa» e indica un popolo indigeno che conta circa 50mila persone. I Warao costituiscono il secondo gruppo etnico più numeroso in Venezuela dopo i Wayú.

Vivono su palafitte costruite ai margini dei fiumi, formando piccoli villaggi di famiglie unite fra loro da forti legami di collaborazione e solidarietà. Il più anziano del gruppo, chiamato «aidamo», svolge la funzione di autorità della comunità.

I Warao si dedicano alla pesca e alla caccia di sussistenza. Dove è possibile, in piccole radure (conuchi) coltivano l’ocumo, una pianta erbacea che produce tubercoli commestibili che rappresentano il «pane» del Warao. Esercitano un artigianato vario e di grande qualità: amache, ceste, utensili, ecc.

Giungendo a Nabasanuka come ospiti e pellegrini, i missionari hanno potuto sperimentare la sorprendente ricchezza umana e sociale di questo popolo. Infatti, sono stati accolti non come stranieri, ma come «daje» (fratello maggiore) o «daka» (fratello minore).

La parrocchia di Nabasanuka, dedicata a Maria «Divina Pastora de Araguaimujo», sorge nel centro abitato principale nel quale vivono circa 800 persone.

Il resto della popolazione è suddiviso in una sessantina di piccole comunità, alcune già evangelizzate, altre con una vita cristiana embrionale, altre che attendono ancora il primo annuncio del Vangelo.

La prima sfida che i missionari hanno affrontato con i Warao, è stata l’apprendimento della lingua indigena, allo scopo di intessere relazioni e di conoscere la cultura. Nello stesso tempo, hanno cominciato a visitare le comunità raggiungendole sulle curiaras via acqua.

Uno dei problemi più grossi della zona sono proprio le comunicazioni e i trasporti: il posto più vicino nel quale rifornirsi di benzina è Tucupita, a sette ore di curiara. Per raggiungerlo con barche vecchie e malandate, succede di rimanere in panne nelle acque dell’Orinoco.

Da qualche anno è stata acquistata una nuova barca, regalata da amici e battezzata La Consolata. Ora i missionari girano per le terre dei Warao con più speditezza. (S.F.)


Una giornata tra i Warao

Padre Andrés García Fernández, spagnolo, ha al suo attivo un’invidiabile esperienza missionaria. Ha lavorato tre anni in Costa d’Avorio fra gli immigrati, cinque in Spagna, nel campo dell’animazione missionaria, tredici in Congo RD fra i pigmei e dal 2019 è tra i Warao del Delta Amacuro.

Arrivando in Venezuela tra i Warao, la sfida è stata quella di entrare nell’anima di questo popolo, conoscerne la cultura, la lingua, l’organizzazione, e scoprirne la relazione con la natura e la trascendenza. Cercare di capire dove Dio lo conduce, e accompagnarlo in questo processo.

La classe politica sta litigando, lotta per il potere, cercando di abbattere l’avversario. Mentre va avanti questa lotta, quelli che soffrono sono i poveri, la gente umile.

I popoli indigeni stanno soffrendo molto per quello che viene chiamato «El Amo» (l’Arco minerario dell’Orinoco), le cui ricchezze del sottosuolo (oro, coltan e altro) sono appetite dal governo attuale, dalla guerriglia colombiana (le Farc e altri gruppi) e anche dall’opposizione.

La selva viene depredata e distrutta con tutte le conseguenze che la devastazione ambientale comporta per coloro che la abitano. Nel delta l’acqua arriva di colore quasi nero. Nel periodo di crescita del fiume arriva tutto il mercurio con cui si lava l’oro, il cianuro e altri veleni. I pesci galleggiano morti, l’acqua ha l’aspetto della spuma e noi la beviamo e ci laviamo con essa. E le malattie proliferano sotto forma di piaghe, diarrea, febbre, soprattutto nei bambini.

La gente soffre per mancanza di potere d’acquisto: il governo non paga con denaro effettivo, ma dà un numero che indica una somma, ma se non c’è elettricità per tutta una settimana, come capita spesso, non si può ritirare dalla banca il proprio «numero» per andare comprare quello che serve. La gente soffre per mancanza dei servizi essenziali, degli alimenti di base, delle medicine. E il fatto di aver chiuso la porta agli aiuti che vengono dall’estero peggiora la situazione. La gente si dispera.

Quando ho chiesto a un Warao scappato in Brasile: «Perché te ne sei andato dal Venezuela?», mi ha risposto: «Mi è morto il primo figlio, è morto il secondo e non ho voluto che morisse anche il terzo».

Giorno dopo giorno

Ciononostante, la missione è appassionante, e condividere il trascorrere dei giorni con la gente è bello. Chiedo a Dio di non abituarmi mai a questa realtà. Vivendo nel seno della foresta pluviale, è bello alzarsi al mattino e vedere tutta la ricchezza della natura: quei fiumi, quegli alberi, quei paesaggi, i bambini, il modo di vivere della gente, la cultura.

In genere cerco di alzarmi alle quattro del mattino per pregare, perché, a partire dalle sei, quando celebriamo la messa, fino alle 8 o 10 di sera non riesco più a sedermi.

Dopo la preghiera preparo un po’ di colazione, a volte per due giorni in modo che mi duri di più, e poi faccio il bucato e riordino la casa.

Dopo l’eucaristia inizia a venire la gente con le proprie necessità: c’è chi viene a chiedere una medicina, chi cerca cibo o altro.

Con un gruppo di collaboratori organizziamo gli incontri per i giovani, il programma di alfabetizzazione dei bambini e quello per la formazione delle donne.

Una volta preparato il materiale, usciamo con la lancia e navighiamo per i vari canali alla volta delle comunità. Nella nostra parrocchia ce ne sono una sessantina che cerchiamo di visitare ogni mese. Lascio un gruppetto di collaboratori nella prima, un altro gruppetto nella seconda e, mentre essi svolgono l’attività programmata, io vado alla seguente. Quando ho finito la formazione e l’eucaristia, faccio il percorso inverso: torno alla seconda comunità dove il gruppetto ha già terminato la formazione, celebro l’eucaristia e poi, insieme, torniamo alla prima.
In questo modo cerchiamo di visitarne due o tre ogni giorno. Le accompagniamo e le formiamo
in questo modo.

Trascorro poi il pomeriggio in casa, giocando con i bambini, ricevendo la gente, visitando gli infermi e parlando con i giovani che chiedono una speranza (cosa facciamo, dove andiamo, dove possiamo trovare lavoro?).

 

I Warao non esistono senza il delta

Ci sono anche i maestri che hanno bisogno di imparare come insegnare. La maggioranza di loro ha frequentato solo la scuola secondaria e non ha avuto altra preparazione. Devono imparare a fare un programma pedagogico, a trasmettere i contenuti, ecc.

È appassionante anche seminare speranza e aiutare le persone a organizzarsi, a sognare, e a sognare un ritorno di tutti quei Warao che se ne sono andati, sognare di tornare a essere il popolo che erano, ma più organizzato, con più coscienza di quello che sono.

Questo discorso vale per il delta dell’Orinoco, ma anche per tutta l’umanità.

Io, spesso, dico loro: «Il delta con tutta la sua biodiversità non esisterebbe senza i Warao, senza la vostra maniera di essere e di vivere». Anche i Warao senza il delta, pur sopravvivendo, non vivrebbero più come Warao. Hanno bisogno del loro ambiente per continuare a essere come sono stati finora.

Dio dietro ogni cosa

Una cosa bella è vedere come il Warao chiede permesso all’albero per tagliarlo e fare la sua
curiara, vedere come chiede permesso alla natura per tagliare alcuni alberi per fare il suo orto dove produrre l’ocumo, o come chiedono permesso all’acqua quando vanno a pescare o a navigare.

È importante scoprire come per essi c’è una vita, c’è un dio della vita, che sta dietro a tutta la natura e che sostiene l’esistenza di ciascuno, di ogni essere e di ogni persona.

Allora la mia quotidianità è scoprire e accompagnare tutto questo, non solo condividendo il poco che ho, ma anche i loro sogni, le difficoltà, gli ideali e il ritmo di Dio nelle loro anime.

Verso le ore 20 mi chiudo in casa, solo con nostro Signore, ricapitolando la giornata, rendendo grazie e programmando il giorno dopo. In questo modo il giorno trascorre pieno di gente e scoprendo in essa la presenza di Dio.

Andrés García Fernández


Dalle sponde del fiume alla città

Con gli indigeni a Tucupita

Alla ricerca di migliori condizioni di vita, chi può o chi è costretto dalla povertà, abbandona la sponda del fiume e raggiunge la città. Sradicati dalla comunità, i Warao si ritrovano soli in un ambiente ostile che non sa offrire loro altro che marginalità e povertà ancora più profonda di quella lasciata nella terra nativa.

La «transumanza» è una caratteristica dei popoli indigeni. Da sempre i Warao la praticano realizzando una stretta interconnessione con Tucupita e altre città dentro e fuori i confini del Venezuela. Nel corso degli anni, ampi strati di popolazione indigena si sono trasferiti nel capoluogo della regione in cerca di migliori condizioni di vita. Tuttavia, vivendo la marginalità, dispersi nella grande città e senza punti di riferimento sicuri come la famiglia e il clan, facilmente perdono la loro identità e i loro valori.

Allo scopo di accompagnare anche i Warao migranti nel loro cammino umano e spirituale, i missionari, fin dal loro arrivo a Nabasanuka, concepiscono una loro presenza nella città di Tucupita.

Pastorale indigena urbana

Il progetto di stabilire una presenza a Tucupita si realizza nel marzo 2009, quando padre Zachariah Kariuki, missionario della Consolata keniano, si trasferisce nella città e assume la responsabilità del lavoro pastorale con i Warao emigrati lì, facendo base nella parrocchia di san Giuseppe.

A Tucupita i missionari diventano così fattore di incontro e comunione per gli indigeni, contribuendo, con diverse iniziative, a promuovere in essi il senso di appartenenza, tassello fondamentale per una presa di coscienza della propria identità e dignità.

Uno dei progetti sviluppati è quello dei due corsi di taglio, cucito e sartoria per 50 donne all’anno. Il corso fornisce loro le conoscenze necessarie a realizzare manufatti sartoriali per le loro famiglie e per la vendita, e quindi generare reddito.

Risiedendo a Tucupita, i Missionari della Consolata possono anche offrire un servizio diretto in favore del vicariato Delta Amacuro. Così, padre Zachariah (che nel 2018 tornerà in Kenya e verrà sostituito da padre Silvanus Ngugi) svolge le funzioni di vicario generale del vescovo, direttore delle Pontificie opere missionarie e responsabile, dal 2016, della nuova vicaria denominata «Dani Consolata» dedicata al servizio degli indigeni.

Avere una parrocchia in Tucupita, poi, rappresenta un vero e proprio punto di approdo per chi arriva dalla missione dopo sette ore di curiara. Qui i missionari possono mangiare, riposare e appoggiarsi per le mille faccende da sbrigare prima di ripartire per Nabasanuka.

E così, a Tucupita come a Nabasanuka, nel cemento della città come nelle acque dell’Orinoco, i Missionari della Consolata, nonostante il loro numero ristretto a causa della difficoltà a ottenere dal governo i permessi, lavorano uniti alla costruzione del Regno di Dio tra i Warao.

Sergio Frassetto


Verso il Brasile

Le tragiche condizioni socio economiche del Venezuela hanno costretto milioni di cittadini a emigrare nei paesi vicini. Tra loro, migliaia sono Warao. I missionari continuano a seguirli anche in Brasile.

Sommerso da una profonda crisi politica, economica e sociale, il Venezuela sta vivendo una situazione drammatica. La popolazione soffre per la carenza di cibo, medicine, trasporti, alloggi, lavoro, servizi di base come ospedali, scuole, acqua, elettricità. Le condizioni di vita peggiorano ogni giorno, mettendo a rischio molte vite.

Si stima che oltre il 50% della popolazione viva in condizioni di estrema povertà, al punto che alla fine del 2020, una famiglia di cinque persone avrebbe dovuto guadagnare 98 salari minimi per acquistare beni di prima necessità. Questa situazione ha causato enormi migrazioni nei paesi vicini, in particolare in Colombia e Brasile.

Secondo le statistiche ufficiali, sono oltre 5 milioni i venezuelani che hanno lasciato il regime di Maduro in cerca di migliori condizioni di vita.

I Warao a Pacaraima e Boa Vista

Anche molti indigeni warao del Delta Amacuro sono stati costretti a lasciare il paese. Si sono stabiliti inizialmente a Pacaraima, una città dello stato brasiliano di Roraima appena oltre il confine con il Venezuela, ma molti si sono poi spinti all’interno dello stato di Roraima, in città come Boa Vista, e in altri stati, come a Manaus, in Amazonas.

Sopravvivono con le donazioni di enti privati e di beneficenza. Molti hanno portato con sé prodotti di artigianato dal Venezuela e lavorano come venditori ambulanti. Alcuni vorrebbero restare a vivere in Brasile e vanno alla ricerca di lavoro, ma senza successo, anche perché privi di documenti di identità.

La situazione di precarietà aumenta la loro vulnerabilità, i rischi di sfruttamento, l’uso di droghe, la fame e le malattie.

Missionari itineranti

Per i Missionari della Consolata in Venezuela, il futuro di queste comunità indigene è motivo di grande preoccupazione. La Direzione generale dell’Istituto, venendo incontro a questa situazione, a maggio del 2018, ha approvato la creazione di un’équipe missionaria itinerante per accompagnare proprio gli immigrati e rifugiati venezuelani a Pacaraima e Boa Vista.

Il team è composto da tre missionari, uno dei quali lavora con i Warao a Tucupita.

Le sfide da affrontare giorno per giorno riguardano tutti i settori: documentazione, salute, sicurezza, trasporti, educazione, lavoro e integrazione. Oltre a queste sfide e all’assistenza religiosa, i missionari si dedicano in modo speciale all’alimentazione dei bambini fra i quali si riscontrano molti casi di denutrizione. A loro vengono offerti due pasti a settimana accompagnati da formazione umana, culturale e igienica. (S.F.)

 




IMC Venezuela 50: l’animazione missionaria


I Missionari della Consolata, fin dal loro arrivo in Venezuela, hanno messo tra le loro priorità l’animazione missionaria e vocazionale della chiesa locale. Da questo proposito sono nati l’inserimento nelle Pom, l’apertura del seminario filosofico e la nascita di Jovenmisión.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

 


L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Chiesa ad gentes

L’obiettivo principale dell’arrivo dei Missionari della Consolata in Venezuela fin dall’inizio fu l’animazione missionaria e la promozione vocazionale. Il Capitolo generale del 1969 lanciò l’Istituto in questa linea: animare le giovani chiese all’evangelizzazione. Padre Giovanni Vespertini, a fine del 1970, stabilendosi a Trujillo, regione delle Ande venezuelane, una delle più religiose del Venezuela, aveva visto la possibilità di animare all’ad gentes la vita religiosa e sacerdotale della chiesa locale.

Le prime tappe

La destinazione di padre Luigi Crespi alla stessa zona fu pensata in questa prospettiva. Arrivato dalla Spagna, dove svolgeva lo stesso ministero, nel 1972, iniziò ad animare la diocesi di Trujillo nella città di Valera.

Nel 1974 arrivò padre Francesco Babbini come responsabile del Gruppo Imc Venezuela. Egli lanciò l’animazione a 360 gradi.

Viaggiando in autobus, senza ancora conoscere il paese, di notte o di giorno, con la sua valigetta piena di dépliant, il proiettore e i documentari di padre Gabriele Soldati, fermandosi nelle diocesi, nei seminari, nelle parrocchie, nelle scuole, in poco tempo fece conoscere i Missionari della Consolata nel paese. Divenne amico del nunzio apostolico e raggiunse i vicariati del Caroní e di Machiques, offrendo alla chiesa locale la possibilità di una nostra presenza tra le popolazioni indigene a loro affidate. Si sarebbe optato poi per Machiques, nella regione della Guajíra.

A Caracas padre Francesco Babbini offrì la sua esperienza alle Pom (Pontificie opere missionarie), delle quali divenne un valido collaboratore. Nella capitale aprì anche il seminario propedeutico e filosofico della Consolata nel 1977.

Jovenmisión e Cajumi

Da sempre la presenza dei missionari nelle diocesi fu presenza pastorale e di animazione missionaria. Nelle diocesi di Trujillo, San Cristobal, Los Teques e Barquisimeto, i missionari furono anche i direttori diocesani delle Pom. A Barquisimeto, in particolare, oltre alla pastorale nelle due parrocchie del Buen Pastor e del Ujano, i missionari crearono il Cam (Centro di animazione missionaria) dove si offriva (e si continua a offrire) formazione alla missione a livello locale e nazionale.

In Venezuela l’Imc fu e rimane l’unico istituto missionario specificamente ad gentes. Quindi con una responsabilità non indifferente nell’animare la chiesa locale alla missione.

Nel 1986 il direttore nazionale delle Pom chiese un missionario della Consolata per svolgere il compito di segretario nazionale della pontificia Opera di San Pietro Apostolo e di responsabile per l’animazione missionaria della gioventù. Padre Nelson Lachance, canadese, assunse l’incarico ed ebbe l’illuminazione di fondare «Jovenmisión» (Missione giovane): non un movimento, ma un servizio ai gruppi giovanili ecclesiali.

Nel 1988 realizzò il primo «Cajumi» (Campo Giovanile Missionario), a Santa Rosa de Ocopí, nella regione di Anzoátegui, con la partecipazione di giovani venezuelani e di altri provenienti da altre nazioni latinoamericane. Furono organizzate giornate di riflessione, catechesi e preghiera.

Una gioventù missionaria entusiasta

Come successore di padre Lachance, fu nominato chi scrive. Con l’aiuto della suora teresina Marta Cecília Ramírez Marin e di alcuni giovani, strutturai la neonata Jovenmisión su tre dimensioni: spiritualità, formazione e missione.

I punti salienti del programma annuale, a livello nazionale erano (come sono ancora adesso): la Pasqua giovanile missionaria, dal lunedì santo alla domenica di Pasqua; la Scuola di leader missionari in due tappe, ciascuna di otto giorni, per la formazione alla missione; il campo giovanile missionario – Cajumi – di 25 giorni in una zona poco evangelizzata. Dal 1989 ad oggi, l’esperienza del Cajumi non è mai stata interrotta. Un anno particolare fu il 1997, quando nei mesi di luglio e agosto si realizzarono contemporaneamente 27 Cajumi in tutto il Venezuela.

I frutti

Quali sono stati i frutti del lavoro di animazione svolto dall’Imc in Venezuela?

Noi abbiamo visto questo: è cresciuta la coscienza missionaria nelle parrocchie, nei movimenti apostolici, tra i giovani e i bambini. Nei tempi forti dell’anno liturgico e nel mese di agosto, i cristiani si fanno evangelizzatori nei villaggi e nei paesi privi di assistenza religiosa. La Giornata missionaria mondiale, è diventata il «Mese missionario», e la colletta per le missioni molto più significativa e consistente, sia nelle parrocchie che nelle scuole cattoliche. In questo mese è diventata tradizione la «Camminata giovanile missionaria» che, cambiando percorso ogni anno, diventa, ancora oggi, nel 2021, momento di testimonianza e animazione di strada dei giovani con i Missionari della Consolata.

Giovani e ragazzi optano per la vita religiosa, sacerdotale e missionaria. Anche per la Consolata. Un esempio è padre Lisandro Rivas, primo missionario della Consolata venezuelano, dopo aver lavorato in Kenya, è stato superiore della Delegazione Imc del Venezuela, formatore nel seminario teologico di Bogotà (Colombia) e attualmente lavora per la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli come rettore del Collegio S. Paolo, in Roma, dove sacerdoti da tutto il mondo studiano nelle Università pontificie.

Nel 1993 una coppia di giovani sposi partì per il Congo RD, lavorando per tre anni e mezzo nella missione di Neisu, facendo molto bene. Furono i primi laici missionari della Consolata del Venezuela. Negli anni successivi altri avrebbero seguito il loro esempio. Una giovane, appena laureata, partì per la missione di Tencua (vicariato di Puerto Ayacucho) lavorando per quattro anni con le missionarie della Consolata in piena selva amazzonica. Fu poi raggiunta e sostituita da un’altra giovane dedicata alla formazione ed educazione degli indigeni Yecuana.

Il giovane avvocato Adrián Enrique Gelves partì per il vicariato di Puerto Ayacucho, dove svolse il compito di responsabile per i diritti umani degli indigeni per quattro anni. Dopo il matrimonio, continua ancora oggi a svolgere lo stesso servizio mentre la sua sposa è responsabile della Caritas del vicariato. Una giovane laureata in Educazione li ha raggiunti, e qui rimane tuttora, sposata con un indigeno.

Un giovane seminarista teologo ricevette dal cardinale arcivescovo di Caracas il permesso per studiare al pontificio Collegio urbano di Roma per prepararsi per la missione. Per tre anni svolse il suo ministero come aggregato alla Consolata nella diocesi di Lichinga in Mozambico, e oggi è il direttore nazionale delle Pom in Venezuela. Dopo di lui, un altro sacerdote diocesano si aggergò all’Imc e rimase in Mozambico per quattro anni.

Nel 2014, la Cev (Conferenza episcopale venezuelana) assunse una missione in Mozambico, e da allora ha inviato due sacerdoti fidei donum e sei laici. La missione di Manje è tra le più dinamiche della diocesi di Tete.

I frutti continuano a maturare anche a distanza di tempo come il cammino sinodale, lanciato dalla Cev nel mese di aprile di quest’anno, quando, con la partecipazione di tutti i membri della chiesa in Venezuela, si è iniziato a riflettere, dialogare e promuovere l’impegno ad essere «una parrocchia missionaria, in uscita per i nuovi tempi». Lo scopo è generare la trasformazione pastorale che la Chiesa sogna e di cui parla papa Francesco, una Chiesa in uscita, ospedale da campo, che raggiunge tutti, anche nelle periferie.

Sandro Faedi


In quindici al lavoro

Fedeli al proprio carisma, i Missionari della Consolata in Venezuela vogliono continuare a essere presenza significativa.

Cinquant’anni di presenza Imc in Venezuela, cinquant’anni di pagine missionarie scritte con entusiasmo e sudore dai missionari che si sono succeduti in questa terra benedetta da Dio, con tanti doni, eppure immersa in una grande tribolazione, segnata da povertà, ingiustizia, violenza e morte.

In questa realtà essi continuano a seminare il campo di Dio lavorando in trincea tra immense difficoltà e a costo di grandi sacrifici personali. Attualmente sono quindici: a Barlovento, tra gli afrodiscendenti (Caucagua, Panaquire, El Clavo, Tapipa); nell’archidiocesi e città di Barquisimeto, con il Centro di animazione missionaria (Cam); nel vicariato di Tucupita, tra gli indigeni warao (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas con la sede della delegazione, il seminario propedeutico e filosofico, e la parrocchia di Carapita nella periferia della città.

In conclusione, di questo dossier lasciamo loro la parola per fare nostro il loro appello a pregare per il Venezuela. (S.F.)

Consolazione e liberazione

[Pregate per il Venezuela] affinché possa uscire da questa situazione difficile, e perché noi missionari siamo segno di consolazione in mezzo a tanta sofferenza e dolore. In questo contesto viviamo il nostro carisma di consolazione/liberazione, e ogni giorno che passa ci convinciamo sempre più che siamo dove il Signore ci vuole.

Nel suo intervento durante il nostro XIII Capitolo generale, papa Francesco ci ha detto parole che ci infondono grande forza e speranza: «Vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice. Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori» (4 giugno 2017).

Siamo anche convinti che il beato Giuseppe Allamano sia al nostro fianco e che, grazie all’opera di ciascuno di noi, cammini con il nostro popolo. Traiamo forza anche dalle parole di Gesù, che soffre con la gente e ci incoraggia a continuare a condividere la nostra vita con un popolo che, sebbene rischi di morire di fame, non esita a spezzare il pane quotidiano con chi ne ha ancora meno.

Affermiamo ancora una volta che questa è l’ora della consolazione, l’ora di rimanere e camminare spalla a spalla con persone che, nonostante tutto, continuano a sognare un domani migliore.

Affidando il nostro essere missionari e la nostra azione all’intercessione della Consolata nostra madre, del beato Fondatore e del nostro patrono, san Oscar Arnulfo Romero, vi salutiamo con gioia.

I Missionari della Consolata della Delegazione Venezuela


Hanno scritto questo dossier:

�Sergio Frassetto
Missionario della Consolata in Venezuela dal 1978 al 1993, autore di «Sognatori nel deserto», Emi, 1995. Oggi a Torino.

�Sandro Faedi
Missionario della Consolata oggi in Mozambico.

�Andrés García Fernández
Missionario della Consolata oggi in Venezuela.

�Jaime Carlos Patias
Missionario della Consolata oggi membro della direzione Generale.

�Foto del dossier: Archivio Fotografico MC