Crateús, dove Dio è donna

Testi di Stefania Garini, foto cortesia CISV (Raffaele Giammaria, Viviana Pittalis e Marta Versaci) |


Nel Ceará, uno degli stati più poveri del Brasile e tra i più violenti al mondo, suor Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, combatte da sempre a fianco degli ultimi: le donne vittime di abusi, i giovani, i contadini senza terra e le pescatrici senza acqua. Animata da una fede incrollabile nel Vangelo e nella capacità umana di riscattarsi.

suor Francisca Erbenia de Sousa a Crateús

«Ho deciso di farmi suora a 9 anni, il giorno in cui ho assistito allo stupro di una ragazza per strada. Sono corsa in cerca d’aiuto ma nessuno è intervenuto perché dicevano che era una prostituta. Quella ragazza è stata violentata e uccisa, ma non importava a nessuno. Per me è stato terribile, mi sentivo impotente, ho iniziato a pensare che consacrandomi avrei potuto aiutare le donne, le tante vittime di violenza che nel mio paese restavano “invisibili”». Racconta così la sua vocazione suor Francisca Erbenia de Sousa, nata 53 anni fa a Quixeramobim nello stato del Ceará, Nord Est brasiliano, e dal 2006 responsabile della Caritas diocesana di Crateús.

All’epoca, il papà fa il camionista trasportando il cotone delle piantagioni, mentre la mamma si occupa dei sette figli. «I miei genitori non erano religiosi. Mio padre era legato agli ambienti politici di destra, ultraconservatori, e ostacolava la mia scelta, così a 17 anni me ne sono andata di casa per farmi suora». Da allora questa religiosa dall’apparenza dimessa, ma tenace e combattiva, non ha mai smesso di battersi per i diritti degli ultimi, a cominciare proprio dalle donne: le prostitute e le vittime di abusi, le catadores che campano raccogliendo rifiuti, le abitanti delle favelas, le contadine senza mezzi e senza terre, le pescatrici prive di prospettive economiche e riconoscimenti professionali.

Abbiamo incontrato suor Erbenia durante il suo primo viaggio in Italia lo scorso novembre (2017), in compagnia di Antonio Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, in visita a due associazioni con cui la Caritas brasiliana collabora, Cisv di Torino e WeWorld di Milano.

Teologia incarnata

Formatesi alla scuola del pedagogista Paulo Freire e della teologia della liberazione, Erbenia e la Caritas di Crateús promuovono una lettura critica delle disuguaglianze sociali, viste non come volontà di Dio cui ci si deve piegare ma al contrario come una violenza nella creazione divina. «L’esistenza di Dio si traspone nelle nostre esistenze e ci spinge a interrogarci sulla realtà che ci circonda: com’è possibile che molti di noi debbano vivere senz’acqua da bere, senza terra da lavorare, senza prospettive per i giovani? Il volto di Dio è quello che si mostra nell’Esodo: “Ho osservato la miseria del mio popolo […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo […] verso un paese nel quale scorre latte e miele” (Esodo 3,7-10). È un Dio capace di vedere e ascoltare gli affanni, le speranze, le perdite ma anche le potenzialità delle vite umane». Si tratta di una teologia incarnata, in cui la dimensione spirituale resta inseparabile dall’azione concreta: «La preghiera è per noi un’esigenza quotidiana, in chiave contemplativa: pregare significa contemplare la vita di ogni giorno, cercando di leggerla alla luce del Vangelo», spiega suor Erbenia. «Il nostro modo di considerarci figli e figlie di Dio ci porta spesso a unirci alla popolazione nell’occupazione delle terre rurali e urbane lasciate in abbandono, o prese indebitamente da imprese minerarie e fazendeiros» (cfr. MC novembre 2017). Iniziative che spesso sono costate aggressioni e intimidazioni. «Abbiamo subìto una forte repressione militare tra gli anni Sessanta e Ottanta, molti di noi sono stati vittime di violenze, persecuzioni, prigionia, abbiamo imparato a correre al buio per scappare. E oggi le occupazioni di terre continuano ad attirarci le “attenzioni” di fazenderos e polizia», racconta la suora senza tradire emozioni.

Pur essendo la nona potenza economica al mondo, negli ultimi due anni la situazione del Brasile è molto peggiorata, e oggi la Chiesa brasiliana si sta schierando sempre più apertamente contro il governo di Michel Temer. «Il nostro paese è un palcoscenico di corruzione, si è tornati a colpire le popolazioni indigene e gli afro discendenti, soprattutto i giovani. I diritti conquistati a fatica in 50 anni sono adesso andati perduti: pensate che i programmi d’intervento popolare sono stati tagliati del 92%», dice Erbenia, ricordando come il governo Lula avesse garantito case popolari, assegni familiari in base al numero di figli e la possibilità per i giovani poveri di accedere all’università. «Oggi, per la prima volta nella storia del Brasile, in parlamento c’è una presenza fortissima delle chiese pentecostali, che sono fautrici di una politica ultraconservatrice. E ciò favorisce un clima repressivo, violazioni dei diritti e violenza diffusa». Il Brasile è il quinto paese al mondo per femminicidi, e si calcola che più del 50% delle donne tra i 14 e i 50 anni abbiano sofferto una qualche forma di violenza. Il primo passo per cambiare questo stato di cose è «investire nella formazione, come insegnava Paulo Freire: l’oppresso ha bisogno di riconoscersi come tale per riuscire a liberarsi», spiega Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, che come suor Erbenia fa parte della fraternità mista in cui vivono insieme suore, preti e laici. «Per affrancare le donne dalla violenza occorre renderle libere su un piano pratico, autonome dal punto di vista professionale ed economico». Ed è quanto fa la Caritas nel Nord Est brasiliano insieme ad altre associazioni, come Cisv e WeWorld.

Puntare sui giovani

La Caritas, che secondo le parole di papa Francesco è «la carezza della Chiesa ai poveri», nello stato del Ceará è organizzata in 800 comunità ecclesiali di base che condividono la lettura critica della realtà volta a emancipare la persona, attraverso un’educazione contestualizzata, cioè adattata al contesto in cui vive. «Nel nostro territorio i figli e le figlie delle famiglie contadine sono tradizionalmente i più esclusi dall’istruzione. Perciò una quindicina d’anni fa abbiamo occupato un terreno per fondarvi una scuola, così da poter offrire loro una formazione di qualità sulle tecniche agroecologiche, alla luce delle specificità ambientali e sociali del territorio semiarido brasiliano», spiega suor Erbenia. La scuola accoglie ogni anno oltre 100 ragazzi e ragazze che, secondo la pedagogia dell’alternanza, per 15 giorni al mese seguono le lezioni teoriche e pratiche (sull’agricoltura, sul commercio solidale ma anche sulla gestione dei conflitti), mentre negli altri 15 giorni vanno a casa ad applicare negli orti familiari ciò che hanno appreso. I giovani che escono dalla scuola di agroecologia sono poi aiutati a trovare un primo impiego e in seguito, sempre in una logica di alternanza, spinti a frequentare l’università.

Negli anni la Caritas di Crateús, che conta oggi circa 70 membri, ha creato 126 scuole e formato 17.000 studenti, che hanno potuto «imparare il rispetto della terra e la produzione di cibi sani, senza fare ricorso ai pesticidi o a pratiche tradizionali di incendio dei terreni, e impiegando tecnologie idonee per l’immagazzinamento dell’acqua. Tutto questo nella prospettiva del Bem viver (vedi sotto) e grazie all’opera gratuita di oltre 1.500 insegnanti, uomini e donne impegnati a titolo volontario». Erbenia non usa molto la parola provvidenza, ma ogni suo discorso trasmette piena fiducia e positività per il futuro.

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Il business della siccità

La maggior parte dei giovani che oggi beneficiano della formazione Caritas provengono da 2.600 famiglie di pescatori o pescatrici d’acqua dolce, che nel Ceará rappresentano i più poveri tra i poveri, isolati e ignorati dalle istituzioni. «La Caritas di Crateús, insieme al Cpp, Consiglio pastorale della pesca, e all’Ong Cisv, grazie a un progetto cofinanziato dall’Unione europea, lavora con queste famiglie alle prese con un’aridità cronica, aggravata dal fatto che qui non piove ormai da 6-7 anni».

Il problema non è solo ambientale ma politico, come ci spiega Adriano: «Il semiarido brasiliano è quello, tra tutti i semiaridi, in cui piove di più al mondo, quindi il problema non è solo la siccità ma la privatizzazione dell’acqua e l’assenza di politiche pubbliche». La siccità anzi per molti è un business: «Le imprese legate al governo producono cisterne per l’acqua in plastica, che costano attorno ai 5.000 reais (circa 1.300 euro), mentre noi le costruiamo in cemento, materiale più ecologico ed economico, che riduce i costi di un terzo».

La mancanza cronica di acqua e di pesci attenta alle risorse vitali delle numerose famiglie rurali, che vivono tradizionalmente di pesca. «Noi cerchiamo di creare opportunità alternative di reddito e spingere il governo a farsi carico del problema, perché la legge vieta, di fatto, a pescatori e pescatrici di integrare le loro entrate con altre attività produttive», spiega suor Erbenia. Anche qui, «le più discriminate sono le donne: a loro non è riconosciuto lo status professionale di pescatrici, perché vengono considerate semplici “accompagnatrici” dei mariti e “aiutanti” dei pescatori, quindi escluse dagli scarsi sussidi previsti per le aree depresse». Il Ceará è uno degli stati brasiliani dove è più radicata la cultura machista, «un modo di pensare che non è peculiare del maschio, ma impregna anche le donne, minando alla radice la loro autostima e la fiducia nelle proprie possibilità». Resta allora fondamentale intervenire con la (in)formazione, che permette di de-costruire i modi di essere dominanti e costruirne di nuovi. «Ma soprattutto all’inizio è stata dura mettere queste donne intorno a un tavolo per ragionare insieme sulla loro condizione e sulle alternative possibili. Gli uomini non volevano che partecipassero agli incontri e li sabotavano. Una donna ci ha raccontato che, quando il marito usciva di casa, la legava per i capelli al soffitto per impedirle di allontanarsi. Adesso, grazie al nostro lavoro di sensibilizzazione, alcuni uomini hanno iniziato ad aprirsi e spingono le mogli, che non si sentono all’altezza, a frequentare il centro».

Pescatori su un laghetto nei dintorni di Crateús

La salvezza è donna

Come ci spiega Erbenia, il lavoro di empowerment delle donne si ricollega a una lettura della Bibbia in chiave «femminista» (vedi box) ispirata alle posizioni del Centro Ecumenico di Studi Biblici, in particolare alla teologia del Pés no chão, piedi per terra, che trae spunto dai lavori di Leonardo Boff e Ivone Gebara. Attraverso alcune figure chiave dell’Antico e del Nuovo Testamento – le ostetriche che disubbidiscono all’ordine di uccidere i neonati maschi; la sorella di Mosè che guida il passaggio dalla schiavitù d’Egitto alla terra promessa; Elisabetta che genera vita anche in tarda età; Maria che spinge Gesù al primo miracolo di Canaan – emerge il ruolo fondamentale della donna nella storia della salvezza. «L’atteggiamento di Gesù è sempre stato quello di domandare, piuttosto che insegnare. Sono state le donne da lui incontrate che, in vari modi, gli hanno mostrato come approcciarsi alla realtà, mettendo al centro la persona e il valore della vita». Una prospettiva non banale, in una cultura come quella brasiliana permeata di maschilismo e misoginia.

La teologia della liberazione e le pratiche sociali a essa connesse non sempre hanno incontrato i favori del Vaticano. Gli stessi vescovi brasiliani in passato si sono spesso schierati contro di essa. Ma oggi le cose stanno cambiando e nuove speranze per l’umanità, ci dice Erbenia, provengono dall’attuale pontefice che ha rappresentato una svolta rispetto al conservatorismo dei suoi predecessori: «Al di là delle dichiarazioni e degli scritti, è soprattutto il suo atteggiamento umano che stimola al cambiamento reale, nel segno di una Chiesa aperta dove il Verbo si fa carne». E del resto, conclude la suora con un sorriso, «non è un caso se papa Francesco ha vissuto molto tempo in America Latina».

Stefania Garini

suor Francisca Erbenia de Sousa su uno dei laghetti attorno a Crateús


La filosofia del Bem Viver

Anche oggi si può essere felici

Prendersi cura di chi si prende cura, occupandosi della terra e proteggendo la biodiversità. Non è possibile stare bene senza una dimensione comunitaria, senza un legame con l’ambiente.

«In Brasile siamo figli e figlie di un ventre violato, siamo discendenti di indigeni, africani, europei; un incrocio di popoli nato dalla violenza della colonizzazione». A questa violenza originaria, dice suor Francisca Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, risale la dicotomia che permea la storia recente del Brasile, tra avere ed essere: «Abbiamo ereditato una malattia dello spirito, pensando di poterci realizzare solo se “abbiamo”. Siamo impregnati di consumismo e siamo schiavi di questo modello, schiavi dei cellulari, dei vestiti, pronti a tutto per ottenerli: a indebitarci, a rubare, a compiere violenze finendo ai margini della società. “Abbiamo”, ma siamo infelici, il nostro è tra i paesi con il più alto tasso di suicidi al mondo, soprattutto di giovani». Per superare questo modello distruttivo, molte iniziative della Caritas di Crateús si ispirano al concetto del Bem viver.

Sviluppato da Euclides André Mances, fondatore dell’Istituto di Filosofia della liberazione, il Bem viver «consiste nell’esercizio umano di disporre dei mezzi materiali, politici, educativi e informativi per soddisfare eticamente le necessità biologiche e culturali di ciascuno, ma anche per garantire eticamente la realizzazione di tutto quanto possa essere concepito e desiderato per la libertà personale senza negare la libertà pubblica». In opposizione all’appropriazione di conoscenze, ricchezze e accumulo – con lo scopo più o meno consapevole di dominare (l’altro, il tempo, la natura…) – il Bem viver si prende cura della Madre Terra e dei suoi ritmi: «Proteggo, coltivo e mi prendo cura di un ambiente dove la vita ha le proprie leggi e il proprio tempo», nota Erbenia. In questa prospettiva una dimensione importante è quella del cuidade curanderos, il «prendersi cura di chi si prende cura», ad esempio avendo riguardo per la terra, rispettandone la biodiversità, evitando di avvelenarla con pesticidi, prendendo da essa il necessario per vivere e non di più. Questo atteggiamento di curatori e protettori del Creato ci rende a immagine e somiglianza di Dio, ed è il percorso – indicato anche da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ – che ci permette di superare il cancro del consumismo».

Esiste un forte legame tra il Bem viver di ciascuno e quello di tutti, in una prospettiva di promozione della libertà che si muove su un piano insieme concreto e utopico, e si riconnette alle parole di Gesù: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 1-21). Come spiega suor Erbenia, «stare bene non può essere un fatto solo personale: non è possibile stare bene senza la dimensione comunitaria e senza un legame con la terra, senza che stiano bene la natura e chi la abita. È qualcosa che a Crateùs cerchiamo di realizzare anche simbolicamente attraverso la ciranda, una danza che si fa tutti assieme, in cerchio, cercando ognuno di rispettare i passi dell’altro e lasciando il giusto spazio per ciascuno. Il nostro sogno è espandere questo girotondo, per allargare il cerchio delle possibilità a sempre più persone e costruire una diversa realtà».

S.G.


La lettura femminista della Bibbia

Chi decide la storia

Le figure femminili nell’Antico e nel Nuovo Testamento hanno spesso un ruolo pedagogico e salvifico. Queste figure sono fondamentali per la vita.

Il Centro ecumenico di studi biblici segue una corrente della teologia della liberazione che valorizza il ruolo spirituale e salvifico della donna. Come spiega suor Francisca Erbenia de Sousa, si possono leggere in tal senso alcune figure femminili della Bibbia che «pur restando spesso senza nome, hanno avuto un ruolo pedagogico rispetto ai protagonisti maschili della storia della salvezza». Come le ostetriche egizie del libro dell’Esodo che, rifiutandosi di ubbidire al re e uccidere i neonati maschi ebrei, riescono a salvarli evitando uno scontro diretto contro il potere e ricorrendo a un abile stratagemma, dichiarando di non esser arrivate in tempo perché le madri avevano partorito troppo in fretta: «Le donne ebree non sono come le egiziane, sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito» (Es 1, 8-22). O come Miriam, la sorella di Mosè, che ha un ruolo significativo e guida le donne israelite nella danza e nei canti per festeggiare la liberazione dalla schiavitù quando le acque del Mar Rosso si chiudono sulle truppe egiziane (Es 15, 20-21). «Episodi come questi mostrano che chi decide la storia sono le figure femminili, che aiutano la vita: a nascere, a crescere, a sfuggire ai pericoli».

Emblematico è poi l’incontro tra Maria ed Elisabetta, che segna il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento (Lc 1, 39-45). «Elisabetta esprime la saggezza della donna che genera vita pur essendo avanti con gli anni, e accoglie una donna più giovane di lei in cui inizia ad affacciarsi la vita. È Maria qui a essere “accolta”, perché è in fuga dopo la scoperta di essere rimasta incinta. Le due donne rappresentano un Dio che si rivela tanto nella gioventù come nella vecchiaia». Analogamente, Giovanni Battista e Gesù rappresentano due modelli di umanità: il primo ha una relazione forte con la natura, vive nel e del deserto, per disintossicarsi dalle convenzioni sociali; Gesù invece ha una particolare sensibilità verso gli esseri umani, è più «prossimo» alle persone, più accogliente.

Nel Nuovo Testamento la Madonna spinge il figlio, ancora riluttante, a compiere il suo primo miracolo, insegnandogli che «bisogna agire quando è necessario» (Gv 2, 1-11). Mentre l’emorroissa che si fa strada tra la folla per toccargli un lembo del mantello gli insegna che la legge dev’essere al servizio della vita, e non viceversa (Lc 8, 40-48). «L’emorroissa è una donna impura per le perdite di sangue, non può avere contatti fisici con le altre persone, e il fatto di farsi strada in mezzo a molta gente la pone a rischio della sua stessa vita; ma il dolore e le discriminazioni le hanno insegnato ad alzare la testa, e Gesù non rimane insensibile a queste sofferenze».

Infine l’episodio dell’adultera che, in base alle leggi vigenti, deve essere lapidata (Gv 8, 1-11). «L’aspetto interessante qui è il gesto di Gesù che si china per terra, come a condividere con il suo corpo il movimento verso il basso, assumendo la sofferenza della donna e dando la propria vita in sua difesa. In questo modo è lasciata agli accusatori la responsabilità della decisione, mentre all’adultera – e a Gesù – non resta che riprendere in mano la propria vita».

S.G.

suor Francisca Erbenia de Sousa a Crateús




È notte fuori

Amico | Testo di Luca Lorusso |


È notte fuori e tu non riesci a riposare. Ti senti inquieto. C’è qualcosa che spinge dentro di te, che ti turba, e non sai cos’è. Vorresti contenerlo, come hai sempre fatto, controllarlo. Questa notte non ce la fai. Vorresti parlarne con i tuoi cari, con i tuoi maestri, ma ti vergogni della tua confusione, e poi ora dormono tutti.

È notte fuori, ma è notte anche in te.

Cerchi, allora, una risposta nella legge, prendi la Scrittura, ma sei distratto. Niente frena il galoppo del tuo cuore e dei tuoi pensieri. Poi ti si presenta alla memoria un salmo: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre» (Sal 136). E il fiume in piena di una nostalgia che non conoscevi rompe gli argini: anche tu hai appeso le tue cetre, i tuoi canti di gioia ai salici di un paese straniero. E ti ricordi di quell’uomo che oggi hai visto compiere segni nel tempio.

Non sai perché pensi a lui, ma sai che devi uscire a cercarlo.

Lo trovi grazie alle informazioni che durante il giorno hai raccolto dai suoi discepoli. Quando entri da lui hai l’impressione che ti stesse aspettando. Ha, infatti, in mano le chiavi della tua inquietudine: per due volte parla del Regno. Quella condizione di cui hai nostalgia. Abitare libero e autentico la tua vita, e suonare la cetra dei tuoi desideri profondi, messi in te, come semi, da Dio. «Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3, 1-21).
Il nodo che stringe le tue viscere si allenta. Le parole che quell’uomo pronuncia rispondono alle domande del tuo cuore pur senza rispondere a quelle della tua bocca.

E se uno potesse rinascere davvero? Rinascere da vecchio? Venire di nuovo sollevato, come da bimbo, alla guancia di Dio?

Tu sei maestro a Gerusalemme, Nicodemo, sei stimato per le cose che sai, per le tue risposte sagge alle domande più difficili. Tu sai qual è il tuo compito. E anche lui lo sa. Eppure ti chiede di ridiventare bambino, di ritrovare la meraviglia della domanda tralasciando la sicurezza della risposta, di aprirti a un Dio inatteso, diverso da come lo attendevi.

Quando ti parla del Figlio dell’uomo che deve essere innalzato come il serpente di Mosè nel deserto «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna», rimani interdetto. Non capisci. Ti sembra che la luce intravista poco fa si smorzi in una nuova confusione. Ma non è più come quella di prima. Questa è una confusione carica dell’attesa di un mistero. La prospettiva della fede e della vita eterna in una vita rinnovata ti ha rapito. Anche se non sapresti spiegarla a nessuno.

Esci di nuovo nella notte quando inizia a fare luce. Ti senti come ritornato nel grembo di tua mamma.

Quando vedrai il Figlio dell’uomo
innalzato, rinascerai.

Buon cammino verso la luce, da amico.

Luca Lorusso

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Cantare la bellezza dell’amore del Padre


L’incontro con l’Africa, i suoi ritmi e le sue musiche; amici con esperienze di volontariato missionario; giovani missionari italiani, latinoamericani e africani; un cuore aperto al mondo; l’amore del Padre di tutti; la passione per la musica: questi gli ingredienti che hanno dato origine al coro TataNzambe, al suo decimo anniversario.

«Dio ci ha chiamati per andare nel mondo, siamo partiti con un cuore profondo, colmo di amore per la missione, siamo tornati più ricchi con una nuova canzone, e per non rendere vano questo grande tesoro, un gruppo di amici è diventato un coro…». In questa strofa dell’inno del coro TataNzambe si racchiude l’inizio della nostra breve storia nelle case dei missionari della Consolata di Vittorio Veneto e Nervesa della Battaglia (Tv). Dieci anni fa alcuni di noi, di ritorno da un campo di conoscenza nella missione di Loyangalani in Kenya, si sono chiesti: come possiamo annunciare la bellezza dell’essere una missione su questa terra?

Comunicare con la musica

L’esperienza nel Nord del Kenya è stata determinante. Con baba (padre, in kiswahili) Godfrey Msumange, tanzaniano allora impegnato come animatore missionario nella nostra zona, abbiamo vissuto per quasi tre settimane a Loyangalani, in riva al lago Turkana, mettendoci a disposizione delle necessità della missione: abbiamo imbiancato la chiesa, fatto alcune giornate di animazione stile «grest» con i moltissimi bambini e i giovani, distribuito il cibo ai poveri, visitato gli ammalati, incontrato le varie comunità disperse su quel vasto territorio semidesertico.

In un’area con diversi gruppi etnici, Turkana, Samburu, El Molo e anche Gabbra, ciascuno con la sua lingua e non sempre fluenti in kiswahili e tantomeno in inglese, non era semplice comunicare. Abbiamo allora scoperto che con il violino di Elena e la chitarra di Marco le distanze si accorciavano. I bambini hanno imparato subito l’«Alleluia delle lampadine», tradotto in kiswahili dal nostro «baba», e quando ci vedevano in giro con il fuoristrada (da quelle parti i Suv non sono certo un lusso, ma una dura necessità), subito portavano le mani alle spalle e cantavano.

Volevamo mettere a disposizione i talenti che Dio ci aveva donato, però la «lingua» ce lo impediva: la musica e il canto sono stati la risposta. La musica arriva al cuore delle persone; la melodia, il ritmo, i colori, ci portano in un istante in altri mondi: le percussioni ci trasportano nei villaggi dell’Africa, le melodie in minore nelle grandi periferie dell’America Latina, i suoni meditativi all’Asia.

La nostra idea quindi è stata di portare anche in Italia, nella zona in cui viviamo, la bellezza e la gioia del Vangelo con lo strumento della musica e del canto, usando melodie e testi religiosi provenienti da diverse culture. Abbiamo costituito un coro, al quale però occorreva dare un nome. «Tata Nzambe» vuol dire Dio (Nzambe) Padre (Tata) in lingua lingala. Due parole ricorrenti nel ritornello di una delle prime canzoni che abbiamo imparato: perché non chiamare così il nostro coro?

Il mondo in musica

La maggior parte dei coristi, chi prima, chi poi, è stata in qualche missione della Consolata per un campo di lavoro e conoscenza e ha portato a casa il fuoco della missione e le musiche sentite, partecipate e danzate laggiù. Proprio quelle musiche sono il repertorio che ci caratterizza.

Come tutto ciò che diventa un po’ nostro, prendendo le nostre sembianze, anche i canti hanno avuto un’inculturazione europea. L’aggiunta di strumenti nuovi (violino e arpa) alle musiche di altri paesi e culture ha permesso di esplorare nuove potenzialità racchiuse in quelle melodie.

Al coro, in questi 10 anni hanno partecipato tante persone: chi è ancora presente dalla fondazione, chi ha lasciato per impegni familiari, chi ha lasciato perché cercava altro, chi (come i missionari) per obbedienza. Altri si sono aggiunti. Siamo felici di aver fatto un pezzo di strada con ciascuno. Dopotutto, come dice un nostro caro amico, la missione è condividere la vita, là dove ci si trova. L’amicizia, e ciò che è stato costruito insieme, rimane nel cuore.

Il nostro esordio come coro è stato nel Natale del 2006, nella chiesetta della Consolata a Vittorio Veneto. Nessuno ancora ci conosceva e allora abbiamo giocato in casa. Quella sera, Mwokozi Bwana (lett. «Salvatore Signore», un canto in kiswahili che si adatta al Natale – amezaliwa = è nato – o alla Pasqua – amefufuka = è risorto -), Junto a ti Maria e Los peces en el Rio («Unito a te, Maria» e «I pesci nel fiume», due canti tipici del Natale latinoamericano) furono alcuni dei brani che cantammo e che tuttora fanno parte dei nostri concerti natalizi.

Alcuni anni dopo, è nato anche l’inno del coro TataNzambe: musiche e testo dei nostri bravissimi musicisti e parolieri. È stato un lavoro a più mani in cui, chi aveva le competenze, ha dato il suo prezioso apporto, e così ora, nei nostri concerti, il primo brano è sempre l’inno, che racconta chi siamo. Anche se non siamo un coro di professionisti, cerchiamo di fare del nostro meglio, perché come l’Allamano ci insegna, bisogna «fare bene il bene».

Eventi, eventi, eventi

Diversi eventi importanti hanno segnato il nostro percorso. Abbiamo partecipato a due Consolata Festival, uno in Veneto e l’altro nel Salento. I Consolata Festival sono stati appuntamenti, o meglio «campi» estivi canori e musicali con concerti serali nelle piazze. Che gioia incontrare gli altri cori della Consolata in Italia, e cantare tutti insieme.

Ci siamo arricchiti di musica, ma specialmente di relazioni, che tuttora manteniamo con tutti gli amici coristi e musicisti di Torino e Martina Franca, senza dimenticare i tanti missionari che sono stati con noi, e i seminaristi del seminario di Bravetta che ci hanno accompagnati e sono stati parte integrante degli spettacoli che andavamo a fare.

Il TataNzambe poi è stato anche in televisione, invitato da Tv2000. È stato un bel momento di coesione, ed è stato significativo soprattutto il fatto che nonostante fossimo in una trasmissione che selezionava i cori per un concorso («La canzone di noi»), abbiamo mantenuto la nostra specificità parlando di missione con la musica. E l’ultimo evento particolare è stato il capodanno del 2016, quando con una parte del coro, siamo stati in Portogallo, e abbiamo condiviso una serata in musica con i Laici Missionari della Consolata a Lisbona e poi, il 31 dicembre, a Fatima, abbiamo fatto un concerto e animato la messa all’interno dell’Hotel Consolata.

Nel corso di questo decennio abbiamo incontrato, durante le animazioni delle messe e dopo i concerti, moltissime persone, e tutti sono stati concordi nel dirci che il nostro coro trasmette gioia. La gioia, la felicità che al mondo d’oggi è ricercata dappertutto, la troviamo nel messaggio evangelico, come ci suggerisce l’Evangelii Gaudium.

Avanti in Domino

Nonostante il nostro impegno ad attingere dal Vangelo l’acqua viva che rende piena la nostra gioia, il nostro cammino non è stato esente da difficoltà ed è segnato da luci e ombre. Non è sempre facile essere presenti alle prove e ai concerti; sono sempre dolorosi i distacchi di chi se ne va; si fa fatica a non giudicare l’impegno degli altri; alcune volte il fuoco della missione si spegne… Cosa fare quindi? Rimboccarci le maniche e ripartire sempre con la speranza che nel cammino qualcosa ci sconvolga positivamente e ci faccia vedere nuovi orizzonti.

Per il futuro stiamo cercando di mettere in cantiere uno spettacolo – concerto ispirato all’Evangelii Gaudium, e poi magari… cantare a una messa con il Papa. Chissà. Intanto «Avanti in Domino», avanti nel Signore, come diceva il beato Allamano.

Roberta Biz*
* Partecipante al primo campo a Loyangalani, tra i fondatori del coro e direttrice dello stesso.

www.tatanzambe.com
Canale Youtube: thetatanzambe

Note in cammino

Inno di TataNzambe

Dio ci ha chiamati
Per andare nel mondo
Siamo partiti
Con un cuore profondo
Colmo di amore
Per la missione
Siamo tornati più ricchi
Con una nuova canzone
E per non rendere vano
Questo grande tesoro
Un gruppo di amici
È diventato un coro

Rit: Siamo note in cammino
Verso nostro Signore
Abbiamo il cuore nel mondo
Ed il mondo nel cuor,
Siamo note in viaggio
Verso una nuova missione
Che è portare un messaggio
Nei cuori delle persone

Mano con mano
Preghiamo cantando
Parliamo di Cristo
Al prossimo e al mondo
Senza timore
Di lingue o confini
Perché musica e note
Ci fanno vicini
Serviamo il signore
Con la testimonianza
E se vi tocchiamo nel cuore
Unitevi alla danza (Rit.)




Centroamerica la violenza fatta famiglia

 


Il fenomeno delle bande di strada in Centroamerica

Quasi una guerra

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L’America Latina è la regione del mondo con più omicidi di bambini e adolescenti: una media di 12 ogni 100mila abitanti nel 2012. El Salvador è il paese in cima alla classifica: 27 ragazzi assassinati ogni 100mila persone (circa 1.600 ogni anno). Nel solo 2015, nel paese del beato Oscar Romero, il numero di omicidi assoluto (non dei soli minori di 20 anni) è impressionante: 6.657, su una popolazione di circa sei milioni (111 persone ogni 100mila). Una delle principali cause di tanta violenza sono le pandillas callejeras: bande di strada composte da giovani delle zone più povere del paese, che hanno progressivamente assunto – anche a causa delle politiche criminalizzanti e repressive – i connotati di vere e proprie organizzazioni criminali transnazionali, con decine di migliaia di membri, principalmente in Centroamerica e negli Stati Uniti.

El Salvador è un piccolissimo stato dell’America centrale, affacciato sull’Oceano Pacifico. Le spiagge dorate, i fiori coloratissimi, il paesaggio punteggiato di vulcani. Non è un paese in guerra. Eppure, ogni giorno decine di madri seppelliscono i propri figli, spesso appena adolescenti, ammazzati da altri giovani. Se guardiamo al dato generale delle morti violente, il 2015 è andato oltre le peggiori previsioni: 6.657 corpi di ogni età riconsegnati alla terra, più del doppio di quanti ne ha inghiottiti il Mediterraneo a seguito dei naufragi di migranti, il 70% in più rispetto all’anno precedente.

Secondo il rapporto dell’Unicef del 2014, con dati riferiti al 2012, intitolato Hidden in plainsight. A statistical analysis of violence against children («Nascosto in bella vista. Un’analisi statistica sulla violenza contro i bambini»), l’America Latina e i Caraibi sono la macro-regione con il più alto tasso di vittime di omicidio, sia rispetto alla popolazione generale che ai minori di 20 anni. In vetta alla classifica troviamo proprio il paese del beato Oscar Romero. In quel territorio più piccolo della regione Lombardia, e con 4 milioni di abitanti in meno, la violenza sembra aumentare di anno in anno: nel solo mese di gennaio 2016, infatti, si sono registrate già 738 uccisioni.

Migliaia di membri in Centroamerica

La guerra tra bande di strada, le cosiddette pandillas, o maras, è probabilmente la causa principale di un numero così alto di morti e di una presenza tanto intensa della violenza. Per quanto il fatto che non vengano quasi mai compiute indagini approfondite, e che raramente queste sfocino in un processo, fa sì che non vi siano dati certi per distinguere gli omicidi attribuibili alle pandillas da quelli che derivano da altre forme di criminalità, senz’altro presenti e non trascurabili, le bande costituiscono certamente il più importante problema criminale e sociale del paese.

Sono due le organizzazioni più estese: la Pandilla Barrio 18 (conosciuta anche come Mara 18th street, M-18) e la Mara Salvatrucha (MS-13). Entrambe nate negli Usa, ora sono presenti soprattutto in El Salvador, Honduras e Guatemala. In questi tre paesi dell’America centrale, i membri delle due gang sono stati stimati nel 2012 dall’Unodc complessivamente in 54mila1. Ottomila membri del Barrio 18 e 12mila della MS-13 nel solo El Salvador, cioè 323 mareros ogni 100mila abitanti. Se una città come Torino fosse in El Salvador ne conterebbe circa 2.800. Lo stesso Unodc, nel 2007, stimava i membri delle due maras nel Salvador in 10.500 unità: nel 2012 erano quindi raddoppiati rispetto a soli cinque anni prima.

Attività criminali

Le attività criminali principali delle maras, oltre agli atti di violenza che spesso sfociano nell’omicidio di mareros avversari, sono l’estorsione ai danni di imprenditori locali, di compagnie di autobus, di semplici cittadini, spaccio di droga, furti, rapine, omicidi su commissione.

Benché siano state scoperte collaborazioni tra pandilleros e organizzazioni del narcotraffico latinoamericano, esse non sembrano essere determinanti, e in ogni caso, in quelle circostanze, i membri delle gang svolgono generalmente il ruolo di «semplice» manovalanza.

Il fenomeno è divenuto talmente preoccupante da indurre il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti a definire per la prima volta, nell’ottobre 2012, la Mara Salvatrucha un’organizzazione criminale transnazionale, inserendola in una lista nella quale compaiono anche Camorra, Yakuza (la mafia giapponese), Brothers’ Circle (organizzazione con base in paesi dell’ex Unione Sovietica, coinvolta nel traffico di droga), Zetas (uno dei maggiori cartelli messicani della droga): «MS-13 è composta da almeno 30mila membri in una serie di paesi, tra cui El Salvador, Guatemala, Honduras e Messico – si legge nel documento dell’US Treasury Department -, ed è oggi uno dei gruppi criminali più pericolosi e in rapida espansione nel mondo. MS-13 è attiva negli Stati Uniti, con almeno 8.000 membri […]. La natura criminale di MS-13 si può riscontrare in uno dei suoi motti, “Mata, roba, viola, controla” (“uccidi, ruba, stupra, controlla”). Sul fronte interno, il gruppo è impegnato in molteplici reati, tra cui omicidio, estorsioni, traffico di droga, traffico di esseri umani, prostituzione. […] Le cliquas (gruppi) locali della MS-13 prendono direttive da leader residenti all’estero […]. Il denaro generato dai gruppi locali negli Stati Uniti viene mandato alla leadership del gruppo in El Salvador».

Allo stato attuale è difficile trovare dati attendibili circa il numero di mareros nel mondo e la loro diffusione nei diversi continenti, sembra certo, tuttavia, che il fenomeno non si sia espanso al di fuori di quello americano. Nonostante si senta parlare di tanto in tanto di bande di latinos presenti anche in alcune città europee e italiane – è noto il caso del gruppo di giovani che nel giugno 2015 hanno assalito con un machete il controllore di un treno in Lombardia -, non è stato trovato alcun loro legame diretto con le organizzazioni del Centroamerica. Le gang del nostro continente non sono affiliazioni della MS-13 o della M-18. I gruppi presenti in Italia che assumono il nome delle bande salvadoregne si ispirano a esse, ne assumono certamente alcuni caratteri, ma non sono cliquas e non ricevono ordini da El Salvador.

Annalisa Zamburlini


Dalle strade di Los Angeles al Centro America

Vivere e morire per la banda

Le due più grandi e pericolose pandillas si chiamano Barrio 18 e Mara Salvatrucha. In guerra tra loro e con le istituzioni dei paesi in cui sono diffuse, sono responsabili di molti crimini, tra cui migliaia di omicidi. Gli Usa, paese in cui sono nate e da cui sono state esportate in Centro america negli anni ‘90, le considerano delle vere e proprie organizzazioni criminali transnazionali.

Nate dal disagio di fasce di popolazione emarginate, crescono grazie all’ingiustizia strutturale presente in quei paesi. I loro membri, spesso volontari, a volte reclutati con la forza, sempre sono costretti a rimanere: pena la morte.

La loro diffusione pare inarrestabile, tanto più quando la si vuole fermare con la repressione.

C’è stato un tempo in cui «pandilla» e «mara» significavano semplicemente gruppo o combriccola. Da qualche decennio, nel cosiddetto «triangolo Nord centroamericano» (El Salvador, Guatemala, Honduras), questi termini si sono trasformati nel nome proprio di un fenomeno sociale di proporzioni e drammaticità inaudite. Le celebri Pandilla Barrio 18 (il cui nome è dovuto al luogo di origine, la 18^ strada di Los Angeles) e Mara Salvatrucha MS-13 (probabilmente da mara – gruppo -, salva – salvadoregni -, e trucha – astuti -, seguito dal numero con cui si era denominata l’alleanza delle pandillas latinoamericane del Sud della Califoia), sono le due gang più grandi e pericolose, a cui se ne aggiungono altre: Barrio 18 Revolucionarios e Barrio 18 Sureños, la Pandilla Mao Mao e la Mara Mirada Loca.

Origini statunitensi

Fin dagli inizi del ‘900 gli Usa furono meta di immigrazione per molti messicani, a cui seguirono, nella seconda metà del secolo, migliaia di centroamericani in fuga da povertà, repressione politica e guerre. Nelle città di destinazione (in particolare Los Angeles), i migranti vivevano in quartieri marginali e sovraffollati ed erano vittime di discriminazione sociale e lavorativa. Spesso gli adulti, costretti a lavorare molte ore al giorno, trascuravano la cura dei figli, che passavano tutto il loro tempo in strada. Questi giovani, gravati dalla povertà e dall’esclusione sociale all’interno di una società materialista e relativamente benestante, erano molto meno inclini dei loro genitori ad accontentarsi della sopravvivenza. Tra le «risposte» che essi svilupparono per far fronte alla condizione di emarginazione, vi furono i gruppi di strada, in spagnolo chiamati pandillas o maras.

Erano semplici gang composte da giovani latinos che si riconoscevano in un’identità comune (la nazionalità o la lingua, il modo di vestire, la musica ascoltata, ecc.). Negli anni ’80 due grandi bande assunsero il predominio sulle altre: erano la Pandilla Barrio 18 (in origine composta prevalentemente da messicani) e la Mara Salvatrucha (MS-13), formata da salvadoregni.

La rivalità tra le due bande nacque, per ragioni difficili da rintracciare, nei primi anni ’90, quando iniziò una feroce guerra che ha provocato fino a oggi decine di migliaia di vittime.

Deportazioni in massa

Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 gli Stati Uniti decisero di fronteggiare la violenza e la delinquenza causate dalle gang giovanili rimpatriandone in massa i componenti. In particolare, dopo che El Salvador pose fine alla guerra civile con la firma degli accordi di pace del gennaio 1992, il Servizio per l’immigrazione e la cittadinanza (The United States Immigration and Naturalization Service), attraverso la Violent Gang Task Force, intensificò l’attività di identificazione e rimpatrio degli immigrati con precedenti penali. Nel 1996 il Congresso approvò una nuova e più restrittiva legge sull’immigrazione, che portò al rimpatrio di decine di migliaia di centroamericani. Le conseguenze di quella legge si registrano tutt’oggi: secondo il Dipartimento della sicurezza intea degli Stati Uniti, le persone con precedenti penali arrestate all’interno degli Usa ed espulse verso altri paesi, in particolare El Salvador, Honduras, Guatemala e Messico nel 2013 è stato di 110.115 unità.

Il fenomeno delle espulsioni negli anni ‘90 riguardò persone che spesso avevano vissuto gran parte o tutta la loro vita negli States. Queste, arrivate nei loro paesi d’origine, si trovarono di fronte a un mondo estraneo, che tentava faticosamente di rialzarsi dopo decenni di violenze politiche, militari e sociali, con istituzioni fragili e altissimi livelli di povertà e disoccupazione. Privati della possibilità di inserirsi positivamente nel nuovo contesto sociale, i pandilleros nordamericani portarono in El Salvador, Honduras e Guatemala il loro stile da gangster di strada e, con esso, la rivalità tra le due grandi maras, la MS-13 e la M-18. Nel tempo, le due bande si sono trasformate in reti transnazionali (che collegano i tre paesi centroamericani e gli Usa), alle quali appartengono migliaia di piccole cellule locali chiamate cliquas.

Vita da pandilleros

Le due grandi pandillas si assomigliano per organizzazione e regole di condotta. Entrambe infatti prevedono un violento rito d’ingresso (i ragazzi in genere subiscono un pestaggio da parte dei membri della gang, le ragazze invece possono scegliere se subire un pestaggio o uno stupro di gruppo), in entrambe viene attribuito ai nuovi membri un nome nuovo, entrambe hanno un rigido codice comportamentale, basato sull’obbedienza, il rispetto per il gruppo e la solidarietà tra i membri. Le due maras si contrappongono l’una all’altra e la fedeltà al gruppo esige che i propri membri attacchino e, se possibile, uccidano gli avversari.

Abbiamo chiesto a Jorge González Méndez, cornordinatore dell’area Studio e ricerca dell’Unità di Giustizia minorile della Corte Suprema di Giustizia di El Salvador, quale sia il codice di comportamento vigente all’interno delle pandillas. La sua risposta non ammette mezze misure: «Semplicemente vivere e morire per la banda. Una volta che la persona è accettata all’interno della pandilla, uscie è estremamente difficile, se non impossibile. L’adesione e la fedeltà al gruppo devono essere totali. Non bisogna inoltre dimenticare che la pandilla, per molti ragazzi, sostituisce la famiglia: è l’unico ambiente in cui trovano solidarietà, mutuo aiuto, protezione, senso di appartenenza e legame con un territorio». Valentina Valfré, project manager di Soleterre Onlus, con l’amarezza di chi ha visto le bande inghiottire alcuni ragazzini inseriti nei progetti dell’Ong commenta: «È facile reclutare adolescenti che non hanno famiglia o che vivono una situazione di grave marginalità […]. Abbandonare la banda significa condannarsi a morte: se non ti uccidono i tuoi compagni lo faranno quelli della banda avversaria».

La banda come famiglia

Quali sono le ragioni che spingono verso la pandilla? In El Salvador, Honduras e Guatemala l’ingiustizia strutturale, che fu tra le principali cause delle guerre civili, è ancora lontana dall’essere sanata. Periferie urbane fatte di baracche, flagellate dalle calamità naturali e prive dei servizi indispensabili, e campagne poverissime e arretrate, con strade impraticabili, fanno da contraltare a quartieri lussuosi, centri commerciali luccicanti, auto di grossa cilindrata e resort esclusivi. La povertà, l’elevato tasso di disoccupazione, le difficoltà nell’accesso all’istruzione superiore (basti pensare che in El Salvador vi è una sola università pubblica, con tre sedi, a fronte di decine di università private, troppo costose per i figli dei campesinos), gli elevatissimi livelli di violenza intrafamiliare, l’ingente numero di gravidanze precoci e di madri che crescono i figli da sole, senza un compagno (situazioni dovute anche alla perdurante cultura machista), costituiscono l’incubatrice sociale del fenomeno delle bande e della loro escalation violenta. La cliqua, cioè il sottogruppo locale che fa capo alla grande pandilla, diventa la nuova famiglia, capace di rispondere al profondo bisogno di appartenenza, identità e protezione proprio di ogni persona, soprattutto se adolescente.

Reclutamento forzato

Non tutti i pandilleros però si avvicinano spontaneamente alle bande, spinti dal fascino della vida loca e dai bisogni materiali e sociali. Uno degli aspetti più drammatici del fenomeno riguarda il reclutamento forzato di bambini e adolescenti, che costringe interi nuclei familiari a spostamenti all’interno del paese o a migrare all’estero, nel tentativo di proteggere i propri figli.

Un elemento estremamente interessante della vida pandilleril riguarda i tatuaggi: fin dall’epoca statunitense, le pandillas ricorrono ai disegni sulla pelle per suggellare l’appartenenza alla banda. Jorge González spiega: «I tatuaggi indicano l’appartenenza alla pandilla, e solo coloro che hanno superato il rito di iniziazione della banda possono utilizzarli. Ogni banda ha i suoi simboli e i suoi disegni. In passato, il viso e il petto tatuati indicavano che la persona aveva conseguito particolari meriti all’interno del gruppo. Oggi – spiega González – la pratica dei tatuaggi sta diminuendo, in quanto i pandilleros hanno un maggiore bisogno di passare inosservati». Infatti, da quando l’appartenenza stessa a una banda può portare all’arresto, i poliziotti e i militari sono soliti fermare i giovani per strada, immobilizzarli e sollevare loro le magliette per verificare l’eventuale presenza dei disegni incriminanti.

Convivere con le pandillas

Terrore, rassegnazione, rabbia. Sono questi i termini che descrivono la situazione di chi vive nei territori controllati dalle pandillas, di quelli che i mareros chiamano «civili», mutuando il linguaggio bellico. Nella maggior parte dei casi la gente non riesce a opporsi al potere della banda, che impone le proprie regole per esercitare le sue attività criminali. Solo raramente la popolazione di un quartiere o di un villaggio riesce a resistere all’infiltrazione delle bande o a contenee le pretese di dominio.

Lo strapotere delle maras, la loro guerra aperta con le autorità, il clima di insicurezza, spingono ogni anno migliaia di persone ad abbandonare il proprio luogo di residenza. Accanto a coloro che cercano rifugio in altre zone del paese o all’interno del Centroamerica, vi sono migliaia di altre persone che intraprendono il pericoloso percorso migratorio verso gli Stati Uniti e il Canada, pur sapendo che l’attraversamento del Messico e l’ingresso illegale negli Usa li esporrà alla violenza dei trafficanti, agli interessi di organizzazioni criminali tra le più pericolose al mondo, e di autorità pubbliche corrotte, e al rischio del rimpatrio.

Responsabili, ma non di tutto

Secondo Jorge González Méndez, le stime dell’Unodc sul numero di pandilleros presenti in El Salvador sono troppo ottimistiche, e ci dice che altre parlano di circa 60mila membri (su una popolazione di poco superiore ai sei milioni di abitanti: un pandillero ogni 100). Quali che siano le stime più attendibili, si tratta comunque di numeri impressionanti. Essi tuttavia non possono in alcun modo giustificare la criminalizzazione e stigmatizzazione dell’intera popolazione adolescente e giovane, di fatto portata avanti dai mezzi di comunicazione e da gran parte delle forze politiche. Allo stesso modo, è semplicistico ed errato attribuire l’intera responsabilità della violenza in El Salvador alle maras, facendone un capro espiatorio per tutti i problemi del paese.

Gli effetti delle politiche di «mano dura»

A partire dal 2003, in El Salvador, il fenomeno delle pandillas è stato affrontato attraverso le cosiddette politiche «di mano dura», e provvedimenti legislativi repressivi, che prevedevano l’inasprimento delle pene e permettevano arresti di massa di giovani delle aree urbane marginali.

Tali provvedimenti non accompagnati da alcuna politica sociale, insieme alle massicce campagne mediatiche criminalizzanti, non hanno raggiunto l’obiettivo desiderato, e hanno anzi favorito un processo di cambiamento e aggravamento del fenomeno. Gli arresti di massa costrinsero i mareros a nascondersi, isolando ulteriormente le cliquas dal resto della società. Il forte clima di sospetto nei confronti di chiunque fosse vicino, anche solo in apparenza, a una mara, rese ancora più difficile l’integrazione sociale dei giovani provenienti dalle comunità marginali, e pressoché impossibile il reinserimento degli ex pandilleros. L’incarceramento di molti compagni e capi rafforzò la coesione e l’organizzazione delle pandillas, sia all’interno delle carceri, sia all’esterno. Anche la solidarietà nella cliqua divenne più forte: i pandilleros in libertà si organizzarono per aiutare i compagni detenuti, foendo loro beni e denaro, e ostacolando le indagini e i processi attraverso le minacce ai testimoni. Aumentarono quindi le necessità economiche e la strutturazione dei gruppi, spingendo le pandillas a «professionalizzare» la loro attività criminale, soprattutto nell’ambito delle estorsioni. Inserendosi nel commercio della droga e prestando la propria manovalanza come sicari, le bande hanno decisamente superato – ma non annullato – l’aspetto simbolico della violenza (affermare il proprio dominio sulla pandilla rivale e sul territorio), acquisendo i tratti tipici dei gruppi criminali organizzati. L’inserimento della MS-13 nell’elenco delle organizzazioni criminali transnazionali da parte del Dipartimento del Tesoro degli Usa ne è in qualche modo la certificazione.

Dalla tregua all’escalation

I due governi di sinistra, guidati da Mauricio Funes (dal 2009 al 2014), e da Salvador Sanchéz Cerén (dal 2014 a oggi), nonostante le promesse, non hanno saputo prendere le distanze dalle politiche repressive e persecutorie attuate dai governi del precedente ventennio, guidati dal partito della destra nazionalista Arena. In prossimità della fine del suo mandato, il presidente Funes tentò di arginare la violenza crescente stipulando un accordo segreto (la cosiddetta «tregua») con le pandillas. Tale patto, raggiunto con la mediazione di un militare, di un parlamentare ex-guerrigliero e di un vescovo castrense, impegnava la MS-13 e la Barrio 18 a smettere i reciproci ammazzamenti in cambio di alcuni benefici, tra cui il trasferimento di trenta capi mareros da un carcere di massima sicurezza a un istituto con un regime meno severo, dove sono consentite le visite dall’esterno, e una minore persecuzione da parte delle autorità nei territori controllati dalle bande. L’accordo non comprendeva alcun impegno, da parte delle maras, in merito all’abbandono di tutte le altre attività criminali che, grazie alla riduzione della repressione, sono quindi aumentate.

Funes, di fronte alle polemiche sollevatesi nel momento in cui l’accordo è venuto alla luce, ha più volte confermato e poi smentito il fatto, contribuendo all’inasprimento di un clima politico già aggressivo, creando sfiducia e disorientamento nei cittadini. La tregua, che ha portato a un significativo – per quanto temporaneo – calo degli omicidi e ad alcuni altri piccoli successi (ad esempio la proclamazione dei «santuari di pace», cioè di centri abitati in cui le maras s’impegnavano a non commettere crimini), si è progressivamente dissolta fino all’avvio di una recente escalation di violenza che ha fatto sprofondare El Salvador in una situazione peggiore di quella precedente.

Una situazione fuori controllo

Sempre più frequentemente le organizzazioni per i diritti umani e i media indipendenti denunciano abusi di potere di poliziotti e militari, che sarebbero responsabili dell’uccisione di decine di pandilleros o sospetti tali. Inoltre, il ritrovamento di cadaveri di affiliati alle bande, freddati nottetempo con un colpo alla nuca da distanza ravvicinata e le mani legate dietro alla schiena, ha riattivato l’allarme nei confronti dei gruppi di sterminio: formazioni criminali, eredi degli squadroni della morte attivi durante la guerra civile, composte da militari e poliziotti che agiscono al di fuori del controllo dello stato, con l’obiettivo di «ripulire» il paese dalle maras.

L’esperienza della tregua ha mostrato che non vi sono scorciatornie per la risoluzione del problema delle bande di strada. In assenza di politiche di prevenzione e reinserimento sociale capaci di offrire alternative concrete ai giovani, qualunque accordo con i leader di questi gruppi è destinato a fallire e a far aumentare il loro potere di ricatto nei confronti dello stato.

Strategie efficaci cercasi

Con la sensibilità di chi da decenni si batte per i diritti dei minori, specie se segnati dalla violenza agita o subita, Jorge González lamenta la mancanza di una politica nazionale specifica per l’infanzia e l’adolescenza, che consideri il contesto familiare e sociale in cui il ragazzo autore di reato è cresciuto, e che investa realmente e con convinzione nella prevenzione e nel recupero.

Lo studioso esperto di giustizia minorile prova a ipotizzare quali potrebbero essere le strategie politiche, sociali ed economiche utili a migliorare la situazione. Innanzitutto ci parla dei salari: «La maggior parte delle offerte di lavoro prevede il salario minimo, che non raggiunge i 300 dollari mensili. Inoltre, il “settore” che tira di più è quello del lavoro irregolare, dove non vi è nemmeno un contratto a sancire i diritti minimi e la protezione sociale. In questo scenario, le economie criminali esercitano un fascino irresistibile sui giovani privi di prospettive. Abbiamo urgente bisogno di politiche sociali che tutelino i giovani e le famiglie, aumentando significativamente i posti di lavoro regolari che diano accesso a salari rapportati al costo della vita». Un secondo ambito di intervento per Jorge González Méndez dovrebbe riguardare le forze dell’ordine: «Anche i poliziotti vanno salariati meglio, affinché siano più motivati e non si facciano facilmente corrompere. L’esercito, che in questi tempi difficili è chiamato a collaborare con la polizia in compiti di sicurezza pubblica, necessita di formazione specifica».

Urge inoltre contrastare il reclutamento dei bambini da parte delle bande: «Le scuole devono essere difese e bisogna proteggere i bambini nel percorso casa-scuola-casa». Altra priorità riguarda le carceri: quelle salvadoregne (e centroamericane in generale) assomigliano più a gironi infeali che a luoghi di risocializzazione. Non si può mettere una persona in una cloaca e pensare di tirarla fuori pulita. Il livello di degrado, violenza e sovraffollamento dei centri di reclusione per adulti e minori rende difficoltoso anche il lavoro delle organizzazioni umanitarie più combattive.

Annalisa Zamburlini


I casi di gang di giovani latinos in Italia

Le pandillas a Milano

Nel giugno 2015, alla periferia del capoluogo lombardo, un gruppo di latinos ha aggredito un capotreno ferendolo gravemente. I media hanno lanciato l’allarme delle gang giovanili nelle nostre periferie. Ma, pur essendo un fenomeno da monitorare con attenzione, i gruppi in Italia sono pochi, poco organizzati e, soprattutto, non sono legati alle maras salvadoregne.

L’11 giugno 2015, un gruppetto di giovani latinoamericani che viaggiava abusivamente su un treno alla periferia di Milano ha aggredito a colpi di machete il controllore, ferendolo gravemente. Secondo le indagini, gli assalitori appartengono alla Mara Salvatrucha. Questo triste episodio ha fatto riaccendere i riflettori sulla radicazione delle bande latinoamericane in alcune città europee, in particolare Milano, Genova, Roma, Napoli, Barcellona e Madrid. Si tratta di un arcipelago di raggruppamenti (Latin Kings, Latin Forever, Trinitarios, Netas, MS-13, Barrio 18, Comando, e altri), spesso organizzati sulla base del paese di provenienza (Ecuador, Perù, Bolivia, Repubblica Dominicana, El Salvador), eterogenei per livello di strutturazione e coesione intea, con una prevalente funzione di aggregazione identitaria e sociale, che in alcuni casi si sono resi responsabili di fatti criminosi, di diversa gravità.

Ricongiungimenti famigliari

Come spesso capita, la sovraesposizione mediatica di alcuni gruppi devianti (cioè che vengono socialmente percepiti come non rispondenti alle regole sociali condivise dalla maggioranza in un certo contesto storico-sociale) causa una percezione amplificata e distorta nell’opinione pubblica, generando uno sproporzionato allarme sociale. È quanto è capitato lo scorso giugno, ed è per questo che riteniamo importante sottolineare un primo dato, per quanto ovvio sia: il fenomeno delle bande non riguarda tutti i giovani latinoamericani presenti nel territorio italiano. Tra le migliaia di latinos che vivono nella città di Milano, solo poche centinaia, forse 150 o 200, hanno in qualche modo a che fare con esso.

Dai dati raccolti attraverso il progetto «Latinos. Interventi per l’integrazione sociale di giovani latinoamericani» – che negli anni 2010-11 ha portato alla costituzione di un tavolo di rete tra diverse realtà del milanese2 interessate dal fenomeno delle pandillas -, e dalle testimonianze di diversi ragazzi, emerge che molti membri di bande hanno alle spalle una storia di ricongiungimento familiare: l’esperienza di una migrazione difficile e molte volte non voluta.

Le vicende raccontate spesso si assomigliano: una famiglia di provenienza segnata dalle difficoltà economiche e da una figura patea assente o, comunque, marginale (come accade di frequente nelle società latinoamericane). Una madre che migra affidando alle cure dei nonni o di altri familiari i figli ancora piccoli, i quali sperimentano il loro primo grande trauma. La possibilità del ricongiungimento familiare che arriva dopo diversi anni, quando la madre si è regolarizzata. Il minore, ormai adolescente, che intraprende il viaggio per raggiungerla, a volte senza sapere che si tratta di un viaggio «di sola andata», e che viene quindi esposto al nuovo trauma del distacco dagli adulti che lo hanno cresciuto e dagli eventuali fratelli, nel caso in cui il progetto di ricongiungimento riguardi un figlio per volta.

Giunto in Italia il ragazzo si trova spesso a vivere con una madre pressoché sconosciuta, che sovente ha costituito, a volte a sua insaputa, una nuova famiglia e ha avuto altri figli. Quella madre e il padre (quando c’è) sovente sono impegnati diverse ore al giorno in lavori socialmente poco riconosciuti, vivono in piccoli appartamenti e non godono del benessere che il figlio si aspettava di trovare, illuso dal potenziale d’acquisto che nel suo paese avevano le rimesse provenienti dall’Europa.

In molti casi il ricongiungimento avviene ad anno scolastico avviato (cioè a gennaio, poiché in diversi paesi latinoamericani il calendario scolastico coincide con l’anno solare), circostanza che fa aumentare le difficoltà di inserimento del giovane, già disorientato per il fatto di trovarsi in un paese freddo, profondamente diverso dal suo, di cui non parla la lingua, in un periodo della vita, l’adolescenza, di per sé difficile.

Il vissuto di esclusione, il risentimento verso la famiglia, il bisogno di ritrovare elementi della propria «vita precedente», spingono il nuovo arrivato a cercare la vicinanza e l’affetto di coetanei che abbiano condiviso la stessa esperienza.

Fuga dal reclutamento

Una delle organizzazioni partner del Progetto Latinos è stata la Ong Soleterre Strategie di Pace, che, operando sia in El Salvador (con attività di prevenzione rivolte ai ragazzi dei quartieri più violenti, e con un difficile lavoro di sensibilizzazione e coinvolgimento delle istituzioni) che a Milano (attraverso il Centro per cittadini e famiglie migranti), ha un osservatorio privilegiato sul problema delle bande, principalmente su quelle di derivazione salvadoregna (la MS-13 e la 18). «I giovani migranti salvadoregni faticano a integrarsi anche tra i loro connazionali adulti», ci spiegano Valentina Valfrè e Chiara Lainati, rappresentanti di Soleterre, «dal momento che si sono verificati anche qui episodi di minacce e di estorsioni, la comunità salvadoregna ha timore che i nuovi arrivati siano già coinvolti con le pandillas. Inoltre, negli ultimi tempi, con l’aumentare della violenza nella madrepatria, stanno diventando più numerosi i casi di ragazzini che arrivano in Italia per fuggire al reclutamento. Seguono la strada del ricongiungimento o si appoggiano a familiari e conoscenti già emigrati, grazie anche al fatto che un cittadino salvadoregno non necessita di visto per entrare in Italia». Il Centro per famiglie migranti della Ong intercetta molti di questi giovani e, insieme ad altre realtà del territorio, li supporta anche nel lungo iter per la richiesta dello status di rifugiato, che però non sempre viene concesso.

Andrea De Liberto, giudice onorario del Tribunale per i minori di Milano, ci racconta di aver seguito anche casi di padri che, per sottrarre i figli alla violenza e al rischio di reclutamento, abbandonano il proprio lavoro e interrompono il percorso scolastico dei figli, portandoli dalla madre in Italia e chiedendo poi il permesso di soggiorno temporaneo sulla base dell’art. 31 del d.lgs. n. 286/98, che consente al genitore di restare sul suolo nazionale per assistere i figli minori.

La banda come famiglia

Trauma da migrazione, marginalità sociale, solitudine, disagio adolescenziale sono quindi tra gli elementi che spingono alcuni giovani latinos (e non solo) verso l’arcipelago delle bande. Laddove lo stato, la famiglia, la scuola, le Chiese e le altre agenzie di socializzazione non riescono ad arrivare, rischiano di svilupparsi forme di socializzazione alternativa, che possono assumere i caratteri della devianza o della delinquenza.

Eleonora Riva, psicologa transculturale e psicoterapeuta, responsabile scientifico del Centro Clinico Transculturale e Direttore del corso di specializzazione in psicoterapia Transculturale della Fondazione Cecchini-Pace di Milano, ci spiega: «Le bande rispondono a esigenze sociali, culturali, valoriali e bisogni pratici non colmati da altri enti. Il problema è che ci dimentichiamo che esse costituiscono un sistema normativo e di valori che è anche positivo. Lo stare insieme di un gruppo di spacciatori si esaurisce nell’attività criminale, le bande, invece, si costituiscono come una “famiglia”, come un gruppo sociale, rispondendo di fatto a una serie di esigenze anche formative. Se, nei confronti di un ragazzino che frequenta le bande, agiamo come se appartenesse a un qualsiasi gruppo delinquenziale, otterremo scarsissimi risultati. Uscire dalle bande è solitamente molto più difficile, per una serie di vincoli e di rischi (c’è un dazio da pagare: ad esempio, sei destinato a prendere un sacco di botte quando incontri per strada qualcuno del tuo gruppo o dei gruppi avversari), e soprattutto perché nessuno sostituisce i benefici dell’appartenenza alla banda, che risponde al bisogno di una famiglia, di valori, di riconoscimento sociale». Se è paradossale che le bande siano spesso il luogo in cui questi minori imparano per la prima volta a rispettare delle regole, il problema chiaramente è che queste non sempre coincidono con quelle della società che le circonda.

Le bande non sono tutte uguali e la maggior parte sono inoffensive

Cappellino calcato in testa, auricolari incollati alle orecchie, rosario indossato come un amuleto, pantaloni larghissimi sotto i quali nascondono un macete, felpa con cappuccio. Slang spagnolo. È questo l’identikit dei latinos che i media sono soliti presentarci ogni qualvolta si verifichi un episodio di violenza che ne vede qualcuno protagonista.

Il dott. De Liberto si oppone a questo processo di stigmatizzazione: «Come sempre, bisogna fare delle distinzioni. La maggior parte di questi giovani sono dei “disadattati” che vivono nell’eco della banda, ne riproducono certi canoni, ma non sono affatto pericolosi. Stiamo parlando di ragazzini che si fanno bevute al parco, vanno in discoteca – a Sud di Milano, in zona Corvetto, un locale molto in voga tra i latinos è il Matinè -, passano il tempo lì, soprattutto alla domenica, ma alle 10 di sera vanno a casa».

Più che di bande, in questo caso potremmo parlare di gruppi di strada, così poco strutturati – a differenza delle pandillas salvadoregne – da raccogliere anche adolescenti non originari dell’America Latina, marocchini, tunisini, ragazze slave, che sono quindi del tutto estranei alla retorica dei giovani latinos, ma dei quali condividono il malessere e il disadattamento dovuto alla condizione di adolescenti e di immigrati.

Il pericoloso «salto di qualità»

Solo in alcuni casi l’identificazione con il gruppo e lo stigma sociale portano all’assunzione di un’identità deviante che sfocia nella criminalità. «Il salto di qualità – prosegue De Liberto – si ha quando assumono un soprannome e iniziano a tatuarsi, anche in posti molto visibili come la faccia e le mani. Il tatuaggio è il segno di un’appartenenza al gruppo che si vuole esibire, che fa sentire forti ed è più importante di tutto il resto. È a questo livello che diventano pericolosi, soprattutto tra di loro: dal momento che molti di questi ragazzi non sanno nemmeno perché stanno insieme, devono eleggere un nemico, che può essere un nemico immaginario o realissimo, come la banda concorrente, verso cui canalizzare l’energia e la violenza, e dare così un senso al loro stare insieme». Questi ragazzi sono solitamente i «capi», quelli cui gli altri più giovani e meno organizzati cedono il posto in discoteca alla sera.

La dipendenza emotiva dal gruppo e l’assunzione di sostanze (marijuana, cocaina, alcol), sono fattori che favoriscono i comportamenti contrari alla legge. «La trasgressione è vissuta come una scelta di gruppo, con la tipica frammentazione delle responsabilità. In sede penale è difficile far capire loro che se in gruppo hanno rubato un cellulare, tutti hanno responsabilità, non solo chi ha materialmente afferrato l’oggetto. Nei percorsi di recupero si punta molto a potenziare la capacità di scelta indipendente, anche per aiutare il soggetto ad assumere una sua identità, che lo porti a prendere le distanze dal gruppo e, di conseguenza, ad assumere consapevolezza rispetto al reato. Spesso in quella fase riescono a mettersi dalla parte della vittima e a comprenderne il vissuto».

Niente a che fare con le bande del Salvador

L’assalto al capotreno del giugno scorso costituisce un fatto drammatico e inusuale. È infatti raro che i membri delle gang latine di Milano, anche di quelle più strutturate e con connotati più violenti, esercitino una tale violenza nei confronti di persone estranee all’arcipelago delle bande. I reati di cui solitamente si rendono responsabili verso «gli estei» sono rapine, scippi e piccoli furti, finalizzati a ottenere i soldi necessari per le feste, la birra e le sostanze stupefacenti.

Tutte le testimonianze e gli studi consultati concordano sul fatto che, diversamente da quanto avviene in El Salvador e in altri paesi latinoamericani, le bande presenti nel milanese non controllano il territorio. Le nostre città non sono spazi «vuoti», dove qualche decina di adolescenti e giovani può imporre il proprio predominio. «Agli occhi della criminalità organizzata autoctona e internazionale – commenta De Liberto -, i leader più pericolosi delle “nostre” bande sono degli strani elementi folkloristici, a cui magari vendere alcol o sostanze, ma di un livello criminale così basso che mai affiderebbero loro attività illegali o il controllo del territorio. Oltretutto, a partire dal 2012, le azioni cornordinate della Procura minorile e di quella degli adulti, basate sulle indagini e soprattutto sulle intercettazioni delle comunicazioni che i membri delle gang si scambiavano tramite messaggi, telefonate e Facebook, hanno portato a numerosi arresti, favorendo la trasformazione e il processo di involuzione delle bande». D’altra parte, non si può nemmeno affermare che questi gruppi si costituiscano sulla base di un’appartenenza territoriale: a differenza delle pandillas latinoamericane, dove la dimensione del barrio (quartiere) è molto forte, le aggregazioni latine milanesi sono formate da giovani che abitano in parti diverse della città e che si riuniscono sulla base di una condivisione simbolica e valoriale.

La connessione tra le bande made in Milan e quelle radicate nei paesi latinoamericani e negli Stati Uniti è molto labile: «Si tratta di un involucro esterno – ci spiega ancora De Liberto -. Non sussistono legami criminali, anche perché da noi il controllo criminale del territorio c’è già. Le bande assumono la parvenza delle pandillas, legata alla ritualità, ai tatuaggi, al bere, ai codici di comportamento (ad esempio il pestaggio, la punizione per chi vuole andarsene, ecc.), ma non si può certo pensare che gli ordini arrivino da oltreoceano».

Offrire percorsi alternativi

Partiamo da un dato di fatto: le bande a Milano sono in declino, soprattutto nell’ambito minorile. In una società in rapida trasformazione, anche le forme del disadattamento e della marginalità sociale sono destinate al mutamento.

Dal fenomeno delle bande però possiamo trarre alcune indicazioni, certo non inutili di fronte all’attuale emergenza migratoria che sta portando nelle nostre città giovani ancora più traumatizzati, spaesati e soli dei figli dei lavoratori provenienti dall’America Latina.

Eleonora Riva, ripensando ai giovani dei gruppi di strada che ha seguito, insiste su un punto che ci pare cruciale, quello delle alternative che la nostra società è in grado di offrire loro. «La famiglia non c’è o è molto problematica; la scuola, che fa fatica ad accogliere i bambini stranieri nati in Italia, spesso non è in grado di farsi carico delle esigenze dei ragazzi immigrati già grandicelli. Entrare a far parte di una banda significa acquisire una famiglia su cui poter contare, permette un’appartenenza che la biologia e la migrazione non hanno concesso. I nostri servizi falliscono quando mettono il minore davanti a questa opzione: o esci dalla banda e sei solo, o rimani nella banda e finirai in carcere. Molti scelgono la banda perché sanno che questa, a differenza dei servizi sociali, non li abbandonerà, provvederà ai loro figli mentre loro sono in carcere, e all’uscita offrirà loro un posto dove andare. Lavorare con le bande è più difficile che affrontare altri tipi di delinquenza, nei quali se esci dal giro, o se vieni arrestato, ti ritrovi senza amici. Le bande non ti abbandonano, se le lasci sei tu il traditore.

La prevenzione e il recupero avranno possibilità di successo quando offriranno opportunità concrete e accessibili, che tengano conto della situazione di svantaggio di questi ragazzi e della loro cultura, che non perpetuino quella che noi psicologi chiamiamo violenza strutturale, cioè il fatto che gli “ultimi” hanno meno possibilità di accedere alle risorse, di determinare il proprio percorso di vita, di raggiungere gli standard di prestazione richiesti per ottenere i benefici che la scuola, il mondo del lavoro, i servizi sociali, che sono basati su un sistema premiale, offrono».

Il richiamo all’accessibilità dei contesti che offrono forme di socialità alternativa alle bande è molto forte anche nelle parole del giudice De Liberto: «Una politica sociale preventiva deve passare dalle scuole (soprattutto quelle dell’obbligo), dagli oratori, dai centri di aggregazione giovanile, dove devono esserci persone capaci di ascoltare il disagio di questi ragazzi e di proporre attività di bassa soglia, dove sia facile entrare e partecipare, e che non richiedano grandi competenze, soprattutto linguistiche. Bisogna impegnarsi per prevenire la ghettizzazione dei nuovi arrivati, evitare che incorrano subito nello stigma e quindi si rivolgano al leader latinoamericano che è qui da più tempo e si è costruito un’autorità. Di formule educative di questo tipo, di cui si contano già esperienze positive, non possono che beneficiare anche molti ragazzi italiani, che con alcuni loro coetanei stranieri condividono la solitudine, il vuoto e la noia…».

Annalisa Zamburlini

 

NOTE

1) U.N. Office on Drugs and Crime, Transnational organized crime in Central America and the Caribbean: a threat assessment, 2012.

2) Il Progetto Latinos è stato cofinanziato dall’Unione europea e dal ministero degli Intei nell’ambito dei «fondi per l’integrazione di cittadini di paesi terzi». Ha visto come partner l’Associazione Comunità nuova Onlus, la Cooperativa sociale Codici, l’Associazione Soleterre Strategie di pace Ong, l’Associazione Suonisonori Onlus. Al tavolo di rete hanno aderito il Comune di Milano, il Tribunale ordinario, il Tribunale per i minorenni, il Centro per la Giustizia minorile della Lombardia, la Procura della Repubblica, la Questura, il Provveditorato regionale lombardo dell’Amministrazione penitenziaria, la sezione milanese dell’Associazione nazionale Magistrati per i Minorenni e la Famiglia, i Consolati generali di El Salvador e dell’Ecuador, l’Ufficio scolastico regionale a Milano, l’Asl, il Centro per l’Etnopsichiatria dell’A.o. Niguarda, la Cooperativa Arimo, la Cooperativa Il Minotauro.