Le nuove rotte della droga

testo di Chiara Giovetti |


Le rotte del traffico di eroina passano oggi attraverso il Kenya, in particolare nella seconda città del paese che ospita un grande porto: Mombasa. Buenaventura, in Colombia, è invece da anni uno snodo importante per il traffico di cocaina.
Le conseguenze per il tessuto sociale e l’economia sono, sia in Kenya che in Colombia, devastanti.

Nel 2018, circa 270 milioni (stima media tra i 166 e i 373 milioni) di persone nel mondo ha fatto uso di droga almeno una volta. La maggior parte (192 milioni) ha consumato cannabis, mentre in 58 milioni hanno assunto oppioidi, categoria che riunisce gli oppiacei, cioè i prodotti derivati dal papavero da oppio – utilizzati da 30 dei 58 milioni di persone – e i loro analoghi sintetici, semisintetici o alcune sostanze prodotte naturalmente dal corpo. Seguono 27 milioni di utilizzatori di anfetamine e altri stimolanti, 21 milioni che usano Mdma (comunemente detta ecstasy) e 19 milioni di persone che fanno uso di cocaina@.

Recentemente Netflix ha proposto un documentario in sei puntate che ha riscosso molto successo, The Business of Drugs@. Il documentario, condotto dall’ex agente della Cia, Amaryllis Fox, raccoglie le testimonianze dirette non solo di esperti e studiosi, ma anche di vittime delle dipendenze, di spacciatori, di coltivatori e di altre persone che a vario titolo lavorano nel traffico di stupefacenti. Mostra anche come sono cambiate alcune rotte del traffico di droga in relazione a nuovi conflitti che hanno interrotto i percorsi precedenti.

Due delle puntate parlano di eroina e cocaina e dei centri nevralgici dei rispettivi traffici: il Kenya, e in particolare la città e il porto di Mombasa, e la Colombia, con il grande porto di Buenaventura.

Fort Jesus a Mombasa

Kenya il nuovo crocevia mondiale dell’eroina

L’eroina non viene prodotta in Kenya ma principalmente in Asia centromeridionale, specialmente in Afghanistan, dove il trenta per cento del Pil è legato alla produzione del papavero da oppio che dà lavoro a circa 600mila afghani.

Si tratta di un mercato in espansione, segnala il responsabile per l’Africa orientale dell’Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, Amado de Andres. La produzione di eroina è pari a 10mila tonnellate – la più grande negli ultimi 20 anni – e l’utenza si sta spostando dai ceti medio bassi a quelli medio alti. Il percorso che la droga seguiva per andare dalla zona di produzione all’Europa e al Nordamerica era la cosiddetta rotta balcanica; ma negli ultimi anni, a causa dei conflitti come quello siriano e dei maggiori controlli di frontiera legati all’arrivo dei migranti, quella rotta non è più sicura per i trafficanti che per questo si sono rivolti all’Africa orientale, specialmente al Kenya, con il suo porto di Mombasa, e alla Tanzania.

La posizione geografica di questi paesi africani ne fa una sorta di crocevia planetario da dove – approfittando dello scarso controllo del territorio da parte delle forze di polizia – la droga può essere poi facilmente distribuita nel resto del Continentea e negli altri.

Il Kenya, continua Amado de Andres, è il paese ideale anche perché è stabile dal punto di vista politico, finanziario e commerciale, e ha una buona infrastruttura informatica che permette ai trafficanti di comunicare in modo efficace da un continente all’altro per coordinare il trasporto e anche il pagamento della merce, per il quale utilizzano la hawala, un sistema informale di scambio di denaro – riconosciuto dall’Islam – basato sulla fiducia delle persone, che permette di effettuare pagamenti senza effettivamente muovere denaro, rendendolo così praticamente impossibile da tracciare@.

Il trasporto della droga, spiega de Andres, avviene su barche che si chiamano dhow, normalmente utilizzate per pescare e dotate di un frigo a una estremità. Nel vano che ospita il frigo si può introdurre e trasportare fino a una tonnellata di eroina.

Ma queste barche non possono avvicinarsi troppo alla costa per non rischiare di essere intercettate dalla polizia, perciò si avvalgono della collaborazione di imbarcazioni più piccole, che prelevano il carico e lo trasportano in punti meno sorvegliati della costa. Spesso si tratta di persone locali, pescatori keniani che spinti dalle grosse somme di denaro offerte loro dai trafficanti, accettano di aiutarli a scaricare e trasbordare la droga.

Uno dei metodi usati per il trasporto dell’eroina verso destinazioni esterne all’Africa, prosegue il racconto di Fox, è quello dei «container umani»: persone che inghiottono ovuli e prendono un volo per la destinazione dove la droga sarà venduta. Salim, uno degli intervistati, riporta che il trasporto di cento grammi permette di guadagnare mille dollari.

L’impatto sui giovani e sull’economia

Nella terza puntata del documentario, Fox incontra e intervista uno spacciatore – che ha il viso coperto e usa il soprannome di Mr. K – nella zona dove è nato e vive, cioè Kibera, il più grande degli slum di Nairobi.

Mr. K confeziona dosi di eroina raccogliendo da un mucchio di polvere bianca una quantità sufficiente a coprire mezza lametta da barba e facendo poi scivolare la sostanza in una cartina argentata che provvede a chiudere ripiegandone i lati. Una dose così si vende per tremila scellini, circa trenta dollari, e per acquistarla questo ragazzo kenyano paga fra i mille e i 1.500 scellini. In una baraccopoli dove lo stipendio medio è tra i 25 e i 40 dollari al mese, considera Amaryllis Fox, vendere eroina permette davvero di «svoltare».

Mr. K racconta che la prima volta che ha venduto eroina ha preso 50mila scellini (500 dollari). Non aveva mai guadagnato così tanti soldi. I clienti, continua, sono «nigeriani che stanno in prigione, cinesi, bianchi, ragazzini ricchi».

A cercare di contrastare un fenomeno che sta dilaniando la gioventù kenyana, dice Fox, si stanno impegnando politici come Mohamed Ali, un ex giornalista che nei suoi articoli si occupava della diffusione dell’eroina, che è stato fra i primi a definirla un’emergenza e che, per questo suo lavoro di informazione e denuncia, è stato eletto come parlamentare@.

Lui e il giornalista John-Allan Namu, definiscono la città di Mombasa uno stato mafioso e non esitano a segnalare infiltrazioni nella polizia e il coinvolgimento di alcuni politici che «aiutano i signori della droga a venderla o trasportarla nel paese».

Le organizzazioni attive sul campo

L’arrivo dell’eroina in Kenya lo ha reso un paese non solo di transito, ma anche di consumo. Giorno per giorno, questa trasformazione è resa evidente «dall’aumento delle le zone dove i giovani vanno per comprare droghe e farne uso e anche dalla maggior propensione dei ragazzi a farsi coinvolgere in attività criminali», conferma Agnes Mailu, programme coordinator di Solidarity with girls with distress (Solgidi), un’organizzazione legata all’arcidiocesi di Mombasa che assiste ragazze in difficoltà@.

Il documentario mostra la visita della conduttrice a una delle zone di Mombasa, un cimitero, dove i tossicodipendenti vanno per iniettarsi eroina. Qui, i volontari di un’organizzazione chiamata Muslim education and welfare association (Mewa) vanno a incontrare i tossicodipendenti cercando di dare loro assistenza, ad esempio fornendo loro siringhe nuove in cambio di quelle usate, e di coinvolgerli in un percorso per disintossicarsi.

«Oltre a Mewa», scrive padre Zachariah Kariuki, vice superiore dei missionari della Consolata in Kenya, «ci sono altri centri di recupero, anche pubblici, come il Centro di Miritini, controllato dal governo della contea» o il Reach out center, Teens watch, Coast general referral hospital, aggiunge Anges, e collaborano tutti con Nacada, l’Autorità nazionale per la campagna contro l’abuso di alcool e droghe@.

«Le autorità», continua padre Kariuki, «stanno tentando di affrontare la situazione creando i centri di recupero o dotando i centri di salute di punti nei quali coloro che cercando di disintossicarsi possano trovare metadone. Anche i tribunali fanno del loro meglio e i servizi di intelligence sono impegnati a dare la caccia e perseguire i narcotrafficanti. Ma quello della droga è sempre un ambito rischioso e corrotto». «Le persone che vendono droga sono note», conferma Anges, «ma attraverso la corruzione il problema è stato normalizzato». E normalizzato, in questo caso, non significa eliminato, ma piuttosto incluso nella normalità.

La parrocchia dei missionari della Consolata a Likoni, Mombasa, segnala padre Zachariah, sta tentando di dare il proprio contributo realizzando un programma di formazione e sensibilizzazione con i giovani in modo da ridurre il loro rischio di esposizione alle droghe, che stanno penetrando anche nella scuola. «È chiaro», continua il missionario, «che i signori della droga usano i giovani della zona di Likoni per spacciare ai loro coetanei e li pagano per farlo. Succede di sentire di ragazzi prelevati a scuola dalla polizia perché coinvolti nello spaccio».

Coca in fiore

Colombia narcotraffico, un’idra a tante teste

Lavorazione delle foglie di coca per ottenere la pasta basica per fare la cocaina (foto Giacinto Franzoi)

Nel 2017, racconta Fox nella prima puntata del documentario, la produzione di cocaina è aumentata del 25% rispetto all’anno precedente, raggiungendo le duemila tonnellate. I consumatori, lo ricordiamo, sono stimati in circa 19 milioni nel mondo; negli Stati Uniti sono raddoppiati negli ultimi sette anni.

Rodrigo Canales, professore associato di comportamento organizzativo presso l’università di Yale, spiega che il prezzo della cocaina è rimasto piuttosto stabile (intorno ai cento dollari al grammo) negli ultimi venticinque anni perché la competizione fra gli operatori del mercato di questa sostanza non si gioca sul prezzo della merce ma piuttosto sulla capacità di garantire una produzione stabile e affidabile.

Dopo la distruzione del cartello di Pablo Escobar all’inizio degli anni Novanta, ricorda il generale di brigata dell’esercito colombiano, Hernando Flores, «non c’è più un unico cartello padrone di tutto». Ma questo ha creato un problema nuovo, cioè il fatto che il narcotraffico in Colombia ora assomiglia a un’idra: tagliata una testa, cioè un cartello, ne sorgono subito tante altre.

Ci sono 82mila famiglie colombiane che dipendono dalla coltivazione della coca per sopravvivere; coltivano illegalmente 400mila ettari di suolo pubblico perché non possono permettersi di comprare terreni. La raccolta della coca – così racconta un lavoratore di una piantagione a due ore e mezza di auto dalla città portuale di Buenaventura, sulla costa centro meridionale della Colombia – frutta fino a 300mila pesos al giorno, circa 90 dollari, per chi riesce a raccogliere sei sacchi di foglie.

Porto di Buenaventura, ricchezza per pochi

Quello di Buenaventura è il principale porto colombiano: invia merci verso 300 destinazioni, gestisce intorno al 60 per cento dell’import export colombiano, movimenta fra i 300 e i 500 container al giorno e genera un gettito fiscale pari a 1.8 miliardi all’anno.

Ma il grosso della popolazione della città non beneficia per nulla della ricchezza generata dal porto: povertà e diseguaglianze sono chiaramente visibili nelle strade e nei quartieri di tutta Buenaventura. Due persone su tre sono disoccupate, oltre la metà non dispongono di acqua potabile e l’ottanta per cento vive sotto la soglia di povertà.

La giornalista Natalia Herrera, che accompagna Fox in un giro della città, spiega che i bambini a cinque anni sono già in strada, esposti alle gang criminali e al narcotraffico. A dieci anni sono spesso già attivi come «sentinelle» che aiutano le gang a evitare la polizia, guadagnando per questo «servizio» 100mila pesos, circa 32 dollari americani.

A prelevare la cocaina nei punti che i trafficanti indicano loro, a nasconderla – ad esempio all’interno di pupazzi di peluche – e a trasportarla al porto, sono invece spesso giovani disoccupati. «Guadagno due milioni di pesos», spiega un ragazzo con il volto coperto che parla con Fox mentre ricuce il peluche dove ha inserito i pacchetti di coca. Sono circa 650 dollari, una cifra che quest’uomo guadagnerebbe in due mesi se facesse un altro lavoro. «Ho più paura dei narcotrafficanti che della legge», ribatte il giovane al commento dell’intervistatrice su quanto sia pericoloso fare quello che fa. «La polizia ti mette in galera, ma se commetti un errore per strada muori».

Il duro lavoro di chi si oppone

La violenza che accompagna il narcotraffico lascia bambini senza genitori, uomini e donne senza i loro compagni e, oltre che sul piano umano, nelle famiglie, gli effetti si avvertono su quello economico.

«Ci sono fondazioni che lavorano per combattere la violenza causata dal traffico di droga», scrive padre Lawrence Ssimbwa, missionario della Consolata di origine ugandese che da anni lavora a Buenaventura. «La più conosciuta è FudescodesFundación espacios de convivencia y desarrollo social@, creata da un sacerdote redentorista» e impegnata in programmi come Mujeres rompiendo silencio (Donne che rompono il silenzio) che danno sostegno e formazione alle donne che hanno perso il compagno e che devono ora provvedere da sole ai bisogni della famiglia.

«Anche la Chiesa cattolica è molto impegnata nel denunciare il traffico di droga e la violenza», continua padre Lawrence, «e per questo sia il precedente vescovo, monsignor Hector Epalza Quintero, sia l’attuale, monsignor Rubén Darío Jaramillo Montoya, hanno ricevuto minacce di morte da parte dei trafficanti di droga».

Il paro civico, cioè lo sciopero organizzato nel maggio 2017 dalla società civile di Buenaventura e durato 22 giorni, ha portato a una serie di accordi con il governo che prevedono un milione e mezzo di pesos in investimenti per migliorare la sanità, l’educazione e l’accesso all’acqua per la popolazione della città. Un ulteriore effetto delle proteste, ricorda ancora padre Lawrence, è stato l’elezione a sindaco di Víctor Piedrahita Vidal, che è uno dei fondatori del movimento che ha organizzato il paro civico.

Tuttavia, chiarisce il missionario, nonostante una maggior presenza delle forze militari nei quartieri, la violenza non è diminuita così tanto come si sperava. «Ogni settimana, nei quartieri, si sente di qualcuno che è stato ucciso o è sparito e ci sono ancora estorsioni e rapine sostenute da trafficanti di droga».

«La guerra alla droga è costata dieci miliardi e mezzo di dollari solo in Colombia», segnala Amaryllis Fox. «Mezzo milione di colombiani sono morti e lo scorso anno la quantità di cocaina trasportata è stata la più grande di sempre».

Chiara Giovetti




Ri-animare l’economia

testo di Maria Gaglione |


Migliaia di giovani economisti, imprenditori e promotori di cambiamento da 120 paesi s’incontreranno a fine marzo ad Assisi per fare un patto per un nuovo modello economico.

«Cari amici, vi scrivo per invitarvi ad un’iniziativa che ho tanto desiderato: un evento che mi permetta di incontrare chi oggi si sta formando e sta iniziando a studiare e praticare una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda».

Papa Francesco apre con queste parole la sua lettera, firmata il 1° maggio 2019, memoria di san Giuseppe lavoratore, indirizzata ai giovani economisti e imprenditori di tutto il mondo per invitarli ad Assisi dal 26 al 28 marzo 2020.

«Occorre “ri-animare” l’economia! E quale città è più idonea per questo di Assisi, che da secoli è simbolo e messaggio di un umanesimo della fraternità? Se san Giovanni Paolo II la scelse come icona di una cultura di pace, a me appare anche luogo ispirante di una nuova economia. Qui infatti Francesco si spogliò di ogni mondanità per scegliere Dio come stella polare della sua vita, facendosi povero con i poveri, fratello universale. Dalla sua scelta di povertà scaturì anche una visione dell’economia che resta attualissima. Essa può dare speranza al nostro domani, a vantaggio non solo dei più poveri, ma dell’intera umanità».

È un appello a radunarsi per stipulare un patto nel segno del Santo di Assisi e del Vangelo che egli visse in totale coerenza anche sul piano economico e sociale, e nel segno della Laudato si’, la lettera enciclica nella quale lo stesso papa ha denunciato lo stato patologico di tanta parte dell’economia mondiale e ha invitato a mettere in atto un modello economico nuovo.

Comunione, fraternità, equità

Nella Laudato si’, papa Francesco sottolinea come oggi, più che mai, tutto è intimamente connesso, e la salvaguardia dell’ambiente non può essere disgiunta dalla giustizia verso i poveri e dalla soluzione dei problemi strutturali dell’economia mondiale. «Purtroppo – scrive Francesco nella lettera per l’evento di Assisi – resta ancora inascoltato l’appello a prendere coscienza della gravità dei problemi e soprattutto a mettere in atto un modello economico nuovo, frutto di una cultura della comunione, basato sulla fraternità e sull’equità. […] Mi vengono in mente le parole rivolte a Francesco dal Crocifisso nella chiesetta di san Damiano: “Va’, Francesco, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”. Quella casa da riparare ci riguarda tutti. […] Ma ho pensato di invitare in modo speciale voi giovani perché, con il vostro desiderio di un avvenire bello e gioioso, voi siete già profezia di un’economia attenta alla persona e all’ambiente.

Carissimi giovani, io so che voi siete capaci di ascoltare col cuore le grida sempre più angoscianti della terra e dei suoi poveri in cerca di aiuto e di responsabilità, cioè di qualcuno che “risponda” e non si volga dall’altra parte».

Portatori di una cultura coraggiosa

All’appello del papa hanno risposto migliaia di giovani da oltre 120 paesi. Sono dottorandi di ricerca, giovani ricercatori e professori (di economia, management, filosofia, sociologia, teologia), imprenditori, dirigenti di azienda, startupper, innovatori sociali, promotori di progetti e attività al servizio del bene comune. Si occupano di ambiente, risorse naturali, consumo responsabile e stili di vita, produzione, innovazione, lavoro, finanza, sviluppo, povertà, uguaglianza, educazione, intelligenza artificiale e nuove tecnologie.

Stanchi di un sistema in cui non si riconoscono, sono portatori di una cultura coraggiosa capace di realizzare altri modi di intendere l’economia e il progresso e vogliono essere parte di un processo di cambiamento globale. Aspettano di vivere l’incontro di Assisi come occasione di confronto e di relazione con altri giovani e sperano di poter condividere l’esperienza con e per le comunità e i paesi a cui appartengono.

Civiltà della gratuità

Francesco d’Assisi era figlio di un ricco mercante borghese, ed era giovane quando decise di lasciare le ricchezze di suo padre e di dedicarsi alla sua vita nuova.

Vandana Shiva / © Maritza Ríos / Secretaría de Cultura CDMX

All’alba di ogni autentica vocazione, c’è sempre la tappa della spoliazione. Arriva quando la persona chiamata capisce che deve operare un «reset» della propria esistenza: ripartire da zero, perché sta rinascendo.

Quando il carisma francescano ha fatto irruzione nella storia, con esso ha fatto la sua comparsa anche una nuova concezione della ricchezza e della povertà. Essa ha operato una vera rivoluzione culturale che avrebbe poi portato alla nascita dell’economia moderna: infatti, non solo furono francescani alcuni tra i più importanti teorici dell’economia medioevale, ma dai francescani dell’Osservanza nel XV secolo nacquero i Monti di Pietà, protobanche civili, i primi istituti di microfinanza nati senza scopo di lucro per curare la povertà e l’usura nelle città del centro Italia.

Dalla povertà scelta liberamente dai francescani nacquero, dunque, istituzioni per liberare dalla povertà chi non l’aveva scelta, ma subita. «Finché c’è un povero – dicevano i francescani – la città non può essere fraterna».

Quel gesto, dunque, fu l’atto di nascita di una oikos-nomos diversa, di un nuovo «governo della casa», fu la genesi di un regno dove la moneta è la charis.

Quella prima gratuità fece nascere un’economia e una civiltà che ha liberato e continua a liberare milioni di poveri. Solo chi conosce la gratuità, infatti, può dar vita a nuove economie, perché essa dà il giusto valore al denaro e ai profitti, e alla vita.

Un carisma che ha posto al proprio centro «sorella povertà», il distacco dai beni, diventa la scuola economica dalla quale emergerà in seguito il moderno spirito dell’economia di mercato.

Protagonismo giovanile

Nel nostro mondo oggi continua a esserci un infinito bisogno di gratuità e fraternità. Papa Francesco lo sa molto bene e affida ai giovani la costruzione di una nuova economia: l’economia di Francesco.

«Le vostre università, le vostre imprese, le vostre organizzazioni sono cantieri di speranza per costruire altri modi di intendere l’economia e il progresso, per combattere la cultura dello scarto, per dare voce a chi non ne ha, per proporre nuovi stili di vita – continua il papa nel suo messaggio -. Finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale».

«The Economy of Francesco» sarà dunque un incontro internazionale con un grande protagonismo del pensiero e delle prassi dei giovani.

E di giovani è composto anche il gruppo di economisti, imprenditori, artisti ed esperti della comunicazione che sta lavorando per la preparazione dell’evento insieme a un comitato scientifico internazionale coordinato dall’economista Luigino Bruni, professore ordinario alla Lumsa.

Insieme ai migliori cultori della nuova economia

Luigino Bruni / © Sybrig Andringa

«Insieme a voi, e per voi, farò appello ad alcuni dei migliori cultori e cultrici della scienza economica – prosegue il papa nella sua lettera di maggio scorso -, come anche a imprenditori e imprenditrici che oggi sono già impegnati a livello mondiale per una economia coerente con questo quadro ideale».

A questo appello hanno risposto  in molti: economisti e imprenditori di fama internazionale che accompagneranno i giovani nei giorni dell’evento, anche attraverso sessioni interattive e colloqui personali, approfondimenti di storie ed esperienze.

Tra essi Amartya Sen, economista e filosofo indiano, premio Nobel per l’economia 1998, Vandana Shiva, attivista e ambientalista indiana, tra i principali leader dell’International forum on globalization, Stefano Zamagni, docente di economia all’Università di Bologna, presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, Kate Raworth, economista inglese che lavora per l’Università di Oxford e l’Università di Cambridge, senior associate all’Istituto per la leadership della sostenibilità di Cambridge, e altri.

Ridisegnare il sistema

Prof Muhammad Yunus

Fra i primi a rispondere, Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese, ideatore e realizzatore del microcredito moderno e Nobel per la pace: «The Economy of Francesco è un esempio globale che può ispirare persone in tutto il mondo, riguarda il modo in cui la vita, per i poveri, può essere cambiata – ha dichiarato -. Dobbiamo capire che la povertà è creata dal sistema economico che abbiamo costruito. Perciò il sistema va orientato, perché sta producendo povertà a dismisura, ogni giorno. Dobbiamo rivedere tutto e cercare l’origine della povertà. Tutta la ricchezza del mondo è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione, mentre il 99% dipende da quell’1%. Questo è totalmente inaccettabile. Abbiamo bisogno di dare vita a un’economia circolare che non distrugga continuamente la ricchezza globale. Dobbiamo farlo, dobbiamo progettarla e proteggere l’ambiente perché siamo nel bel mezzo di un disastro che va fermato.

Di questo discuteremo nel prossimo marzo, di come ridisegnare il sistema e di quale ruolo possono avere i giovani. I ragazzi hanno un enorme potere, grandi capacità e incredibili strumenti tecnologici fra le mani. Se fissano un obiettivo, possono cambiare il mondo molto rapidamente. È ciò che papa Francesco sta provando a fare: riunire i giovani, lanciare loro la sfida del cambiamento perché il nostro mondo sta affondando, sta soffrendo e va ripensato. Così andremo nella direzione di costruire un pianeta bellissimo per tutti, non solo per pochi fortunati. Vogliamo cogliere l’opportunità di ridisegnare l’economia e poter dare un contributo importante al welfare».

Far parte del cambiamento

Jeffrey Sachs / Overseas Development Institute_flickr

Anche per Jeffrey Sachs, economista e saggista statunitense e direttore dell’Earth institute alla Columbia University, The Economy of Francesco è «un evento per dare vita a una nuova economia globale che sia equa, prospera e sostenibile sotto il profilo ambientale. Il lavoro che verrà fatto ad Assisi sarà rivoluzionario, stimolante per tutto il mondo e costruttivo per le future generazioni. I giovani stanno urlando “vogliamo un cambiamento”, scioperano per la salvezza del clima, dicono “il nostro mondo non può continuare a essere maltrattato” come adesso. Vogliamo pace, cooperazione, sostenibilità ambientale, giustizia. I ragazzi di tutto il mondo stanno dicendo che la Economy of Francesco mostrerà, attraverso dibattiti e decisioni, come tutto ciò può essere realizzato. Io ci sarò in quei giorni perché abbiamo bisogno di una nuova economia, una nuova visione, e gli insegnamenti di papa Francesco contenuti nell’enciclica Laudato si’ e in altri scritti ci aiutano a tracciare il sentiero verso un mondo migliore, più felice, sostenibile ed etico. Rappresentano una spinta a far parte del cambiamento che garantirà più felicità per tutti».

Un patto solenne

Non sarà un congresso tradizionale, dunque, ma l’avvio di un processo che consenta di pensare e domandarsi, sulle orme e nei luoghi di Francesco d’Assisi, cosa significa oggi costruire un’economia nuova che non emargini nessuno.

Sarà soprattutto il momento in cui i giovani stringeranno un patto solenne con papa Francesco, assicurando il proprio impegno: «Per questo desidero incontrarvi ad Assisi, per promuovere insieme, attraverso un patto comune, un processo di cambiamento globale che veda in comunione di intenti non solo quanti hanno il dono della fede, ma tutti gli uomini di buona volontà, al di là delle differenze di credo e di nazionalità, uniti da un ideale di fraternità attento soprattutto ai poveri e agli esclusi. Invito ciascuno di voi a essere protagonista di questo patto, facendosi carico di un impegno individuale e collettivo per coltivare insieme il sogno di un nuovo umanesimo rispondente alle attese dell’uomo e al disegno di Dio».

La ventinovesima scena

Solo quando san Francesco si avvicinò ai più poveri, al suo tempo rappresentati soprattutto dai malati di lebbra, egli rafforzò l’amore che avvertiva dentro e che lo sollecitava a operare per la carità.

Visitando il meraviglioso ciclo giottesco sulla vita del santo di Assisi si scopre, però, che il solo episodio che manca in quelle ventotto scene, è proprio il bacio di Francesco al lebbroso a Rivotorto, un episodio centrale e decisivo nella vita del poverello e del francescanesimo.

La scena non è entrata in quel ciclo pittorico, forse perché i borghesi di Assisi, finanziatori della basilica, non volevano che il mondo ricordasse la presenza dei lebbrosi nella loro città.

I ricchi possono anche donare molto denaro per i poveri, ma in genere non li vogliono vedere: i lebbrosi sono scarti della storia e della narrazione stessa di quella storia.

La prima povertà di molti è l’invisibilità, il fatto di non essere visti e raccontati.

«The Economy of Francesco», dunque, ci aiuterà a restituire al mondo la 29esima scena: le fragilità e le povertà di oggi, osservate e chiamate per nome, e incluse nella vita, nell’economia e nella storia, con l’attenzione e le risposte che meritano.

L’ecologia francescana sa intuire una fraternità cosmica, perché il primo fratello che ama è il povero scartato. Quando papa Francesco scelse di intitolare Laudato si’ la sua enciclica sull’ecologia e sull’economia ci ha ricordato che il Cantico delle creature inizia con l’abbraccio al lebbroso e che l’economia circolare, green, sostenibile, assomiglia all’economia di Francesco solo se inizia dagli ultimi di oggi.

Maria Gaglione


Un evento,molti eventi

L’evento «The Economy of Francesco» ha prodotto in tutto il mondo un gran numero di altri eventi che nei mesi scorsi hanno radunato e fatto riflettere migliaia di persone da Lisbona a Vienna, da Palermo a Bergamo, in Brasile, Spagna, Colombia, Corea del Sud, Perù, Camerun, Usa, Polonia.

Organizzati a livello locale o regionale, sotto forma di workshop, laboratori, seminari di studio, conferenze, promossi da organizzazioni, movimenti, associazioni, università, imprese, gruppi informali, sono nati dall’esigenza di ascoltare e valorizzare il pensiero e l’agire economico dei giovani attraverso l’incontro e il dialogo tra economisti e imprenditori a partire dal messaggio di papa Francesco.

Sito

www.francescoeconomy.org




Calcio giovanile: spaccato di vita

Tdsto e foto di Marco Bello


Lo sport è un passaggio importante nella vita di bambini e i giovani. In un’epoca in cui tecnologia digitale e videogiochi tendono a tenerli sempre più fermi e con poche relazioni «vere» tra di loro. Il movimento del calcio giovanile in particolare, maschile e femminile, vive un momento di espansione nel nostro paese. Tuttavia, i comportamenti di alcuni allenatori, dirigenti di società sportive, giovani calciatori, e, soprattutto, di molti genitori, rischiano di sporcare questo fenomeno importante per la crescita individuale.

Davide Nicola, già calciatore professionista e dal 2010 allenatore di serie A, ha al suo attivo molte vittorie. Non ultima il famoso gol con la maglia del Torino che riportò i granata nella serie maggiore alla fine della stagione 2005-2006. E poi la scommessa vinta come allenatore, nella stagione 2016-2017, di mantenere il Crotone in serie A. Per celebrare questa vittoria Nicola ha compiuto un viaggio in bici da Crotone a Vigone (To), la sua città, percorrendo oltre 1.300 km e passando quasi tutte le città in cui ha lavorato come calciatore o allenatore.

Lo sguardo magnetico, che porta quasi a soggezione, in contrasto con un approccio sempre accogliente verso l’altro, fanno di Davide Nicola una persona carismatica. Sempre attento alla formazione dei giovani, nel 2010 ha fondato una società di calcio giovanile, la Vicus 2010. Parla chiaro, con una voce profonda.

Davide, perché l’idea di co-fondare una società sportiva per il calcio giovanile?

«È stato in seguito a una richiesta del comune di Vigone, che aveva il progetto di riportare un settore giovanile del calcio in città, con l’obiettivo di offrire un servizio sociale in primis, e poi, dal momento che per me è un lavoro, dare un’impronta professionistica. L’idea era creare un settore giovanile che potesse contare su valori tecnici e umani. Insieme a mia moglie Laura Profumo e agli amici Carlo Bruno e Mauro Giaveno siamo partiti per scherzo 10 anni fa, e devo dire che ci siamo appassionati tutti a questa impresa. La mia storia personale parte da Vigone, sono arrivato al professionismo da un settore giovanile di questa città, e quindi, per me c’è anche una sorta di romanticismo».

Qual è l’importanza di uno sport di squadra nell’educazione dei bambini e degli adolescenti?

«Una delle chiavi con le quali ho accettato questo incarico, era di costruire qualcosa che potesse dare ai miei figli, perché essi sono in questo settore giovanile, e ad altri ragazzi, la possibilità di costituire una palestra formativa per la crescita individuale. L’idea è far capire che lo sport è una necessità, indipendentemente dal fatto che si faccia calcio o altro, perché al suo interno c’è lo spaccato della vita, tutto quello che è confronto, competizione sana, possibilità di stare in un ambiente sentendosi a proprio agio. Non quegli ambienti che diventano nocivi e poco propedeutici alla crescita, alla formazione tecnica e umana di una persona, ma un ambiente che concorra a dare quegli strumenti che serviranno poi per la vita. Da questa premessa abbiamo costituito i vari settori per la formazione, dividendoci i compiti. Io personalmente mi occupo di lavorare insieme ai tecnici, che abbiamo cercato di far crescere, permettendo loro di arrivare al patentino che riconosce loro la possibilità di lavorare con dei giovani, e li mette nella condizione di sapere con chi stanno lavorando e perché.

Il profilo umano diventa per noi fondamentale, cerchiamo cioè quella capacità che ha una persona di donare se stessa in funzione della crescita di un’altra persona. È chiaro che le ambizioni personali in questo contesto devono essere esclusivamente orientate alla formazione del giovane calciatore. Dal punto di vista tecnico la scelta dei formatori è basata sulla capacità di riconoscere i vari passaggi delle categorie. Perché per ogni età ci sono obiettivi tecnico-tattici di formazione, ma anche obiettivi psicologici. Un giovane calciatore di 6 anni non è un giovane calciatore di 14 e se questo non è riconosciuto dal formatore si rischia di fare qualche pasticcio».

Quali valori dovrebbe trasmettere l’allenatore-formatore?

«Sono innanzitutto valori legati a una crescita individuale, ovvero portare progressivamente il giovane alla consapevolezza per quanto riguarda fare il calcio. Indipendentemente dal fatto che un ragazzino possa avere più abilità o possibilità di arrivare a settori giovanili professionistici, piuttosto che un giovane si riscopra a 20-25 anni a giocare esclusivamente per piacere con gli amici, l’addestramento tecnico deve essere uguale.

Dal punto di vista tecnico-tattico la conoscenza di tutto ciò che serve per giocare a calcio, a partire dal dominio della palla, la consapevolezza degli spazi, dall’aspetto cognitivo di ciò che accade in una partita. Dal punto di vista della formazione umana, la capacità di riconoscere che uno sport di squadra ti permette di capire che cosa significa cooperare davvero con un compagno, al fine di raggiungere un obiettivo o un risultato comune. Ti permette di avere come banco di prova un ipotetico avversario, che cerca di impedirti di raggiungere i tuoi obiettivi. Tutto questo si deve trasformare nella consapevolezza del giocatore che deve sapere cosa fare in campo, e riconoscere le difficoltà che lo sport pone, nella capacità di non demordere mai, di continuare a perseverare anche quando non si riesce a raggiungere immediatamente qualcosa, perché non sempre si ottiene “tutto e subito”. Non ci sono scorciatoie, è un messaggio che deve essere chiaro. Il percorso di un giovane calciatore non bypassa tutto ciò che è l’aspetto formativo, bisogna conquistarsi tutto con grande fatica e dedizione.

Allo stesso tempo però c’è anche la consapevolezza che cooperando in un sistema sociale, io ho delle responsabilità e chi lavora o gioca con me ha delle responsabilità. Abbiamo dei diritti e dei doveri e tutto questo fa parte di quello che è lo spaccato della società».

In questi ultimi dieci anni, hai visto dei cambiamenti nei giovani, che oggi paiono sempre più legati agli strumenti elettronici e ai videogiochi, con il rischio di isolarsi?

«Nella storia dell’uomo c’è stata un’evoluzione della comunicazione, di noi stessi come persone, dovuta a molte conquiste, non solo individuali, ma della società. Inevitabilmente è cambiato anche il modo di comunicare con i nostri ragazzi. Io non so dire se l’utilizzo dei social e della tecnologia possa aver portato a un miglioramento o un peggioramento della persona, perché secondo me è presto per dirlo. Certo ha portato un cambiamento sia nelle relazioni, sia nella capacità che oggi abbiamo di avere a disposizione tutto e subito. Inoltre di sicuro arrivano molti più input rispetto a quelli che avevamo noi alla loro età. Bisognerebbe capire, attraverso la psicologia del comportamento e l’evoluzione dell’apprendimento, se effettivamente la tecnologia inibisca l’espressione e la creatività del percorso formativo dei ragazzi.

È fondamentale porsi delle domande: quanto sono utili questi strumenti, perché sono utili, come vanno usati? Non devono togliere al ragazzo la possibilità di esprimere le proprie emozioni, mettendoci la faccia, attraverso un continuo confronto con la persona che ha davanti. L’assenza di mimica facciale, della comunicazione non verbale, è una semplificazione, perché non gli fa provare delle emozioni, ma allo stesso tempo non impara a riconoscerle e a gestirle.

Un cambiamento che ho notato, è che oggi i nostri ragazzi sono molto indaffarati, hanno molte attività, ricevono e subiscono molti stimoli. Sicuramente l’evoluzione del nostro cervello non è stata così veloce come è stata quella della tecnologia, quindi c’è il rischio che loro si difendano da tutti gli input che ricevono. Mille attività che li fanno arrivare allo sport non sempre pronti a scaricare le loro energie e pulsioni giovanili sane. Questo perché si richiede loro molto impegno in tutte le direzioni».

Le derive del calcio giovanile, spesso create dai genitori, con i loro commenti e i loro litigi, con risvolti che scadono, oltre che nella maleducazione, talvolta nel razzismo. Può gettare del discredito sul calcio giovanile?

«Forse non basterebbe un’intera puntata di talk show su questo tema. Ci sono persone molto più competenti di me. Di sicuro la deriva del calcio giovanile è in evoluzione come tutto il resto. Noi purtroppo, come movimento, abbiamo dimostrato delle pecche, ma il movimento è costituto da persone, quindi i comportamenti dipendono dai singoli. La società sportiva, ha un impatto più importante rispetto a una singola persona, quindi quando passa un messaggio, riconosciuto negativo, che diventa un comportamento accettato, è molto difficile poi non solo discriminarlo, ma anche riuscire a cambiarlo. Perché allo stesso tempo tutti noi, tendiamo a costituire un gruppo, come la società, e quindi riconoscerci in esso, con tutti i messaggi che vengono passati. Ci sono state diverse manifestazioni in cui gli addetti ai lavori si sono fermati e hanno cercato di analizzare determinate tematiche. Ad esempio, è un errore che il calcio giovanile, a mio modo di vedere, sia paragonato al calcio degli adulti. Intanto è diverso lo sport calcio dallo sport come professionismo, perché quest’ultimo è sottoposto alle logiche economiche per cui diventa un lavoro, e in questo ci sono valori che talvolta sono in contrasto. Nel professionismo può capitare che si passi un messaggio legato al rispetto, al fair play riguardo all’avversario, ma poi in gioco ci sono degli interessi economici elevatissimi, e non sempre si è coerenti nel promuovere un valore e poi dimostrarlo nella realtà.

Invece quando si parla di calcio giovanile dovremmo mettere al centro del progetto i giovani, per cui non conta tanto la conquista di un risultato, che ci deve essere, ma di una crescita individuale. Non solo in funzione di un risultato che può essere fine a se stesso: posso vincere una partita ma magari non ho conquistato un miglioramento individuale. Per i ragazzi questo è determinante. Io non potrei allenare dei ragazzi adesso, perché la mia ambizione non è quella di raggiungere una certa crescita per i ragazzi, ma è legata ad altri obiettivi, come arrivare a una determinata vetta nella carriera, o rappresentare una maglia, o conquistare un risultato per dimostrare un percorso. Ma quando si lavora con i giovani, tutto questo è secondario, anzi probabilmente non esiste neanche, diventa prioritario e fondamentale concentrarsi sul ragazzo e porsi due domande: a che punto è come livello di conoscenza e dove lo voglio portare? E poi seguire insieme a lui un percorso. E la vittoria vera è il raggiungimento di questo obiettivo di crescita. Il risultato è poco importante. Anche se una delle difficoltà più grosse con i ragazzi è insegnare loro ad essere competitivi senza perdere di vista la soddisfazione, qualora non raggiungessero il risultato, di aver comunque raggiunto un buon livello di crescita».

La società sportiva deve farsi vedere garante di certi valori, rispetto al pubblico?

«Sì, questa dovrebbe essere l’idea e molti operano in questo senso, però il mondo in cui viviamo è tale per cui spesso abbiamo comportamenti diversi. Siano essi i comportamenti di alcuni genitori, che dovrebbero avere chiaro qual è il percorso per i loro ragazzi, sia esso il comportamento di certi allenatori, dirigenti o società sportive. È utopia pensare che si arriverà a mettere al centro del progetto la crescita individuale di ogni singolo giocatore? A me vengono in mente diversi esempi di comportamenti eccessivi in partite del settore giovanile locale, per le quali non ci sarebbe da scaldarsi tanto, eppure è come noi scimmiottassimo quello che ci sta sopra, a certi livelli e lo volessimo portare nel mondo dei giovani. Quando poi, se guardi una partita di calcio di piccolissimi, se non ci fosse l’arbitro, non ci fossero i genitori, o qualcuno che li addestri a comportarsi con una certa malizia, loro non ci arriverebbero neanche. Penserebbero esclusivamente al piacere del gioco e a manifestare se stessi, in un ambiente che forse, senza presunzione, allora sì che sarebbe sano».

A un giovane o una giovane che avesse l’ambizione di diventare professionista cosa diresti?

«Intanto quando parliamo di movimento calcistico parliamo di persone, senza differenza di sesso. Direi che per prima cosa tutto parte da una passione. Non posso dare un consiglio, posso raccontare la mia storia. Io ho iniziato a giocare a calcio per una passione incredibile. Ma quando mi scopro a parlare di passione con i nostri ragazzi, mi rendo conto che se per noi è un concetto quasi immediato, con loro bisogna avere la capacità di descrivergli, anche con poche parole, cosa voglia dire. Io utilizzo un esempio semplicissimo: avete presente quando una persona fa tutti i giorni la stessa cosa e continua a farla e non si accorge del tempo che passa? Magari un’altra persona la guarda e vede che fa sempre la stessa cosa. Quella è passione, qualcosa di cui non puoi fare a meno, che non ti pesa il tempo che passi a farla. Che ti risveglia dentro sempre nuove curiosità e nuovi modi di approcciarla. E non ti pesa perché ti soddisfa, ti gratifica. La passione deve essere il primo motore che spinge il sogno di un bambino. Dopo di che non dovremmo partire dall’idea voglio diventare calciatore, questo è un prodotto della società, ovvero inculcare al bambino la possibilità di diventare calciatore perché il calciatore è in vista, ha buoni guadagni, fa una bella vita. Non è così. È molto difficile che uno possa arrivare a fare questa professione. Bisogna essere molto chiari, obiettivi. Fare capire che una potenziale professione nasce da una  passione, ma anche da un percorso molto duro e non ci sono scorciatoie. Un percorso, e lo sport lo insegna bene, che ti dimostra che tante volte, nonostante tu ti sia impegnato allo spasimo, non puoi raggiungere quello che vuoi. Così come nella vita, non tutto quello che voglio fare riesco a raggiungerlo, però ho imparato a farlo e, nel percorso che ho fatto, ho appreso determinate cose, ho formato la mia personalità, ho migliorato determinate competenze, e poi il corso della vita e la mia idea mi porteranno a scoprire piano piano quello per cui sono nato».

Marco Bello


Il libro su un campione di football (e di umanità) che non si può dimenticare

Il Mozart del calcio

Un’opera prima di un appassionato di calcio, che ci porta in Austria, tra le ceneri della prima Guerra Mondiale e il Nazismo. E ci fa scoprire un eroe, grande calciatore europeo e antinazista, Matthias Sindelar. Sarebbe utile conoscerlo di più, anche per i nostri ragazzi.

È una storia d’altri tempi, intrisa di romanticismo, ma anche di realtà storiche, quella raccontata da Danilo Careglio nel suo primo romanzo «Cartavelina». Una storia dimenticata, quella di Matthias Sindelar, un grande campione del calcio, cresciuta tra le due guerre e finita con il nazismo. Sindelar, che non si volle piegare ai diktat del regime (non fece il gesto nazista a fine partita e si rifiutò di giocare nella nazionale tedesca che aveva assorbito quella austriaca), divenuto personaggio scomodo, morì in circostanze mai chiarite il 23 gennaio del ’39 poco prima di compiere il suo 36esimo anno di età.

Careglio, classe 1970, appassionato di calcio fino al midollo, è stato calciatore per vent’anni, toccando il culmine nelle giovanili del Torino. Nel 2000 ha dovuto smettere a causa di un infortunio ed è poi diventato allenatore nel settore giovanile e di prime squadre. Secondo lui Matthias Sindelar è stato «uno dei più grandi giocatori di football di tutti i tempi». «Quando ho scoperto la sua storia, ho anche visto che poco era stato scritto e detto su di lui. Così ho pensato che sarebbe stato importante colmare questo vuoto e ho iniziato a cimentarmi nel recupero di documentazione».

Sindelar, di umili origini ceche era emigrato con la famiglia a Vienna, dove viveva in un quartiere degradato. Qui è stato scoperto dalla squadra dell’Hertha Vienna, che costituiva anche buona parte della nazionale austriaca. Il suo aspetto esile ne faceva un attaccante rapido e imprevedibile, e molti dei suoi gol sono stati dei capolavori. Fu soprannominato «Papierene», cartavelina, ma anche «Il Mozart del calcio». Anche il profilo umano che viene fuori dal romanzo è quello di una persona molto equilibrata, umile e altruista, che ha saputo gestire la consapevolezza di essere un grande campione (cosa oggi assai rara). Un uomo con principi e valori non negoziabili che, per questo, si scontrerà con il nazismo e, nonostante la sua notorietà, troverà la sua fine.

Il libro di Careglio è ben scritto, avvincente nella descrizione della vita del tempo e del contesto storico, ma soprattutto racconta la storia di un eroe dimenticato del calcio europeo.

Ma.Bel.


• Cartavelina, La storia di un grande calciatore austriaco finita col Nazismo, Neos Edizioni, 2019, €16,90.




Tu, l’Eterno, in un tempo e in un luogo

Testo di Luca Lorusso


Si narra che sei venuto nella carne. Poco più di duemila anni fa. Proprio tu. Il Signore della vita. Il Creatore. Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, e di tutti i viventi.

Si narra che sei nato come tutti noi e sei stato allevato secondo la cultura e sensibilità del tempo. Tu, l’eterno, in un anno preciso, in un luogo, una lingua, una religione, un contesto irripetibile, come irripetibile è ogni contesto e ogni vita.

Si narra che sei nato da una giovane donna capace di dire un sì limitato che ha aperto orizzonti illimitati. Una ragazza capace di cantare la gioia per lo sguardo d’amore che ha sentito su di sé, per i troni rovesciati e gli umili innalzati, per la promessa ad Abramo realizzata, e non ancora, nel suo grembo.

Si narra che sei stato accolto e accudito da un falegname sognatore che ti ha salvato dal tiranno portandoti profugo in un paese straniero. Un uomo semplice e giusto, capace di leggere e affrontare la storia con occhi resi limpidi dallo Spirito.

Si narra che il cosmo intero si era predisposto a darti il benvenuto e che tu hai ricambiato l’attesa squarciando le tenebre con la tua luce.

Da quel giorno sono accaduti diversi prodigi straordinari, e molti altri ordinari, al culmine dei quali sei morto e poi risorto. Tu, Amato dell’Amante, hai riposto la morte e la vita nell’Amore. Amante a tua volta di ciascuno di noi, ci immergi nel tuo Amore perché anche noi vi immergiamo qualunque creatura incontriamo.

Buon Avvento e buon Natale da amico.

Luca Lorusso


Sulle strade del mondo e della vita

Giovani in viaggio verso l’altro e verso se stessi

Cinque esperienze dell’estate 2019 e tanto altro tutto da scoprire sulle pagine del sito di Amico

Tanzania 100

Il gruppo di Bevera (LC)

Tanzania: dono da custodire

Il gruppo di Regina delle Missioni (Torino)

1000 mondi a Galatina

Il gruppo di Galatina (LE)

Certosa: l’arte del scegliere

SìAmo viaggi!

Giovani al campo missionario del CAM di Martina Franca (TA)

 

 




Moldavia: Il riscatto passa per il ballo

Testo e foto di LUCA SALVATORE PISTONE |


La Moldavia, ex repubblica dell’Unione Sovietica, è considerata il paese più povero d’Europa. Con 3,5 milioni di abitanti su una superficie pari a quella di due regioni italiane, si sta svuotando: molti sono coloro che migrano all’estero e il paese vive di rimesse. Qui la danza è un’eccellenza, e molti giovani cercano di diventare ballerini e ballerine professionisti.

Il Collegio nazionale di coreografia di Chişinău, la capitale, è uno dei grandi motivi di orgoglio della Moldavia, il paese più povero d’Europa. Da questo istituto sono usciti ballerini che hanno calcato i più prestigiosi palcoscenici mondiali.
Le famiglie degli studenti fanno enormi sacrifici per coprire parte delle spese dei corsi. Puntano molto sui propri ragazzi, nella speranza che questi abbiano successo all’estero e che possano contribuire economicamente al loro sostentamento.

«La nostra scuola – spiega Eugen Gîrnet, da oltre vent’anni il direttore artistico del Collegio – ha un’antica tradizione, simile a quella delle altre ex repubbliche sovietiche. Siamo nati nel 1952 e da allora abbiamo formato più di 300 ballerini professionisti di danza classica e danza tradizionale moldava. Molti di loro, oltre ad aver partecipato ad autorevoli concorsi internazionali, sono stati primi ballerini in famose compagnie. Vienna, Berlino, Praga, Mosca e San Pietroburgo, solo per fare qualche esempio».

Un ballerino in casa

Il Collegio nazionale di coreografia si trova nella trafficata via Mihai Eminescu, nel pieno centro della capitale Chişinău. Un edificio spartano, in perfetto stile sovietico, in buone condizioni. L’istituto dipende direttamente dal ministero della Cultura, che provvede al pagamento delle rette degli allievi. Il percorso di studi ha di norma una durata di otto anni e copre la fascia di età dieci-diciotto anni. Una decina di studenti, tra ragazzi e ragazze, vengono ammessi annualmente al Collegio tramite audizione.

«Svetlana! Alza di più quella gamba. Quante volte te lo devo ripetere? Allora non hai imparato proprio nulla?». L’insegnante Veronika è severissima. Nessuna delle aspiranti ballerine professioniste osa fiatare durante la lezione. Sono tutte molto attente alle sue parole e sfuggono le sue occhiatacce. Si guardano al grande specchio di fronte a loro per vedere se stanno facendo i giusti movimenti alla sbarra.

In un angolo della palestra c’è un vecchio pianoforte con il quale un’anziana musicista russa, elegantissima col suo chignon alto, accompagna ogni passo di danza. Oggi il repertorio prevede Vivaldi, Mozart e Beethoven. Anna, questo il suo nome, sbuffa sommessamente quando Veronika le fa cenno di interrompere la musica per rimproverare le sue allieve. E, ancora di più, quando l’insegnante fa provare dei passi di danza moderna inserendo nello stereo un cd della cantante Beyoncé.

Eugen, il direttore, non distoglie mai lo sguardo dalla sbarra. Con una mano davanti alla bocca, parla a bassissima voce per non disturbare la lezione: «I moldavi amano molto il balletto. Anche se lo stato continua a tagliarci i fondi, lavoriamo sempre duramente e con dedizione perché svolgiamo la professione più nobile che c’è. Una volta avere in famiglia una ballerina o un ballerino era un grande onore, oltre che un modo per uscire dalla miseria. Per alcuni genitori è ancora così, ma per molti altri no. Per i propri figli preferiscono carriere più sicure come quella del medico, dell’ingegnere o dell’avvocato. Professioni che è meglio esercitare all’estero».

Fanalino di coda

Con un Pil pro capite nominale inferiore ai 2mila euro all’anno, la Moldavia si afferma come il paese più povero d’Europa. Ancora lontana dall’ingresso nell’Unione europea, questa ex repubblica dell’Unione Sovietica di appena 3,5 milioni di abitanti si sta svuotando: poco meno della metà della sua popolazione risiede infatti all’estero. In Europa occidentale, professioni umili come muratore, bracciante agricolo e, in particolar modo, badante, rendono molto di più di professioni qualificate in patria.

Sono l’Italia, la Spagna e il Portogallo le principali mete dei migranti moldavi. Tutti paesi che fino a dieci anni fa si potevano raggiungere solo se muniti di visto. Poi, con l’ingresso della Romania nell’Ue, i numerosi moldavi con origini rumene hanno cominciato a chiedere la doppia cittadinanza per usufruire dei vantaggi di un passaporto comunitario.

I mezzi di trasporto, invece, rimangono sempre gli stessi: pullmini malconci da dodici posti, spesso senza finestrini, che in due o tre di giorni no stop arrivano a destinazione. Molto contenuto il prezzo del biglietto: intorno ai 40 euro la sola andata per Milano; 55 euro per Madrid; 80 euro per Lisbona.

Un’economia di rimesse

«È del tutto comprensibile che la gente se ne vada dalla Moldavia», aggiunge Eugen. «Qui lo stipendio mensile di un funzionario pubblico con la laurea è di circa 150 euro. Un pensionato, quando gli va bene, riceve mediamente poco più di 50 euro.

Il problema grosso è che il costo della vita è quasi pari a quello dell’Europa dell’Ovest. Gli elettrodomestici, gli affitti, fare la spesa, la benzina. Tutto è carissimo. Fuori dalla Moldavia se lavori in nero o in regola puoi guadagnare dagli 800 ai 1.500 euro al mese. Buona parte di quello che intaschi lo mandi a casa per mantenere la tua famiglia. Senza le rimesse degli emigrati la Moldavia morirebbe di fame. Più di quanto già non accada».

Ricerca di nuovi talenti

Eugen, ex ballerino che in gioventù si è esibito in mezza Europa (anche in Italia, a Catania e Firenze), si vanta di avere un grande fiuto nello scovare talenti. Ogni estate, prima che le audizioni per accedere al Collegio nazionale di coreografia abbiano inizio, gira per tutto il paese a caccia di nuove promesse. Sei anni fa, nel villaggio di Trusheni, a 20 chilometri da Chişinău, incontrò Mihaela Buruiana, che all’epoca aveva dieci anni. Slanciata, gambe lunghe e caviglie fini. Il fisico di una ballerina. Le lasciò l’indirizzo della scuola. Perché non tentare un’audizione?

«Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Un signore gentile, dalla faccia buona, lasciò dei volantini all’ingresso della mia scuola. Era il direttore Eugen». Mihaela si esprime con un’eleganza pari a quella mostrata alla sbarra. «Non avevo mai mosso un passo di danza prima né la cosa mi aveva mai interessato più di tanto. Però poi mi immaginai con ai piedi le scarpette da ballerina e la sola idea mi rese felice. Tornai a casa e ne parlai con mia madre. Mi vide molto entusiasta e accettò di portarmi qui al Collegio per un provino. L’insegnante testò la mia muscolatura e disse che avevo le giuste caratteristiche per studiare danza classica e, chissà, diventare un giorno una ballerina professionista. All’inizio fu molto dura perché ero indietro rispetto alle mie compagne di corso, ma in breve tempo riuscii a recuperare e a mettermi al loro livello».

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La famiglia di Mihaela

Un’ora per andare e una per tornare. È quanto impiega Mihaela per raggiungere il Collegio dal suo villaggio e per ritornare a bordo di un autobus sempre affollato. A Trusheni, poche vie male asfaltate, la ragazza vive con la madre Elena e con il padre Anatoly in una modesta villetta su un solo piano. Anatoly è da poco tornato in patria dopo aver fatto per ventidue anni l’operaio in una fabbrica di ferro in Russia. Elena, casalinga, coltiva nell’orticello di casa poche verdure che tenta di vendere ogni mattina nella piazzetta di Trusheni. Il fratello maggiore di Mihaela fa il muratore in Portogallo e, quando può, manda qualche soldo ai genitori.

L’ospitalità della famiglia Buruiana è a dir poco squisita. Anatoly fa diverse capatine in cantina dalla quale rispunta con ogni genere di alimento sotto aceto preparato con le sue mani. Dai classici cetrioli, alle acciughe, passando per le pesche e l’anguria. E vino e brandy, sempre di sua produzione. Mostra pure un paio di cincillà, di cui ha un piccolo allevamento nel retro della casa. «Con queste bestiole ci ha confezionato una bella e calda pelliccia per me. La prossima è per Mihaela», interviene la moglie.

«A Mosca – racconta Anatoly – avevo un buon lavoro. Ma per i gravi problemi di salute di mia suocera ho dovuto fare ritorno in Moldavia. Ora lavoro in una piccola fabbrica di mattoni: faccio un turno di 24 ore consecutive e poi riposo per tre giorni. La paga è bassissima ma non ho trovato di meglio. Approfitto del tempo libero per prendermi cura delle altre bestie. Sapete, ho anche diversi polli ruspanti… Almeno un giorno a settimana vado a Chişinău a vedere la mia bambina che si allena. La osservo da una finestra perché non voglio che si distragga e ogni volta mi commuovo. È bravissima».

I fondi che non ci sono

Anatoly ed Elena sono molto orgogliosi della loro figlia. La ragazza ha già vinto un’importante competizione in Romania ed è stata la sola moldava a partecipare a un rinomato concorso a San Pietroburgo alcuni mesi fa. «Il Collegio – chiarisce Elena – è gratuito ma se uno studente vuole prendere parte a questi appuntamenti deve pagarseli da solo. Quasi tutti i nostri risparmi sono destinati ai viaggi di Mihaela, crediamo molto in lei. Purtroppo recentemente mia madre è mancata e abbiamo dovuto anche chiedere un prestito in banca per il funerale. Adesso non abbiamo soldi a sufficienza per coprire le spese di un’altra gara che si terrà tra non molto in Spagna».

Dalla sua stanza da letto, mentre fa i compiti, Mihaela sente tutto ciò che dicono Elena e Anatoly. Confida di essere molto grata ai genitori per i sacrifici che ogni giorno fanno per lei e che non perderà mai la speranza di diventare una ballerina di fama mondiale. «Per me il balletto è un’opportunità per vivere una vita migliore. Grazie al duro lavoro ho imparato ad avere molta più fiducia in me stessa. Col balletto sono cresciuta, ora capisco che la vita è piena di sfide da affrontare. Arriverà il mio momento, ne sono certa. E potrò ricambiare quanto la mia famiglia fa per me».

Luca Salvatore Pistone


ARCHIVIO MC

MC ha pubblicato un servizio approfondito sulla Moldavia nell’ottobre 2014: Danilo Elia, I sogni europei di Chişinău,
e un altro sulla Transnistria, la regione separatista, nel luglio 2014: Danilo Elia, Lenin abita a Tiraspol.




Sinodo dei giovani: Esperienze di giovani in «Missione»


Da ormai parecchi anni molte realtà in Italia propongono ai giovani di trascorrere un periodo in missione per un’esperienza concreta di incontro con il mondo. È una proposta che – anno dopo anno sta crescendo non solo nei numeri ma anche nella qualità: non è semplicemente una «vacanza alternativa», ma una proposta che mira a lasciare il segno nello sguardo con cui un giovane affronta la propria vita, anche qui in Italia.

Proprio per questo, in occasione del Sinodo che si tiene in questo mese di ottobre e ha per tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», le riviste missionarie riunite nella Fesmi, insieme a Missio Giovani e al Segretariato Unitario di Animazione Missionaria (Suam) hanno pensato di promuovere un’indagine nazionale su questo tipo di esperienze e divulgarne i risultati preliminari in occasione del Sinodo.

Giovani a Makambako, in Tanzania, agosto 2018

Per conoscere la realtà dei giovani partiti sono stati predisposti due questionari,

  • uno rivolto alle realtà che promuovono questi percorsi,
  • l’altro proposto direttamente ai giovani partecipanti,

che sono stati inviati a tutti i Centri missionari diocesani, agli istituti missionari e alle associazioni cattoliche di volontariato che in Italia promuovono esperienze, estive e non, in missione.

I primi risultati di questo censimento sono una sintesi delle risposte che 39 realtà – tra centri missionari diocesani, istituti religiosi e associazioni – hanno offerto al questionario loro rivolto.

Viene raccolta anche la voce di 106 giovani partecipanti, che hanno offerto il proprio feed-back su quanto ha lasciato loro in eredità il periodo trascorso in missione.

Va precisato che si tratta di un campione parziale senza alcuna pretesa di esaustività: sappiamo bene essere molti di più i centri missionari e gli istituti che organizzano questo tipo di proposte. Inoltre esperienze del genere sono organizzate anche da singole parrocchie in collaborazione con missionari o missionarie della propria comunità. Quanto presentato di seguito, dunque, vuole essere semplicemente un primo sguardo, nella speranza di riuscire in futuro a offrire una fotografia più completa; e non potrebbe essere anche un frutto del Sinodo su giovani e discernimento vocazionale?


Nota: va ricordato che l’Agesci invia ogni anno circa 450 giovani a fare esperienze di servizio in Africa, America Latina e altri paesi dell’Asia Minore e dell’Europa.

Agorà degli Scout a Villa Buri – Verona


Giovani in Missione: Dati significativi

Con questa premessa, presentiamo alcuni dati significativi emersi dall’indagine:

Quanti giovani in missione?

  • Nelle realtà censite il numero complessivo di ragazzi e ragazze coinvolti nelle esperienze estive promosse in missione nell’estate 2018 si aggira intorno ai 1000 giovani;
  • per molte realtà si tratta di una proposta consolidata: più della metà degli enti che hanno risposto al questionario racconta di offrire questo tipo di esperienza da almeno 10 anni
  • una stima complessiva del numero di giovani coinvolti dall’avvio delle proposte parla ormai di almeno 20.000 giovani italiani inviati in missione da queste 39 realtà.

Chi sono e dove vanno questi giovani?

  • L’età media è molto giovane: il 39% dei ragazzi coinvolti ha meno di 25 anni, solo il 26% ha superato i 30 anni
  • tra i partecipanti vi sono lavoratori (54%), studenti (37%) e giovani in cerca di un’occupazione (9%)
  • Le risposte pervenute direttamente dai giovani sono per il 71% da donne
  • per la metà dei giovani si tratta di un’esperienza unica nell’arco della propria vita. E sono comunque meno del 30% i giovani partecipanti alle esperienze del 2018 che raccontano di essere stati in missione più di due volte
  • le destinazioni abbracciano tutti i continenti con una prevalenza significativa dell’Africa (38%)
  • la durata varia a seconda delle proposte: per molti l’esperienza dura solo tre o quattro settimane, ma c’è anche chi vive in missione per alcuni mesi.

Come arrivano?

  • Pochi partono da soli: a seconda della proposta si arriva in missione in gruppo (58%) oppure insieme a una o altre due persone (34%); la dimensione comunitaria, dunque, è un fattore importante;
  • l’esperienza non arriva all’improvviso ma è solitamente preparata con cura. L’82% dei giovani parte dopo aver frequentato un cammino di preparazione; e almeno la metà dei giovani che partono lo fa al termine di un cammino che è andato avanti durante tutto l’anno precedente all’esperienza in missione
  • nel 40% dei casi, poi, anche al ritorno è previsto un nuovo percorso che continua durante tutto l’anno successivo; per far sì che l’esperienza vissuta in missione non sia qualcosa di estemporaneo, ma un tempo forte della propria vita.

Come incide l’esperienza vissuta in missione sulla loro vita?

  • A molti lascia in eredità un forte senso di responsabilità: il 69% dei giovani racconta – una volta tornato a casa – di aver scelto di assumersi un impegno in parrocchia o nella propria diocesi o in un’associazione di volontariato. Molti di questi impegni sono legati all’ambito dell’animazione missionaria in Italia. Un altro sbocco interessante per alcuni è l’impegno nel campo dell’assistenza ai migranti in Italia, nel segno della continuità nell’apertura al mondo. Più in generale c’è chi racconta di aver cambiato almeno un po’ il proprio stile di vita in Italia, di essere più attento a questioni come il consumo dell’acqua, di aver cambiato il modo di vedere tante cose
  • non mancano difficoltà di ambientamento in missione: il clima, le condizioni di vita, a volte anche lo stesso dover accettare di non essere lì per fare qualcosa ma semplicemente per condividere. Ma anche questa fatica alla fine viene riconosciuta come un dono dell’esperienza vissuta in missione.
  • emerge però chiara un’altra fatica che ha a che fare con il ritorno a casa: una volta tornati in parrocchia si fa fatica a trovare un ambiente aperto ad accogliere davvero la ricchezza vissuta in missione da questi ragazzi e ragazze. L’impressione che emerge è quella che abbiano vissuto un’esperienza che riconoscono essere stata molto ricca da un punto di vista personale, ma che fatica a far crescere intorno a sé la consapevolezza e l’apertura al mondo anche in chi è rimasto a casa. Il che – evidentemente – pone a tutti i livelli una sfida pastorale su come valorizzare meglio queste esperienze ormai così diffuse.

Nicaragua, Achuapa, agosto 1986

I FRUTTI RACCOLTI “IN MISSIONE”

Di seguito alcune frasi scritte di chi ha fatto l’esperienza “missionaria”:

«Ho imparato un modo nuovo di vedere le cose: anche casa mia, da quando sono tornato, mi sembra un mondo nuovo e diverso»

«Ho imparato che cosa vuol dire sentirsi stranieri, cosa vuol dire non essere accettati, ho conosciuto correnti di pensiero completamente diverse dalle nostre. Mi ha arricchito mostrandomi un mondo che non avevo mai visto».

«Ogni incontro, ogni realtà, ogni storia, ogni ferita… tutto è stato un dono prezioso. L’esperienza ha cambiato il mio sguardo, mi ha messa in discussione, mi ha lasciato tanto e ha fatto tanto spazio. Ha cambiato la mia vita in un modo che non mi sarei mai aspettata»

«Mi ha cambiato la percezione del tempo, delle attività da svolgere nella giornata, l’attenzione a me stessa, la preghiera quotidiana per accettare quello che non capisco. Mi ha dato una “direzione”, mi ha fatto capire quanto sia bello vivere servendo».

«Mi ha fatto comprendere l’importanza del ruolo del missionario: non è colui che fa qualcosa per l’altro, ma colui che è qualcosa per l’altro e l’altra. Mi ha aperto gli occhi di fronte al mio bisogno di amare ed essere amata e mi ha permesso di rendermi conto di come, quando non organizziamo tutto e non abbiamo la pretesa che tutto sia sotto il nostro controllo, c’è qualcuno che si sta guidando. Infine mi ha fatto conoscere una realtà molto povera, ma che ha molto da insegnare a noi oggi nel tornare a relazioni più vere e di apertura verso l’altro».

«Poter toccare con mano come si vive in questi luoghi, quali povertà e ricchezze offrono, vedere, sentire e vivere con la gente ogni giorno ti arricchisce, ti cambia, è un’esperienza che entra a far parte di te e che non puoi fare a meno di condividere con gli altri».

Kenya, agosto 2007, giovanie meno giorvani al luogo dove èstato ucciso padre Kaiser, vicino al lago Nakuru

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

  • Questi dati indicano una cosa molto chiara: queste esperienze sono una ricchezza non solo per il mondo missionario, ma anche per tutta la Chiesa e la società italiana. In questo momento storico, segnato dalla paura della diversità e dalla tentazione della chiusura, questi ragazzi e ragazze tornano dalla missione con uno sguardo nuovo sul mondo e desiderano spenderlo anche nella forma di un impegno concreto qui in Italia.
  • La Chiesa italiana si è accorta di loro? Ed è disposta a investire su questo patrimonio?
  • Anche al mondo missionario questi dati chiedono però un passo in più: l’indagine, pur con i suoi limiti, rappresenta il primo tentativo di mettere in rete questo tipo di esperienze nate e portate avanti autonomamente da ciascuna realtà. Proprio l’importanza che i giovani danno a questo tipo di esperienze non dovrebbe incoraggiare una maggiore collaborazione tra le realtà che propongono questo tipo di esperienze? Pur senza perdere nulla della specificità di ciascun ente, si potrebbero elaborare percorsi e strumenti condivisi, utili per strutturare meglio i percorsi di preparazione e i momenti proposti al rientro in Italia.
  • Le parrocchie e comunità locali non potrebbero valorizzare meglio la presenza di questi e queste giovani, con il loro vissuto?
  • Possono queste esperienze maturare in un serio processo di discernimento e diventare occasione per donare al mondo non solo qualche settimana ma tutta la propria vita? In quali forme? Sono domande che il Sinodo ci rilancia…

Fesmi, Missio Giovani, Suam
3 ottobre 2018


Questa rivista – Missioni Consolata – è parte della Fesmi, Federazione Stampa Missionaria Italiana

Testo pubblicato anche da ComboniFem

 

 

 




Giovani, missione e cooperazione: l’occasione del Sinodo

 


Dal 3 al 28 di ottobre si svolgerà la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, quest’anno dedicato ai giovani. Vediamo come questo evento può essere un’occasione di riflessione sul rapporto fra giovani, missione e cooperazione.

«Il Sinodo ha un nome lungo – I giovani, la fede e il discernimento vocazionale – ma diciamo: il Sinodo dei giovani. Si capisce meglio». Così Papa Francesco, con il linguaggio diretto che lo contraddistingue, ha indicato quello che sarà il tema su cui i vescovi riuniti a Roma si concentreranno dal 3 al 28 ottobre. «È un Sinodo», ha aggiunto il Santo Padre, «dal quale nessun giovane deve sentirsi escluso, perché è di tutti i giovani». Anche i giovani agnostici, quelli che hanno una fede tiepida, quelli che si sono allontanati dalla chiesa e i giovani atei. A tutti va prestato ascolto. Perché «ogni giovane ha qualcosa da dire agli altri, agli adulti, ai preti, alle suore, ai vescovi e al Papa»@.

Colombia

Il ribaltamento di prospettiva è evidente: per anni la Chiesa si è chiesta come parlare ai giovani, andare verso di loro, raggiungerli, coinvolgerli, in tempi in cui il loro allontanamento si è fatto sempre più evidente. «Se agli inizi degli anni 2000 il 70-80 % dei giovani si dichiarava cattolico», riporta Sara Falco sul sito di Azione Cattolica, «negli ultimi anni la percentuale è scesa al 50%. Osservando gli anni più recenti, si può notare che oggi circa il 50% di adolescenti e giovani si dicono cattolici, circa il 25% è ateo o agnostico e il restante 25% si dichiara cristiano senza altra specificazione»@.

Papa Francesco, invece, ha messo l’accento sull’ascolto, un approccio che propone sempre con forza e su tutti i temi di cui la Chiesa intende occuparsi. Anche nel documento preparatorio del sinodo del prossimo anno sull’Amazzonia, infatti, il pontefice ha sottolineato l’importanza cruciale dell’ascoltare i popoli amazzonici.

Le iniziative ideate per realizzare questo ascolto sono state diverse, a cominciare dall’incontro presinodale dello scorso marzo che ha visto riuniti a Roma 300 giovani da tutto il mondo e che ha analizzato i contributi di circa 15 mila giovani arrivati attraverso la pagina Facebook appositamente creata@.

Tanzania

Al sondaggio preparatorio avevano partecipato 221mila giovani, di cui 100.500 avevano completato il questionario. Fra questi ultimi, «il 73,9% si dichiarano cattolici che considerano importante la religione, mentre i restanti sono cattolici che non considerano importante la religione (8,8%), non cattolici che considerano importante la religione (6,1%) e non cattolici che non considerano importante la religione (11,1%)@».

Altro strumento è stato #Velodicoio@, un progetto del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile della Cei che si è proposto di «fornire uno strumento che possa essere messo a disposizione di tutti per favorire un confronto di gruppo con i più giovani su dieci tematiche specifiche: ricerca, fare casa, incontri, complessità, legami, cura, gratuità, credibilità, direzione e progetti».

Una tappa importante verso il sinodo è stato l’incontro che il Papa ha avuto con 70mila giovani da 195 diocesi lo scorso 11 agosto al Circo Massimo, a Roma@.

Durante l’incontro Francesco ha risposto alle domande di alcuni giovani, esortando tutti i presenti a non lasciarsi rubare i sogni e a non stare alla larga dai luoghi di sofferenza, di sconfitta, di morte@.

«Non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila», ha detto il Santo Padre. «Ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario per sognare e realizzare come Gesù il Regno di Dio, e impegnarvi per un’umanità più fraterna. Abbiamo bisogno di fraternità: rischiate, andate avanti!».

Costa D’Avorio

Giovani e missione, quello che c’è

Il Sinodo dei giovani avrà fin da subito uno stretto legame con la missione. Non a caso, il messaggio del Papa per la giornata missionaria mondiale 2018, anch’essa in ottobre, si intitola Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti e comincia proprio con «Cari giovani». Il messaggio sottolinea sin dalle prime battute che «ogni uomo e donna è una missione, e questa è la ragione per cui si trova a vivere sulla terra». Essere attratti ed essere inviati «sono i due movimenti che il nostro cuore, soprattutto quando è giovane in età, sente come forze interiori dell’amore che promettono futuro e spingono in avanti la nostra esistenza». «Le Pontificie opere missionarie», si legge ancora nel testo, «sono nate proprio da cuori giovani», e tanti ragazzi «trovano, nel volontariato missionario, una forma per servire i “più piccoli”».

Molte congregazioni e istituti missionari hanno saputo accogliere, negli ultimi decenni, questa spinta dei giovani a mettersi al servizio, in Italia come all’estero.

Padre Giorgio Licini racconta come il Pime ha prima osservato e poi organizzato questo istinto di solidarietà: «Era la fine degli anni Ottanta, quasi trent’anni fa, quando al Centro Missionario Pime di Milano ci rendemmo conto che un flusso spontaneo di giovani si era incamminato da anni dall’Italia verso le missioni del Pime nel mondo. Si trattava soprattutto di compaesani, amici e parenti dei nostri missionari mossi dalla curiosità e dall’affetto verso coloro che non aspettavano più al ritorno in patria, ma andavano ad incontrare là dove avevano scelto di spendere la vita». Questa presa di coscienza fu presto organizzata e strutturata da un altro padre, Davide Sciocco: «Non più partenze all’arrembaggio e fai da te, ma preparazione, contenuti, motivazioni, obiettivi. Qualcosa che lasciasse un segno indelebile e positivo nella futura vita dell’adulto». Il risultato è stato l’invio in missione di oltre duemila ragazzi in 25 anni e il racconto di queste esperienze è diventato un libro, pubblicato nel 2015 da PIMEdit@.

Inviare giovani in missione per fare esperienza diretta in campi di lavoro in Africa e America Latina era una proposta comune a tutti gli istituti missionari ed era già iniziata negli anni Sessanta con Mani tese, fondata nel 1964 proprio con il contributo di missionari di vari istituti. Campi erano organizzati dagli universitari animati da don Tullio Contiero@ da Bologna, quelli di Africa Oggi a Milano@ e tantissimi altri. I missionari della Consolata dagli anni Settanta hanno inviato alcune migliaia di giovani per questi campi dai loro centri di animazione missionaria e probabilmente altrettanti «turisti» a visitare le loro missioni, prima con Amitour e poi con i viaggi organizzati per anni da padre Adolfo De Col.

Santiago di Compostela – Spagna

Laicato missionario

Vi è poi l’esperienza del laicato missionario, grazie al quale giovani (e anche meno giovani) hanno la possibilità di intraprendere un percorso di fede nel quale la solidarietà e, di fatto, l’impegno nella cooperazione hanno un ruolo centrale.

Fra i laici missionari della Consolata un’esperienza esemplificativa è quella di due laici spagnoli che hanno vissuto per sei anni della loro vita – dai trenta ai trentasei – in missione in Roraima, Brasile. Tutti e tre i loro bambini sono nati in missione. «Sì», raccontava Luis nel settembre 2008, «vedere il nostro progetto di famiglia crescere insieme a questa esperienza in Brasile e ai missionari della Consolata è una delle più grandi soddisfazioni che gli anni di missione ci hanno dato. Essere laici e vivere da missionari tra i missionari ci ha arricchito immensamente»@.

Tante sono anche le esperienze ispirate da un sacerdote con una sensibilità missionaria che hanno preso la forma di organizzazione strutturata e laica. La Lvia, Ong di Cuneo, nasce alla fine degli anni Sessanta dall’intuizione di don Aldo Benevelli.

«Adoperava termini strani (cooperazione, solidarietà, giustizia, comunità)» racconta di lui Riccardo Botta, uno dei primi giovani volontari che si fece coinvolgere da don Aldo. «Ebbe l’intuizione di parlare chiaro in difesa dei poveri e del mondo degli ultimi, di portare all’attenzione del mondo occidentale il cosiddetto terzo mondo». Don Aldo, scriveva lo scorso febbraio Luciano Scalettari su Famiglia Cristiana, «è prima di tutto, uno dei “padri” della cooperazione italiana, quando ancora la parola cooperazione non era nel vocabolario»@. I giovani che lo seguirono abbandonarono lavoro, famiglia e carriera per dedicarsi a una lunga formazione professionale e comunitaria per poi partire alla volta di Kenya, Burundi, Senegal, Burkina Faso, Etiopia. La prima volontaria Lvia, Rosanna Cayre, arrivò a Meru nel 1967, ospitata dai missionari della Consolata, mentre è del 1972 l’arrivo del primo volontario in Etiopia, che lavorerà come insegnante nella scuola tecnica degli stessi missionari a Meki@.

A raccogliere l’eredità di queste intuizioni e a federarle è stata la Focsiv, Federazione degli organismi oristiani servizio internazionale volontario, che ha appena compiuto 46 anni e conta oggi un’ottantina di organizzazioni aderenti. Dalla sua nascita, si legge sul sito, «Focsiv e i suoi soci hanno impiegato 27.000 volontari internazionali e giovani in servizio civile».

Siamo alla rocca di Cornuda con il campo mobile dei ragazzi di prima superiore

Giovani e missione: quello che ancora manca

Le realtà di cooperazione di ispirazione missionaria hanno indubbiamente contribuito a fare da ponte fra il mondo missionario e i giovani: i ragazzi che partono, infatti, non sono necessariamente credenti ma, attraverso un percorso professionale, vengono a contatto con la missione e con i suoi valori.

Questo reciproco conoscersi, come l’impegnarsi su problemi condivisi e confrontarsi lavorando nello stesso contesto permette tanto ai giovani che partono quanto ai missionari che li accolgono di superare i cliché e di trovare un linguaggio comune. «Ho lavorato con un missionario che era proprio “avanti”, non sembrava neanche un prete!», è la frase che chi scrive ha sentito pronunciare in diverse occasioni da ragazzi che, partiti con mille pregiudizi, si sono trovati a condividere mesi di lavoro con missionari capaci di leggere il loro tempo e di reagirvi con efficacia. E di ascoltare i dubbi, le proposte, le ingenuità e le intuizioni di un giovane che voleva confrontarsi con loro.

Questo ascolto e questo confronto li ho vissuti in prima persona: «Capisco la tua rabbia di fronte a un’ingiustizia come quella di una baraccopoli», mi disse una volta un missionario della Consolata oggi scomparso, «ma non hai capito niente se pensi che centinaia di migliaia di abitanti delle bidonville dovrebbero mettersi tutti insieme e marciare armati fino al Parlamento per chiedere case decenti e strade asfaltate. Otterrebbero solo scontri e il dispiegamento dell’esercito. Quello che fanno, invece, è organizzarsi in comitati, associazioni e gruppi e lottare giorno per giorno perché un chilometro in più sia asfaltato, un quartiere in più della baraccopoli sia riqualificato, una scuola e un dispensario in più siano costruiti. E noi siamo qui – e in tutto il mondo, anche a casa – proprio per non lasciare solo in questa lotta chi chiede giustizia».

Con quel «non sembra neanche un prete» i giovani intendono indicare probabilmente qualcosa di molto simile a quello che Papa Francesco ha stigmatizzato senza mezzi termini proprio davanti ai 70mila del Circo Massimo quando ha detto: «Penso tante volte a Gesù che bussa alla porta, ma da dentro, perché lo lasciamo uscire, perché noi tante volte, senza testimonianza, lo teniamo prigioniero delle nostre formalità, delle nostre chiusure, dei nostri egoismi, del nostro modo di vivere clericale. E il clericalismo, che non è solo dei chierici, è un atteggiamento che tocca tutti noi: il clericalismo è una perversione della Chiesa».

Chissà che non sia proprio la missione la chiave di volta per reggere la costruzione di un nuovo rapporto fra i giovani e la Chiesa.

Chiara Giovetti

Argentina

 




Giovane: riconosci, comprendi, scegli…


Sei fuggito da un conflitto che ti pareva insanabile, e ti vedeva colpevole. Sei fuggito per salvare la tua vita da chi ti cercava e da te. E nella fuga hai ricevuto il sigillo della tua identità: uomo solo al quale il Dio di Abramo e di Isacco promette discendenza, terra e protezione. Uomo ferito per il quale si ritroveranno benedette tutte le nazioni della terra. Uomo colpevole, visitato in sogno da Dio, ai piedi di una scala che unisce terra e cielo.

Perché fosse la fiducia in Lui a generare la certezza di Lui, e non il contrario, ti ha incontrato nel sonno: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). E ti ha fatto rabbrividire il pensiero di quanto Dio fosse vicino, proprio a te e alla tua vita ingannata.

Sei di ritorno ora, dopo anni di fuga. Sei vicino alla terra che ti ha visto ladro e fuggiasco, e hai timore per la tua vita e per quella di chi ti è caro. Dio, che nel sogno ti aveva detto: «Io sono con te e ti accompagnerò dovunque tu andrai», ha mantenuto la promessa. E, certo, ti accompagna anche adesso, all’incontro con le conseguenze dell’antico inganno. Ti manca solo una cosa: la sua benedizione.

Sei di nuovo solo, è notte e il Signore si fa avanti. Non in sogno questa volta, ma in un corpo di uomo che lotta contro di te (Gen 32,25). Ti ferisce all’articolazione del femore, fa emergere la tua ferita profonda dalle gambe che hanno sorretto la tua fuga. Ma tu non cedi. Sai che quella lotta non prevede sconfitti, sai che incontrare l’altro e rimanere vivo è possibile. La ferita non estingue il desiderio di essere benedetto. Essa, anzi, è parte di quel desiderio, ne è conseguenza, e causa. E, alla fine, vinci. Non ti sei fatto sconfiggere dalla tua ferita, l’hai riconosciuta, lasciandola riconoscere da Dio, lasciandoti riconoscere da Dio con essa. Torni integro, finalmente. E il Signore ti benedice per ciò che sei, benedicendo per te tutte le nazioni della terra. Ora la promessa è compiuta e spunta l’alba. Rivelato a te stesso da Dio, puoi finalmente pronunciare il tuo nome, Giacobbe, e ricevere un nome nuovo, Israele, «colui che lotta con Dio» (e vive).

In questo ottobre missionario, mese del sinodo dei giovani, amico ti augura di riconoscerti, con la tua storia irripetibile, di comprendere la tua vita alla luce di una promessa che ti riguarda, di scegliere di essere, già oggi, tramite di benedizione per tutte le nazioni della terra.

Luca Lorusso

foto in CC da BostonCatholic / flickr.com




Ricordi personalissimi di 25 anni in Corea del Sud

La testimonianza di padre Paolo Lamberto dalla Corea


Padre Paolo Lamberto è partito per l’Estremo Oriente che era ancora sacerdote di primo pelo. Si è trovato in un mondo affascinante ed enigmatico che gli ha conquistato il cuore ma ha anche preso il meglio delle sue energie. Là ha imparato ad affidarsi all’unica forza che non si esaurisce mai.

Avete presente le case con i tetti ondulati e i paesaggi di quei quadri orientali in bianco e nero dove le nuvole danno il senso della profondità e tutto emana un senso di equilibrio e di pace? Ecco, questo era più o meno quello che mi aspettavo di vedere quando sono atterrato a Seul il 23 settembre del 1992. E invece, a perdita d’occhio, palazzi, palazzi e palazzi. Una foresta di cemento e traffico da far paura.

Apprendista missionario in Corea

Ad aspettarmi all’aeroporto insieme ai miei due confratelli c’era Monica. È stata la prima persona coreana che ho incontrato. Poi ho conosciuto altre due Monica e, siccome facevo fatica a ricordarne i nomi coreani, le chiamavo con nome del luogo in cui abitavano: Monica di Yokkok, di Pupyong, di Mansok. Tutte ci hanno aiutato moltissimo. E poi ricordo Jacinta, la prima presidente del gruppo dei nostri amici, piena di vita. E come dimenticare Rufina, sempre fedele ai nostri incontri ma anche per i servizi più umili? Ha avuto una vita difficile, ma anche adesso nei suoi ottant’anni, è sempre allegra e pronta ad aiutare.

Monica di Mansok è già in paradiso. Viveva a Mansok Dong, un quartiere povero della città di Inchon. I padri Diego (Cazzolato, italiano) e Luiz (Emer, brasiliano) vivevano là e lei, pur essendo un po’ disabile, li aiutava a trovare i più poveri del quartiere o i cristiani non praticanti.

Anche io ho vissuto là in tempi diversi. Qualche volta, in inverno, quando stavamo via per qualche giorno, Monica accendeva per noi il rudimentale riscaldamento a carbone della nostra casetta. Mi ricordo di quando venivano i topi in cucina e al mattino trovavamo i segni dei loro incisivi nel sapone. La cappella era un sottotetto dove si poteva stare solo seduti.
I bambini del quartiere ci visitavano spesso e c’era una bella cooperazione con i volontari di un doposcuola per i bambini svantaggiati del quartiere.

Tra le vecchiette che visitavamo ce n’era una che ci raccontava sempre di quando era scappata dalla Corea del Nord poco prima che scoppiasse la guerra.

Ricordo anche con molto affetto e gratitudine gli insegnanti di coreano che hanno faticato a insegnarmi la loro lingua per quasi due anni. Dopo un anno, appena sono stato in grado di leggere il testo della messa da solo, ho cominciato ad andare in parrocchia tutti i fine settimana. Il mio primo parroco, un sacerdote coreano, si chiamava Kim Venanzio. Mi ha insegnato molte cose sulla cultura coreana, ma mi ha anche fatto mangiare i cibi più strani che abbia incontrato nella vita: dal cane alle ginocchia di bue, da una razza, che eufemisticamente potremmo dire che sa di acido urico, a tutto ciò che si trova nel mare, a parte gli scogli.

Nella sua parrocchia ho cominciato a confessare in coreano. Un’anziana signora veniva e mi diceva: «Padre, ho saltato una messa». Ma io che non sapevo distinguere bene le sfumature della pronuncia capivo: «Padre, durante la messa mi sono mangiata una grossa pera». E un’altra: «Padre, mi sono mangiata l’orecchio» (cioè, ci sento poco). Tra me e me rimuginavo sulle strane abitudini alimentari delle nonnette coreane.

Il bello della vita comune

Padre Rafael Del Blanco, argentino, è stato uno tra i primi otto missionari arrivati qui. Intelligente e di gran cuore, era molto impulsivo, e spesso, testa e cuore non viaggiavano sullo stesso binario. Una volta ha comperato 200.000 won (circa 200 €) di pesce da un venditore ambulante. Gli abbiamo detto: «Ma Rafael, tu non mangi pesce, e qui ce n’è per 6 mesi». E lui: «Ma era un’occasione».

Con padre Benjamin (Martinez Solano, colombiano) ho vissuto per qualche anno. Una volta sono andato a trovarlo quando il nostro centro di dialogo interreligioso era ancora a Okkiltong, e con lui c’era un monaco buddista nostro amico. E lui mi ha detto: «Dai, andiamo al karaoke». E così ci siamo andati, io in clergyman e il monaco col suo abito grigio. E la gente guardava stupita lo spettacolo di un prete cattolico e di un monaco buddista che cantavano insieme in coreano. Quante discussioni teologiche ho avuto con padre Luiz Emer, ma stranamente sulle cose pratiche eravamo sempre d’accordo.

Padre Paco (Francisco López, spagnolo) veniva invece da un altro pianeta. Ci siamo aiutati molto e anche voluti molto bene. Ma una volta mi sono arrabbiato davvero con lui. Era di nuovo in ritardo per un incontro che dovevamo fare insieme. Non erano due volte, non dieci, ma sempre, e ogni volta erano almeno 30 minuti. Quanti rosari mi ha fatto dire quell’uomo. Così quel giorno non sono andato all’incontro e ho tagliato ogni comunicazione con lui. «Non ne posso più», mi sono detto, ma pregando in cappella dopo cena, ho letto queste parole: «Non lasciate che nessuna radice cattiva cresca in mezzo a voi» (Eb 12,15). Mi sono reso conto che quelle parole erano proprio per me, così quella notte l’ho chiamato al telefono, vivevamo in due comunità diverse, l’ho svegliato e ci siamo riconciliati.

Un aspetto simpatico della nostra comunità sono le vacanze estive che quasi tutti gli anni facciamo insieme. Per me le più memorabili sono state le prime, pochi giorni dopo essere arrivato in Corea. Andammo al Soraksan National Park. Io mi aspettavo qualcosa come le Alpi, dove tu cammini fino ai 3.000 metri e poi  sei solo a contemplare la natura. Ma no. Prima di salire in montagna abbiamo fatto la coda per comprare il biglietto, poi la salita e poi gente dappertutto, un bar, venditori di magliette e cibi vari. Addirittura, sulla cima dell’Ulsanbawi (una punta rocciosa alta circa 800 metri) un signore vendeva medaglie ricordo per chi era riuscito a fare tutti gli 888 scalini fino in cima. Ma la cosa più simpatica è stata che, il giorno prima di partire, siccome andavamo in montagna, padre Paco aveva raccomandato a padre Antonio (Domenech del Rio, spagnolo) e a me, appena arrivati, di portarci vestiti pesanti. Così noi due abbiamo riempito gli zaini con maglioni e giacconi come se dovessimo scalare l’Himalaya. Ma quello era il Soraksan a fine settembre e faceva un caldo boia. Un altro anno siamo andati sulle montagne del Jirisan (nel Sud della Corea tra i 1.600 e 1.900 metri di altezza). Avevamo comprato una succosa anguria da 9 kg e qualcuno aveva suggerito di andare a mangiarla in cima a qualche montagnola. Indovinate chi è stato il fortunato prescelto dalla sorte per portare l’anguria fino su? Arrivati in cima, però, nessuno aveva voglia di anguria, ed è toccato ancora a me riportarla giù.

Anche le ultime vacanze insieme sono state speciali. Avevamo preparato giochi, birra e stuzzichini per animare la prima sera, ma senza neanche accorgercene abbiamo cominciato a parlare tra noi spontaneamente e liberamente come vecchi amici che si ritrovano dopo anni, ed è stato solo verso le 2 del mattino che ci siamo allegramente resi conto che era ora di andare a nanna.

Corea, tra gioie e fatiche

Alla fine della scuola di lingua, il Signore aveva preparato per me una sorpresa e un’altra chiamata. Avevo messo tutte le mie energie nello studio del coreano ma dopo un anno e mezzo mi ritrovavo senza forze e non riuscivo più a concentrarmi. Mi ci è voluto un bel po’ a riprendermi, ma ogni due mesi rimanevo vuoto di energie per una settimana.

Dal 2000 sono stato incaricato della formazione dei nostri seminaristi coreani. Anche quello è stato un tempo bello, aiutando ognuno a crescere nella fede e nel nostro carisma missionario secondo la sua personalità. E ora i miei cinque seminaristi sono diventati sacerdoti e annunciano il Vangelo in tre continenti: Pietro Han Kyoung Ho in Corea, Martino Han Gyeong Ho in Mozambico, Giuseppe Kim Moonjung in Rd Congo, Benigno Lee Dong Uk in Kenya e Giuseppe Kim Myeong Ho in Colombia.

Alla fine del 2004 ero mentalmente esaurito. Sono dovuto tornare in Italia per un po’ per rimettermi in forma. Sono tornato nel 2005 e da allora non sono più riuscito a fare molte attività. A volte mi sentivo inutile. A volte mi pareva che non ci fosse futuro per me. Ho detto allora a Gesù: «Ero pronto a darti tutto, anche le cose più dure e difficili, ma questo è umiliante. Così non servo a niente! Ma se lo vuoi Tu allora lo voglio anch’io». Così, ciò che da un punto di vista materiale sembrava un tempo di non produttività, dal punto di vista spirituale mi ha aiutato a fare grandi progressi. Ora vedo che se offro immediatamente a Dio non solo le cose buone, ma anche quello che mi fa male, per amore suo ovviamente, tutto diventa sopportabile e ne seguono pace, serenità e gioia.

Ho imparato a cucinare per servire i confratelli della mia piccola comunità, di solito siamo in 2 o 3, e cerco di tenere allegro tutto il nostro gruppo della Corea.

Poi, l’anno scorso, sono andato a Taiwan a predicare gli esercizi spirituali ai nostri quattro confratelli che lavorano lì. Pensavo che mi sarei esaurito nel giro di tre giorni. E invece è andato tutto bene e per sette mesi il Signore mi ha concesso energia come da più di vent’anni non ne avevo avuta. Il Signore mi ha aperto una finestra di speranza per un lavoro missionario più fruttuoso, e gliene sono veramente grato. Ma adesso so che la cosa più importante è quello che Lui vuole, e voglio continuare a seguirlo con allegria, capiti quel che capiti.

Mentre ero in Corea ho perso entrambi i miei genitori. Prima mio papà nel ’93 e poi mia mamma nel 2005. Perlomeno sono riuscito a vedere mia mamma prima che morisse, anche se già non poteva né parlare né capire. Nella camera mortuaria, mentre aspettavamo che fosse messa nella cassa, eravamo alcuni familiari, e con lei lì presente tutti abbiamo sperimentato una grande pace e unità. E non solo, sentivamo come una pioggia di grazie su tutta la famiglia, e in me una grande gioia del tutto innaturale e inspiegabile. La cosa è durata tre mesi e mi sono ritrovato a dirle: «Grazie mamma ma adesso basta grazie».

Pastorale della pastasciutta

Nel 2012, per un progetto di urbanizzazione del governo siamo stati costretti a muovere la nostra comunità di dialogo interreligioso da Okkiltong a Tejon, una città 160 km a Sud. Padre Diego Cazzolato (il veterano del nostro gruppo) e io abbiamo vissuto per vari mesi in un appartamentino di 45 m2 mentre seguivamo la costruzione della nuova casa. Ma a fine anno, dopo neanche tre mesi di vita nella nuova casa, sono stato trasferito a Tongduchon con padre Tamrat (Defar, etiope). La cosa in realtà si è poi rivelata molto provvidenziale. Ci siamo molto aiutati e sostenuti a vicenda nella pastorale dei lavoratori stranieri. Ci sono stati momenti in cui dicevamo: «Beh, noi non siamo poi così speciali, ma il Signore sta radunando intorno a noi tanta brava gente che fa tanto buon lavoro. Il Signore ci sta usando come catalizzatori per la missione». Durante quei 3 anni insieme abbiamo sviluppato la «pastorale della pastasciutta». Con la scusa della cucina italiana abbiamo invitato a casa ogni tipo di persone, e in un ambiente caldo e familiare abbiamo parlato di problemi pastorali, di religione e di ogni altra cosa con preti, suore, cattolici, protestanti, non cristiani, nigeriani, filippini, latinos e coreani. E poi qualche sabato pomeriggio, Tamrat e io camminavamo insieme per un’ora fino a una montagna vicina, prendevamo una frittata e una brocca di vino di riso, e poi tornavamo a piedi, parlando di tutto.

E adesso bisogna proprio che vi parli della messa. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono detto: «Ma cosa faccio qui? Vale la pena stare qui o fare questa vita? Sono utile a qualcosa?», oppure: «Dai, impacchetta tutto e torna a casa». Solo la messa mi ha aiutato, giorno per giorno, a trovare forza e soprattutto significato per andare avanti in questa missione.

Ecco, questi sono alcuni ricordi «a caso» dei miei primi 25 anni in Corea, ma il ricordo più importante è: «Se il Signore non fosse stato con noi, tutto quello che siamo e facciamo ora, sarebbe stato impossibile».

Giovanni Paolo Lamberto


I giovani coreani

Di quali giovani parlare? Qui le cose cambiano rapidamente: chissà che tipo di giovani avremo fra 10 anni? Chi ha più di 50 anni quando era giovane ha dato tutto per il «miracolo economico» della Corea. I 40enni sono gli eroi della lotta contro la dittatura militare. I 30enni hanno avuto la vita più facile: la nazione era diventata ricca e le famiglie molto piccole. I 20enni hanno avuto la vita ancora più comoda ma adesso fanno fatica a trovare un lavoro e spesso rimandano matrimonio e figli perché l’economia non tira più come prima. Chi ha meno di 20 anni è sicuramente cresciuto con un telefonino in tasca e il computer davanti al naso.

Però c’è un’esperienza che li accomuna tutti, e per quanto ne so, lo stesso capita per i paesi di cultura confuciana (Cina, Giappone, Taiwan, Singapore, Hong Kong): la scuola.

In Corea, fino all’asilo i bambini possono fare quello che vogliono, nessuno li rimprovera. Ma dalla 1ª elementare vengono «intruppati» nel sistema e da quel momento è solo studiare, studiare e studiare. E fare tutto il possibile per essere ai primi posti. Qui l’educazione è intesa come: «L’allievo è un contenitore vuoto che deve essere riempito dal maestro». E la scuola normale non basta. Appena finito si va alle cosidette Accademie per approfondire inglese, matematica, piano, tae kwon do (taekwondo, un’arte marziale) ecc. È normale per uno studente coreano uscire di casa al mattino alle 7 e ritornare alla sera alle 10 o alle 11.

Molti anni fa, durante le mie prime esperienze di confessione in coreano, ho capito che quando mi parlavano in modo comprensibile erano peccati normali, quando invece parlavano difficile, con molti vocaboli di origine cinese, erano cose grosse. Un giorno è venuta una ragazza e mi ha detto: «Io sono ko sam». Per stare sul sicuro le ho raccomandato: «Quella roba non farla mai più». Che cantonata. Anche il più sprovveduto dei coreani sa benissimo che ko sam vuol semplicemente dire: «Sto frequentando il terzo anno delle superiori e mi preparo all’esame di entrata all’università per cui non esco di casa, non vado con gli amici, non vado a messa, e dal mattino alla sera è solo studio». Dal mattino alla sera è un eufemismo: sulle pareti di molte scuole c’è questa scritta: «Più di 4 e non ce la fai». Cioè: «Se dormi più di 4 ore per notte quando prepari questo esame non ce la farai a passarlo».

Questo esame determina tutta la tua vita futura, chi sarai, quanto guadagnerai, che amici avrai. Accedere a una università di prestigio è come entrare in un club esclusivo, e, indipendentemente dai risultati e dalle materie scelte, i membri della stessa università si aiutano tra loro, ti assumono nella loro ditta, ti aiutano a far carriera.

Pressione e competitività, a cui si è aggiunto di recente il fenomeno del bullismo, sono spesso causa di un grande numero di suicidi tra i giovani. Senza dimenticare che i giovani che escono da queste scuole saranno poi i dirigenti della Samsung, Lg, Kia, Hyundai, ecc. E che questi giovani, così legati alla loro terra e cultura, diventeranno quegli imprenditori che non esiteranno un attimo a trapiantare la loro piccola azienda, se qui non sarà più competitiva, in Cina, Indonesia o America Latina.

Vincenzo, missionario oblato di Maria Immacolata, italiano che lavora molto nel sociale, mi ha parlato dell’emergenza nascosta di almeno 200.000 ragazzi scappati di casa e mi ha descritto i cambiamenti avvenuti col tempo. All’inizio c’è stata la generazione del «doposcuola»: ragazzi poveri che avevano bisogno di essere aiutati con lo studio per uscire dalla povertà. Quando la società si è arricchita è arrivata la generazione del «rifugio»: ragazzini che magari scappavano di casa per conflitti familiari, ma ancora capaci di ascoltare l’autorità e di farsi aiutare. Solo cercavano un rifugio (shelter in inglese) dove poter stare.

Adesso c’è la generazione del «telefonino»: per loro è importante solo il momento presente. Perché studiare o sforzarsi di migliorare? Vivo adesso e il mio orizzonte è quello che posso godere in questo momento. Sì, questa è l’emergenza, ma non è lontanissima dal sentire del giovane medio.

Sone periferiche e povere di Seul

I giovani coreani amano lo sport: il baseball, lo sport più popolare, riempie gli stadi. Vanno alla grande le bands di teenagers che cantano e ballano, per non parlare delle telenovelas e dei film locali. Questi cantanti e attori sono popolarissimi anche nel resto dell’Asia, tanto che è stata coniata una nuova parola: Hallyu, cioè l’onda culturale coreana che si spande per l’Asia. E non dimentichiamo il karaoke (qui si chiama norepang), uno dei divertimenti più popolari in Corea. In questo momento quello che corrisponde alle nostre pizzerie sono i ristorantini di pollo fritto e birra, sempre pieni di giovani universitari.

In Italia tutti sono orgogliosi di sfoggiare la tintarella. Le ragazze coreane invece no. La sfida è essere più bianche delle altre. E allora quando splende il sole tutte in giro con l’ombrellino o un cappello a larghissime tese. E poi creme sbiancanti e creme antisolari. La bellezza qua è un valore importante, quindi le vedrete sempre truccate in modo impeccabile. Dal resto dell’Asia vengono in Corea per comperare i cosmetici locali che sono molto rinomati. E non parliamo della chirurgia plastica: molte volte il regalo dei 18 anni o per aver passato l’esame di ammissione all’università è proprio un ritocchino al naso, al mento o agli occhi.

E in Chiesa? Purtroppo, adesso sembra di essere in Europa: i giovani sono molto rari. Fino al 2000 non era così. Ma poi la denatalità (che è più alta di quella italiana: 9 nati ogni mille abitanti in Italia; solo 8 in Corea), il benessere, o forse «la notte della cultura occidentale» sono arrivate anche qui. Sta di fatto che dal 2000 le vocazioni religiose, una volta abbondanti, sono crollate drammaticamente, e anche quelle per il sacerdozio diocesano stanno mostrando segni di crisi. Ma mai disperare, i coreani possono essere tutto e il contrario di tutto, questo popolo ha fatto stupire il mondo in più di una circostanza, e sono sicuro che i nostri giovani ci stupiranno nuovamente.

G.P.L.


Corea del Sud su MC:

Crogiuolo di religioni, 11/2010
A Seul si dorme poco, 10/2010
Consolazione di frontiera, 11/2012
Una storia affascinante! 25 anni di presenza per gli IMC, 1-2/2013
Venerando Dio in te… buongiorno!, 4/2013
Speriamo non arrestino il batterista, 3/2014
Isaac e Cristina oggi sposi, 3/2014
La Consolata si è fatta coreana, 10/2015
Good morning Korea, 1-2/2017
L’ospite d’onore, 11/2017.




Giovani, speranze da non tradire

Testo su Giovani e Giornata della Gioventù di Chiara Giovetti | Foto AfMC |


Il 12 agosto è la Giornata internazionale della gioventù, data fissata dalle Nazioni Unite nel 1999 per promuovere e valorizzare il ruolo dei 15-24enni. Nel 2017 il tema è stato «Giovani che costruiscono la pace», mentre quest’anno sarà «Spazi sicuri per i giovani». Al di là delle celebrazioni, qual è la situazione di questa fascia cruciale della popolazione mondiale?

I giovani sono, nella definizione delle Nazioni Unite, le persone di età compresa fra i 15 e i 24 anni. Sono un miliardo e duecento milioni, circa il 16% della popolazione mondiale. Il World Youth Report@, una pubblicazione delle Nazioni Unite che esce con cadenza biennale, aiuta a farsi un’idea complessiva della loro situazione. Il rapporto più recente (2016, su dati 2015) apre con un’analisi della situazione dei giovani che sottolinea il problema della disoccupazione, «un motivo di preoccupazione quasi ovunque e che interessava, nel 2014, 73 milioni di persone». I giovani che entrano nel mercato del lavoro oggi, si legge nel rapporto, hanno meno probabilità di assicurarsi un lavoro dignitoso rispetto a chi vi ha fatto il proprio ingresso nel 1995.

Se in alcuni paesi sviluppati i tassi di disoccupazione giovanile hanno avuto punte del 50%, in quelli in via di sviluppo – dove vivono quasi nove su dieci dei giovani del pianeta – il problema principale è che i giovani sono sotto impiegati, lavorano nel settore informale, spesso combinando più lavori part time o temporanei, in condizioni lavorative precarie e per un salario basso.

Le statistiche 2013 stimavano che 169 milioni di giovani occupati vivevano con meno di due dollari al giorno, numero che aumentava a 286 milioni per la soglia di 4 dollari al giorno. Le ragazze sono le più esposte ai rischi della precarietà e dello sfruttamento e hanno, fra l’altro, meno probabilità di diventare imprenditrici rispetto ai loro coetanei maschi.

Citando uno studio 2015 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo)@, il World Youth Report avverte che sarebbe necessario creare 600 milioni di posti di lavoro nelle prossime due decadi per assorbire l’attuale numero di giovani disoccupati e gli ulteriori 40 milioni di nuovi lavoratori che entrano annualmente nel mercato del lavoro.

Ovviamente il dato globale maschera differenze anche molto pronunciate nelle tendenze regionali. Il rapporto sottolinea come fra il 2012 e il 2014 il tasso di disoccupazione risultava aumentato ad esempio in Medio Oriente (dal 27,6 al 28,2%) e Nordafrica (dal 29,7 al 30,5%) mentre era diminuito in Africa subsahariana (dal 12,1 all’11,6%) e rimasto quasi uguale in America Latina e Caraibi (dal 13.5 al 13.4%).

Il rapporto menziona anche la condizione dei Neet (acronimo dell’inglese Not in employment, education or training), cioè i giovani che non sono occupati né stanno seguendo un percorso di formazione e istruzione. Il fenomeno interessa a livello globale circa un giovane su cinque e anche in questo caso le donne sono le più esposte. I maschi Neet sono più numerosi nei paesi sviluppati (11,3%); seguono i paesi emergenti (9,6%) e i paesi in via di sviluppo (8%), dove in assenza di meccanismi di protezione sociale i giovani non possono permettersi di non lavorare e sono costretti ad accettare impieghi precari e sottopagati.

Rispetto ai Neet della Ue, un documento del parlamento europeo@ riporta che nel 2015 nell’Unione a essere in questa condizione era il 12% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni (6,6 milioni di persone), cifra che aumenta a 14 milioni (14,8%) includendo le persone fino a 29 anni. Si tratta di un gruppo sociale molto diversificato, che comprende disoccupati a breve e lungo termine, ragazzi in transizione dalla scuola al lavoro, giovani con responsabilità familiari, persone con disabilità o problemi di salute. La probabilità di essere Neet è inoltre maggiore se si ha un livello di istruzione basso e varia notevolmente da uno stato membro all’altro. Gli ultimi dati della Commissione europea – riferiti però alla fascia di età 24-30 – segnalano Italia e Grecia in cima alla classifica con, rispettivamente, il 30,7% e il 30,5% e Lussemburgo, Svezia e Paesi bassi con i tassi più bassi, intorno al 10%.

Altro dato indicativo è quello sulla partecipazione dei giovani alle consultazioni elettorali: secondo uno studio effettuato in 33 paesi dalla rete World Values Survey, che riunisce studiosi di scienze sociali di tutto il mondo, se il 60% dei cittadini nel loro complesso dichiara di votare a ogni elezione, il dato si contrae al 44% considerando solo le persone fra i 18 e i 29 anni.

Quanto ai dati sull’istruzione, l’aggiornamento più recente sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile@ segnala che nel 2014 circa 263 milioni di bambini, adolescenti e giovani in età scolare non erano a scuola. Di questi, 61 milioni erano bambini della scuola primaria, 60 milioni adolescenti della scuola secondaria inferiore e 142 milioni erano giovani della secondaria superiore. Il 70% di questi bambini e ragazzi viveva in Africa subsahariana e Asia meridionale.

Infine, un dato sul rapporto fra giovani e migrazione: nel 2013 (ultimo dato disponibile) sui 232 milioni di migranti a livello globale circa 28 milioni, cioè un po’ più di uno su dieci, erano giovani fra i 15 e i 24 anni e, nello specifico, 11 milioni fra i 15 e i 19 anni e 17 milioni fra i 20 e i 24@.

I progetti di Mco per i giovani

Nel 2018, il lavoro di Mco si concentra proprio sulla promozione e valorizzazione dei giovani, specialmente dal punto di vista della loro condizione lavorativa. I microprogetti che quest’anno i nostri missionari stanno realizzando riguardano l’avvio di attività generatrici di reddito, l’inserimento lavorativo e la formazione professionale.

Uno dei progetti si svolge in Venezuela, paese ancora oppresso da una pesante crisi economica e da un tasso di inflazione che, riportava Reuters lo scorso maggio citando fonti dell’Assemblea nazionale venezuelana, era arrivato a poco meno del 14mila per cento. Il presidente Nicholas Maduro è stato rieletto lo scorso maggio col 67,7% dei voti, ma l’affluenza è stata moto bassa, intorno al 46%, e numerose sono state le contestazioni della regolarità del voto. Oltre un milione di venezuelani ha lasciato il paese negli ultimi due anni, migrando principalmente in Colombia e in Brasile.

«Il salario minimo», scrive padre Zachariah Kariuki, missionario della Consolata che opera in Venezuela, «è salito fino a un milione e trecentomila bolívar, ma non è sufficiente nemmeno a comprare cibo per una settimana» (cfr. MC giugno 2018, p. 27).

Pescatori e artigiani

I missionari della Consolata hanno una presenza a Tucupita, nello stato di Delta Amacuro, dove lavorano con la comunità indigena Warao. Il progetto che padre Zachariah e i suoi confratelli stanno realizzando mira a sostenere cinquanta giovani pescatori fornendo loro strumenti per la pesca – reti e altri accessori – e contribuendo alla fabbricazione di canoe. Questo supporto dovrebbe permettere ai giovani di fare della pesca non solo uno strumento di sussistenza ma anche un mezzo per generare un piccolo reddito che consenta loro di far fronte alle spese della famiglia, ad esempio quelle sanitarie o quelle collegate alla scolarizzazione dei bambini. I casi di abbandono scolastico, infatti, sono ora molto numerosi perché le famiglie non hanno le risorse per acquistare libri, uniformi e per pagare i costi dei mezzi di trasporto necessari ai figli per raggiungere la scuola.

Un altro intervento sarà coordinato da padre Juan Carlos Greco e coinvolgerà altri 90 giovani, sempre di Tucupita, nella produzione di manufatti artigianali. Il popolo Warao ha un artigianato tradizionale di alta qualità specializzato nella produzione di oggetti come cesti, amache, borse in fibra di moriche (palma) che vengono venduti o scambiati sul mercato locale. Questo progetto prevede anche una contestuale formazione alle modalità di estrazione sostenibile delle risorse naturali, la promozione di forme di aggregazione cooperativa fra i giovani e il rafforzamento delle relazioni e degli accordi con i commercianti locali per permettere ai manufatti di raggiungere in modo più sistematico un mercato più ampio.

Costa d’Avorio, crescita con scosse

A giudicare dai dati della Banca mondiale, la crescita economica in Costa d’Avorio nell’ultimo quinquennio è stata una delle più solide del continente. Tuttavia ha conosciuto un rallentamento (dal 10% del 2012 al 7,6% dell’anno scorso) dovuto soprattutto al crollo del prezzo del cacao, uno dei prodotti su cui si basa l’economia ivoriana, a cui si sono aggiunti l’ammutinamento dell’esercito e a una serie di scioperi nel settore pubblico che hanno creato nel 2017 una situazione temporanea di insicurezza e di stallo.

Se nell’inverno fra i 2016 e il 2017 400mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani a causa della caduta dei prezzi, due mesi fa è stato l’anacardio a creare non pochi grattacapi agli operatori economici del paese. Il prezzo al chilo stabilito a febbraio dal Consiglio cotone-anacardio, organo che regola la filiera, variava dai 500 franchi Cfa a bordo campo ai 584 di prezzo al porto (cioè fra i 76 e gli 89 centesimi di euro). Ma, riportava a maggio il segretario della Federazione nazionale compratori e cooperative dell’anacardio, Abdoulaye Sanogo, «a causa del crollo del prezzo, oggi si negozia entro una forbice che va dai 250 ai 400 franchi». Risultato: oltre 300 camion bloccati con il loro carico nei principali porti ivoriani perché gli esportatori rifiutavano di comprare a un prezzo che giudicavano troppo alto@.

Eventi come questo a livello di chi trasforma le statistiche in grafici sono rappresentati come nulla più che un breve segmento in discesa e possono, nel corso dell’anno, ritornare a valori positivi. Ma, al livello delle economie dei piccoli produttori, creano effetti devastanti in grado di mettere in ginocchio intere famiglie, le quali di solito ricevono per il raccolto venduto solo un acconto e aspettano per mesi un saldo che può anche non arrivare mai.

Un negozio per i giovani

Grand Zattry è un villaggio della Costa d’Avorio sudoccidentale nella regione del Basso Sassandra, di cui la città portuale di San Pedro è il capoluogo. Qui padre James Gichane sta realizzando un progetto che si rivolge ai giovani disoccupati di venticinque villaggi che fanno riferimento alla parrocchia.

Come in gran parte delle zone rurali della Costa d’Avorio, molti ragazzi terminano a fatica la scuola primaria e non proseguono il percorso scolastico. I genitori, infatti, non li sostengono negli studi, in parte perché le famiglie non riescono a coprire i costi per la scuola e in parte perché preferiscono impiegare il prima possibile i ragazzi nelle piccole piantagioni familiari. «Ma in questo modo», spiega padre James, «i giovani si trovano a dipendere totalmente dalla famiglia e a dover condividere il magro reddito che viene dal raccolto invece di acquisire le competenze necessarie a migliorare e ampliare l’attività agricola familiare o ad avviare un’attività propria». In tanti lasciano il villaggio per i centri urbani medi e grandi, finendo per ingrossare le fila dei lavoratori non qualificati, precari e mal pagati.

Il progetto che padre James sta portando avanti prevede l’avvio di un negozio di pagnes (il telo che in gran parte dell’Africa le donne usano come gonna, come porte-enfant, come copertura per i banchetti al mercato e per numerosi altri usi), magliette e polo. Il negozio, che con il progetto si provvederà a costruire ed equipaggiare, permetterà ai giovani coinvolti di avere un reddito e, a poco a poco, dei risparmi con i quali cominciare a loro volta un’attività. Alcuni giovani hanno proposto di utilizzare i guadagni per avviare dei vivai di alberi della gomma e di piante di cacao, le due specie maggiormente coltivate nella zona.

Spagna, da minori stranieri a lavoratori

Un altro progetto che i nostri missionari intendono realizzare è quello del supporto a dieci ragazzi migranti, fra i 18 e i 25 anni, arrivati in Spagna quando non avevano ancora raggiunto la maggiore età. Questi giovani, che escono dal Sistema di protezione dei minori, si trovano ora ad affrontare l’entrata nel mercato del lavoro spagnolo e, in particolare, quello della città di Malaga.

Il progetto prevede di formare i ragazzi come aiuto cuochi e seguirli nel percorso di inserimento lavorativo. Completeranno la formazione anche laboratori grazie ai quali i giovani acquisiranno conoscenze sul settore delle imprese ricettive a Malaga e sulle tecniche per affrontare un colloquio, compilare un curriculum e promuovere la propria candidatura a fronte di un’offerta di lavoro.

Chiara Giovetti