Il pastore bello


Il pastore conosce le sue pecore ed è conosciuto da loro.
Il mercenario non conosce le sue pecore e non si lascia conoscere.
Il pastore, se vede il lupo, si mette in mezzo tra il lupo e le pecore per proteggerle.
Il mercenario, se vede il lupo, manda avanti le pecore perché lo proteggano.

Il pastore dà la sua vita per le sue pecore (Gv 10,11-16), perché le sue pecore sono la sua vita, la sua gioia.

Il mercenario salva la propria vita. Non vorrebbe sacrificare le pecore, perché gli sono utili,
ma se è necessario per mettersi al sicuro, lo fa.

Quando il pastore è assunto in cielo, le sue pecore diventano pastore le une per le altre
e, tutte insieme, pastore per quelle che non sono ancora con loro.

Quando il mercenario muore, le sue pecore gareggiano per prendere il suo posto, il suo potere.
E calpestano le altre. Vogliono le altre con loro solo per se stesse.

Tu, Signore sei il nostro pastore. Non manchiamo di nulla.
Noi siamo le tue pecore, ci chiami per nome, ci custodisci, non lasci che nulla ci colpisca,
non lasci che moriamo in eterno.
Raccogli ogni minuto di ogni ora di ogni giorno delle nostre vite.
E tieni tutto con te.

Inviati come pastori,
raduniamo in Lui la vita nostra e di chi ci è affidato,

buona estate missionaria
da
amico

Luca Lorusso


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A cuore e piedi scalzi

Testo e foto di Maristella Tommaso


Ottobre, quest’anno, oltre a essere stato straordinario per desiderio del Santo Padre, lo è stato per me in modo particolare per ciò che la missione ha donato alla mia vita, per i cammini di liberazione che ho incrociato lungo la mia strada e per il calore, l’affetto, la presenza della gente incontrata nelle terre meravigliose dove i miei piedi si sono poggiati.

Ho ventisette anni, insegno e sono innamorata del mondo in tutte le sue sfumature, i suoi colori. Amo i bambini, i giovani che sono il presente, gli anziani che per secoli hanno custodito e protetto questo mondo, le donne e gli uomini della terra. Non riesco a immaginare la mia vita da «disinnamorata». Amo tutto ciò che la vita ci dona, accolgo tutto come un immenso regalo e mi sforzo di poter ricambiare al mondo l’amore che lui ha per me, per noi.

La mia vita è cambiata nel 2012 quando in Puglia ho partecipato a un primo incontro regionale di Missio Giovani, organismo della Cei che si occupa di animazione, formazione e cooperazione missionaria. Da quel momento ho iniziato a sognare di partire, di stare dalla parte degli impoveriti della terra, di mettermi in gioco e di sporcarmi le mani.

Così ho iniziato, piano piano, a benedire i miei piedi con la terra sacra dei paesi visitati: il Brasile, la Palestina, il Benin, per continuare a cercare e ad amare il Signore nei volti, nei sorrisi, negli abbracci, nelle lacrime di chi incontravo.

Nel Nord della Thailandia

Il 23 agosto scorso sono tornata dalla Thailandia, precisamente dal Nord, dalla diocesi di Chiang Rai (costituita nel 2018), ai confini con Myanmar e Laos, e il cuore fa ancora fatica a staccarsi da quella terra magica, meravigliosa, verdeggiante, sorprendente. Sono partita grazie all’esperienza estiva che Missio Giovani Italia organizza ogni anno ed ero insieme ad altri 16 giovani e 2 accompagnatori: Anita Cervi, formatrice presso il Centro unitario per la Formazione missionaria (Cum) e Giovanni Rocca, segretario nazionale di Missio Giovani.

Siamo abituati a vedere la parte turistica della Thailandia, le calette caratteristiche, il mare cristallino, la Bangkok caotica e lussuosa, gli hotel da sogno sulle palafitte, le scimmie addestrate, gli elefanti costretti a trasportare turisti sul loro dorso… ma mai nessuno parla di un’altra Thailandia. Quella poco turistica, ma proprio per questo motivo splendida, quella impoverita e nello stesso tempo ospitale, quella che respira gli influssi del Laos e del Myanmar, che ama gli incontri e ama la gente. La Thailandia del Nord, ricca di storia e di storie, di vite che si intrecciano e di culture.

Ambientazione e mandato

Siamo partiti il 1° agosto da Roma e dopo più o meno 15 ore di aereo ci siamo ritrovati a Chiang Mai (diocesi dal 1965, fondata come missione nel 1931), dove ci ha subito accolto don Attilio, sacerdote fidei donum che è parte del gruppo di dieci sacerdoti del Progetto Triveneto, sostenuto dalle diocesi del Veneto. Ospitati dalla diocesi, i primi tre giorni ci siamo fermati a pensare, a giocare, a riflettere, a riscoprirci anche con l’aiuto di Anita Cervi. Con Giovanni Rocca, invece, abbiamo scoperto la Thailandia, le sue tradizioni e cultura, e abbiamo conosciuto le quattro missioni in cui saremmo stati destinati.

Quei giorni di preparazione e formazione sono stati un mix di ansia, paura, entusiasmo e gioia. Le emozioni, tutte, positive e negative, ci scorrevano nelle vene… e la cosa più bella era capire che eravamo sorelle e fratelli e tutti provavamo le stesse cose.

Domenica 4 agosto, durante la messa, abbiamo vissuto il bellissimo momento del mandato, quando ci hanno consegnato la croce verde, gialla, rossa, blu e bianca simbolo di Missio. I gruppi erano formati: un gruppo a Mae Sai, un altro a Chiang Cam; il terzo a Chiang Saen, e il quarto a Nan. «Si inizia», ci siamo detti. Davvero tutto stava iniziando e tutto si stava realizzando.

 

Verso Chiang Saen

Il lunedì, zaini in spalla, ci siamo divisi e siamo partiti per raggiungere le nostre destinazioni. Durante il tragitto abbiamo fatto tappa al Tempio Bianco, dove abbiamo potuto ancora una volta, come già fatto a Bangkok, ammirare la meraviglia dei templi buddhisti e apprezzare la cura con cui i fedeli vivono la loro religione. È stato bellissimo essere a stretto contatto con un’altra religione e sapere che tra cristiani, buddhisti e musulmani c’è un bellissimo rapporto di stima reciproca, di collaborazione e di amore profondo per il creato.

Giunti alla missione siamo subito stati accolti dalle missionarie, dai missionari, dalle ragazze e dai ragazzi che vivono con loro. Ci hanno fatto sentire a casa come membri della loro grande famiglia. Le nostre giornate si sono svolte nei villaggi, nelle risaie o nella struttura insieme alle ragazze e ai ragazzi. Abbiamo persino fatto giardinaggio, piantato e raccolto riso, preparato 150 panzerotti durante la festa della mamma (in Thailandia si festeggia nel giorno del compleanno della Regina Madre, il 12 agosto). Ci siamo imbattuti nei mestieri più strani, pensando di non esserne capaci. Abbiamo provato l’ebbrezza di lasciarci coccolare dall’altalena akha (gli Akha sono una tribù thailandese presente soprattutto nel Nord) che viene costruita proprio durante i giorni della festa dell’Assunta per far divertire i bambini del villaggio (…e anche noi grandi!).

Sono stati giorni intensi di accoglienza, di collaborazione, di pazienza, di adattamento, di prova, spesso giorni stancanti… ma sempre stracolmi di bellezza. Abbiamo apprezzato la cura con cui ogni missionaria e ogni missionario porta avanti l’opera di Dio, prendendo sulle proprie spalle i più piccoli della terra, mettendosi costantemente al servizio dei più poveri e degli indifesi, mangiando con loro, sporcandosi ogni giorno le mani nella terra per confermare l’amore per tutto il Creato.

Condivisione

Ci tengo, mentre scrivo di quella che è stata per me la Thailandia, a raccontare un aneddoto che ha stravolto la mia vita, il mio sguardo, il mio tutto. Una sera, di ritorno da un villaggio dove avevamo passato la notte, raccontavamo alla suora che ci seguiva come fossimo rimasti meravigliati del fatto che alle sei del mattino sul nostro tavolo per la colazione avevamo trovato ben 30 ciotoline diverse piene di cibo. Lei ci ha risposto con una semplicità disarmante: «Avete visto? Non bisogna avere tanto per fare grandi cose. In quel villaggio ognuno vi ha portato quel poco che aveva, che era diverso dal poco dell’altro… e dal poco di ognuno è venuta fuori una tavola stracolma di bontà che avrebbe sfamato tantissima gente».

È proprio vero. Dal poco di ognuno vien fuori il moltissimo di Dio.

Partire è…

La missione mi ha cambiato la vita, le partenze me l’hanno stravolta, la gente incontrata mi ha fatto capire quanto bella fosse la mia esistenza così intrecciata all’esistenza delle altre e degli altri. A chi mi chiede se è bene o no partire, senza esitare rispondo che partire è camminare, partire è respirare, partire è crescere, è osare, è scoprire che in qualsiasi parte del mondo tu vada, avrai sempre una famiglia che sarà pronta ad accoglierti, ad amarti.

«Tutto il mondo è la mia famiglia», canta Jovanotti… ed è proprio così. I nostri piedi inevitabilmente si incroceranno con altri piedi, le nostre mani si sporcheranno con altre mani e il cuore batterà per e con altri cuori. La missione è stare con la gente, fermarsi a mangiare con loro, stare sotto un albero a chiacchierare, giocare con i bambini, aiutare le ragazze a studiare. La missione è «stare» nella libertà di essere ciò che si è insieme agli altri!

La missione è tutto ciò che di più semplice possa esserci. Ed è proprio questa semplicità che ha reso la mia vita straordinaria, proprio perché è vita insieme ad altre vite, storia insieme ad altre storie, cammino insieme ad altri cammini di liberazione.

Semplicità straordinaria

I piedi scalzi con cui si sta spesso in questa terra immensa ci siano di esempio per la vita, perché bisogna spogliarsi, vivere dell’essenziale, sporcarsi per poter essere prossimi, per poterci prendere cura, per poter amare.

«A cuore scalzo», canta Max Gazzè. «A cuore e a piedi scalzi» continuo io, perché la Chiesa che sogniamo sia sempre più povera con i poveri, priva di fronzoli, essenziale, compagna delle donne, degli uomini e dei bambini della terra, umile proprio perché la terra la tocca, la sente sotto i piedi e la ama. Continuiamo a ricercare la bellezza, l’essenziale. Continuiamo a mettere in atto una rivoluzione dell’amore, continuiamo a mettere i cuori gli uni vicino agli altri, a sentire qualsiasi ingiustizia della terra nelle nostre vene, continuiamo a lottare per il bene di tutte e di tutti… e partiamo se ne sentiamo il desiderio e lasciamoci travolgere dall’immensa straordinarietà che vi è negli stili di vita, nelle culture diverse, nell’accoglienza, nel sentirci tutti appartenenti alla stessa terra, allo stesso mare, collaboratori di un sogno grandissimo. Quello che si realizza nell’innalzare ponti, nell’abbattere muri, nell’eliminare qualsiasi confine, nel volere una Chiesa che sia grembo accogliente, scalza. Il sogno di una Terra in cui tutti si sentano sorelle e fratelli, senza più discriminazioni, senza lasciare indietro nessuno, senza esclusioni e senza più oppressi ed oppressori, ricchi e poveri.

Un sogno che è anche il sogno di Dio, ne sono certa. Sogniamo con lui… e realizziamolo!

Maristella Tommaso


Chiang Saen

Costruita nel 545 d.C. Chiang Saen, nel Nord della provincia di Chiang Rai, era una città importante del regno di Lanna (o Lannathai) durato fino al 18° secolo. È al Nord della Thailandia, quindi nella parte verdeggiante, in cui scorrono fiumi – in particolare il famoso Mekong -, si innalzano montagne che ospitano ai loro piedi villaggi, nella parte che profuma di fiori, tutti diversi e tutti colorati, che è piena di natura incontaminata. Quasi un paradiso terrestre vero e proprio… ma anche là dove sembra tutto perfetto, in realtà si svolge la vita di chi non ha nulla, di chi vive in case di lamiera, di chi non ha un lavoro, di chi per anni ha fatto uso di droghe e ancora adesso non riesce ad uscirne.

Era a pochi chilometri dal cosiddetto Triangolo d’Oro, ai confini con il Myanmar e il Laos, luogo che per anni è stato il centro dello spaccio mondiale, della cultura dell’oppio e della sua coltivazione. Moltissima gente è stata arrestata e messa in carcere per aver fatto uso di droghe e moltissimi bambini sono cresciuti senza genitori. Il Nord della Thailandia è abitato, più che da thailandesi, da birmani dei gruppi etnici Akha e Lahu, come quasi tutte le ragazze della casa, che dal Myanmar arrivano in Thailandia come rifugiati e profughi senza documenti e senza educazione formale. Questo li taglia fuori dalle opportunità di lavoro, per cui spesso vivono nell’illegalità. Violenza e abuso di sostanze stupefacenti sono rampanti nella regione, molte famiglie vivono in estrema povertà.

L’evangelizzazione nella regione è iniziata nel 1931 con l’arrivo dei primi due sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi a Chiang Mai, capitale della regione, diventata diocesi nel 1969. Nel 2018 è stata creata la diocesi di Chiang Rai. La comunità cristiana di Chiang Saen è seguita da missionari gesuiti.

I giovani di Missio sono stati accolti nella «Casa Lilia», dal 2013 gestita dalle Sorelle della Provvidenza (fondate a Udine nel 1837) che ospita una trentina di ragazze orfane o di famiglie molto povere.

M.T.




Tu, l’Eterno, in un tempo e in un luogo

Testo di Luca Lorusso


Si narra che sei venuto nella carne. Poco più di duemila anni fa. Proprio tu. Il Signore della vita. Il Creatore. Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, e di tutti i viventi.

Si narra che sei nato come tutti noi e sei stato allevato secondo la cultura e sensibilità del tempo. Tu, l’eterno, in un anno preciso, in un luogo, una lingua, una religione, un contesto irripetibile, come irripetibile è ogni contesto e ogni vita.

Si narra che sei nato da una giovane donna capace di dire un sì limitato che ha aperto orizzonti illimitati. Una ragazza capace di cantare la gioia per lo sguardo d’amore che ha sentito su di sé, per i troni rovesciati e gli umili innalzati, per la promessa ad Abramo realizzata, e non ancora, nel suo grembo.

Si narra che sei stato accolto e accudito da un falegname sognatore che ti ha salvato dal tiranno portandoti profugo in un paese straniero. Un uomo semplice e giusto, capace di leggere e affrontare la storia con occhi resi limpidi dallo Spirito.

Si narra che il cosmo intero si era predisposto a darti il benvenuto e che tu hai ricambiato l’attesa squarciando le tenebre con la tua luce.

Da quel giorno sono accaduti diversi prodigi straordinari, e molti altri ordinari, al culmine dei quali sei morto e poi risorto. Tu, Amato dell’Amante, hai riposto la morte e la vita nell’Amore. Amante a tua volta di ciascuno di noi, ci immergi nel tuo Amore perché anche noi vi immergiamo qualunque creatura incontriamo.

Buon Avvento e buon Natale da amico.

Luca Lorusso


Sulle strade del mondo e della vita

Giovani in viaggio verso l’altro e verso se stessi

Cinque esperienze dell’estate 2019 e tanto altro tutto da scoprire sulle pagine del sito di Amico

Tanzania 100

Il gruppo di Bevera (LC)

Tanzania: dono da custodire

Il gruppo di Regina delle Missioni (Torino)

1000 mondi a Galatina

Il gruppo di Galatina (LE)

Certosa: l’arte del scegliere

SìAmo viaggi!

Giovani al campo missionario del CAM di Martina Franca (TA)

 

 




La parabola del Malcapitato


Quando mi sono alzato per metterti alla prova, non pensavo che la prova sarebbe stata più mia che tua. «Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?», ti ho chiesto (cfr Lc 10,25-37). Tu hai girato la domanda a me, e io ho sfoggiato la mia sapienza: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto te stesso, e il tuo prossimo».

Volevo mostrare a tutti chi fosse il vero maestro tra me e te, ma tu non ti sei difeso dal mio attacco e, anzi, mi hai elogiato.

Hai ribaltato i nostri ruoli con la tua mitezza. Mi hai disarmato con la tua accoglienza.

Quando poi ti ho chiesto, per giustificarmi, «e chi è mio prossimo?», e tu hai iniziato a raccontare la storia del
Samaritano che aiuta l’uomo malmenato dai briganti,
sapevo già dove volevi arrivare: il mio prossimo è il malcapitato.

Per ereditare la vita eterna, quindi, devo amare il Signore Dio mio e aiutare i malcapitati, gli ultimi, le vedove, gli oppressi, i malati.

Niente di nuovo sotto il sole. Lo faccio già.

Ma quando sei arrivato alla fine del racconto, mi hai spiazzato: mi hai chiesto di mettermi nei panni dell’uomo malcapitato e di dirti chi fosse, secondo me, il suo prossimo. Non chi fosse il prossimo del Samaritano, ma dell’aggredito. Hai ribaltato di nuovo i ruoli, hai messo sotto sopra le prospettive.

Ed ecco la vertigine: per ereditare la vita eterna amerò il Signore e il mio prossimo mettendomi nella prospettiva del malcapitato, dell’uomo insufficiente, non del benefattore, di quello che basta a se stesso. In questa prospettiva amare l’altro e amare Dio non è mia iniziativa, ma risposta alla loro presenza. Da malcapitato posso riconoscere che non nasco da me stesso e non mi curo da solo, ma è l’altro che mi fa essere e mi fa vivere; che non vengo da me stesso e non mi salvo da solo, ma posso accogliere e vivere un amore che mi precede e che forma il mio orizzonte.


In questi mesi estivi di incontri, campi missionari, vacanze, immersione nel creato, preghiera, mettiamoci nella prospettiva giusta.

Buon cammino, da amico

Luca Lorusso


Leggi tutti i testi di Amico qui:




Deserto, il test della finitezza

La prima coppia umana è lì, in quel giardino colmo di vita da gustare. Tutto è promessa di pienezza, predisposto per il bene dell’uomo e della donna. Dio plasma il creato e lo dona loro. E li istruisce per distinguere gli alberi commestibili dagli altri, l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male, che coltiveranno senza cibarsene.

Si fonda lì la loro libertà: sulla distinzione tra ciò che è disponibile al loro appetito e ciò che non lo è, sull’esperienza del limite, sulla presenza nella sazietà di un buco che rimanda ad altro, che fa sorgere il desiderio, che è il luogo nel quale si manifesta la promessa. E sull’amicizia con Dio.

La prima coppia umana è lì. Anche il serpente è lì: il più astuto tra gli animali. Egli non genera il dubbio, che è parte del desiderio, ma insinua il sospetto, che è anzitutto un taglio di fiducia, un tarlo di relazione che trasforma il desiderio in brama. Basta un attimo, e la conoscenza del bene e del male è divorata. Il limite rimane tale, ma è rifiutato. La libertà è compromessa.

L’uomo e la donna si nascondono, ora. Si vergognano di ciò che sono, della loro nudità. E il Signore inizia lì la sua ricerca. Come uno sposo che cerca la sua innamorata nella notte per coprirla con una veste tessuta dalle sue mani e riportarla nel suo amore.

Gesù è nel deserto. Sta al di là del Giordano, come Israele sotto la guida di Mosè prima di entrare nella terra promessa per dare vita al suo regno. Regno di uomini costruito sul sangue, quello d’Israele, Regno di Dio sotto il segno della debolezza, quello che Gesù realizzerà.

Sta nel deserto quaranta giorni Gesù. Sospinto dallo Spirito santo, vi sperimenta il limite dell’uomo, ciò che gli è indisponibile, la sua finitezza. Prova fame, ma pur essendo figlio di Dio non trasforma la pietra in pane, prova rabbia per il sangue sparso dalle guerre e dalle ingiustizie, ma non trasforma il mondo in un paradiso terrestre, prova pena per gli uomini persi dietro chimere inconsistenti, ma rifiuta di attirarli a sé tramite uno spettacolo di potenza divina.

Gesù sta lì. Abita il limite, non lo divora. Lo ama. Ama la libertà giocata nella condizione umana. Ama l’uomo, la finitezza dell’uomo che è la dimora dell’infinita possibilità d’affidarsi.

Non di solo pane vive l’umanità, ma di una promessa già realizzata e non ancora, e rinnovata da Lui, il crocifisso risorto.

Buon cammino nel deserto, buona Quaresima,

da amico.

Luca Lorusso


Pennellate di Kenya

Padre Nicholas Muthoka ci manda dal suo Kenya una foto del paese e della Chiesa locale. Come in ogni foto, le ombre mettono in risalto le forme e i colori.

Sono in modalità vacanza, tranquillo, senza pensieri e, onestamente, alla ricerca di un po’ di svago.

È l’imbrunire ed esco dalla nostra tranquilla casa regionale dei missionari della Consolata a Westlands, Nairobi, per fare una passeggiata.

La capitale del Kenya è una città caotica, popolatissima e inquinata all’ennesima potenza. La gola si irrita quando esci di casa.

Cammino per strada. Ci sono macchine che corrono e gente che attraversa in modo disordinato e spesso pericoloso. Noto un ragazzino sui 13 anni che gioca, da solo, sul bordo della strada. Fa le capriole e altra ginnastica. Si diverte. È sporco e nessuno lo guarda, e neanche lui si lascia guardare.

Ragazzi di strada

È uno dei tanti ragazzi di Nairobi cresciuti in strada, duri e pericolosi, almeno all’apparenza. Ho paura, perché ho con me un nuovo cellulare che un parrocchiano mi ha regalato a Natale e non vorrei che questo qui me lo rubasse, ma mi si stringe il cuore. Che un bambino di quell’età viva in quelle condizioni mi sembra disumano. Poi mi viene in mente la parabola del buon samaritano, di quel malcapitato sulla strada verso Gerico, dei tre personaggi che gli passano accanto, e mi interrogo.

Ho paura, ma vorrei anche aiutarlo, e non so cosa decidere. «D’altronde – mi giustifico -, ci sono migliaia e migliaia di altri ragazzi di strada così per la città, posso mica aiutarli tutti». Alla fine, vado in un fast food lì vicino, compro delle patatine fritte e gliele porto.

Mi guarda incuriosito e le prende. Mentre mangia, facciamo due parole. Gli chiedo il nome: James.

Ricchi e poveri nella stessa chiesa

Mi sono riproposto di andarlo a trovare altre volte e mettermi in contatto con qualche organizzazione o casa di accoglienza per ragazzi di strada. Come missionari ne abbiamo una proprio qui a Nairobi, «Familia ya ufariji».

Accanto a questo ragazzo, passavano macchine grosse, attorno a lui grattacieli modernissimi, tanta gente, ogni persona con i suoi pensieri e la propria vita. Il Kenya è un paese in forte crescita economica e anagrafica. Sono molte le persone che fanno grande fortuna con il commercio, gli investimenti e la corruzione, mentre altri giacciono nella povertà, nelle malattie e nell’ignoranza. La classe media stenta a crescere mentre la forbice tra ricchi e poveri aumenta. La cosa assurda è che questi ricchi e poveri si trovano spesso negli stessi banchi della chiesa.

Comunità vive e accoglienti

Le comunità qui in Kenya sono spesso osannanti ed esuberanti. La domenica è bella, anzi bellissima. Trovi comunità vivaci che celebrano l’eucarestia in modo gioioso e convinto.

Non ho le statistiche sottomano, ma ho l’impressione che negli ultimi anni i numeri siano aumentati. Le chiese sono piene e si sono moltiplicate le realtà ecclesiali.

Ho l’occasione di partecipare alla messa nella parrocchia di Tassia, qui a Nairobi, dove lavorano due sacerdoti fidei donum di Torino, don Paolo Burdino e don Daniele Presicce.

La parrocchia è inserita in un quartiere davvero povero, popolazione numerosissima, ambiente maleodorante, ma, anche qui, ho incontrato una comunità viva e accogliente.

Si celebra la messa senza fretta. Mentre siamo all’altare, don Paolo, che è stato parroco nell’arcidiocesi di Torino per molto tempo, mi dice: «Per avere tanta gente così in Italia, bisogna mettere insieme un po’ di parrocchie! Qui ce n’è tutte le domeniche, per tre messe di fila». I due sacerdoti hanno infatti il progetto di allargare la chiesa.

Chiese sempre più grandi

A proposito di lavori: un po’ ovunque, qui, le parrocchie sembrano cantieri, stanno facendo opere per allargare le chiese e le strutture parrocchiali, o per farne di nuove, più grandi e spaziose, mentre in Europa non sappiamo che farne. Anzi, delle grandi strutture, si cerca a fatica di disfarsene.

Bene, in Africa, in Kenya in particolare, sembra essere un momento di gloria.

Volti stanchi e induriti

Nei villaggi e nelle campagne, la vita pian piano migliora, ma è ancora dura. Lo si capisce dai volti stanchi e induriti di uomini e donne.

Sono ancora molte le persone che non hanno acqua potabile e devono fare chilometri per andare nei fiumi o scavare buche nella sabbia. Molti i ragazzi che fanno fatica ad andare a scuola, anche se il governo cerca di agevolare il più possibile l’istruzione pubblica.

Una Chiesa chiamata alla santità

La Chiesa del Kenya, e dell’Africa in generale, rappresenta una bella pagina della storia universale dell’evangelizzazione. I missionari hanno seminato, il numeroso e giovane clero locale, gli istituti di vita consacrata e i laici locali, continuano ad arare, irrigare. Ma, come dice san Paolo, è il Signore che fa crescere. Davvero si prova, da una parte, una bella sensazione a vedere la comunità cattolica così piena di vita e propositiva, ma, allo stesso tempo, ci si affida al Signore, perché le sfide e i peccati non mancano e sono anche enormi.

Questa Chiesa sarà chiamata a coinvolgersi sempre di più nella lotta contro la povertà, la corruzione e le grandi disuguaglianze che rendono disumana la società.

Se vorrà continuare a essere significativa nel lungo corso della storia, ho la sensazione che dovrà produrre santi, ed essere autentica e trasparente, cioè, capace di quella santità che inietta nella società i valori eterni del Vangelo.

Nicholas Muthoka


Ciao padre Giordano

Padre Giordano Rigamonti, 80 anni, dopo una vita spesa per il Signore e per Maria Consolata, per l’Africa e per i giovani, è andato alla casa del Padre il 30 dicembre scorso. Ecco il ricordo, pronunciato al funerale, di uno dei suoi amici e compagni di cammino.

Non so se sono degno di parlare in questo momento. Ciascuno di noi avrebbe un milione di cose da dire oggi, molto meglio di me. Ciascuno di noi ha trascorso un pezzo della sua vita con lui, è stato coinvolto, trascinato, appassionato, ha fatto del bene con lui.

Conosco padre Giordano da 35 anni. Come molti qui presenti, sono andato in Africa la prima volta grazie a lui. Ho partecipato a convegni missionari giovanili, congressi, manifestazioni, mostre… tutto grazie a lui e ai missionari della Consolata.

Sono un figlio dei missionari della Consolata.

Sono un figlio di padre Allamano. Sono figlio di padre Giordano. Sì, perché se è vero che di mamma ne abbiamo una sola, sono convinto che i padri sono tutti coloro che nel corso della vita ci aiutano a crescere. Lui è mio papà come è padre per molti di noi qui presenti.

Padre Giordano è così: non riesce mai a tenere il suo entusiasmo, i suoi ideali, la sua fede, Dio, le sue sfide e il suo ardore missionario solo per sé.

Dal profondo del cuore deve raccontarlo a tutti, deve raccontarlo al mondo.

Da quando è arrivato a Torino nel 1982 si è lanciato, da vero innamorato di Dio e della missione, instancabile, in una miriade di iniziative, tutte volte a far conoscere l’amore di Dio per l’uomo e padre Allamano, fondatore dei missionari della Consolata.

L’animazione missionaria al Cam (Centro di animazione missionaria) e nelle parrocchie, i convegni, l’impegno con Facciamo pace durante la guerra in Bosnia, l’Expo Missio durante il Giubileo del 2000 e, per ultimo, forse una delle sue più belle creature: Impegnarsi serve.

Caro Padre Giordano, ci ritroviamo oggi qui ad augurarti buon viaggio, come tu hai fatto con noi e con centinaia di giovani e adulti che hai inviato nel mondo per fare un’esperienza missionaria.

Attraverso l’associazione Impegnarsi serve, hai voluto formare tutti noi per renderci dei missionari, non solo in terre lontane, ma anche qui fra le vie delle nostre città.

Ci hai fatto conoscere e amare l’Allamano, per farci sentire parte della famiglia dei missionari e far sentire nostri i suoi comandamenti.

Di questi ho sempre pensato che tu li seguissi tutti, tranne uno: quello che dice: «Fate bene il bene e senza rumore». Tu di rumore ne hai fatto eccome, e ce ne fai fare ancora tanto, per attirare l’attenzione della gente e condurla alla visione della giusta prospettiva, nelle piazze, fra i banchi di scuola, con convegni, mostre, spettacoli, cene, messe. E tu eri sempre in prima fila, per condurci e seguirci allo stesso tempo.

Per citare una frase che dicevi spesso, ci hai lanciato tante «provocazioni» e tante «sfide», sfide che a volte avevamo timore di accettare, perché ci sembravano troppo grandi per le nostre forze. Ma tu ci hai sempre spronati a provarci e ad affidarci alla Divina Provvidenza e al supporto di Maria Consolata.

Sei stato per molti di noi un grande amico. Ci hai accompagnati nelle fasi belle della nostra vita e ci ha sostenuti nelle fasi più dure.

Resti per noi un esempio di instancabile servo di Dio, con un entusiasmo missionario che ha saputo contagiare tantissime persone.

Ora l’entusiasmo che ci hai trasmesso deve farci ripartire da qui, senza la tua presenza. Ma tu non lasciarci soli, continua a seguirci da lassù e a guidare i nostri passi perché possiamo ancora fare bene il bene e riusciamo a insegnarlo anche alle generazioni future.

Grazie Giordano! Ci mancherai tanto, ma ti promettiamo che il tuo ricordo continuerà a vivere forte in ognuno di noi e a essere di ispirazione per condurre una vita fatta di servizio e di aiuto verso gli altri.

Kwa heri Padre Giordano, Tutaonana!

I tuoi amici di Impegnarsi Serve
Testimonianza di Angelo D’Auria, letta durante il funerale di padre Giordano a Rivoli (To) il 02/01/2019




Sinodo dei giovani: Esperienze di giovani in «Missione»


Da ormai parecchi anni molte realtà in Italia propongono ai giovani di trascorrere un periodo in missione per un’esperienza concreta di incontro con il mondo. È una proposta che – anno dopo anno sta crescendo non solo nei numeri ma anche nella qualità: non è semplicemente una «vacanza alternativa», ma una proposta che mira a lasciare il segno nello sguardo con cui un giovane affronta la propria vita, anche qui in Italia.

Proprio per questo, in occasione del Sinodo che si tiene in questo mese di ottobre e ha per tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», le riviste missionarie riunite nella Fesmi, insieme a Missio Giovani e al Segretariato Unitario di Animazione Missionaria (Suam) hanno pensato di promuovere un’indagine nazionale su questo tipo di esperienze e divulgarne i risultati preliminari in occasione del Sinodo.

Giovani a Makambako, in Tanzania, agosto 2018

Per conoscere la realtà dei giovani partiti sono stati predisposti due questionari,

  • uno rivolto alle realtà che promuovono questi percorsi,
  • l’altro proposto direttamente ai giovani partecipanti,

che sono stati inviati a tutti i Centri missionari diocesani, agli istituti missionari e alle associazioni cattoliche di volontariato che in Italia promuovono esperienze, estive e non, in missione.

I primi risultati di questo censimento sono una sintesi delle risposte che 39 realtà – tra centri missionari diocesani, istituti religiosi e associazioni – hanno offerto al questionario loro rivolto.

Viene raccolta anche la voce di 106 giovani partecipanti, che hanno offerto il proprio feed-back su quanto ha lasciato loro in eredità il periodo trascorso in missione.

Va precisato che si tratta di un campione parziale senza alcuna pretesa di esaustività: sappiamo bene essere molti di più i centri missionari e gli istituti che organizzano questo tipo di proposte. Inoltre esperienze del genere sono organizzate anche da singole parrocchie in collaborazione con missionari o missionarie della propria comunità. Quanto presentato di seguito, dunque, vuole essere semplicemente un primo sguardo, nella speranza di riuscire in futuro a offrire una fotografia più completa; e non potrebbe essere anche un frutto del Sinodo su giovani e discernimento vocazionale?


Nota: va ricordato che l’Agesci invia ogni anno circa 450 giovani a fare esperienze di servizio in Africa, America Latina e altri paesi dell’Asia Minore e dell’Europa.

Agorà degli Scout a Villa Buri – Verona


Giovani in Missione: Dati significativi

Con questa premessa, presentiamo alcuni dati significativi emersi dall’indagine:

Quanti giovani in missione?

  • Nelle realtà censite il numero complessivo di ragazzi e ragazze coinvolti nelle esperienze estive promosse in missione nell’estate 2018 si aggira intorno ai 1000 giovani;
  • per molte realtà si tratta di una proposta consolidata: più della metà degli enti che hanno risposto al questionario racconta di offrire questo tipo di esperienza da almeno 10 anni
  • una stima complessiva del numero di giovani coinvolti dall’avvio delle proposte parla ormai di almeno 20.000 giovani italiani inviati in missione da queste 39 realtà.

Chi sono e dove vanno questi giovani?

  • L’età media è molto giovane: il 39% dei ragazzi coinvolti ha meno di 25 anni, solo il 26% ha superato i 30 anni
  • tra i partecipanti vi sono lavoratori (54%), studenti (37%) e giovani in cerca di un’occupazione (9%)
  • Le risposte pervenute direttamente dai giovani sono per il 71% da donne
  • per la metà dei giovani si tratta di un’esperienza unica nell’arco della propria vita. E sono comunque meno del 30% i giovani partecipanti alle esperienze del 2018 che raccontano di essere stati in missione più di due volte
  • le destinazioni abbracciano tutti i continenti con una prevalenza significativa dell’Africa (38%)
  • la durata varia a seconda delle proposte: per molti l’esperienza dura solo tre o quattro settimane, ma c’è anche chi vive in missione per alcuni mesi.

Come arrivano?

  • Pochi partono da soli: a seconda della proposta si arriva in missione in gruppo (58%) oppure insieme a una o altre due persone (34%); la dimensione comunitaria, dunque, è un fattore importante;
  • l’esperienza non arriva all’improvviso ma è solitamente preparata con cura. L’82% dei giovani parte dopo aver frequentato un cammino di preparazione; e almeno la metà dei giovani che partono lo fa al termine di un cammino che è andato avanti durante tutto l’anno precedente all’esperienza in missione
  • nel 40% dei casi, poi, anche al ritorno è previsto un nuovo percorso che continua durante tutto l’anno successivo; per far sì che l’esperienza vissuta in missione non sia qualcosa di estemporaneo, ma un tempo forte della propria vita.

Come incide l’esperienza vissuta in missione sulla loro vita?

  • A molti lascia in eredità un forte senso di responsabilità: il 69% dei giovani racconta – una volta tornato a casa – di aver scelto di assumersi un impegno in parrocchia o nella propria diocesi o in un’associazione di volontariato. Molti di questi impegni sono legati all’ambito dell’animazione missionaria in Italia. Un altro sbocco interessante per alcuni è l’impegno nel campo dell’assistenza ai migranti in Italia, nel segno della continuità nell’apertura al mondo. Più in generale c’è chi racconta di aver cambiato almeno un po’ il proprio stile di vita in Italia, di essere più attento a questioni come il consumo dell’acqua, di aver cambiato il modo di vedere tante cose
  • non mancano difficoltà di ambientamento in missione: il clima, le condizioni di vita, a volte anche lo stesso dover accettare di non essere lì per fare qualcosa ma semplicemente per condividere. Ma anche questa fatica alla fine viene riconosciuta come un dono dell’esperienza vissuta in missione.
  • emerge però chiara un’altra fatica che ha a che fare con il ritorno a casa: una volta tornati in parrocchia si fa fatica a trovare un ambiente aperto ad accogliere davvero la ricchezza vissuta in missione da questi ragazzi e ragazze. L’impressione che emerge è quella che abbiano vissuto un’esperienza che riconoscono essere stata molto ricca da un punto di vista personale, ma che fatica a far crescere intorno a sé la consapevolezza e l’apertura al mondo anche in chi è rimasto a casa. Il che – evidentemente – pone a tutti i livelli una sfida pastorale su come valorizzare meglio queste esperienze ormai così diffuse.

Nicaragua, Achuapa, agosto 1986

I FRUTTI RACCOLTI “IN MISSIONE”

Di seguito alcune frasi scritte di chi ha fatto l’esperienza “missionaria”:

«Ho imparato un modo nuovo di vedere le cose: anche casa mia, da quando sono tornato, mi sembra un mondo nuovo e diverso»

«Ho imparato che cosa vuol dire sentirsi stranieri, cosa vuol dire non essere accettati, ho conosciuto correnti di pensiero completamente diverse dalle nostre. Mi ha arricchito mostrandomi un mondo che non avevo mai visto».

«Ogni incontro, ogni realtà, ogni storia, ogni ferita… tutto è stato un dono prezioso. L’esperienza ha cambiato il mio sguardo, mi ha messa in discussione, mi ha lasciato tanto e ha fatto tanto spazio. Ha cambiato la mia vita in un modo che non mi sarei mai aspettata»

«Mi ha cambiato la percezione del tempo, delle attività da svolgere nella giornata, l’attenzione a me stessa, la preghiera quotidiana per accettare quello che non capisco. Mi ha dato una “direzione”, mi ha fatto capire quanto sia bello vivere servendo».

«Mi ha fatto comprendere l’importanza del ruolo del missionario: non è colui che fa qualcosa per l’altro, ma colui che è qualcosa per l’altro e l’altra. Mi ha aperto gli occhi di fronte al mio bisogno di amare ed essere amata e mi ha permesso di rendermi conto di come, quando non organizziamo tutto e non abbiamo la pretesa che tutto sia sotto il nostro controllo, c’è qualcuno che si sta guidando. Infine mi ha fatto conoscere una realtà molto povera, ma che ha molto da insegnare a noi oggi nel tornare a relazioni più vere e di apertura verso l’altro».

«Poter toccare con mano come si vive in questi luoghi, quali povertà e ricchezze offrono, vedere, sentire e vivere con la gente ogni giorno ti arricchisce, ti cambia, è un’esperienza che entra a far parte di te e che non puoi fare a meno di condividere con gli altri».

Kenya, agosto 2007, giovanie meno giorvani al luogo dove èstato ucciso padre Kaiser, vicino al lago Nakuru

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

  • Questi dati indicano una cosa molto chiara: queste esperienze sono una ricchezza non solo per il mondo missionario, ma anche per tutta la Chiesa e la società italiana. In questo momento storico, segnato dalla paura della diversità e dalla tentazione della chiusura, questi ragazzi e ragazze tornano dalla missione con uno sguardo nuovo sul mondo e desiderano spenderlo anche nella forma di un impegno concreto qui in Italia.
  • La Chiesa italiana si è accorta di loro? Ed è disposta a investire su questo patrimonio?
  • Anche al mondo missionario questi dati chiedono però un passo in più: l’indagine, pur con i suoi limiti, rappresenta il primo tentativo di mettere in rete questo tipo di esperienze nate e portate avanti autonomamente da ciascuna realtà. Proprio l’importanza che i giovani danno a questo tipo di esperienze non dovrebbe incoraggiare una maggiore collaborazione tra le realtà che propongono questo tipo di esperienze? Pur senza perdere nulla della specificità di ciascun ente, si potrebbero elaborare percorsi e strumenti condivisi, utili per strutturare meglio i percorsi di preparazione e i momenti proposti al rientro in Italia.
  • Le parrocchie e comunità locali non potrebbero valorizzare meglio la presenza di questi e queste giovani, con il loro vissuto?
  • Possono queste esperienze maturare in un serio processo di discernimento e diventare occasione per donare al mondo non solo qualche settimana ma tutta la propria vita? In quali forme? Sono domande che il Sinodo ci rilancia…

Fesmi, Missio Giovani, Suam
3 ottobre 2018


Questa rivista – Missioni Consolata – è parte della Fesmi, Federazione Stampa Missionaria Italiana

Testo pubblicato anche da ComboniFem

 

 

 




Giovani, missione e cooperazione: l’occasione del Sinodo

 


Dal 3 al 28 di ottobre si svolgerà la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, quest’anno dedicato ai giovani. Vediamo come questo evento può essere un’occasione di riflessione sul rapporto fra giovani, missione e cooperazione.

«Il Sinodo ha un nome lungo – I giovani, la fede e il discernimento vocazionale – ma diciamo: il Sinodo dei giovani. Si capisce meglio». Così Papa Francesco, con il linguaggio diretto che lo contraddistingue, ha indicato quello che sarà il tema su cui i vescovi riuniti a Roma si concentreranno dal 3 al 28 ottobre. «È un Sinodo», ha aggiunto il Santo Padre, «dal quale nessun giovane deve sentirsi escluso, perché è di tutti i giovani». Anche i giovani agnostici, quelli che hanno una fede tiepida, quelli che si sono allontanati dalla chiesa e i giovani atei. A tutti va prestato ascolto. Perché «ogni giovane ha qualcosa da dire agli altri, agli adulti, ai preti, alle suore, ai vescovi e al Papa»@.

Colombia

Il ribaltamento di prospettiva è evidente: per anni la Chiesa si è chiesta come parlare ai giovani, andare verso di loro, raggiungerli, coinvolgerli, in tempi in cui il loro allontanamento si è fatto sempre più evidente. «Se agli inizi degli anni 2000 il 70-80 % dei giovani si dichiarava cattolico», riporta Sara Falco sul sito di Azione Cattolica, «negli ultimi anni la percentuale è scesa al 50%. Osservando gli anni più recenti, si può notare che oggi circa il 50% di adolescenti e giovani si dicono cattolici, circa il 25% è ateo o agnostico e il restante 25% si dichiara cristiano senza altra specificazione»@.

Papa Francesco, invece, ha messo l’accento sull’ascolto, un approccio che propone sempre con forza e su tutti i temi di cui la Chiesa intende occuparsi. Anche nel documento preparatorio del sinodo del prossimo anno sull’Amazzonia, infatti, il pontefice ha sottolineato l’importanza cruciale dell’ascoltare i popoli amazzonici.

Le iniziative ideate per realizzare questo ascolto sono state diverse, a cominciare dall’incontro presinodale dello scorso marzo che ha visto riuniti a Roma 300 giovani da tutto il mondo e che ha analizzato i contributi di circa 15 mila giovani arrivati attraverso la pagina Facebook appositamente creata@.

Tanzania

Al sondaggio preparatorio avevano partecipato 221mila giovani, di cui 100.500 avevano completato il questionario. Fra questi ultimi, «il 73,9% si dichiarano cattolici che considerano importante la religione, mentre i restanti sono cattolici che non considerano importante la religione (8,8%), non cattolici che considerano importante la religione (6,1%) e non cattolici che non considerano importante la religione (11,1%)@».

Altro strumento è stato #Velodicoio@, un progetto del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile della Cei che si è proposto di «fornire uno strumento che possa essere messo a disposizione di tutti per favorire un confronto di gruppo con i più giovani su dieci tematiche specifiche: ricerca, fare casa, incontri, complessità, legami, cura, gratuità, credibilità, direzione e progetti».

Una tappa importante verso il sinodo è stato l’incontro che il Papa ha avuto con 70mila giovani da 195 diocesi lo scorso 11 agosto al Circo Massimo, a Roma@.

Durante l’incontro Francesco ha risposto alle domande di alcuni giovani, esortando tutti i presenti a non lasciarsi rubare i sogni e a non stare alla larga dai luoghi di sofferenza, di sconfitta, di morte@.

«Non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila», ha detto il Santo Padre. «Ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario per sognare e realizzare come Gesù il Regno di Dio, e impegnarvi per un’umanità più fraterna. Abbiamo bisogno di fraternità: rischiate, andate avanti!».

Costa D’Avorio

Giovani e missione, quello che c’è

Il Sinodo dei giovani avrà fin da subito uno stretto legame con la missione. Non a caso, il messaggio del Papa per la giornata missionaria mondiale 2018, anch’essa in ottobre, si intitola Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti e comincia proprio con «Cari giovani». Il messaggio sottolinea sin dalle prime battute che «ogni uomo e donna è una missione, e questa è la ragione per cui si trova a vivere sulla terra». Essere attratti ed essere inviati «sono i due movimenti che il nostro cuore, soprattutto quando è giovane in età, sente come forze interiori dell’amore che promettono futuro e spingono in avanti la nostra esistenza». «Le Pontificie opere missionarie», si legge ancora nel testo, «sono nate proprio da cuori giovani», e tanti ragazzi «trovano, nel volontariato missionario, una forma per servire i “più piccoli”».

Molte congregazioni e istituti missionari hanno saputo accogliere, negli ultimi decenni, questa spinta dei giovani a mettersi al servizio, in Italia come all’estero.

Padre Giorgio Licini racconta come il Pime ha prima osservato e poi organizzato questo istinto di solidarietà: «Era la fine degli anni Ottanta, quasi trent’anni fa, quando al Centro Missionario Pime di Milano ci rendemmo conto che un flusso spontaneo di giovani si era incamminato da anni dall’Italia verso le missioni del Pime nel mondo. Si trattava soprattutto di compaesani, amici e parenti dei nostri missionari mossi dalla curiosità e dall’affetto verso coloro che non aspettavano più al ritorno in patria, ma andavano ad incontrare là dove avevano scelto di spendere la vita». Questa presa di coscienza fu presto organizzata e strutturata da un altro padre, Davide Sciocco: «Non più partenze all’arrembaggio e fai da te, ma preparazione, contenuti, motivazioni, obiettivi. Qualcosa che lasciasse un segno indelebile e positivo nella futura vita dell’adulto». Il risultato è stato l’invio in missione di oltre duemila ragazzi in 25 anni e il racconto di queste esperienze è diventato un libro, pubblicato nel 2015 da PIMEdit@.

Inviare giovani in missione per fare esperienza diretta in campi di lavoro in Africa e America Latina era una proposta comune a tutti gli istituti missionari ed era già iniziata negli anni Sessanta con Mani tese, fondata nel 1964 proprio con il contributo di missionari di vari istituti. Campi erano organizzati dagli universitari animati da don Tullio Contiero@ da Bologna, quelli di Africa Oggi a Milano@ e tantissimi altri. I missionari della Consolata dagli anni Settanta hanno inviato alcune migliaia di giovani per questi campi dai loro centri di animazione missionaria e probabilmente altrettanti «turisti» a visitare le loro missioni, prima con Amitour e poi con i viaggi organizzati per anni da padre Adolfo De Col.

Santiago di Compostela – Spagna

Laicato missionario

Vi è poi l’esperienza del laicato missionario, grazie al quale giovani (e anche meno giovani) hanno la possibilità di intraprendere un percorso di fede nel quale la solidarietà e, di fatto, l’impegno nella cooperazione hanno un ruolo centrale.

Fra i laici missionari della Consolata un’esperienza esemplificativa è quella di due laici spagnoli che hanno vissuto per sei anni della loro vita – dai trenta ai trentasei – in missione in Roraima, Brasile. Tutti e tre i loro bambini sono nati in missione. «Sì», raccontava Luis nel settembre 2008, «vedere il nostro progetto di famiglia crescere insieme a questa esperienza in Brasile e ai missionari della Consolata è una delle più grandi soddisfazioni che gli anni di missione ci hanno dato. Essere laici e vivere da missionari tra i missionari ci ha arricchito immensamente»@.

Tante sono anche le esperienze ispirate da un sacerdote con una sensibilità missionaria che hanno preso la forma di organizzazione strutturata e laica. La Lvia, Ong di Cuneo, nasce alla fine degli anni Sessanta dall’intuizione di don Aldo Benevelli.

«Adoperava termini strani (cooperazione, solidarietà, giustizia, comunità)» racconta di lui Riccardo Botta, uno dei primi giovani volontari che si fece coinvolgere da don Aldo. «Ebbe l’intuizione di parlare chiaro in difesa dei poveri e del mondo degli ultimi, di portare all’attenzione del mondo occidentale il cosiddetto terzo mondo». Don Aldo, scriveva lo scorso febbraio Luciano Scalettari su Famiglia Cristiana, «è prima di tutto, uno dei “padri” della cooperazione italiana, quando ancora la parola cooperazione non era nel vocabolario»@. I giovani che lo seguirono abbandonarono lavoro, famiglia e carriera per dedicarsi a una lunga formazione professionale e comunitaria per poi partire alla volta di Kenya, Burundi, Senegal, Burkina Faso, Etiopia. La prima volontaria Lvia, Rosanna Cayre, arrivò a Meru nel 1967, ospitata dai missionari della Consolata, mentre è del 1972 l’arrivo del primo volontario in Etiopia, che lavorerà come insegnante nella scuola tecnica degli stessi missionari a Meki@.

A raccogliere l’eredità di queste intuizioni e a federarle è stata la Focsiv, Federazione degli organismi oristiani servizio internazionale volontario, che ha appena compiuto 46 anni e conta oggi un’ottantina di organizzazioni aderenti. Dalla sua nascita, si legge sul sito, «Focsiv e i suoi soci hanno impiegato 27.000 volontari internazionali e giovani in servizio civile».

Siamo alla rocca di Cornuda con il campo mobile dei ragazzi di prima superiore

Giovani e missione: quello che ancora manca

Le realtà di cooperazione di ispirazione missionaria hanno indubbiamente contribuito a fare da ponte fra il mondo missionario e i giovani: i ragazzi che partono, infatti, non sono necessariamente credenti ma, attraverso un percorso professionale, vengono a contatto con la missione e con i suoi valori.

Questo reciproco conoscersi, come l’impegnarsi su problemi condivisi e confrontarsi lavorando nello stesso contesto permette tanto ai giovani che partono quanto ai missionari che li accolgono di superare i cliché e di trovare un linguaggio comune. «Ho lavorato con un missionario che era proprio “avanti”, non sembrava neanche un prete!», è la frase che chi scrive ha sentito pronunciare in diverse occasioni da ragazzi che, partiti con mille pregiudizi, si sono trovati a condividere mesi di lavoro con missionari capaci di leggere il loro tempo e di reagirvi con efficacia. E di ascoltare i dubbi, le proposte, le ingenuità e le intuizioni di un giovane che voleva confrontarsi con loro.

Questo ascolto e questo confronto li ho vissuti in prima persona: «Capisco la tua rabbia di fronte a un’ingiustizia come quella di una baraccopoli», mi disse una volta un missionario della Consolata oggi scomparso, «ma non hai capito niente se pensi che centinaia di migliaia di abitanti delle bidonville dovrebbero mettersi tutti insieme e marciare armati fino al Parlamento per chiedere case decenti e strade asfaltate. Otterrebbero solo scontri e il dispiegamento dell’esercito. Quello che fanno, invece, è organizzarsi in comitati, associazioni e gruppi e lottare giorno per giorno perché un chilometro in più sia asfaltato, un quartiere in più della baraccopoli sia riqualificato, una scuola e un dispensario in più siano costruiti. E noi siamo qui – e in tutto il mondo, anche a casa – proprio per non lasciare solo in questa lotta chi chiede giustizia».

Con quel «non sembra neanche un prete» i giovani intendono indicare probabilmente qualcosa di molto simile a quello che Papa Francesco ha stigmatizzato senza mezzi termini proprio davanti ai 70mila del Circo Massimo quando ha detto: «Penso tante volte a Gesù che bussa alla porta, ma da dentro, perché lo lasciamo uscire, perché noi tante volte, senza testimonianza, lo teniamo prigioniero delle nostre formalità, delle nostre chiusure, dei nostri egoismi, del nostro modo di vivere clericale. E il clericalismo, che non è solo dei chierici, è un atteggiamento che tocca tutti noi: il clericalismo è una perversione della Chiesa».

Chissà che non sia proprio la missione la chiave di volta per reggere la costruzione di un nuovo rapporto fra i giovani e la Chiesa.

Chiara Giovetti

Argentina

 




COMIGI 2018, i giovani: “vogliamo una Chiesa libera, meno gerarchica”

Messaggio finale del COMIGI 2018 |


Terminato il Convegno Missionario Giovanile (Comigi), dal 28 aprile al 1 maggio a Sacrofano, i trecento partecipanti ritornano a casa col sogno di una Chiesa libera.

I giovani lo hanno scritto di proprio pugno nelle conclusioni: «Alla vigilia di un Sinodo che papa Francesco non vuole sia sui giovani ma dei giovani, vorremmo dire che se il mondo continuerà a tacere noi grideremo! E cominceremo a farlo nella Chiesa, che vorremmo più povera, più vicina alla gente, inclusiva, meno paternalistica, più misericordiosa e responsabilizzante».

Giovanni Rocca, 23 anni, Segretario nazionale di Missio Giovani, ha consegnato ai suoi coetanei un mandato: «porto via con me un sogno immenso: che da questo convegno possiamo uscire con le maniche rimboccate. Non più da spettatori ma da protagonisti. Ragazzi, abbiamo idee grandi, forti, ben chiare e definite, nulla ci impedisce di realizzarle. Spetta a noi ora!».

I ragazzi delle diocesi italiane che hanno seguito i quattro giorni di relazioni, laboratori, animazione missionaria, hanno scritto che sognano «una Chiesa coinvolgente, flessibile, dinamica, nomade e meno gerarchica».

Sono stati giorni intensi questi, fatti di lectio e relazioni anche da parte dei vescovi (mons. Arturo Aiello, vescovo di Avellino e mons. Francesco Beschi, vescovo di Bergamo, hanno trasmesso il loro messaggio incoraggiante), ma soprattutto sono stati giorni di incontri, scambio, musica, balli, preghiere.

I ragazzi hanno ascoltato il gruppo rock dei Medison, hanno parlato pubblicamente delle proprie esperienze di vita: sul palco sono saliti Clementa della Guinea Bissau, Barth dalla Repubblica Democratica del Congo, Emma e Sara da Treviso ed altri che hanno raccontato storie di amore condiviso; hanno preso aperitivi con i missionari (padre Claudio Marano ad esempio, ha raccontato cos’è stata la sua vita a Bujumbura, in Burundi).

Sui fogli si leggono desideri come questo: «che la Chiesa sia più umile, che non rinneghi se stessa e annunci al mondo la verità, che sappia sporcarsi le mani agendo concretamente. Che si lasci guidare dallo spirito santo, che ci garantisca di vivere come figli di Dio» e questi desideri verranno recapitati in qualche modo al sinodo.

Il Comigi – evento della fondazione Missio che si tiene ogni tre anni – è stato «la riconferma che siamo qui, ci siamo per davvero- ha detto Rocca-

Siamo pronti a dimostralo coi fatti, con la nostra presenza. La frustrazione e la rabbia resteranno sepolte sotto le macerie del muro del timore che abbiamo abbattuto mettendoci in gioco. Offrendo tutto noi stessi all’altro».

Giovanni Rocca ha parlato dei suoi progetti per «la costruzione di un futuro migliore. Progetti dei quali credevo capaci solo persone lontane da me come Maria e Giuseppe,  ma ho scoperto in questi giorni, che entrambi avevano timore di fronte all’incertezza dell’avvenire».