Giubuti. La missione «un po’ più in là»


La missione in un contesto islamico è sfidante.  Si fa con l’esempio della vita di ogni giorno. E il dialogo si realizza nel silenzio. Le «figlie» di san Allamano sono a Gibuti da 20 anni. E si spingono dove nessuno va.

La prima grande, contundente esperienza per chi arriva a Gibuti, avviene quando si esce dall’aereo e si è sopraffatti da un caldo infernale. Il piccolo aereo, nel piccolo aeroporto della capitale, parcheggia vicino alla costruzione che, in pochi metri quadrati, racchiude il controllo passaporti, la raccolta dei bagagli e il controllo doganale. Eppure, in tutta questa piccolezza, c’è da scendere la scala dell’aereo e percorrere pochi metri sotto il sole rovente, prima di entrare, con grande sollievo, nella costruzione con aria condizionata. È il primo test di sopravvivenza a cui sono sottoposti tutti coloro che arrivano a Gibuti.

Lo raccontano anche le sorelle missionarie, con un ricordo vivo: lo vissero anche loro quando, nel 2004, arrivarono in questo Paese del Corno d’Africa, un lembo di terra desertica lambito dalle onde del Mar Rosso.

Le porte del Mar Rosso

La capitale di Gibuti ha accolto per diversi anni la comunità delle Missionarie della Consolata. Atterrate nel mese di settembre 2004, insieme a una comunità di Missionari della Consolata, le sorelle spesero un primo tempo per lo studio della realtà. Su orientamento del vescovo, monsignor Giorgio Bertin (francescano, oggi vescovo emerito), si inserirono poi nelle attività della Chiesa locale, prestando servizio alla Caritas, in un orfanotrofio e nell’ambito sanitario. Fin dall’inizio fu chiaro il tipo di annuncio del Vangelo possibile in una realtà musulmana: la carità e la testimonianza di vita. «Tutte le sorelle si sono subito gettate dentro queste attività con tanto amore e con tanta gioia», racconta suor Anna Bacchion, la decana della Consolata, ormai da più di 20 anni a Gibuti. E possiamo senza ombra di dubbio inserire anche lei in questo vortice di passione missionaria. Dopo i primi anni, nella città arrivarono altre congregazioni religiose, dedite in particolare all’educazione. La Chiesa cattolica, infatti, è molto impegnata nell’istruzione. Per l’alfabetizzazione utilizza uno speciale metodo chiamato Lec (lire, écrire, compter), e gestisce nella capitale alcune istituzioni educative di livello superiore, molto apprezzate dalla popolazione. Un giorno, però, nelle nostre missionarie sorse un’inquietudine: «Tutta la Chiesa si trova nella capitale. Noi siamo missionarie, non c’è nessuna presenza di Chiesa nel resto del Paese, perché non andiamo dove non c’è ancora nessuno?». Questa inquietudine alimentò un tempo di discernimento comunitario e – senza dare troppo nell’occhio – diventò il dinamismo della missione in Gibuti: l’andare un po’ più in là, dove non c’è la Chiesa. Lo stesso dinamismo che aveva spinto san Giuseppe Allamano a fondare due Istituti missionari per la prima evangelizzazione.

Ali Sabieh

Cittadina di circa 20mila abitanti al Sud del Paese, Ali Sabieh si trova al confine con l’Etiopia, da cui riceve l’acqua potabile, vari prodotti alimentari, e da cui arrivano tanti giovani in cerca di fortuna. Nel 2009 arrivarono ad Ali Sabieh suor Redenta Maree e suor Dorota Mostowska. Nel 2013 si trasferirà in questa cittadina tutta la comunità MC, lasciando a Gibuti solo una piccola casa, nella quale giungere quando si ritornava in capitale. Quando arrivarono, non c’era nessun cristiano ad Ali Sabieh. Ancora oggi, oltre alle sorelle e al sacerdote, c’è solo una famiglia cristiana malgascia che si trova lì per lavoro.

«L’evangelizzazione in Gibuti non si realizza facendo il catechismo. Si fa con la vita, amando e servendo le persone», afferma suor Grace Mugambi, da 12 anni nel Paese. E dai saluti per strada e i commenti ascoltati nell’ospedale, dove la missionaria lavora, si capisce che le sorelle offrono il Vangelo attraverso una vita di donazione, ed è ben accolto dalla gente. «Loro vogliono che diventiamo musulmane e si intristiscono perché non ci convertiamo», ride suor Grace.

Ma il dialogo con i musulmani è possibile in Gibuti?

«Realizziamo il dialogo nel silenzio: per esempio, i giovani che vengono nella nostra scuola di alfabetizzazione, molte volte non hanno speranza per il futuro. Con gli anni, costruiamo insieme possibilità, e loro riconoscono il valore di questo servizio».

Ad Ali Sabieh, oltre alla scuola di alfabetizzazione, le sorelle hanno aperto una scuola inclusiva, «La scuola per tutti», che raccoglie una ventina di bambini e ragazzi disabili. Inoltre, si offre un corso di taglio e cucito alle donne: sono piccoli gesti rivolti alle persone più emarginate, e sono atti che dicono molto alla gente.

Obock

Il sudore cola sul corpo a rivoli. L’umidità è alta e la temperatura estremamente elevata. Obock è l’ultimo «un po’ più in là» delle Missionarie della Consolata in Gibuti. Piccolo paese che si affaccia su uno stretto del Mar Rosso, dirimpetto allo Yemen.

Dal suo porto ogni notte partono barche che raggiungono il Paese della penisola arabica, mèta ambita dei migranti etiopici che, dopo aver affrontato la traversata del deserto gibutino, si affidano ora a barconi precari gestiti da organizzazioni criminali che assicurano l’arrivo in Yemen, ultima tappa prima di raggiungere l’Arabia Saudita. Ma non tutti arrivano, e spesso il Mar Rosso si converte in un cimitero di corpi, di sogni e di speranze. Vi ricorda qualcosa tutto questo?

Le sorelle sono arrivate a Obock nel 2020: anche qui gestiscono una scuola di alfabetizzazione, ma al loro arrivo le aule erano quasi deserte. Le famiglie (qui in maggioranza di etnia Afa) non sentivano la necessità di far studiare i propri figli. Come fare? Come suor Irene Nyaatha: andando a visitarle e spiegando l’importanza dell’istruzione. Tutto questo sotto il sole cocente. Ma i risultati non hanno tardato ad arrivare: la scuola Lec conta circa 70 alunni, con una percentuale bassissima di abbandono scolare. Come ad Ali Sabieh si offre anche un corso di taglio e cucito per donne e ragazze.

Il giorno della canonizzazione di san Giuseppe Allamano, il 20 ottobre 2024, le sorelle si sono riunite con tutta la Chiesa di Gibuti per celebrare la gioia della santità del Fondatore e la gioia di essere a Gibuti da 20 anni: con danze, canti e, soprattutto, con volti radiosi hanno ribadito ancora una volta che «un po’ più in là» dei nostri schemi, delle nostre comfort zone o abitudini (anche pastorali) si trovano un fratello e una sorella che attendono la Consolazione. E quando si arriva, lì si trova il Signore.

Stefania Raspo*

 *Suor Stefania Raspo, missionaria della Consolata, dopo diversi anni in Bolivia è attualmente consigliera generale e responsabile della comunicazione per l’istituto.

 Video: 20 anni di missione in Gibuti

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