Ghana: La democrazia prima di tutto
È il 1957 quando il paese di Kwame Nkrumah diventa indipendente. Tra i primi stati africani. Ma la vera indipendenza è difficile, occorre farcela con le proprie risorse. Il popolo del Ghana è rimasto unito, seppur ricco di diversità, e risolve i problemi con il dialogo. L’alternanza politica è la regola. Un esempio importante per il continente.
Democrazia, stabilità, alternanza e libertà di religione. Su questi elementi si gioca l’immagine positiva di un paese orgoglioso di rappresentare un esempio per tutto il continente. Certo, dietro la facciata si nascondono criticità e disagi sociali ed economici rilevanti, ma il Ghana continua a essere la prova che i paesi africani possono crescere, migliorare e affrontare i problemi senza arrivare a crisi estreme o, peggio, all’uso della forza.
È un paese fiero dei suoi sessant’anni di democrazia appena compiuti. Quell’ex Costa d’Oro che il 6 marzo del 1957 proclamò l’indipendenza dall’impero coloniale britannico, diventando da quel momento ispirazione e fiducia per tutti gli altri che a seguire avrebbero conquistato il diritto di essere indipendenti e sovrani. Da allora è come se il Ghana si fosse assunto una sorta di responsabilità morale nei confronti delle nazioni sorelle che stavano formandosi. Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente, era anche uno dei padri del panafricanismo, cosa che aiutò a guardare la storia anche nella prospettiva del futuro.
Un po’ di storia
Anche il Ghana ha vissuto la sua dose di governi militari – fase conclusasi definitivamente nel ‘93, dopo Rawlings e l’apertura della cosiddetta quarta Repubblica. Né va dimenticato che lo stesso Nkrumah fu vittima di un colpo di stato in cui oltre ai «soliti» poteri occidentali pare fosse implicato il governo canadese di allora. Era un’indipendenza «troppo indipendente» quella vagheggiata dal primo presidente ghanese e il suo sguardo socialista e panafricano non piaceva agli ex colonialisti e alle altre potenze straniere.
La «vera» indipendenza
Nel giorno del sessantesimo anniversario dell’indipendenza (6 marzo 2017), la figlia di Nkrumah, Samia, ha ricordato quello che si sognava fosse la vera indipendenza: emancipazione economica, uso delle proprie risorse e ricchezze, unione panafricana tra tutte le nazioni del continente.
La realtà di questi decenni è stata un po’ diversa: l’opportunismo politico, la voglia di potere, la «svendita» delle terre e delle risorse, il desiderio di arricchirsi alle spalle della popolazione hanno creato i punti deboli della struttura della governance del Ghana. Quello che ancora rimane però – dopo sessant’anni – è appunto la capacità di restare uniti, di risolvere le questioni attraverso il dialogo, di superare ogni tipo di contrasto che possa essere legato alle diverse appartenenze. E il Ghana da questo punto di vista è ricco di diversità.
Oltre venticinque milioni di abitanti appartenenti a nove gruppi etnici principali, tredici lingue e fedi religiose che vanno dal Cristianesimo all’Islam alle diffuse pratiche tradizionali. Con gruppi numerosi anche di buddisti. La differenza vera nel paese non è data da questi aspetti. Quello che conta sono la posizione sociale, l’educazione, il conto in banca. In Ghana, il cui 65% del territorio è agricolo, si sta allargando il gap tra zone rurali e le grandi città e conseguentemente l’accesso ai servizi e così pure al miglioramento delle condizioni economiche. Va detto che dei buoni risultati sono difficili da raggiungere con un gettito fiscale pari solo al 19.9% del Pil. Su questo aspetto manca ancora una soddisfacente politica di gestione e controllo.
L’urbanizzazione è un fenomeno esteso non solo ad Accra, la capitale che arriva a «ospitare» fino a due milioni di pendolari che si vanno ad aggiungere ai circa 4 milioni di abitanti, ma anche a Kumasi, capitale della regione Ashanti, una delle più ricche del paese, e Takoradi, centro in crescita costante dalla fine degli anni 2000 quando furono scoperti i giacimenti di petrolio off shore. A «svuotarsi» sono soprattutto la regione del Volta, che comprende la fascia costiera verso il confine con il Togo e la zona interna salendo lungo il fiume, e il Nord del paese al confine con il Burkina Faso. Zone povere, dall’economia limitata, dove la scarsità di pesce e la siccità costante non offrono alternative. Né grandi opportunità sono state proposte dai governi che si sono finora succeduti. Inoltre, urbanizzazione vuol dire anche sovraffollamento, come dimostrano i numerosi slum che si trovano soprattutto nella capitale Accra.
La grande discarica
La vergogna più grande è Agbogbloshie, meglio nota come Sodoma e Gomorra, la più grande discarica di e-tech (e non solo) di tutta l’Africa Occidentale, probabilmente dell’intero continente. È occupata soprattutto da persone provenienti dal Nord in cerca di fortuna che si sono ritrovate in uno sporco e rischioso «lavoro» di riciclo di materiali elettrici e plastica, computer, frigoriferi, stampanti, etc. I fumi dei roghi che bruciano copertoni, plastica e fili elettrici si alzano ogni giorno dall’area che è un tutt’uno con mercati, strade e abitazioni. Un’emergenza ambientale che si va ad aggiungere a quella sanitaria.
Economia in affanno
Tornando alla situazione economica, che qualcosa sia andato non proprio per il verso giusto in questi anni, lo dimostra il dato dell’inflazione, oggi attestata intorno al 13%, in certi momenti è arrivata anche al 18%. Il Pil pro capite è pari a poco meno di 1.800 dollari annui e una serie di prestiti rinnovati negli anni dal Fondo monetario internazionale ammonta a un totale di 918 milioni di dollari. Eppure gli investitori continuano ad arrivare, la speranza dei cittadini sembra sempre più forte delle critiche mentre le previsioni delle agenzie internazionali sono estremamente ottimiste. Il segreto? Sempre uno: democrazia.
L’alternanza reale
Da decenni vince più che un partito, un concetto, un «patto» non scritto, quello dell’alternanza. Alle ultime elezioni – dicembre 2016 – è stata la volta dell’Npp (New Patriotic Party) con il suo leader Nana Akufo Addo.
Il neo presidente ha centrato la sua campagna elettorale sulle performance negative del governo precedente guidato da John Mahama (Ndc, National Democratic Congress) che pure ha avuto un importante ruolo nel riconoscere la sconfitta e impedire l’accendersi di polemiche o scontri. Ma da subito analisti e cittadini hanno cominciato a essere scettici sulle magnifiche promesse di Akufo Addo per migliorare l’economia del paese, prima fra tutte quella del motto: One discrict, one factory – una industria per ogni distretto. La carenza di industrie, sicuramente al di sotto delle potenzialità del paese, rimane una nota dolente. Solo il 14.4% della popolazione attiva è impegnata in questo settore, mentre il settore dei servizi, spesso informali, occupa il 41%. Come a dire che l’arte di arrangiarsi funziona meglio delle opportunità offerte sia dalle compagnie private sia dallo stato. L’agricoltura occupa invece il 45% della popolazione ed è anche in questo settore che il neo presidente ha promesso di intervenire in modo massiccio, auspicando una produzione che duri tutto il corso dell’anno grazie alla fornitura dell’acqua, soprattutto nelle due regioni del Nord.
Altro elemento problematico riguarda il settore pubblico che, secondo recenti stime, influirebbe addirittura per il 74% sulle spese fisse dello stato. Si tratta di 500.000 persone, solo il 2% della popolazione, a cui però spesso viene attribuita mancanza di esperienza e competenze e assunzioni derivate da legami con l’entourage governativo e giri di mazzette. È quella parte del potere che ai ghanesi non piace e che la stampa libera non manca di denunciare. Una situazione che fa rabbia, soprattutto ai giovani che rientrano in quel 48% di senza lavoro stimati dalla Banca mondiale. Eppure sono proprio i giovani a dimostrare l’energia e la vitalità di questo paese. Giovani che navigano in rete con smartphone di ultima generazione e che hanno capito che il futuro è legato allo studio e alla conoscenza. E non parliamo dei figli dell’establishment che vanno a studiare all’estero, ma di quelli che affollano le Università ghanesi, molte frequentate da studenti che arrivano da altri paesi africani e anche europei, per progetti di scambio. Citiamo ad esempio: la Knust, la Kwame Nkrumah University of Science and Technology, che ogni anno mette sul mercato i migliori talenti nel settore scientifico e della tecnologia, l’Università di Legon e Ashesi University, università privata fondata da un ghanese della diaspora che dopo anni negli Usa al servizio della Microsoft ha deciso di tornare nel suo paese e investire in quella che sarà la futura classe dirigente.
I giovani, motore del Ghana
È proprio parlando con i giovani che si percepisce che il Ghana è in fase di cambiamento, ma nello stesso tempo rischia lo stallo se continua a perpetuare difetti e debolezze che sono diventati intrinseci. «Studio Fashion Design all’Università di Kumasi ma preferisco di gran lunga la vita cittadina di Accra», ci racconta Vera, 22 anni. «La mentalità qui è ancora molto ristretta, avrei voluto fare la modella, ma vuol dire scendere a brutti compromessi ancor prima di cominciare». Vera elenca i pregi e difetti del suo paese: «Amo il fatto che non facciamo guerre, che c’è la pace e sei libero di fare quello che vuoi, però va anche detto che le donne non hanno grande possibilità di esprimersi. Sposarsi e far figli è la loro strada, ma io e molte ragazze della mia età la pensiamo diversamente». «Quello che non sopportiamo più – dice invece Kofi, studente alla Central University – è la corruzione, il sistema delle mazzette. Se cerchi un lavoro, soprattutto nel settore pubblico, devi essere pronto a pagare qualcuno. Questo non è il Ghana che ci hanno promesso». «Il meglio del mio paese è la pace e la stabilità che ci accompagna da circa trent’anni, ma la cosa peggiore è la corruzione, specie nel servizio pubblico», dice Alhassan, trentenne laureato in Business e management, che ha fondato una Charity per sostenere i bambini che vivono nello slum di Agbogbloshie. E la diffidenza nei confronti della politica si manifesta nelle parole di Yaw, ventottenne laureato in cerca di occupazione. «Io sono tra quelli che sono andati a votare e il 6 marzo ho partecipato alle celebrazioni del nostro sessantesimo anniversario dell’indipendenza. Sono orgoglioso di essere ghanese e che siamo stati il primo paese sub sahariano a “liberarci”. Ma i nostri politici non sembrano fare i nostri interessi. Vanno al potere, incolpano il governo precedente di aver fatto male, ma poi loro stessi pensano a come arricchirsi prima di passare l’amministrazione dello stato al prossimo presidente».
Ma allora perché il Ghana continua a rappresentare un esempio? La risposta ce la dà Ama, giovane ragazza di 25 anni che sogna di lavorare nel settore del turismo. «Noi siamo liberi, possiamo dire quello che pensiamo, criticare chi ci governa e votare un nuovo presidente se il precedente non ha fatto quanto ci aspettavamo. Questa è la nostra ricchezza, non ci piace il conflitto. Preferiamo il dialogo. E continuare a sperare nel futuro».
Antonella Sinopoli
Le religioni in Ghana
L’importante è credere
In Ghana il fatto di appartenere a una chiesa è quasi un obbligo. Le cerimonie sono lunghe e il clima mistico. E c’è un grande proliferare di chiese evangeliche. La tolleranza religiosa è più che una tradizione. Anche cristiani e musulmani lavorano insieme e si scambiano visite alle feste comandate.
In Ghana la domenica mattina non è possibile prendere appuntamento con gli amici o programmare nessun genere di incontro. Tutti ti diranno che sono in chiesa. Cerimonie lunghissime che durano anche cinque o sei ore e che hanno poco a che vedere con le liturgie occidentali. Più orientate a una sorta di furore mistico che si manifesta nella ripetizione delle parole della Bibbia o dei Vangeli, nell’ispirazione del pastore e nella partecipazione, urlata e danzata, dei fedeli.
Secondo il World Christian Database in Ghana si contano 700 denominazioni cristiane e almeno 71.000 congregazioni individuali (chiese create da una persona). Il paese ha una grande varietà di appartenenze e soprattutto una lunga tradizione di tolleranza religiosa. La non discriminazione a causa della fede e la totale libertà di professare il proprio credo sono stabiliti dalla Costituzione ghanese, e non sono principi teorici ma radicati fortemente nella popolazione.
Secondo gli ultimi dati, in Ghana il 71,2% si dichiara cristiano. La prevalenza va alla chiesa pentecostale-carismatica con il 28,3%, seguono altre chiese protestanti con il 18,4% e la cattolica con un 13,1%. La religione musulmana è professata dal 17,6% della popolazione, la tradizionale dal 5,2%. Poi ci sono anche altre fedi professate nel paese, come quella buddista.
Persone che vivono insieme, lavorano, vanno a scuola e a volte partecipano alle cerimonie religiose degli altri. A scuola, per esempio, oppure nei grandi eventi pubblici, quando un capo di stato può prendere parte a un’importante celebrazione in moschea anche se è cristiano, o viceversa. A volte capitano dei «disagi». Per esempio recentemente si è investito l’apparato giudiziario per decidere se fosse giusto che nelle scuole gli studenti musulmani dovessero partecipare alle preghiere cristiane di inizio giornata, e non viceversa. Letture e interpretazioni che però non tolgono la capacità di stare insieme e di rispettarsi a vicenda in una contaminazione costante di vite. Il muezzin che chiama alla preghiera è il suono di sottofondo quotidiano, lo sono le preghiere nei mercati all’aperto e così pure i canti che arrivano alti dalle numerosissime chiese sparse in città e nei più remoti villaggi. «La tolleranza religiosa e il rispetto per le altre fedi ci è stato passato come un tesoro da chi ha fondato questo paese e noi lo onoriamo – dice il reverendo Alfred Ahiahornu della Calvary Baptist Curch in un quartiere di Accra -. Non ci facciamo la guerra per motivi religiosi e anche nelle questioni politiche musulmani e cristiani siedono allo stesso tavolo e decidono insieme». Forse qualche parte del mondo potrebbe guardare al Ghana come esempio, in questo senso. Il solo elemento a sfavore di questa libertà proclamata e applicata è la poca capacità di inserire in questa tolleranza una figura come l’ateo. Resta per i ghanesi difficile comprendere che qualcuno possa dichiararsi tale. Qualunque chiesa o moschea va bene, l’importante è appartenere a qualcosa che professi l’esistenza di un dio, possibilmente salvifico, e dell’aldilà.
Antonella Sinopoli