È aumentata del 10% nel solo 2023 rispetto al 2022 la spesa pubblica per il comparto militare nei paesi dell’Unione europea membri della Nato. Complice (anche) la guerra in Ucraina che sta consumando gli arsenali dei paesi donatori.
Se prendiamo un arco temporale più ampio, la voce «Difesa» nei bilanci di questi stessi paesi tra il 2014 e il 2023 si è ingrossata del 46%: da 145 miliardi a 215. In media, ogni cittadino ha pagato per la spesa militare, tramite le imposte, 508 euro nel 2023 contro i 330 del 2013: il conto per ogni cittadino italiano è stato di 436 euro.
Nel medesimo periodo di dieci anni la spesa pubblica per l’istruzione è aumentata solo del 12%, quella per la protezione ambientale del 10%, quella per la sanità (che ha affrontato l’emergenza Covid) del 34%.
Insomma, mentre le economie dei paesi dell’Unione europea sono in grave affanno, le disuguaglianze sociali aumentano insieme alle difficoltà dei cittadini a curarsi, a progettare il proprio futuro, a vivere in un ambiente sano, il comparto militare fa festa: la sola spesa per gli armamenti nei Paesi Ue membri della Nato ha raggiunto nel 2023 i 64,6 miliardi di euro (+270% in un decennio).
L’obiettivo di arrivare a una spesa per la difesa pari al 2% del Pil, imposto dagli Usa ai suoi partner della Nato, è quasi realizzato. Quello di una maggiore sicurezza, sia interna ai singoli paesi, che internazionale, invece, sembra allontanarsi a grandi passi.
È interessante sottolineare che le importazioni di armi da parte dei paesi Ue sono triplicate tra il 2018 e il 2022, e che la metà di queste importazioni proviene proprio dagli Usa.
Il rapporto Arming Europe pubblicato di recente da Greenpeace, con un focus particolare sulle spese militari di Germania, Spagna e Italia, mette in fila questi dati e diversi altri.
Tra le valutazioni centrali dello studio c’è quella che sottolinea l’irrazionalità dell’aumento delle spese militari: irragionevole sia dal punto di vista della sicurezza che da quello della crescita economica e sociale.
La corsa agli armamenti (in alternativa agli strumenti della cooperazione, della giustizia redistributiva, della diplomazia, della difesa civile), infatti, è da sempre uno dei fattori di inquinamento delle relazioni tra stati e, quindi, scatenanti delle guerre. Ed è anche una palla al piede per l’economia e, di conseguenza, per le politiche sociali dei singoli paesi.
La ricerca di Greenpeace ha il merito di confrontare le stime di crescita economica per diversi ambiti di spesa pubblica: cosa comporta – si chiede la ricerca – una spesa di 1.000 milioni in termini economici ed occupazionali? «In Germania – si legge nel report -, una spesa di 1.000 milioni di euro per l’acquisto di armi porta a un aumento della produzione interna di 1.230 milioni di euro. In Italia, l’aumento risultante è di soli 741 milioni di euro, poiché una parte maggiore della spesa è destinata alle importazioni. In Spagna, l’aumento della produzione interna è di 1.284 milioni di euro. L’effetto sull’occupazione sarebbe di 6.000 posti di lavoro aggiuntivi (a tempo pieno) in Germania, 3.000 in Italia e 6.500 in Spagna.
Invece, quando i 1.000 milioni di euro vengono spesi per l’istruzione, la salute e l’ambiente, l’impatto economico e occupazionale è maggiore.
I risultati più elevati si registrano per la protezione ambientale, con un aumento della produzione di 1.752 milioni di euro in Germania, 1.900 milioni di euro in Italia e 1.827 milioni di euro in Spagna. Per l’istruzione e la sanità, la produzione aggiuntiva varia da 1.190 a 1.380 milioni di euro. In termini di nuovi posti di lavoro, in Germania 1.000 milioni di euro potrebbero creare 11.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale, quasi 18.000 posti di lavoro nell’istruzione, 15.000 posti di lavoro nei servizi sanitari. In Italia, i nuovi posti di lavoro andrebbero da 10.000 nei servizi ambientali a quasi 14.000 nell’istruzione. In Spagna, l’effetto occupazionale sarebbe compreso tra 12.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale e 16.000 nell’istruzione. L’impatto sull’occupazione è da due a quattro volte superiore a quello atteso da un aumento nella spesa per le armi».
Se non bastassero le considerazioni etiche contro il riarmo, almeno quelle economiche dovrebbero indurre i governanti a valutare con maggiore attenzione l’uso del denaro pubblico e orientarlo in direzione di una maggiore giustizia, sia sociale che ambientale, sia nazionale che internazionale. Purtroppo pare, invece, che al momento gli interessi siano altri.
Schede. Dati demografici Le Chiese. Alcune date storiche.
Dal nazionalismo all’accoglienza
Germania: ieri, oggi, domani
Dopo gli orrori nazisti, la Germania è cambiata in maniera profonda e sorprendente. Potenza economica e politica, è la seconda destinazione a livello mondiale per le migrazioni, subito dopo gli Stati Uniti. Nonostante alcune tensioni e la presenza di movimenti xenofobi («Alternativa per la Germania» e «Pegida»), la Germania di oggi è un paese aperto, plurale e inclusivo. Anche se ora occorre attendere le (inevitabili) conseguenze del voto del 24 settembre 2017.
La Germania è il paese europeo dove l’ideologia nazionalista, portata alle sue più estreme conseguenze, ha messo in atto i crimini più feroci contro l’umanità. Il mito della razza ariana propugnato dai nazisti, quello di una presunta purezza etnica da conseguire e preservare a ogni costo, l’eugenetica e lo sterminio sistematico degli ebrei e di altre minoranze, rappresentano un’onta di infamia che, volenti o nolenti, sarà legato ancora a lungo al nome di questo paese.
Questo anche in ragione del fatto che, a dispetto di casi straordinari ma episodici come quelli di un Dietrich Bonhoeffer e degli studenti della Rosa Bianca, l’opposizione interna al Reich hitleriano e alla messa in opera della soluzione finale ha riguardato solo un numero assai esiguo di individui, incapaci di impensierire in alcun modo la colossale macchina della morte messa in piedi dal regime nazista e dalla sua propaganda. A fronte di ciò, come scriveva nella sua «Storia della Shoah» lo storico Georges Bensoussan, furono un milione i tedeschi coinvolti direttamente o indirettamente nello sterminio degli ebrei, fra campi di concentramento ed esecuzioni di massa delle Einsatzgruppen (le famigerate «unità operative» guidate da Reinhard Heydrich), soprattutto nei territori dell’Europa orientale, dove trovarono in molti casi terreno fertile anche fra le popolazioni locali. Assai più numerosi, inevitabilmente, i tedeschi che sapevano, oppure fingevano di non sapere, pur avendo avuto di fronte a sé segni inequivocabili e avvisaglie chiarissime rispetto a quanto avveniva.
Ciononostante, chi conosce bene questo paese dall’interno, non può che guardare con sincera ammirazione al cambiamento sociale e culturale avvenuto nella Repubblica Federale dal dopoguerra ad oggi. Un mutamento che ha investito il mondo della politica e della cultura, nonché le coscienze di milioni di tedeschi che prima hanno riconosciuto gli errori e orrori compiuti nel passato e poi hanno tentato di cambiare se stessi e il paese senza reticenze e compromessi. Il risultato che abbiamo di fronte a noi è per molti versi sorprendente. La Germania odierna è un paese aperto, plurale e inclusivo, a dispetto delle sfide della convivenza e dell’accoglienza, e delle inevitabili tensioni che ne sono sorte negli ultimi anni.
Non solo: forse più di ogni altro paese, la Germania di oggi ambisce a rappresentare un baluardo della tolleranza nel mondo, in anni – quelli che stiamo vivendo – dove le campagne elettorali europee (e non solo: basti pensare a Trump negli?Stati Uniti) paiono segnate in modo sempre più netto da rigurgiti nazionalisti e razzisti, che si fanno avanti in modo rapido e spaventoso anche nei nostri media e nelle coscienze di molti di noi. Ed ecco allora che quella che è stata senza dubbio una tragedia e un’onta, quella dei crimini compiuti dai nazisti, si è trasformata per molti versi, inaspettatamente, anche in una risorsa e in un antidoto sicuro contro l’odio sempre più imperante nei confronti dei rifugiati e degli stranieri.
La Germania dopo il 24 settembre 2017
Certo, non è tutto oro quel che luccica. Anche in Germania si è fatta avanti una destra populista e xenofoba, quella del partito «Alternativa per la Germania» (Alternative für Deutschland, Afd). Nelle elezioni del 24 settembre l’Afd ha raccolto il 12,6 per cento dei voti e ben 94 seggi nel Bundestag. Un partito, questo, che come il movimento anti-islamico di Pegida (Patriotische Europaeer Gegen die Islamisierung des Abendlandes, Europei patriottici contro l’islamizzazione dell’Occidente), ad esso per molti versi associabile, raccoglie però consensi in modo assai più marcato nell’ex Germania orientale, dove gli spettri del totalitarismo comunista continuano a pesare. Ma non si tratta, purtroppo, in molti casi, solo di slogan e vuote parole. Crescono di frequenza anche le aggressioni, gli episodi di intolleranza e di violenza nei confronti del diverso, poco importa se si tratti di un rifugiato, di un musulmano o di un ebreo, tutti ugualmente colpiti negli ultimi anni. Eppure, considerando le sfide che il paese si è trovato ad affrontare soprattutto dal 2015 in poi, non si può che trarre un bilancio positivo, con una punta di invidia nei confronti di una macchina statale che è stata capace di reggere all’urto dei tempi, senza cercare facili capri espiatori o piegarsi, per mero interesse politico, agli slogan razzisti anche da noi fin troppo noti.
La crisi dei rifugiati (2015) e gli attentati (2016)
Dicevamo poc’anzi dello spartiacque epocale rappresentato per la Germania dal 2015. Ebbene, proprio da qui si deve partire per comprendere la situazione attuale: nel 2015 si era nel pieno della crisi dei rifugiati, quando erano in tanti – o, meglio, la quasi totalità – i giornalisti nostrani che, dal caldo delle loro poltrone a Roma e a Milano, davano politicamente per spacciata la Merkel, «colpevole», secondo molti di loro, di aver spinto troppo avanti la sua politica dell’accoglienza, nota come Willkommenskultur in tedesco. Le cifre degli arrivi, a ben guardare, sono davvero impressionanti, anche se oggi sappiamo essere un po’ inferiori a quelle gonfiate e diffuse dai media in quei mesi.
Sono stati 865.374 gli individui entrati illegalmente in Germania nel 2015, secondo i dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca lo scorso anno. Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225). Tutti, com’è facile notare, fuggiti da luoghi segnati da terrorismo, guerre o dittature feroci. Notevoli anche i dati di comparazione rispetto all’anno precedente. Dal 2014 al 2015 l’immigrazione dall’Afghanistan alla Germania è aumentata del 877%, dall’Iran del 1.005% e dall’Iraq (dove era in piena espansione lo Stato islamico) addirittura del 2.155%. Dati che rendono bene l’entità di un fenomeno che ha cambiato il volto del paese, ponendolo di fronte anche a una sfida politica e culturale di vaste proporzioni.
In Germania il 2015 non sarà ricordato solo per la crisi dei rifugiati. Anche il terrorismo, da molti anni assente, ha fatto il suo macabro ritorno nel paese provocando un mutamento dello scenario politico e della sicurezza altrettanto importante. Ricordiamo, su tutti, gli attacchi dell’estate di quell’anno, da Ansbach a Würzburg, entrambi rivendicati dall’Isis. L’anno successivo, invece, è stato funestato da episodi di ancor più vasta portata: la strage di Monaco di Baviera del 22 luglio 2016, dove hanno perso la vita 10 persone, e l’attacco terroristico al mercatino di Natale a Berlino, il 19 dicembre, costato 12 vittime. Non si è trattato in tutti i casi di attentati a sfondo religioso. Tutti, invece, i protagonisti di questi macabri eventi erano, almeno per origine, stranieri. Ebbene, il clima che si respirava nelle strade, il dibattito sui media e su internet di quei giorni, non è minimamente paragonabile all’odio e alla tensione che hanno segnato la brutta estate italiana che ci siamo appena lasciati alle spalle.
L’odio non fa breccia
Quali sono le ragioni di questa differenza, che sempre più si configura a livello europeo come un’eccezione? Perché l’odio non fa breccia che in modo marginale nella Germania odierna? La prima risposta, come detto, va ricercata forse nella storia. La Germania risorta dalle macerie del Terzo Reich, sopravvissuta al terrorismo della Raf e agli anni di piombo, ha in sé più di altre nazioni gli anticorpi per resistere alla spirale cieca della violenza islamista e del razzismo. A Berlino, a Dresda, a Amburgo, a Stoccarda – città che solo pochi decenni fa erano un cumulo di macerie – sono ancora in pochi ad essere disposti a invertire l’orologio della storia, a subire il fascino del sangue e ad auspicare un ritorno ai proclami di guerra e alle crociate.
Ma non basta. Un altro punto fondamentale da ricordare, a mio avviso, anche in termini comparativi rispetto all’Italia e ad altri paesi dell’Europa orientale, dove le sirene dell’intolleranza trovano oggi orecchie più recettive, è che qui l’integrazione di milioni di cittadini di origine straniera è ormai un fatto compiuto da decenni, almeno nelle grandi città del Sud e dell’Ovest. Là dove la presenza è più recente, come nell’ex Ddr, servirà inevitabilmente più tempo, come d’altronde da noi in Italia. Non dimentichiamo infine che ad Est, punto da non trascurare, i dati sulla povertà e sull’emarginazione sociale sono ancora assai più alti che in altre parti del paese, con il solito, triste profilarsi di una guerra fra poveri.
Le paure dei tedeschi: una classifica
Dati alla mano vediamo com’è articolata la società tedesca di oggi, dove la componente legata all’immigrazione, come detto, è in continua crescita. Sono 18,6 milioni i residenti di origine straniera in Germania, pari a oltre un quinto della popolazione totale, che ammonta a 81 milioni di individui. Si è avuto, a tal proposito, un aumento record nell’ultimo anno, il 2016: +8.5% secondo i dati dell’Ufficio statistico federale, ovvero il più alto in oltre un decennio. Un fenomeno ancor più marcato nei grossi centri urbani dove le opportunità di impiego sono assai maggiori. Prendiamo ad esempio Stoccarda, dove l’anno prima, nel 2015 – e sono gli ultimi dati disponibili – il 42,2% dei residenti era di origine straniera, con punte del 58,2% per i minorenni. Numeri importanti, tali da mutare profondamente il volto di una città, dalle scuole fino al lavoro e al tempo libero. Eppure, anche a livello di percezione diffusa, le città sono sicure, assai più che in Italia, e l’immigrazione non risulta oggi al primo posto fra le preoccupazioni dei tedeschi. Il cambiamento climatico (71%) e il timore di nuove guerre (65%) la fanno da padrona, secondo una recente ricerca riportata sul quotidiano Westdeutsche Allgemeine Zeitung, staccando la paura del terrorismo (63%) e, di molto appunto, quella degli immigrati (45%).
Un mosaico multiculturale (con tanti cittadini comunitari)
Ma vediamo ora quali sono, fra i cittadini stranieri residenti in Germania, i gruppi nazionali più rappresentati all’interno del mosaico multiculturale tedesco. Secondo i dati ufficiali dell’Ufficio statistico federale, primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece noi italiani, 611mila (con una crescita di 15 mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni. Interessante notare come dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dagli altri paesi dell’Unione europea sia più che triplicato. In un solo anno, il 2016 appunto, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in terra tedesca. Non sono quindi solo i cittadini cosiddetti extracomunitari a immigrare. Una Germania che rappresenta la seconda destinazione a livello mondiale per l’immigrazione, seconda solo agli Stati Uniti, stando a una ricerca dell’Oecd pubblicata nel 2014.
Numeri a parte, se visto dall’interno, il melting pot in salsa tedesca sembra funzionare piuttosto bene. Se forte è l’impegno delle scuole e delle istituzioni religiose nel fronteggiare la diffidenza nei confronti dell’altro e il razzismo, è anche il mondo del lavoro a fare la differenza. Sono sempre di più le aziende che scelgono come lingua di lavoro l’inglese nei loro uffici, ed è grande la richiesta di manodopera in alcuni Land, come quelli del Sud, dove si è raggiunta quasi la piena occupazione. All’ingresso del quartier generale della Mercedes, che ha sede qui a Stoccarda, e dove si usa sempre di più la lingua di Shakespeare per lavorare, si legge in un banner: «Qui non c’è posto per il razzismo». Certo, ancora una volta, non è tutto oro quello che luccica, e non vi è dubbio che siano in molti a sfruttare i nuovi arrivati, cui vengono proposti a volte contratti da precari e con retribuzioni sempre più basse, con il risultato che le diseguaglianze avanzano rapidamente, creando sacche di povertà sinora sconosciute soprattutto in provincia, nelle periferie e nelle città del Nord e dell’Est del paese.
Non si può tuttavia trascurare, ed è il dato di gran lunga più incoraggiante, come la risposta più efficace alla crisi dei rifugiati e all’insorgere del razzismo sia giunta proprio dalla società civile tedesca, che ha dato il suo meglio mobilitandosi dopo il 2015. In Germania, le persone in vario modo impegnate nel volontariato sono 31 milioni (pari al 38% della popolazione), in Italia invece – per fare un raffronto – solo 6 milioni (pari al 10%). Una differenza che si spiega anche con la grande generosità dimostrata dalle associazioni, dalle chiese e da tanti semplici cittadini che hanno sentito il bisogno di impegnarsi in prima persona per fronteggiare quella che forse è la più grande sfida del nostro tempo: la sfida dell’accoglienza.
Simone Zoppellaro
«Wir schaffen das» («Ce la facciamo»)
le sfide dell’immigrazione
Si dice che l’immigrazione rappresenti per la Germania solo un’occasione per avere manodopera a basso costo. Questo probabilmente valeva ai tempi dei Gastarbeiter («lavoratori ospiti»). Oggi la situazione è diversa. Anche se i problemi non mancano. Come l’esistenza di profonde diseguaglianze e la scarsa mobilità sociale. Senza dimenticare la questione della vasta minoranza turca, divisa su Erdogan, il dittatore di Ankara su cui la stessa Europa rimane incerta.
Siamo alla fine di dicembre del 2015, in Germania, nel pieno della crisi dei rifugiati. Nel suo discorso di capodanno, il verde Winfried Kretschmann, governatore del terzo Land più popoloso della Federazione tedesca, quello del Baden-Württemberg, nell’affrontare il tema spinoso e dibattuto dell’immigrazione rievoca la sua esperienza familiare. I suoi genitori, racconta nel messaggio ai suoi concittadini, furono costretti a lasciare la Prussia orientale, ovvero l’odierna Polonia, alla fine della seconda guerra mondiale, e giunsero in Germania come profughi fra grandi stenti e perdendo anche un figlio, un fratello maggiore del governatore, allora appena nato. Kretschmann, politico navigato e fra i maggiori esponenti del suo partito a livello nazionale, ben lungi dal cadere nella mera aneddotica, sapeva di toccare con le sue parole una corda profonda per molti tedeschi. Come a dire: i drammi di ieri e di oggi, in fondo, non sono così diversi.
Si stima che furono fra i 12 e i 14 milioni i tedeschi espulsi o fuggiti nell’immediato dopoguerra dai paesi dell’Europa orientale occupati dal Terzo Reich. La larga parte di loro si rifugiò in Germania, ma furono in molti a cercare fortuna negli Stati Uniti, in Australia, e in altri paesi. Un dramma di proporzioni bibliche, inevitabilmente oscurato ieri come oggi dal collasso militare tedesco e dai crimini compiuti dal nazismo, ma non per questo meno doloroso. In?Germania sono tantissime le persone che hanno ancora nei ricordi familiari dei loro genitori o nonni episodi come questi. Un dramma che si è riproposto con l’arrivo a Ovest di circa 4 milioni di profughi provenienti dalla Ddr, l’ex Germania comunista, nel corso della sua storia quarantennale.
Questi due eventi insieme, che investirono nell’arco di pochi decenni – come si desume dalle cifre appena riportate – una fetta enorme della popolazione tedesca, contribuiscono a dare oggi una connotazione diversa, meno astratta, più personale e simpatetica, al fenomeno migratorio, e in particolare nei confronti di quanti – e sono tantissimi – fuggono da guerre e persecuzioni, rischiando spesso la vita. E non sarà un caso, allora, come ci ha raccontato in un’intervista la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, che lo stato del Baden-Württemberg sia uno dei pochi luoghi al mondo ad aver fornito rifugio e assistenza a circa duemila fra donne e bambini appartenenti alla minoranza degli yazidi, in fuga dalla persecuzione messa in atto dallo Stato Islamico. Una decisione, come ci ha spiegato la stessa Murad, dovuta a un interesse personale del già ricordato Kretschmann, cattolico praticante e figlio di profughi di guerra, che ha preso a cuore questa causa dimenticata da tutti. Non è difficile immaginare che per lui, come per tanti tedeschi, storie come questa risultino fin troppo famigliari, difficili da accantonare con una scrollata di spalle o con uno sbadiglio.
Il precedente storico dei «Gastarbeiter»
Il peso della storia, di una storia tragica e ingombrante, ancora una volta, fa la differenza. Il movimento per la pace, quello per il disarmo e contro la vendita di armi (specie se alle dittature), le manifestazioni di piazza e le attività organizzate dal basso, dalla società civile, per l’accoglienza e per contrastare il razzismo, sono oggi realtà assai più diffuse in Germania che in molti paesi europei. Uno fiorire straordinario che parte dalle parrocchie, dalle feste di quartiere, dalle scuole e da quella galassia sconfinata che è rappresentata dall’associazionismo tedesco. Sbaglia, affidandosi spesso a un ottuso cinismo, chi afferma che l’immigrazione per la Germania rappresenti solo un’occasione per avere manodopera a basso costo per le imprese. Semmai si dovrebbe sottolineare, cosa spesso ignorata da molti, come l’afflusso di profughi e immigrati negli ultimi anni abbia creato – parallelo all’impegno del volontariato – anche moltissimi nuovi posti di lavoro per i tedeschi, dall’insegnamento della lingua, al campo sociale, fino alla mediazione culturale.
Ammirevole anche la qualità dei servizi offerti da centri informativi e uffici per l’immigrazione, dove il personale risulta disponibile, ben attrezzato a interagire con persone di diversa cultura, e parla diverse lingue. Un altro mondo, rispetto alle esperienze spesso frustranti e umilianti che devono subire molti stranieri in Italia o nelle nostre rappresentanze all’estero, dove il servizio risulta in tanti, troppi casi davvero scadente, quando non lesivo per l’immagine dell’Italia nel mondo. Certo, a nostra parziale discolpa bisogna sempre ricordare che il fenomeno migratorio in Germania ha radici più profonde rispetto a quelle del nostro paese, dove l’esperienza è ancora acerba e limitata. Radici che risalgono agli anni Cinquanta e al boom economico di una Germania federale risorta delle ceneri morali e materiali della caduta del nazismo.
Li chiamavano Gastarbeiter, «lavoratori ospiti», con un eufemismo neanche troppo velato che stava a significare che sarebbe stato meglio se, una volta compiuto il lavoro, se ne fossero tornati al loro paese. Ma ciò, come ben noto, nella larga parte dei casi non è avvenuto, e furono anzi in molti a portare con loro in Germania partenti e amici. Fra i primi ad arrivare come manodopera per l’industria tedesca ci siamo proprio noi italiani, insieme a greci, turchi, marocchini e portoghesi. Si trattava in molti casi di accordi bilaterali stretti fra l’allora capitale Bonn e i governi di questi paesi. Dopo l’erezione del muro di Berlino, nel 1961, che ebbe l’effetto di far diminuire i profughi provenienti dalla Germania orientale, aumentò ulteriormente la richiesta di manodopera e, di conseguenza, l’arrivo di immigrati necessari soprattutto alla crescita dell’industria.
L’altra faccia della medaglia: grandi diseguaglianze, scarsa mobilità sociale
Storie di sacrifici e di fatica, di umiliazioni, riscatti o fallimenti, come lo sono sempre quelle legate all’immigrazione, in qualsivoglia tempo e paese. Storie difficili, che solo in rari casi portano a un’ascesa sociale nelle file della borghesia per la generazione successiva. Un divario sociale, culturale ed economico che, inevitabilmente, continua a pesare anche negli immigrati di seconda e terza generazione, ovvero nei figli e nei nipoti degli operai arrivati in Germania nel dopoguerra e negli anni del boom. Come dichiarato in una recente intervista dalla cancelliera Merkel: «C’è ancora un divario significativo tra i giovani che hanno una storia d’immigrazione e i giovani che non ce l’hanno». Certo, esistono eccezioni importanti in tal senso, e sono sempre più frequenti. Ne ricordiamo due, brevemente: il leader del partito verde Cem Özdemir, di origine turca e circassa (regione storica del Caucaso, ndr), che è fra i protagonisti indiscussi della scena politica odierna; o, ancora, il nostro Giovanni di Lorenzo, direttore del settimanale Die Zeit, uno dei più prestigiosi del paese, cresciuto in Italia fino all’età di undici anni.
Eppure, come sottolineato anche dalla cancelliera, tanto resta ancora da fare. La Germania, dati alla mano, è uno dei paesi in Europa dove le disuguaglianze fra ricchi e poveri sono più alte e la mobilità sociale risulta ridotta ai minimi termini. Date queste premesse, la prospettiva di una completa parificazione sociale ed economica per le comunità di immigrati pare essere un obiettivo ancora lontano, innestando nei segmenti più fragili della popolazione, anche se in piccola parte, il germe dell’intolleranza, mentre parallelo, come vedremo, fra alcuni giovani immigrati cresce quello del radicalismo religioso. Ecco allora spiegata l’ascesa del partito «Alternativa per la Germania», che è riuscito per la prima volta nella storia del dopoguerra tedesco a riportare alla ribalta una politica, almeno in parte, riferibile alla galassia dell’estrema destra, infrangendo un tabù sociale e politico molto forte. Ma si tratta pur sempre, a ben vedere, di un unico partito, a fronte di uno schieramento politico – destra inclusa – che si mantiene compatto nel voler combattere la propaganda xenofoba e populista. Emblematico anche il panorama dei media, dove lo spazio dato a populisti e predicatori d’odio è incomparabilmente più basso che da noi.
Il caso della minoranza turca (e kurda)
Passiamo ora ad analizzare quello che è il fenomeno più rilevante, ma anche il più complesso e difficile, nella sfida dell’integrazione. Ci riferiamo al caso dei turchi tedeschi, la minoranza più rappresentata in Germania, come detto. Una comunità che, dopo la deriva autoritaria intrapresa dal presidente Erdogan nel loro paese, sta pagando oggi in prima persona, vuoi le tensioni interne alla comunità, sempre più marcate, vuoi i rapporti sempre più tesi fra Berlino e Ankara. Punto di svolta, da questo punto di vista, è stato il tentativo di colpo di stato in Turchia del luglio 2016, cui è seguita un’ondata di repressione senza precedenti contro giornalisti, politici, intellettuali e forze dell’ordine, che ha trasformato un paese relativamente liberale in una dittatura spietata.
Dopo il fallito golpe in Turchia, migliaia di turchi si sono riversati nelle strade di molte città tedesche – da Berlino a Monaco, da Hannover a Stoccarda – per festeggiare lo scampato pericolo. Ma, dopo l’euforia, è arrivata l’ora della vendetta, e tutti i nodi irrisolti sono venuti al pettine. Puntuale e immediata, la resa dei conti contro i sostenitori di Fethullah Gülen – predicatore turco in autoesilio negli Stati Uniti, accusato di essere l’uomo ombra dietro al colpo di stato – si è allargata anche alla Germania. Una tensione che si è manifestata ovunque, dalle associazioni alle piazze, fino anche alle moschee e alle scuole. Il tutto mentre lo scontro contro la minoranza kurda, dopo un periodo di parziale riavvicinamento, è tornato a precipitare, quando si moltiplicavano ancora una volta gli arresti e le vessazioni. Un dato non irrilevante per il nostro discorso, data la fortissima presenza kurda in Germania, che ha anche, al suo interno, una componente assai politicizzata, che è scesa in piazza più volte in diverse città tedesche, arrivando in alcuni casi allo scontro verbale e fisico con i sostenitori di Recep Tayyip Erdogan, altrettanto numerosi.
Il risultato è una comunità a tratti lacerata, costretta – volente o nolente – a scegliere fra una fedeltà sempre più esigente alla madrepatria turca e al suo dittatore, e quella a una Germania che guarda con sempre più sospetto ad Ankara, anche a causa dell’arresto di diversi cittadini tedeschi. Fra questi, ricordiamo il noto giornalista con doppia nazionalità Deniz Yücel, imprigionato il febbraio scorso con l’accusa di essere una spia. Emblematico anche il caso del già ricordato Cem Özdemir, che ha ricevuto continue minacce di morte, e proprio da membri della comunità turca tedesca, a causa delle sue posizioni politiche di supporto all’opposizione turca colpita e repressa, e che oggi è sotto scorta. Il politico verde, fra l’altro, è stato anche fra i promotori della risoluzione del parlamento tedesco sul genocidio armeno, approvata il 2 giugno 2016. Un riconoscimento che ha creato ulteriori tensioni e fratture nella comunità, dato il persistente negazionismo di Ankara nei confronti del genocidio perpetrato nell’allora Impero Ottomano. Senza dubbio, un momento di crisi dura come l’attuale la comunità dei turchi tedeschi non l’aveva mai vissuto nella storia recente.
Sicurezza e benessere per tutti
Ma la sfida per l’accoglienza e l’integrazione in Germania risulta più ampia, e per molti versi meno drammatica. Superata al meglio la crisi del 2015, ci sono ottime ragioni per poter sperare in uno sviluppo armonico della società, eludendo i rischi e le tensioni sempre insiti, volenti o nolenti, in una società aperta e multiculturale. Su tutto, continuano a risuonare nelle orecchie dei tedeschi, come in un ritornello, le celebri parole con cui Angela Merkel ha più volte commentato la crisi dei rifugiati: «Wir schaffen das», «Ce la facciamo».
La Germania, vuoi per la sua storia tragica e insieme di riscatto, vuoi per il ruolo politico ed economico sempre più rilevante che riveste a livello internazionale, ha in sé tutte le carte in regola per riuscire a offrire una prospettiva di sicurezza e relativo benessere a tutte le componenti di una società sempre più plurale, senza rischiare di ricadere in un passato che nessuno, almeno da queste parti, sembra oggi più rimpiangere.
Simone Zoppellaro
Il lungo percorso del dialogo
Immigrazione e fedi religiose in Germania
Nel variegato panorama religioso tedesco, le due principali Chiese, la cattolica e la protestante, sono in prima fila nella battaglia per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza dei profughi. Con l’immigrazione è arrivata una crescita a due cifre dell’islam. In esso, accanto a una minoranza estremista vicina alla Stato islamico, si trova una maggioranza che ha accettato le regole della democrazia occidentale.
Il 19 ottobre 1945, a pochi mesi dalla capitolazione del regime hitleriano, i rappresentanti della Chiesa evangelica tedesca si riunirono a Stoccarda per riflettere sul ruolo e sulle complicità dei cristiani, e in particolare di una delle due anime principali del cristianesimo tedesco, quella protestante, rispetto agli orrendi crimini compiuti dal nazismo. Ne risultò un documento importante, noto come «Dichiarazione di colpa di Stoccarda» (Stuttgarter Schuldbekenntnis), in cui per la prima volta la Chiesa evangelica assunse la sua parte di responsabilità storica, per quanto non soffermandosi ancora in termini specifici sull’olocausto. Leggiamo nel documento: «Attraverso di noi infinita sofferenza è stata portata a molti popoli e paesi». Da parte sua, anche la Chiesa cattolica tedesca ebbe responsabilità importanti, fra cui quella di aver agevolato la fuga dalla Germania (soprattutto verso il Sud America, ndr), dopo la fine della guerra, a centinaia di criminali nazisti, grazie al rilascio di documenti di viaggio sotto falso nome.
Certo, non soltanto ai protestanti e ai cattolici tedeschi va attribuita la responsabilità di quanto avvenuto all’epoca del Terzo Reich, responsabilità che deve essere senz’altro condivisa ed estesa a ogni segmento sociale. Né è possibile tralasciare, d’altra parte, come già accennato, l’eroico sacrificio del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer o dei giovani cattolici del movimento studentesco della Rosa Bianca, che pagarono con la vita l’opposizione al nazismo. Eppure, come dimenticare che le vie dell’odio e del sangue passarono anche da qui, attraverso una distorta interpretazione e stravolgimento del messaggio cristiano?
Tutto ciò premesso, ancora una volta, è giusto riconoscere come il cambiamento avvenuto in seguito non sia stato affatto una semplice formalità, una svolta determinata esclusivamente dalla contingenza di una sconfitta militare. Ad ammissioni di colpa come quella di Stoccarda corrispose dunque in seguito un mutamento sociale e culturale profondo ed effettivo, tale da risultare per molti aspetti, se visto in prospettiva storica almeno, sorprendente. E stupisce così vedere come le Chiese tedesche, la cattolica come la protestante, siano oggi in prima fila a battersi per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza ai profughi. Sintomo che un percorso si è ormai concluso, e che la storia – quando affrontata con serietà e coraggio – può essere davvero maestra di vita. Un’apertura che ha portato, come avvenuto negli ultimi mesi, a esempi radicali in cui si è vista la chiesa, in questo caso quella evangelica, offrire alloggio e protezione a richiedenti asilo afghani e iraniani respinti e minacciati di espulsione dallo stato.
Le Chiese tedesche e gli ebrei
Le chiese in Germania hanno poi avuto, sin dall’immediato dopoguerra, un ruolo importante per un tema delicato e difficile: quello del ripristino di un rapporto di fiducia e collaborazione con gli ebrei dopo gli orrori della Shoah. Esistono oggi in Germania, a livello locale, oltre 80 associazioni per la cooperazione ebraico-cristiana (Gesellschaft für christlich-jüdische Zusammenarbeit), in cui sono impegnati sia protestanti che cattolici. Le prime erano state create proprio nel 1948 a Monaco, Stoccarda e Wiesbaden con il fine di promuovere un nuovo dialogo fra le chiese cristiane e gli ebrei. La dichiarazione Nostra aetate, di cui sono da poco ricorsi i cinquant’anni, aveva dato poi ulteriore impulso da parte cattolica anche in Germania, per un ritorno al dialogo con la cultura ebraica dopo tanti, troppi secoli di misfatti e incomprensioni.
Anche grazie al contributo delle diverse chiese, si è potuto così assistere nel dopoguerra alla lenta rinascita dell’ebraismo in terra tedesca. Una comunità che è rimasta numericamente molto esigua ancora fino agli anni Ottanta, quanto nell’allora Germania Ovest gli ebrei erano fra i 25 e i 30mila. Assai più ridotto il numero, invece, nella Ddr comunista, dove gli ebrei erano poco più di un migliaio ed ebbero, in quanto comunità, possibilità assai limitate – anche a causa del pregiudizio ideologico del regime contro le religioni – tali da inibire ogni tentativo di dare vita a una rinascita culturale dopo il genocidio. Un notevole incremento si è avuto invece, nella Germania ormai riunificata, dopo la caduta del muro di Berlino, e questo soprattutto grazie all’arrivo di decine di migliaia di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Sono così saliti a più di 100.000 gli ebrei in Germania, in larga parte residenti nei grandi centri, e sono tante le nuove iniziative volte a far risorgere una presenza culturale ebraica, almeno nelle maggiori città.
Immigrazione e islam
Tra le comunità religiose tedesche legate all’immigrazione, la maggior crescita degli ultimi anni spetta senza alcun dubbio all’islam. Un islam non meno vario e diversificato del cristianesimo tedesco, dove convivono sunniti e sciiti, seguaci del predicatore turco in esilio Gülen e mistici sufi, insieme a infinite altre denominazioni, che in molti casi hanno anche finito per attrarre nuovi fedeli fra i nativi tedeschi. Ed ecco allora che i musulmani rappresentano oggi, secondo gli ultimi dati ufficiali, il 4,9% della popolazione tedesca, pari a poco più di 4 milioni di persone, con una crescita annua che si attesta in un solo anno, fra 2015 e 2016, al 12,5%. Una crescita che corrisponde, sul versante cristiano, a un leggero calo su base annua, cosa che fa temere ad alcuni un sorpasso nei prossimi decenni come prima religione del paese: rispettivamente -0,8% per i cattolici, e -1,5% per i protestanti, che sono rispettivamente 23 e 21 milioni. Una differenza che si spiega, ancora una volta, con l’immigrazione: assai più numerosa è infatti quella proveniente dai paesi di confessione cattolica che protestante. Non vanno infine dimenticati i 2 milioni di cristiani ortodossi e gli oltre 800mila appartenenti ad altre denominazioni cristiane. Quanto al calo progressivo del cristianesimo in genere, questo si spiega anche in base a una caratteristica peculiare della legislazione tedesca, che prevede l’esenzione dal pagamento della tassa destinata alle chiese (e alle diverse fedi non cristiane) per chi rinunci formalmente alla sua appartenenza a esse, dichiarandosi non religioso. Una scelta, questa, sempre più gettonata, vuoi per il risparmio economico che ne deriva, vuoi perché si assiste oggi a una progressiva e sempre più rapida secolarizzazione della società tedesca.
Le molte facce dell’islam tedesco
Tornando all’islam tedesco, dicevamo – ed è un punto fondamentale da ricordare – che questo non è riducibile a un’unica matrice, ma è al contrario assai composito e multiforme. Se questo è vero per la religione musulmana in generale, che è nella realtà ben lungi dalle semplificazioni a cui ricorrono troppo spesso i nostri media, nel contesto tedesco questa pluralità risulta per molti versi ancora più accentuata. Da un lato, troviamo così luoghi e istituzioni all’avanguardia del mondo musulmano per modernità e apertura; dall’altro, un islam più tradizionale e ancorato nelle sue consuetudini nelle comunità immigrate più o meno recenti, da quella turca a quella siriana; infine, non manca una porzione, assai piccola da un punto di vista numerico, ma significativa perché senza dubbio pericolosa, di musulmani radicalizzati e spesso connessi, in modo più o meno diretto, alla galassia del terrorismo internazionale.
Ma, anche qui, ancora una volta, è importante combattere i pregiudizi e le facili semplificazioni. Estremismo religioso di matrice salafita e crisi dei profughi sono questioni distinte, che non vanno poste in diretta relazione. A spiegarcelo è Yan St-Pierre, esperto di antiterrorismo fra i più importanti in Germania e direttore del Modern Security Consulting Group di Berlino, che abbiamo interpellato: «La scena salafita in Germania è molto variegata. Mentre gli elementi stranieri svolgono un loro ruolo – sia tramite i migranti residenti a lungo termine, sia tramite la comunicazione internazionale – la maggior parte degli individui appartenenti a questi movimenti sono nati e cresciuti in Germania».
Il caso di Seyran Ates
Sempre per voler contrastare comode semplificazioni e luoghi comuni, ricordiamo come il luogo di culto musulmano più aperto in Germania, in tutti i sensi, sia iniziativa di un immigrata di prima generazione. Ci riferiamo a Seyran Ates, avvocata femminista di fede musulmana, nata in Turchia, che ha fondato a Berlino una moschea dove sono le donne a guidare la preghiera e la congregazione è mista e non separata. Un luogo di preghiera aperto a tutti, anche ai gay, ma curiosamente non alle donne che portino un velo integrale, dato che questo è ritenuto un modello di religiosità non auspicabile da questa congregazione, in quanto simbolo del patriarcato e non rimandabile in alcun modo direttamente al dettato coranico. Cosa peraltro verissima, quest’ultima, come sa bene chiunque abbia studiato il testo sacro dei musulmani.
Eppure, come testimoniano anche le continue minacce e intimidazioni subite dalla coraggiosa Seyran Ates, l’intolleranza e il fanatismo religioso hanno radici anche in Germania. E ciò in ragione di una piccola minoranza il cui operato viene naturalmente amplificato dagli strumenti dell’odio e della violenza, assai più visibili e percepibili, purtroppo, del quietismo che contraddistingue la vita religiosa di larga parte dei musulmani tedeschi.
Islam e terrorismo
La violenza fa notizia, l’opera paziente dell’integrazione e della pace molto meno, come sappiamo. Abbiamo già parlato degli attentati di matrice religiosa compiuti in Germania in tempi recenti. A dispetto delle stime assai variabili e in parte contraddittorie, sono diverse centinaia i combattenti che negli ultimi anni hanno lasciato la Germania per unirsi ai miliziani del sedicente Stato islamico. Molti di loro, ricordiamolo, sono giovanissimi o persino adolescenti, che – in diversi casi attestati – non hanno nulla a che fare con un retroterra di immigrazione. Una storia, quella radicalismo islamico in terra tedesca, che in Germania ha radici profonde. Già sul finire anni ’90 era infatti attiva la cosiddetta «cellula di Amburgo», il cui leader, Mohammed Atta, è noto in tutto il mondo per aver guidato l’attacco dell’11 settembre.
Una sfida importante, quella contro l’estremismo. affrontata dalla società e dalle istituzioni tedesche. Importante perché investe non solo la sfera della sicurezza, ma inevitabilmente anche l’educazione e la prevenzione del radicalismo. Temi e questioni, questi, che spesso si intersecano gli uni alle altre, e che non possono restare separati. Come ci ha raccontato ancora l’esperto di antiterrorismo Yan St-Pierre: «La Germania è notevolmente migliorata nel suo modo di rapportarsi a tale questione. Ha adattato la sua strategia, passando da un puro sistema di forze di sicurezza a uno che risulti più inclusivo e flessibile, e preveda l’utilizzo di organizzazioni private, Ong e l’integrazione di approcci e idee provenienti sia dalla sfera civile che da quella delle organizzazioni di sicurezza». Una sfida su cui si gioca il futuro del paese, ma anche dell’Europa intera, dato il pericolo concreto di nuovi attentati e la centralità della questione nelle agende politiche del vecchio continente.
Ma non sono solo le tre religioni abramitiche, ovvero ebraismo, cristianesimo e islam, a contraddistinguere il panorama religioso della Germania di oggi. A parte gli oltre 29 milioni di tedeschi che dichiarano di non avere alcuna affiliazione religiosa, e rappresentano il 36,2% della popolazione, ovvero una fetta assai consistente e in continua crescita, troviamo altre minoranze religiose legate spesso alle migrazioni. Fra questi, ricordiamo almeno buddhisti, induisti e sikh. Da menzionare è anche il caso degli yazidi, minoranza religiosa perseguitata e sterminata dal sedicente Stato islamico, che secondo l’ultimo censimento risultano essere 60.000. In Germania si trova oggi, come dimostrato da una recente indagine demografica, più della metà della diaspora di questo popolo sofferente. Un’oasi di pace per una cultura che rischia di scomparire, ma anche un segno che la solidarietà in Germania ha dato buoni frutti.
La speranza di «House of One»
Per concludere con un altro segno di speranza, cosa quanto mai utile in un’epoca in cui alle religioni si associano sempre più di frequente intolleranza e violenza, parliamo di un progetto importante di convivenza e condivisione fra differenti culture e fedi: un unico edificio che raccolga sotto uno stesso tetto una chiesa, una sinagoga e una moschea, permettendo ai fedeli di diverse religioni di pregare fianco a fianco. Un sogno che diventerà presto realtà a Berlino, dove le tre grandi religioni di Abramo avranno per la prima volta uno spazio comune. Il progetto – realizzato dallo studio di architettura Kuehn Malvezzi che ha vinto il concorso indetto nel 2012 – sorge sul sito dove si trovano i resti della più antica chiesa di Berlino, la chiesa di San Pietro (Petrikirche), risalente al tredicesimo secolo e distrutta negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Questo è il messaggio della House of One, «la Casa dell’Uno», così chiamata in onore del Dio unico che contraddistingue e accomuna i tre monoteismi: un simbolo di pace, in un mondo dove fanatismo e odio avanzano in modo sempre più deciso. Ma, insieme, anche un segno concreto di rinascita e riscatto per una nuova Germania risorta dalle ceneri del nazismo.
Simone Zoppellaro
Schede
Dati demografici
Popolazione – 82 milioni di persone.
Stranieri – I residenti di origine straniera che vivono oggi in Germania sono 18,6 milioni, pari a oltre un quinto della popolazione totale, con un aumento record dell’8,5% nel 2016 rispetto all’anno precedente.
Nazionalità – I cittadini stranieri residenti in Germania in ordine per nazionalità: primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece gli italiani, 611mila (con una crescita di 15mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni.
Comunitari – L’immigrazione in Germania non riguarda solo i cittadini cosiddetti extracomunitari. Dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dai paesi dell’Unione europea è più che triplicato. Nel solo 2016, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in Germania.
Illegali – Numero di ingressi illegali nel paese nel 2015, nel pieno della cosiddetta crisi dei rifugiati: 865.374 (dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca). Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225).
Le Chiese
Chiese e fedeli – Le prime due chiese per numero di fedeli sono la Chiesa cattolica con 23,6 milioni e la Chiesa evangelica 21,9 milioni.?Seguono la Chiesa ortodossa 2 milioni e altre Chiese cristiane 851mila. I musulmani sono 4,5 milioni, gli ebrei 99mila, i senza confessione o non religiosi 29,8 milioni.
1945, 19 ottobre: la Chiesa evangelica di Germania pronuncia la «Dichiarazione di colpa di Stoccarda».
Alcune date storiche
1945, 30 aprile: Adolph Hitler si toglie la vita nel suo bunker a Berlino.
1945, 7 maggio: il generale Alfred Jodl firma a Reims, in Francia, i documenti della resa tedesca.
1945, 26 giugno: nascita dell’Unione cristiano-democratica (Cdu), il partito più importante della scena politica tedesca, di cui farà parte anche l’attuale cancelliera Angela Merkel.
1945, 20 novembre: si inaugura il processo di Norimberga contro alcuni dei maggiori criminali del regime nazista.
1949: la Germania viene divisa. Nascita della Repubblica federale tedesca ad Ovest, il 23 maggio, sotto l’influenza degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, mentre il 7 ottobre nasce la Repubblica democratica tedesca (Ddr) ad Est, che gravita nell’orbita sovietica.
1950: ha inizio il boom economico della Germania federale.
1953, 17 giugno: un’ondata di scioperi nella Germania orientale viene soppressa nel sangue.
1955, 9 maggio: la Germania federale entra a fare parte della Nato.
1961, 13 agosto: costruzione del muro di Berlino.
1989, 9 novembre: caduta del muro di Berlino.
1990, 3 ottobre: la Germania viene ufficialmente riunificata.
2005, 22 novembre: Angela Merkel viene eletta cancelliere in un governo di coalizione fra i partiti della Cdu-Csu e della Spd (partito socialdemocratico).
2015: la crisi dei rifugiati tocca il suo punto più alto. La Germania della Merkel sceglie una politica delle porte aperte.
2016, 19 dicembre: attacco terroristico rivendicato dall’Isis al mercato di Natale a Berlino.
2017, 24 settembre: elezioni federali in Germania e rielezione di Angela Merkel (Cdu-Csu). Il partito Alternative für Deutschland (Afd) diventa però la terza forza nel Bundestag.