In Burkina Faso si moltiplicano gli attacchi terroristici agli obiettivi
più diversi. L’opposizione politica accusa il governo d’inefficienza sul fronte
della sicurezza nazionale. Intanto l’attuale esecutivo ha messo in pista
diverse riforme in settori importanti della società burkinabè, e ha fatto anche
qualche passo per migliorare sanità ed educazione. Ne abbiamo parlato con un
personaggio di peso nella storia di questo paese, Antornine Raogo Sawadogo.
La società civile burkinabè, nelle sue varie sfaccettature,
ha giocato un ruolo determinante nell’insurrezione popolare dell’ottobre 2014
che ha rovesciato il presidente Blaise Compaoré. Questi era al potere da 27
anni, a seguito del colpo di stato e con
l’uccisione del presidente Thomas Sankara, e di quattro elezioni dubbie.
Lo
stesso popolo burkinabè si è, poi, mobilitato per sventare un tentativo di
golpe dei fedelissimi di Compaoré un anno più tardi, il 16 settembre 2015.
Dal
gennaio del 2016 il Burkina Faso ha un nuovo presidente, Roch Marc Christian Kaboré
e relativo governo. Un nuovo regime, anche se molti personaggi politici – tra
cui lo stesso presidente – facevano già parte di quello precedente.
A
tre anni di distanza, ci domandiamo che ne è di quella società civile che è
stata così importante per la svolta e che aveva giurato che in Burkina Faso
«Niente sarà più come prima».
Ne
abbiamo parlato con uno che di queste cose se ne intende: Antornine Raogo
Sawadogo.
Sawadogo
è sociologo ed esperto di società civile, ed è stato anche uomo politico. È
stato ministro dell’Amministrazione territoriale e Sicurezza (equivalente al
ministero dell’Interno) e, come tale, padre della legge sul decentramento
amministrativo in Burkina Faso. È stato il primo presidente della Commissione
per il decentramento amministrativo. Ha poi fondato il Laboratornire Citoyenneté,
un centro studi sulla cittadinanza attiva, molto rinomato e attendibile.
Lo
incontriamo una sera a Ouagadougou, di ritorno da un viaggio nel vicino Niger.
Dottor Sawadogo, secondo lei, le organizzazioni della società civile stanno
giocando il ruolo di controllori democratici del potere?
«Rispetto al 2014-15 abbiamo oggi una
società civile più divisa sull’oggetto della lotta. Non è più consensuale,
avanguardista. Non può più monitorare il potere politico per dire se non lavora
secondo la buona governance. Si diceva dopo l’insurrezione e il fallito colpo
di stato: “Tutti ci alziamo come un solo uomo e rimettiamo al loro posto i
nostri dirigenti”. Non è più così.
La società civile burkinabè si è divisa in
diverse sensibilità (o categorie), che io classifico in almeno tre gruppi.
Il primo è di quelli che chiamiamo “i
rassegnati”: essi dicono che dopo aver cacciato Blaise Compaoré, dopo aver
respinto i golpisti, due, tre anni dopo, non ci sono cambiamenti, “troviamo le
stesse persone al potere”, ovvero, “ci siamo stancati per nulla”. Si siedono e
guardano. Non sentiamo più parlare di loro. Appare qualche articolo per dire:
“la nostra lotta è fallita, la nostra dinamica di cambiamento è stata
recuperata e ricondotta alle dinamiche precedenti”.
Io penso che si tratti di un gruppo composto
dalla gente più a sinistra, che sperava che fosse arrivata l’ora per il
cambiamento. I delusi del sistema, ovvero la punta della lotta sankarista,
quelli che erano stati bastonati dall’apparato di Blaise Compaoré. Avevano
fatto un cammino sviluppando una militanza clandestina e, quando gli
avvenimenti dell’insurrezione sono arrivati, il loro impegno si è amplificato.
Come ad esempio il Partito comunista rivoluzionario voltaico (Pcrv)1. Vedo i leader di
questi movimenti rassegnati e rientrati nella loro clandestinità.
La seconda sensibilità è quella che chiamo
“di rigetto”. Appartiene a quelle organizzazioni che sono arrivate a
un’attitudine di rifiuto sistematico della dinamica attuale dopo le elezioni
(del novembre 2015 che hanno portato all’insediamento, nel gennaio 2016, del
governo attuale, ndr). Queste si dicono: “Abbiamo sviluppato una società civile
d’interpellanza2, che aveva
un discorso, ma alla fine non abbiamo visto cambiamenti, dunque rigettiamo
questo sistema di potere”. Aspettano che si lavori sull’impunità, che si
risolvano i conti sospesi del paese: si trovino i colpevoli dei crimini
economici e dei crimini di sangue. Tra queste ci sono ad esempio le Balai
Citoyen. Sono in una dinamica di rigetto dell’ordine ristabilito, non hanno
ottenuto quello che volevano.
Poi c’è la società civile politicizzata, opportunista. È composta
da organizzazioni e associazioni legate ai partiti politici, o fondate da
uomini politici stessi. Si divide in due categorie: quelle che sono per i
partiti di opposizione, Cfop3, e
quelle per i partiti della maggioranza. Rappresentano le voci dei loro capi di
partito».
Chi avrebbe dovuto esercitare un controllo sul nuovo regime, dando
concretezza allo slogan «Niente sarà più come prima»?
«I
rassegnati preferiscono non parlare. Coloro che rigettano invece parlano, ma
senza avere i mezzi per attuare un contropotere, come invece avrebbero voluto.
La verità è che chi ha vinto le elezioni e ha preso il potere, ha nominato
alcuni leader di queste associazioni a posti elevati e rappresentativi. Diversi
di loro sono stati nominati ministri, altri hanno avuto un posto nell’alta
gerarchia della presidenza della Repubblica. Li hanno fatti entrare nel potere
per zittirli.
Quelli
del terzo gruppo, gli opportunisti dei partiti politici, danno voce alle
rivendicazioni dei loro partiti, senza esercitare un vero controllo».
Non c’era solo la società civile organizzata all’origine dell’insurrezione
del 30 ottobre 2014. C’era il popolo stesso che portava avanti una serie di
rivendicazioni. Senza un movimento massiccio di popolazione, l’insurrezione non
si sarebbe fatta o comunque non avrebbe avuto successo.
La popolazione, tra le altre richieste, aveva una forte domanda di stato di
diritto, di democrazia e di ridistribuzione di ricchezza. Quali di queste
attese sono state soddisfatte?
«Lo stato di diritto
è una richiesta permanente. Di tutte le sensibilità della società civile e
della politica, nessuna rigetta lo stato di diritto. È una rivendicazione
massiccia e permanente. È piuttosto il modo di gestire e di governare che pone
problema agli uni oppure agli altri.
Al tempo di Blaise
Compaoré lo stato di diritto non era garantito. S’imbrogliava durante le
elezioni, usando gli artifici formali della democrazia, per poter dire “abbiamo
vinto le elezioni”. Compaoré non si faceca scrupoli, era il suo sistema. Con la
sua guardia pretoriana (il Reggimento di sicurezza presidenziale, Rsp), il suo
gruppo di operatori economici, il suo partito politico, non si poneva problemi.
Gli bastava far credere all’esterno di aver rispettato le regole».
E cosa fa il governo attuale?
«Quelli
che sono al potere oggi sono coscienti che devono funzionare con un minimo di
regole in materia di stato di diritto. Sia formalmente, sia nella realtà. È per
questo che negli ultimi tre anni non ci sono più state persone liquidate,
assassini politici, e ci sono molti dossier che stanno procedendo (seppur
lentamente, ndr) in giustizia. Si è cercato di giudicare il passato regime, ed
è in corso un processo anche sul colpo di stato (del 15 settembre 2015, ndr).
Quando vogliono arrestare qualcuno lo fanno. C’è uno sforzo di fare le cose
nelle norme. Questo è qualcosa che è cambiato.
Per
contro osserviamo ancora velleità di imporsi, di prendere (da parte
dell’opposizione) e tenere il potere».
E quali sono, secondo lei, le altre novità del «nuovo corso»?
«È
stato messo in piedi un sistema di riforme politiche. Penso sia stato imposto
dai diversi scioperi. Sono infatti nati molti sindacati in questo periodo. Lo
stato sta cercando di andare più velocemente nelle riforme politiche in tutti i
settori. Ci sono molte riforme pronte: dell’esercito, della funzione pubblica,
per esempio si vuole rivedere lo statuto delle categorie di funzionari, i
progetti e i programmi statali, si rimettono in causa i vantaggi dei funzionari
del ministero Economia e finanza. Un’altra riforma è nella Magistratura: non è
più il presidente della Repubblica che nomina gli alti magistrati, ma è la
Magistratura stessa.
Sono
riforme a 360 gradi, ma non c’è una visione, con un fil rouge da seguire. Forse
è una risposta alle diverse rivendicazioni delle corporazioni. Sapendo però che
il governo non ha abbastanza mezzi per queste riforme, e non ha la forza per
imporle, perché non ha maggioranza confortevole in parlamento, con 55 deputati
all’Assemblea Nazionale, ha dovuto fare alleanze».
E sul piano sociale, nell’ambito di lavoro, educazione, salute, il governo
è riuscito a migliorare la situazione?
«Il
governo ha reso gratuite le cure per i bambini sotto i cinque anni e per le
donne gravide tramite un decreto che è stato molto apprezzato dalla
popolazione. Ha fatto costruire centri di salute (dispensari, ndr) in tutti i
dipartimenti, anche se poi non ci sono i soldi per equipaggiarli con mezzi e
personale.
Anche
nel settore dell’educazione sono state fatte delle infrastrutture, sia per le
scuole primarie che secondarie: si normalizzano le scuole sotto i tetti di
paglia. Ma l’attrezzatura e il personale non seguono.
Hanno
anche assunto migliaia di funzionari, 1.500 insegnati per anno, tra due e
tremila poliziotti.
Tutto
questo si è realizzato grazie a finanziamenti diretti ai budget dei diversi
ministeri da parte di finanziatori internazionali».
Un tema fondamentale all’ordine del giorno in Burkina Faso è quello
dell’insicurezza, a causa del moltiplicarsi degli attacchi di sedicenti jihadisti
o integralisti islamisti, a posizioni della polizia e altri obiettivi. I
partiti di opposizione accusano il governo di non fare abbastanza. Ma questa
critica fa parte anche del gioco politico. Secondo lei come si muove il governo
su questo fronte?
«Io
constato che questi attacchi sono cominciati al Nord, sono continuati all’Est,
vanno verso il Sud e arrivano verso l’Ovest. È un’insicurezza che ci sta
circondando, alla quale si sommano, ogni tanto, azioni di grande effetto al
centro, a Ouagadougou4. È un fenomeno che
prende ampiezza e non è neppure ciclico, ma lo stiamo vivendo quasi
quotidianamente.
Se
osserviamo i simboli attaccati, sono di diverse tipologie:
lo stato, ovvero le forze di sicurezza e di difesa, come strutture di polizia, gendarmeria, dogane, guardia forestale;
e scuole, gli insegnanti;
qualche simbolo religioso, alcuni imam sono stati sgozzati, catechisti, parroci, chiese devastate (es. chiesa di Dissin nel Sud Ovest);
simboli degli stranieri, come hotel e ristoranti frequentati da loro;
le miniere, l’industria, come interessi occidentali.
Se
normalmente, a seconda degli obiettivi attaccati, si può cercare di capire
quali interessi ci sono in gioco, nel nostro caso, vista la varietà di target,
diventa difficile. Voglio dire, è quasi impossibile sapere se siano solo
jihadisti che attuano una guerra di religione, o personaggi del vecchio regime
che vogliono destabilizzare lo stato, o ancora banditi comuni che cercano di
arricchirsi. Fino ad oggi nessuno può dire chi siano veramente.
La
verità è che gli obiettivi che vengono attaccati sono stati creati e gestiti
dalla gente del vecchio regime. Durante 27 anni di Compaoré sono stati nominati
i funzionari, il Burkina è stato trasformato in paese minerario, è stata messa
in piedi l’economia. Le persone di quel regime possono oggi essere contro a
questi interessi?».
Forse allo scopo di destabilizzare il paese?
«Non
penso. La maggioranza degli ex del regime non è in esilio, sono qui con noi. È
contro il loro interesse distruggere il paese.
Non penso ci sia una
regia all’esterno o all’interno che dice: attacchiamo tutto questo allo stesso
tempo. È un fenomeno che non si può analizzare intra muros burkinabè. Lo stesso
sta succedendo in Mali, Niger, Camerun, Ciad, Nigeria. Bisogna cercare le
ragioni altrove perché i veri giochi sono esterni al Burkina. In passato il
nostro territorio è stato risparmiato perché non c’erano le condizioni per
entrare qui. Non penso che sia la partenza di Blaise Compaoré che ha portato
questa situazione. È un movimento, una dinamica che è cominciata altrove, fa il
suo percorso e coincide con la partenza di Compaoré, che forse è stata il
detonatore, ma non la ragione principale.
Per
fare un esempio, quando ero ministro dell’Interno, all’inizio degli anni ’90,
ricevevo già delle informazioni dai servizi che menzionavano di velleità [di
potenze straniere] di cambiare i confini del nostro paese».
Ma il governo di Roch Marc Christian Kaboré come gestisce la sicurezza del
paese, secondo lei?
«Non lo so. Non ho abbastanza elementi per dirlo. Noi non
siamo più forti dei maliani e dei nigerini. Loro si sono abituati agli
attacchi, mentre noi non lo siamo ancora, ma a poco a poco stiamo imparando a
gestire questa situazione.
Non sono convinto che lo stato burkinabè avrebbe i mezzi per
reagire meglio. In Nigeria, nonostante i mezzi di quel grande stato, i
terroristi arrivano a destabilizzare intere aree del paese. Il piccolo Burkina
come potrebbe fare meglio? Lo stesso vale per il Ciad che ha il migliore
esercito della regione. Anche se Blaise Compaoré fosse stato ancora presidente
io non sono convinto che avrebbe potuto fare meglio dell’attuale governo. Sono
stato recentemente in Niger: a 70 km da Niamey, la capitale, hanno rapito un
missionario italiano5. Non si sa dove siano fuggiti: in Niger, in Mali, in
Burkina verso Sud?
Qui da noi hanno rapito anni fa il dottor Helliot e un
lavoratore rumeno alla miniera di Tambao, e sono ancora prigionieri. Poi hanno
rapito catechisti, consiglieri municipali, funzionari, che in seguito sono
stati liberati. Hanno attaccato addirittura l’ambasciata di Francia, come è
possibile che la Francia non lo abbia previsto? Per questo dico che non posso
affermare se gestiscono bene o male la questione sicurezza».
Marco Bello (seconda puntata – fine)
Cronologia essenziale
Il Burkina sotto attacco
1960, 5 AGOSTO – L’Alto Volta diventa indipendente, Maurice Yameogoè il primo presidente.
1983, 4 AGOSTO – Inizia la rivoluzione burkinabè, guidata da Thomas Sankara e altri quattro compagni, tra i quali Blaise Compaoré. Un anno dopo l’Alto Volta diventa Burkina Faso, il paese degli uomini integri.
1987, 15 OTTOBRE – Thomas Sankara e i 12 collaboratori più stretti vengono ammazzati. Blaise Compaoré diventa capo di stato.
1998, 13 DICEMBRE – Assassinio del noto giornalista investigativo Norbert Zongo. I sospetti portano al fratello di Blaise, François Compaoré, ma l’inchiesta è bloccata.
2011 – Diverse rivolte di piazza scuotono il potere di Compaoré: studenti, parte dell’esercito, magistrati, commercianti. A giugno repressione della rivolta dell’esercito a Bobo-Dioulasso.
2013, MAGGIO – Legge per l’istituzione del Senato, per modificare la Costituzione affinché Compaoré si possa candidare nel 2015.
2014, DA GENNAIO – Diverse manifestazioni pacifiche contro la modifica costituzionale raccolgono milioni di persone in piazza.
2014, 30 OTTOBRE – Insurrezione popolare contro il voto per modificare la Costituzione. Il 31 ottobre Compaoré fugge in Costa d’Avorio. Messi in piedi organi di transizione (presidente, governo, consiglio nazionale) per una durata di 12 mesi. Le vittime degli scontri sono 24 e i feriti oltre 600.
2015, 16 SETTEMBRE – Il generale Gilbert Diéndéré utilizza la guardia presidenziale per tentare un colpo di stato e bloccare la transizione. La popolazione reagisce, i sindacati dichiarano lo sciopero generale, l’esercito repubblicano si schiera contro il putsch.
2015, 30 SETTEMBRE – La transizione è ripristinata, i golpisti arrestati. I morti sono almeno 17 e i feriti 108.
2015, 29 NOVEMBRE – Elezioni presidenziali e legislative. Roch Marc Christian Kaboré è il nuovo presidente. Da sempre pezzo grosso del regime Compaoré, aveva rotto nel gennaio 2014. Il suo governo si insedia il 12 gennaio 2016.
2016, 15 GENNAIO – Attentato jihadista nel cuore della capitale Ouagadougou. Colpiti gli hotel Splendid e Ybi e il ristorante Cappuccino. Le vittime sono 30 di 18 nazionalità.
2016, 16 DICEMBRE – In un attacco nella regione Sahel (Nord) periscono 12 militari. La rivendicazione sancisce la nascita del primo gruppo jihadista burkinabè, Ansarul Islam, a base etnica Peulh. Diventano frequenti gli attacchi a positazioni militari e di polizia, oltre che a scuole e dispensari nel Nord del paese.
2017, 13 AGOSTO – Attacco jihadista al ristorante Aziz Istambul, in centro a Ouagadougou, 19 morti.
2018, 2 MARZO – Doppio attacco quasi contemporaneo: all’ambasciata di Francia e allo stato maggiore dell’esercito burkinabè, in centro a Ouagadougou. Almeno 8 le vittime.
2018, AGOSTO – Inizia una serie di attacchi a posizioni militari e di polizia nell’Est del paese. Oltre al Nord, dove continuano, l’Est diventa la seconda zona interessata.
2018, 17 SETTEMBRE – In Niger, al confine con il Burkina Faso, viene rapito padre Pierluigi Maccalli, missionario Sma (Società missioni africane), da un gruppo proveniente dal Burkina.
Ma.Bel.
Corno d’Africa:
Cosa cambia sotto il sole eritreo
Con la firma del 16 settembre a Gedda, l’Eritrea sembra aver perso il suo
maggior nemico: l’Etiopia. Sono passati due anni di guerra e 18 di guerra
fredda. Il piccolo paese che si affaccia sul Mar Rosso si è sigillato nei suoi
confini diventando la peggiore dittatura d’Africa. Cosa cambierà per i suoi
abitanti? Ci saranno aperture? Intanto sembra si sia innescato un effetto
domino che potrebbe portare a un cammino verso la pace in tutta l’area.
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna
che tutto cambi». Sostituite il principe Tancredi a Isaias Afewerki, Salina ad
Asmara e il gioco è fatto. Nulla meglio del celebre romanzo «Il gattopardo» di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa riesce a spiegare l’attuale situazione
dell’Eritrea. La pace con l’Etiopia sembra aver portato un grande cambiamento
nel piccolo paese affacciato sul Mar Rosso ma, al momento, poco è davvero
mutato rispetto al passato. Il regime è ancora lì, intatto. La sua presa sulla
politica e sulla società è ancora fortissima. La Costituzione non è stata
emanata. Non esiste un sistema giudiziario indipendente. I più elementari
diritti umani e civili non sono tutelati. Le forze armate non sono state
smobilitate. Pochi detenuti politici sono stati liberati. Certo, l’intesa con
Addis Abeba ha portato a un miglioramento delle condizioni di vita, perché nel
paese sono arrivate più merci.
Economia in ripresa
La proposta
di pace avanzata il 6 giugno dal premier etiope Abiy Ahmed al presidente
eritreo Isaias Afewerki ha spiazzato l’Eritrea. Negli ultimi vent’anni lo stato
di non belligeranza con Addis Abeba, seguito al conflitto del 1998-2000 tra i
due Paesi, era servito al regime di Asmara per giustificare il suo potere.
Invocando la «minaccia etiope», Afewerki ha imposto un regime di rigida
autarchia economica accompagnata da una forte stretta politica.
Con la pace
firmata il 9 luglio e poi ratificata il 16 settembre a Gedda (Arabia Saudita),
l’Eritrea ha perso il suo principale nemico e, con esso, ogni pretesto per non
introdurre garanzie democratiche. In realtà, nel paese poco è cambiato. Le
piccole trasformazioni sono avvenute soprattutto in campo economico. «Con
l’apertura delle frontiere con l’Etiopia, prevista dagli accordi di pace –
osserva Erminia Dell’Oro, scrittrice italo-eritrea -, i prezzi dei generi
alimentari e di prima necessità sono fortemente calati. Il teff, cereale base
della cucina eritrea ed etiope, fino a pochi mesi fa costava moltissimo e la
gente soffriva la fame, perché doveva pagare cifre elevate. Oggi il costo è
calato, nei mercati ce n’è maggiore disponibilità grazie alle importazioni
dall’Etiopia. Da anni, la mia famiglia voleva rifare la facciata della casa, ma
aveva soprasseduto perché il cemento e gli intonaci costavano troppo. Adesso i
prezzi sono calati e stiamo progettando di mettere in campo i lavori».
La povertà
però è diffusa. «Servirebbero politiche che favoriscano la
reindustrializzazione del paese – spiega una giovane asmarina che vuole
mantenere l’anonimato -. Il paese deve recuperare la sua vocazione commerciale.
Pensiamo solo all’importanza dei nostri porti, in particolare Massaua e Assab.
Se ben sfruttati possono diventare lo sbocco al mare per tutto il Corno
d’Africa. L’Eritrea deve però investire per ricostruire quel tessuto
industriale e artigianale un tempo così fiorente (cotonifici, birrifici,
aziende artigiane, ecc.). Solo questo ci può garantire un flusso costante di
entrate e maggiore occupazione».
Attualmente
in Eritrea non c’è lavoro. La povertà è palpabile. «Girando per le strade si
vedono mendicanti che chiedono l’elemosina – continua la scrittrice -. Un
tempo, una cosa simile era impensabile. Molti giovani sono fuggiti e le
famiglie sono composte dai nonni che, tra mille difficoltà, crescono i nipoti».
La povertà
è evidente, anche se si guardano i palazzi e le strade di Asmara. «La nostra
capitale – conclude la ragazza asmarina – è come una donna che da giovane era
bellissima ma è invecchiata male e oggi è piena di rughe. Le strade sono
dissestate e piene di buche. Gli edifici, un tempo splendidi, frutto dei
progetti dei migliori architetti italiani, dimostrano i segni degli anni.
Vent’anni di stato di guerra hanno lasciato segni profondi. Ma sono convinta
che, appena ci saranno le condizioni, Asmara tornerà al suo antico splendore».
Stallo politico
La politica
però rimane un tabù. Nelle strade, nei luoghi pubblici, nelle scuole non si
parla del presidente, del governo, del partito di maggioranza. C’è paura.
L’apparato repressivo, che fa leva su una capillare rete di informatori, non è
stato smantellato. «Nel paese non c’è dibattito – continua Erminia -. Tra la
gente comune c’è una grande ammirazione per il premier etiope Abiy Ahmed. Un
primo ministro giovane, dinamico, che ha saputo superare una crisi politica
lunga vent’anni. Di Isaias Afewerki si parla poco o nulla. C’è la speranza che
sappia guidare una trasformazione del paese. Anche se molti ne dubitano».
I problemi
degli ultimi vent’anni sono ancora tutti sul tavolo. La Costituzione
democratica, redatta alla fine degli anni Novanta, non è mai entrata in vigore.
Quindi non c’è una Carta che garantisca i più elementari diritti civili. Nel
paese non si tengono regolari elezioni, non c’è un parlamento e sistema
giudiziario indipendente. Alcuni oppositori sono stati rilasciati, ma la
maggior parte sono ancora in una delle 350 prigioni del paese. «Quello di
Asmara – sottolinea Mussie Zerai, sacerdote dell’eparchia di Asmara – è uno dei
regimi politici più duri del mondo, una dittatura che ha soppresso ogni forma
di libertà, annullato la Costituzione del 1997, soppresso di fatto la
magistratura, militarizzato l’intera popolazione per quasi tutta la vita. Una
dittatura che ha creato uno stato prigione. Anche di recente sono stati
arrestati oppositori, sono state chiuse scuole cattoliche e islamiche, sono
stati sbarrati otto centri medici e ospedali cattolici, mentre il patriarca
della chiesa ortodossa Abune Antonios, fermato nel 2004, si trova ancora agli
arresti dopo ben 14 anni».
Negli anni,
il regime ha arruolato migliaia di ragazzi e li ha schierati alla frontiera con
l’Etiopia. Questi militari di leva, per i quali non era e non è prevista una
data certa di congedo, non sono ancora stati smobilitati. «La pace – spiega un
altro religioso che vuole mantenere l’anonimato – non ha portato a uno
snellimento delle forze armate. Nonostante la minaccia etiope sia venuta meno,
i reparti sono ancora a pieno organico. Nessun giovane è tornato a casa. La
gente inizia a chiedersi perché. Che senso ha tenere una struttura così grande
e costosa?».
E le
persone continuano a fuggire. Se in passato si scappava di nascosto, attraversando
la frontiera di notte per non farsi bloccare dalle guardie di confine, oggi lo
si fa alla luce del sole. Grazie all’apertura della rotta aerea Asmara-Addis
Abeba, molti eritrei si recano in Etiopia e da lì verso altri paesi africani o
verso l’Europa. «L’Eritrea – ci dice Tekle Haile, eritreo, storico oppositore
del regime, da anni in esilio in Italia – ha siglato un trattato di pace di cui
non si conoscono i contenuti. L’opposizione, oggi frazionata, ma che nei
prossimi mesi darà vita a un unico soggetto, teme che il nostro paese sia stato
svenduto all’Etiopia. Che ne sarà dei nostri porti? Delle nostre strade? Dei
nostri ponti? Della nostra economia? Non vorremmo che, dopo trent’anni di
guerra di indipendenza, un altro conflitto durato tre anni seguito da vent’anni
di dura non belligeranza, ora l’Eritrea torni a essere una sorta di provincia
di Addis Abeba. Questa incertezza economica e questo regime così oppressivo
fanno paura e la gente continua a fuggire».
Enrico Casale
Chi è l’artefice del cammino di pace
Abiy Ahmed: come ti rivolto il Corno
La pace tra Eritrea ed Etiopia ha un
protagonista: è il premier etiope Abiy Ahmed. È stato lui l’artefice dell’apertura
nei confronti di Asmara. Ma questo è solo uno dei tasselli della politica di
riforma con la quale sta trasformando nel profondo il suo paese.
Multietnico
Abiy Ahmed, 42 anni, cristiano riformato, ma figlio di un papà
musulmano e una mamma cristiana ortodossa, è un oromo, appartiene cioè
all’etnia maggioritaria, sebbene sempre discriminata. Arrivato al potere,
nell’aprile 2018 ha avviato una serie di grandi cambiamenti. Oltre ad
annunciare, fin dal suo primo discorso tenuto il 2 aprile, la necessità di un
dialogo con l’Eritrea, ha promosso una riconciliazione nazionale, ordinando il
rilascio di migliaia di prigionieri politici e legalizzando i gruppi di
opposizione, a lungo definiti «organizzazioni terroristiche». In campo
economico ha promesso di rilanciare l’economia etiope (che viaggia già a
percentuali di crescita intorno all’8-9%) scommettendo sul sistema produttivo e
privatizzando alcune imprese statali. Anche la pace con l’Eritrea potrà avere
profondi risvolti in campo economico: l’Etiopia potrà infatti sfruttare i porti
di Massaua e di Assab, più vicini e meglio collegati di quelli di Gibuti e Port
Sudan.
Pace nel Corno d’Africa
Proprio la pace con l’Eritrea ha creato una sorta di effetto
domino che, dopo anni di forti tensioni, sta riportando stabilità in tutto il
Corno d’Africa. Dopo l’intesa fra Asmara e Addis Abeba, il premier Abiy Ahmed e
il presidente Isaias Afewerki hanno infatti aperto un tavolo di trattativa con
il presidente somalo Mohamed Abullahi Mohamed «Farmajo». Da questo tavolo, il 6
settembre è nato il Joint
high level committee, una commissione
formata dai tre governi che mira al rafforzamento dei loro legami politici,
economici, sociali e culturali, oltre che garantire il perseguimento e il
mantenimento della pace e della sicurezza in tutta l’Africa orientale. Un passo
avanti importantissimo se si tiene conto che la Somalia è stata per anni un
teatro in cui Eritrea ed Etiopia si sono scontrati per interposta persona. Non è
un caso che, nel 2009, l’Onu ha imposto ad Asmara l’embargo sull’importazione
delle armi per il sospettato supporto eritreo ai militanti islamisti somali di
Al Shabaab (milizia da sempre feroce avversaria dell’Etiopia).
La creazione di questa commissione ha rappresentato la base per
porre un altro tassello della stabilità regionale: la pace tra Eritrea e
Gibuti. Le tensioni tra i due paesi risalgono al 1996, quando l’ex Somalia
francese ha accusato Asmara di un attacco presso il villaggio di Ras Doumeirah.
L’episodio non si è trasformato in guerra aperta, ma le tensioni si sono
trascinate fino al 2010 quando, grazie alla mediazione del Qatar, le due
nazioni sono arrivate a un accordo sulle dispute territoriali. Nel 2017 le
tensioni sono tornate ad accendersi quando Gibuti si è apertamente schierata a
favore della coalizione saudita contro il Qatar, mentre l’Eritrea ha continuato
a professarsi amica di Doha. Proprio grazie alla mediazione di Etiopia e
Somalia, la frattura è stata ricomposta e a metà settembre i presidenti eritreo
Isaias Afewerki e gibutino Ismail Omar Guelleh hanno siglato un’intesa di
collaborazione.
Diffidenze
È ormai chiaro che le aperture di Abiy Ahmed hanno dato il via a
un processo di distensione che va oltre la stessa Etiopia e investe l’intera
regione. Una regione, il Corno d’Africa, che negli ultimi 25 anni ha conosciuto
guerre civili lunghissime (Somalia) e tensioni tra stati (Gibuti, Eritrea ed
Etiopia) che hanno frenato la crescita economica e sociale.
Non tutti però apprezzano la politica di apertura del premier di Addis Abeba. La diffidenza arriva dall’etnia tigrina (che in Etiopia rappresenta solo il 7% della popolazione) che ha gestito il potere dall’inizio degli anni Novanta, ma anche dagli apparati di sicurezza e da alcune frange delle forze armate. Riuscirà Abiy Ahmed a superare queste resistenze? La popolazione è dalla sua parte. E anche la comunità internazionale, se è vero che il Wall Street Journal lo ha definito «la più grande speranza per il futuro democratico dell’Etiopia».
En.Cas.
Burkina Faso: Tra jihad e fibra ottica
Il (Burkina Faso) paese che ha vissuto negli ultimi anni un’insurrezione popolare, un tentativo di colpo di stato e tre attentati sanguinari nella capitale, si confronta oggi con un incremento di attacchi terroristici sul suo territorio. Il tema della sicurezza domina il dibattito politico, mentre la società civile si divide e non riesce a giocare il ruolo di guardiana del potere. La vita quotidiana è influenzata dall’incertezza e da un nemico invisibile. E c’è chi dice che nell’ombra trami l’ex presidente-dittatore Blaise Compaoré.
Testo e foto di Marco Bello
Percorriamo la strada che dalla capitale Ouagadougou porta a Ouahigouya, nel Nord. Lungo tutti i suoi 180 km, vediamo di lato un fossato scavato e poi ricoperto. Ogni tanto spuntano dal terreno grossi cavi neri chiusi con un tappo colorato. È una visione che contrasta con la brousse, la campagna saheliana. Quel cavo è la fibra ottica che porta dati e connessione internet anche nei luoghi più remoti dell’Africa. È arrivata anche qui e presto sarà operativa.
Ma nel Burkina Faso di oggi, proprio Ouahigouya, città a 70 km dal confine con il Mali, è anche il limite della cosiddetta «zona rossa». Nella cartografia della sicurezza, la mappa aggiornata dall’ambasciata di Francia (in questo caso), il paese è diviso in zone: giallo, arancio e rosso. Il giallo corrisponde a «vigilanza rafforzata»; l’arancio a «zona sconsigliata, salvo per ragioni imperative»; mentre il rosso è «formalmente sconsigliata». Per il Burkina quest’area «proibita» agli stranieri coincide con tutta la banda di frontiera con il Mali, il Niger e parte del Benin. In queste zone, è più probabile che i jihadisti (terroristi islamisti, come li chiamano qui), i banditi e molti altri gruppi compiano attacchi o rapimenti.
Ebbene sì, il tranquillo Burkina Faso, terra di tolleranza e di convivenza pacifica tra etnie (ben 60) e religioni1, si sta trasformando in un territorio di conflitto, seguendo il contagio dei paesi vicini, Mali e Niger in prima battuta, in un’area, quella dell’Africa dell’Ovest, che è ormai tutta piuttosto instabile.
Come cambia la vita
A Ouahigouya, frontiera della zona rossa, incontriamo Adama Sougouri, direttore della radio comunitaria «La Voix du Paysan» (la voce del contadino). La radio trasmette in otto lingue locali e porta avanti un lavoro educativo, oltre che informativo, tipico di un media di comunità. «Il problema dell’insicurezza ha cambiato il modo di vivere qui nel Nord – ci racconta il direttore -. Quando è cominciato, ci dicevamo che da noi non sarebbe successo come in Mali, con i rapimenti e gli attentati. L’esercito aveva rinforzato i presidi, ma d’improvviso la nostra regione è stata messa in zona rossa a livello internazionale e questo ha giocato molto sull’organizzazione della vita e in particolare sull’economia». Questa, fino a poco tempo fa, era una zona di passaggio dei turisti per andare a visitare i famosi «Paesi Dogon» in Mali. Hotel, ristoranti e anche molti artigiani, giovani in particolare, e commercianti vivevano di turismo. Oggi il settore è in ginocchio. Anche l’associazionismo che viveva di partenariati con Ong e associazioni europee ha visto una drastica riduzione dei propri progetti, «perché gli stranieri qui non vengono più».
A livello sociale il clima d’insicurezza ha creato la «paura del prossimo», continua Sougouri. «Questa situazione è vissuta come un’incertezza, non si capisce cosa potrebbe succedere da un momento all’altro. Oggi ci sono località nel Nord dove due vicini che si conoscono bene, non hanno più fiducia uno dell’altro. Perché qualcuno è stato scoperto a trattare con questi sedicenti ribelli o jihadisti. Tutti hanno paura di tutti». Ma c’è anche chi approfitta di questa situazione: gruppi di banditi che vivono di saccheggio.
«Alcune scuole sono state chiuse perché gli insegnanti sono stati prima minacciati, accusati di insegnare il francese ai bambini, e poi uccisi a sangue freddo». Stessa sorte è successa ad amministratori e funzionari comunali, sgozzati nelle loro povere sedi comunali.
«Non sappiamo se siano jihadisti o criminali comuni. Per tutto quello che succede usiamo la parola terrorismo. Ma è questa la strategia reale dei jihadisti?». Si interroga il direttore: «Creare una situazione di paura, di psicosi nella popolazione, per poi mettersi di lato e guardare la nostra società disgregarsi».
Il grande Nord
Con un pick-up sfrecciamo sulla pista di laterite che da Ouahigouya conduce a Titao, a Nord Est. Penetriamo ancora di più in «zona rossa», ma vediamo solo il verde del sorgo e del miglio dei campi, che, grazie a un’ottima stagione delle piogge, è cresciuto rigoglioso. Incrociamo, nell’altro senso di marcia, due camionette zeppe di militari della gendarmerie, in assetto da combattimento, con elmetti, kalashnikov e le mitragliatrici sul tettuccio, pronte – sembrerebbe – a sparare. Deve essere, pensiamo, una pattuglia di stanza nel comune di Titao, che ha finito il turno ed è stata rimpiazzata.
Giungiamo nel villaggio di You. Qui un gruppo di donne ci accoglie festanti, perché un progetto della Ong Cisv, finanziato dal Fondo Fiduciario di emergenza dell’Unione europea2 ha consegnato loro delle capre. Potranno farle riprodurre e vendere i piccoli, godendo così di un piccolo reddito per lottare contro la fame. Incontriamo poi degli agricoltori, scelti tra i più poveri del villaggio, ci assicurano quelli di Cisv. Sono in un campo di niebé (fagiolo autoctono). Lo stesso progetto li ha aiutati a strappare questa terra all’erosione, grazie a tecniche locali e ha insegnato loro come coltivare con metodi più naturali, agroecologici.
La gente è serena, contenta della visita. Non si avverte la tensione tipica da «zona rossa».
Alcuni giorni dopo la nostra visita, il 23 settembre, a un’ottantina di chilometri più a Nord, un’auto dell’impresa che sfrutta la miniera d’oro di Inata, la ghanese Balaji Group, verrà fermata da una quarantina di motociclisti armati sull’asse Tongomayel – Djibo. I tre occupanti, un burkinabè, un indiano e un sudafricano verranno rapiti. I gendarmi lanciati all’inseguimento lasceranno tre morti sul terreno. Alcuni giorni dopo interverranno pure i Mirage francesi (aerei da caccia), dell’operazione Barkhane3, a bombardare la zona. Ma è difficile colpire delle motociclette nel deserto. E ormai il gruppo riparerà nel vicino Mali.
Fronte dell’Est
Da agosto sono cominciati attacchi nelle regioni ad Est del Burkina Faso, tanto da far scrivere ad alcuni media che è nata una nuova cellula jihadista in questa zona.
Il culmine si ha il 17 settembre, con il rapimento di padre Pierluigi Maccalli, missionario italiano della Sma di Genova, in una località nigerina, nei pressi della frontiera con il Burkina. Era nella sua parrocchia, dove lavorava dal 2007. L’ipotesi più accreditata è che il padre sia stato rapito dal gruppo che imperversa nell’Est del Burkina, in fuga dalle forze di sicurezza. Può essere stato portato nella foresta della Tapoa (Burkina), oppure verso il Mali lungo un corridoio Sud-Nord sulla frontiera Burkina-Niger.
Ricordiamo che numerosi sono i gruppi integralisti di base nel vicino Mali (cfr. MC ago-set 18 e giugno 17), alcuni legati ad Al Qaeda e altri all’Isis. Il gruppo che più ha influenzato il Burkina è il Fronte di liberazione di Macina, di Amadou Koufa, che ha pure ispirato la nascita del primo gruppo jihadista burkinabè, Ansarul Islam, nato proprio a Djibo, nel Nord. I tre attacchi eclatanti a hotel, ristoranti e, l’ultimo, all’ambasciata francese e allo Stato maggiore dell’esercito (marzo 2018) sono stati compiuti da altri gruppi della galassia maliana, come Al Murabitun. Qualcuno teme anche l’arrivo in Burkina di Boko Haram, il gruppo estremista nato nel Nord della Nigeria e in guerra aperta con Niger, Ciad e Camerun (cfr. MC ottobre 16). Gruppo che però agisce in modo geograficamente circoscritto, la cui presenza qui pare improbabile.
Che fa il governo?
«L’opposizione critica il governo sulla questione della sicurezza, ma in realtà questo non può fare di meglio, per i mezzi che ha. Ha pure organizzato una sezione speciale all’Assemblea Nazionale (parlamento, ndr) per valutare il budget militare che penso sarà aumentato sostanzialmente», commenta Germain Nama, direttore del giornale «L’Evénement» e giornalista impegnato per i diritti umani.
«Ma la questione della sicurezza non è solo una questione militare, perché si tratta di una guerra asimmetrica, con attacchi terroristici. Contano molto i mezzi tecnologici moderni, così come i servizi di sicurezza, per cui lo stato deve investire in questi aspetti».
Da notare che l’intelligence del regime di Compaoré, che era piuttosto forte e radicata, è stata smantellata, e ora costituisce uno degli aspetti deboli delle istituzioni.
Continua Nama: «Simon4 (Compaoré, ndr), è venuto qui in redazione e lo abbiamo intervistato. Quando gli abbiamo chiesto se la natura di questo terrorismo è, secondo lui, la stessa di quella del Nord o se ci sono nigeriani, ha detto che non ci sono elementi per dirlo. È poi stata diffusa quella rivendicazione poco credibile. Occorre essere prudenti». Si riferisce a un video mal fatto, che è circolato sui social in Burkina, nel quale alcuni uomini vestiti da jihaidisti, affermano di appartenere a una sedicente cellula legata ad Al Qaeda e rivendicano gli attacchi nell’Est del paese.
Richieste sociali
Se la questione degli attacchi e della sicurezza occupa molto il dibattito nazionale, un altro aspetto importante sono le rivendicazioni della società civile. Una parte di essa, quella dei lavoratori organizzati, ha visto, negli ultimi tre anniuno, un particolare slancio rivendicativo.
Incontriamo Mamadou Barro, già segretario generale della Federazione dei sindacati nazionali dei lavoratori dell’educazione e della ricerca, il maggiore sindacato degli insegnanti. «Sul piano sociale, le richieste sono molto forti. Nei settori strutturati, come quello dei salariati, sia della funzione pubblica che del privato, molti scioperi si sono susseguiti. Per noi è l’espressione delle frustrazioni, contenute e soffocate o represse durante gli anni del regime autocratico, quasi dittatoriale, di Blaise Compaoré». Mamadou Barro si collega al passato regime, quello di Blaise Compaoré, durato 27 anni e caduto sotto la rivolta popolare dell’ottobre 2014. «L’insurrezione ha indebolito chi detiene il potere, sono stati creati molti sindacati negli ultimi tre anni. Anche in settori che non avevano mai avuto un sindacato».
Continua il sindacalista: «Ma anche i settori non strutturati, come quelli dei contadini, cercatori d’oro artigianali, abitanti dei quartieri, stanno facendo rivendicazioni sulla sistemazione del territorio, la bonifica delle strade e l’accesso ai servizi sociali di base».
«Il fallimento del regime precedente è anche di questo attuale, perché, se prendete gli uomini ai vertici di oggi, hanno tutti avuto ruoli di primo piano ieri. Rifiutando di tenere in conto le richieste della cittadinanza per il miglioramento delle condizioni di vita in termini di lavoro, accesso ad elettricità, acqua, scuola di qualità, cure mediche, i dirigenti di oggi decidono di continuare su una linea fallimentare».
Secondo la lettura di Barro, l’insicurezza viene utilizzata in modo strumentale dal governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré: «In questo contesto si inserisce la separazione che il potere cerca di creare tra le problematiche di sicurezza e le richieste sociali: sapendo di non avere risposte alle questioni sociali, allora agita la questione dell’insicurezza come la via per la quale si deve fare l’unione sacra». Ovvero uniamoci per far fronte all’insicurezza e dimentichiamoci gli altri problemi.
«E diventa quasi un ricatto: se parlate di un problema, se siete contro il governo, significa che non amate la nazione in pericolo, attaccata dagli integralisti».
Secondo Germain Nama, questo governo è comunque riuscito a dare qualche risposta. Almeno nel campo della sanità, con la legge che rende gratuite le cure per le donne incinte e i bimbi sotto i 5 anni (una prima assoluta) e la costruzione di dispensari nelle province. Altro campo è quello dell’educazione, con al costruzione di infrastrutture scolastiche. Anche diverse strade cittadine sono state asfaltate.
Giustizia: a piccoli passi
Per quanto riguarda i dossier pendenti in Giustizia, alcune importanti novità sono state confermate dal processo sul tentato golpe del 16 settembre 2015. In particolare è stato confermato che Blaise Compaoré, in esilio in Costa d’Avorio, era dietro all’operazione.
Altri dossier importanti in fase istruttoria sono quello sull’insurrezione del 2014 e le sue vittime, che vede imputato il regime Compaoré; il dossier sull’assassinio di Thomas Sankara e i suoi compagni (15 ottobre 1987); il dossier sull’uccisione cruenta del giornalista Norbert Zongo (13 dicembre 1998), per il quale è incriminato François Compaoré, fratello del presidente, e altri.
«Mi sembra che le cose vadano avanti, in qualche caso si aspetta di terminare l’istruttoria, in altri, come per Zongo, si attende l’estradizione di François, arrestato in Francia». Ma la popolazione soffre anche per la crisi economica che morde il Burkina Faso, uno dei paesi più poveri del mondo. «I veri problemi non sono affrontati», denuncia il quadro burkinabè di una Ong internazionale. «La mancanza di lavoro per i giovani, un’economia che sta peggiorando, causando un deterioramento delle condizioni di vita di tutti. Ho l’impressione che la linea di questo governo non sia di rottura con il passato regime».
Nama ricorda che «i commercianti non sono contenti, perché dicono che i soldi non circolano, mentre prima (dell’insurrezione del 2014, nda) c’erano più soldi e più lavoro. Forse prima erano soldi sporchi …».
Anche un falegname della capitale Ouagadougou ci dice che si lavora molto di meno e lui ha dovuto licenziare diversi aiutanti, e rimanere solo con suo figlio. L’economia in effetti ha subito un rallentamento dopo il cambio di regime.
Dov’è finita la società civile?
Che ne è stato del movimento della società civile che ha condotto l’insurrezione e poi si è opposta al colpo di stato del 2015? Le premesse erano che la presa di coscienza cittadina, incanalata attraverso un certo tipo di associazioni, avrebbe esercitato un potere di «controllo» sull’operato del governo.
Ma la società civile, almeno la componente che aveva guidato l’insurrezione, ha perso credibilità. «Molti leader sono caduti per soldi o potere», ci dice il quadro dell’Ong. «I movimenti più a sinistra hanno rimproverato ai gruppi di spicco, in particolare il Balai Citoyen5, di aver accettato i militari al potere. I capi di Balai sono poco critici del potere attuale, proprio perché hanno questo “peccato originale”. Se avessero tenuto le distanze, avrebbero potuto rimanere credibili e denunciare ancora l’operato di questo governo».
Il sindacalista Mamadou Barro è ancora più netto: «Non è più un segreto oggi: sono i dirigenti di Balai Citoyen che hanno convinto Isaac Zida a prendere il potere». Il 31 ottobre 2014, dopo la fuga di Blaise Compaoré, si era creato un momentaneo vuoto di potere. Il tenente colonnello Zida, che era il numero due della guardia presidenziale, i fedelissimi dello stesso Compaoré, si è imposto presentandosi sulla piazza dell’indipendenza, circondato dai responsabili di Balai Citoyen. «Zida non avrebbe avuto il coraggio di presentarsi in quella piazza, se non fosse stato circondato dai beniamini della stessa. Il loro obiettivo era quello di mettere in piedi un regime militare, ma penso che neppure le potenze imperialiste (Francia, Stati Uniti, nda) fossero per questa soluzione. C’era gente che lo ha contestato, molti manifestanti erano contro alla sua presa di potere». Le potenze straniere hanno fatto sì che si creasse un governo di transizione con un presidente, Michel Kafando, che non è un militare. Però Zida è riuscito a rientrare dalla finestra, diventando ministro della Difesa. Poi, dopo un anno di transizione, con la scusa di una missione in Canada, è rimasto in quel paese, e da allora non è mai più tornato. La giustizia del Burkina lo cerca perché avrebbe fatto sparire molti fondi dello stato.
Oggi Balai Citoyen cerca di tenere vivo l’interesse organizzando incontri e dibattiti. Come le 72 ore organizzate proprio a Ouahigouya a inizio dello scorso ottobre.
«Hanno una struttura, ma non sono più così popolari – continua Barro -. Inoltre penso che gli Stati Uniti in qualche modo li finanzino, perché realizzano attività che senza fondi esterni non sarebbero possibili». Il sindacalista ci tiene a sottolineare la differenza tra il suo movimento e il Balai: «Cinquantotto anni dopo l’indipendenza, non riusciamo a liberarci, ma la coscienza è aumentata e molti, in particolare tra i giovani, hanno capito che ci vuole la rottura antimperialista. Finché non la facciamo non avremo uno sviluppo. Nel nostro paese c’è un movimento che ha delle forze e propone un altro modo di concepire il nostro destino nazionale, diverso dal medicare gli aiuti. E il Balai Citoyen non fa parte di questo movimento. Non possono neppure, perché ricevono finanziamenti dai paesi imperialisti».
Scopriamo che Balai Citoyen è il principale partner burkinabè del progetto «Justice and Security Dialogues» della statunitense United States Institute of Peace (Usip). Si tratta di un istituto nazionale indipendente fondato dal Congresso (il parlamento statunitense), che lavora in diversi paesi nell’ottica della riduzione dei conflitti come strategia per la sicurezza Usa. Di fatto è l’ente governativo Usa per la promozione della pace.
Salita all’onore delle cronache nei giorni dell’insurrezione, Balai Citoyen è in realtà una organizzazione piuttosto giovane, nata sull’onda delle manifestazioni del 2013. Altre sono le associazioni che hanno portato all’insurrezione di fine ottobre 2014. «Loro erano nei momenti giusti nei posti chiave», dice il sindacalista, che ricorda invece l’Organisation démocratique de la jeunesse (Organizzazione democratica della gioventù) come attore importante. «Quelli di Balai sono arrivati all’ultimo momento, mentre altri gruppi, come Cgtb6 (Confédération générale du travail du Burkina, ndr) e Mbdhp7 (Mouvement burkinabè des droits de l’homme et des peuples), hanno portato avanti la lotta per anni», ci conferma il quadro dell’Ong. Un movimento sociale che ha radici fin dalla fine del 1998, quando, l’indignazione per l’assassinio di Norbert Zongo causò l’inizio di un percorso di lotta per lo stato di diritto nel paese.
Il nemico che non vedi
In Burkina Faso, oggi si ha l’impressione che né la gente né le istituzioni siano abituate a questa situazione e che le misure di sicurezza non facciano parte del loro modo di essere. Anche se i muri si alzano e cingono di filo spinato. Fatto quasi inesistente anche solo pochi anni fa. Si percepisce una certa paura, mentre la gente cerca di condurre la sua vita in modo normale, con tanto di birra alla buvette (bar di strada) dopo il lavoro e il sabato sera. Eppure si capisce che il contesto non è più lo stesso di pochi anni fa nel paese degli uomini integri. C’è un nemico invisibile, che talvolta si materializza e fa parlare di sé. Intanto la fibra ottica è arrivata in zona rossa.
Marco Bello (fine prima puntata – continua)
Note
(1) In Burkina Faso si contanto 60 etnie, di cui le maggioritarie sono: mossì, gourmanché, fulbé (peulh), bobo e bissa. Anche a livello religioso c’è sempre stata ottima coabitazione: 60% musulmani, 19% cattolici, 5% protestanti, più culti tradizionali.
(2) Fondi fiduciari di emergenza dell’Ue: si tratta di un pacchetto di aiuti stanziati all’incontro della Valletta (novembre 2015), per alcuni paesi africani. L’obiettivo dichiarato è la stabilità e la migliore gestione delle migrazioni.
(3) Operazione militare francese anti terrorismo attiva in 5 paesi: Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania, dal 1 agosto 2014.
(4) Simon Compaoré, già ministro dell’Interno e della sicurezza, figura di spicco del vecchio e del nuovo regime e oggi ministro alla Presidenza della repubblica.
(5) Balai Citoyen (scopa cittadina), movimento della società civile, nato nel 2013, ha acquisito notevole visibilità durante l’insurrezione popolare, grazie a un’accorta strategia comunicativa.
(6) Cgtb, Confederazione generale del lavoro, è una confederazione sindacale, creata nel 1988, raggruppa 12 sindacati nazionali e 70 sindacati d’impresa.
(7) Mbdhp, Movimento burkinabè per i diritti dell’uomo e dei popoli, fondato nel 1989, è la maggiore associazione per la difesa dei diritti in Burkina Faso.
Messico, la corruzione, madre di tutti i mali
Con 30mila omicidi all’anno e oltre 53 milioni di poveri, con ampie zone del paese nelle mani dei narcos e i difficili rapporti con l’imprevedibile Donald Trump, il compito che attende il neopresidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo) è titanico. Paolo
Pagliai, rettore dell’Università «Alta Escuela para la Justicia», individua però il principale problema messicano nella corruzione che nega i diritti fondamentali delle persone trasformandoli in «favori».
Testo di Paolo Moiola
Dal primo dicembre Andrés Manuel López Obrador detto Amlo, è il nuovo presidente del Messico. Amlo, 64 anni, era stato sconfitto nelle presidenziali del 2006 e del 2012, queste ultime molto contestate. Al terzo tentativo, lo scorso 1 luglio, ha ottenuto oltre 30 milioni di voti, pari al 53,19 per cento del totale, più del doppio del secondo arrivato, Ricardo Anaya del Partido Acción Nacional (Partito d’azione nazionale, Pan). Il neopresidente ha vinto guidando Juntos Haremos Historia (Uniti faremo la storia), una coalizione tra due partiti di sinistra (il Partido del Trabajo e il Movimiento Regeneratión Nacional, Morena) e un piccolo partito di centrodestra (il Partido Encuentro Social), dissoltosi dopo le elezioni.
Di Obrador e dei problemi del paese abbiamo parlato con Paolo Pagliai, italiano cinquantenne, sposato con una messicana, da vent’anni a Città del Messico. Dottorato in pedagogia presso la Universidad Nacional Autónoma de México (Unam), già preside della Facoltà di lettere e filosofia presso l’Università del Claustro di Sor Juana, Paolo Pagliai è attualmente rettore di un’università con un nome impegnativo, Alta Escuela para la Justicia. Esperto e appassionato di memoria storica, diritti umani e pace, il professor Pagliai è la persona giusta per parlare di un paese che, pur essendo l’undicesima economia del mondo, è però gravato da problemi giganteschi con intere regioni nelle mani dei narcos (narcotrafficanti), oltre 53 milioni di poveri e una violenza da guerra civile (29.168 omicidi nel 2017).
Perché Amlo è la speranza
Professor Pagliai, ci sono tre aggettivi con cui lei descriverebbe la data del 1 luglio 2018?
«Il primo luglio: teso, emozionante, euforico (in quest’ordine). Il 2 luglio (the day after): allegro, speranzoso, meraviglioso».
Nel suo editoriale del 2 luglio su La Jornada parlava della vittoria di Amlo come del trionfo di un progetto trasformatore nella politica, nel sociale, nell’economia e nell’etica. Non è una affermazione esagerata ?
«No, anche se scritto su La Jornada che – durante tutta la campagna – non ha certo appoggiato con chiarezza Andrés Manuel, può apparire piuttosto sorprendente. Morena può rappresentare effettivamente quel progetto trasformatore della politica di cui il Messico e tutto il continente latinoamericano hanno tanto bisogno. Le sue idee in campo economico, sociale e perfino etico, sono indubbiamente innovative. Amlo parla apertamente di “amore” in un contesto politico mondiale cinico dove l’egoismo di classe e il neo-sovranismo la fanno da padroni: amore come motore del cambiamento, come elemento decisivo per la soluzione e la trasformazione dei conflitti, come punto di partenza per una nuova politica di sicurezza pubblica; l’amore per gli altri come strumento per il dialogo politico, anche aspro, ma sempre rispettoso dei diritti altrui. Potrebbe deluderci, è vero. Potrebbe fare esattamente il contrario di quello che dice, esiste questa eventualità. Ma, in linea di principio, le aspettative dei messicani e delle messicane che hanno votato Morena sono altissime. Siamo di fronte a un momento storico, non ci sono dubbi».
Amlo è un populista?
Molti giornali internazionali, negli Usa ma anche in Europa, parlano di una (nuova) vittoria del populismo. Amlo è un politico di sinistra, un populista, un populista di sinistra o nulla di tutto questo?
«Dipende da cosa si intende quando parliamo di “populismo”. Non credo che ci sia – oggigiorno – parola più inflazionata e mal utilizzata di questa.
Se populista è la politica che appella ai bassi istinti della maggioranza, allora io escluderei che Amlo appartenga a questa categoria di politici molto in voga. In un mondo dove chiudiamo i porti e lasciamo in mezzo al mare navi cariche di disgraziati con l’appoggio incondizionato della maggioranza degli elettori, le parole di Andrés Manuel appaiono come veri e propri trattati di “politica complessa, difficile e raffinata”. Qui in Messico, durante la campagna, c’era il “Bronco” – uno dei candidati, un indipendente (Jaime Heliodoro Rodríguez Calderón, ex Pri, ndr) – che proponeva il taglio delle mani per i ladri; il partito verde, invece, proponeva la fucilazione per i sequestratori. Il populismo, da queste parti, non manca davvero e, così come in Italia, fa appello agli istinti più bassi dell’opinione pubblica, ma quando Amlo parla di riconciliazione nazionale, di giustizia sociale includente, di ricostruzione cooperativa del paese, il suo non è certo un discorso populista. Si tratta piuttosto di una proposta politica innovatrice e, in molti sensi, coraggiosa.
Ora se invece vogliamo intendere “populismo” come essere dalla parte degli ultimi, scegliere la causa dei poveri come se fosse la causa di tutti, rappresenta una scelta che fa riferimento a un non meglio precisato populismo, beh, allora, Andrés Manuel è un presidente populista. Che cos’abbia poi a che fare questo populismo con quello che lascia che i bambini affoghino in mezzo al mare, o si rifiuta di fare una legge contro la tortura o diminuisce le tasse ai più ricchi perché la classe media torni a sentirsi importante, lascio che lo chiariscano coloro che dalle sponde della vecchia Europa osservano con sospetto quanto sta succedendo in Messico».
La classifica dei problemi
In una ipotetica classifica dei problemi messicani in che ordine di importanza metterebbe la violenza, la corruzione, le diseguaglianze? Esiste tra queste problematiche una correlazione?
«Esiste una stretta relazione tra tutti i problemi di cui patisce il Messico, ma non è quella di causa-effetto che le persone potrebbero pensare o di cui vengono convinte dal processo di semplificazione della realtà i cui principali responsabili sono i mezzi di comunicazione di massa, completamente asserviti agli interessi dei partiti politici e dei grandi gruppi industriali e finanziari.
È la corruzione la madre di tutti i nostri mali: nega i diritti fondamentali delle persone trasformandoli in “favori”, genera dipendenza dai poteri e relazioni pericolose con i più forti, riduce sensibilmente gli effetti positivi delle politiche pubbliche e annulla ogni tipo di partecipazione genuinamente democratica da parte dei cittadini. Nella lotta alla criminalità organizzata, riduce l’efficienza e l’affidabilità delle forze dell’ordine, restituisce una magistratura assolutamente incapace di fare giustizia, e dei procuratori così inquinati dagli interessi politici che non possono, in nessun modo, garantire indagini minimamente indipendenti e degne di fede.
La corruzione, dunque, è la principale fonte di insicurezza, ma – non dobbiamo dimenticarlo – sta anche alla base della grande povertà che colpisce quella che è, a tutti gli effetti, la decima potenza economica mondiale e che, malgrado questo, conta, tra i propri cittadini, oltre 53 milioni di poveri. Nel nostro sistema corrotto, la ricchezza viene distribuita in maniera iniqua, cosicché, mentre i nostri ricchi sono tra i più ricchi del mondo (secondo Forbes, il messicano Carlos Slim Helu è al settimo posto nella classifica 2018 dei miliardari, ndr), i nostri poveri appartengono alla parte più povera. Già di per sé questa sarebbe una forma di violenza inaccettabile, ma se vi aggiungiamo la sistematica negazione dei diritti umani, accesso alla salute, all’educazione, alla giustizia, ecco allora che la povertà messicana assume dimensioni veramente angoscianti. Se poi, a tutta questa angoscia, sommiamo 200mila morti e 40mila desaparecidos negli ultimi 12 anni, un numero imprecisato di cartelli narco e di organizzazioni criminali che sottraggono il controllo del territorio alle istituzioni dello stato, il lento ma inesorabile esaurimento delle riserve petrolifere, e i riflessi su scala nazionale della crisi del lavoro che si registra a livello planetario, la relazione tra i problemi che affliggono il Messico, in questo momento nevralgico della sua storia, tesse un panorama complesso che richiede soluzioni creative, originali, collaborative, plurali e – prima di tutto – nonviolente».
Per 4 euro al giorno
In tutti i paesi, il sistema economico privilegia la finanza e maltratta il lavoro. La disoccupazione e la sottoccupazione sono il problema socioeconomico per eccellenza. Com’è messo il Messico? Cosa potrà fare il governo di Amlo?
«In Messico, il lavoro non costa niente. Il salario minimo non arriva a 89 pesos al giorno (circa 4 euro, ndr). Molte famiglie, moltissime, devono sopravvivere con due o tre salari minimi, scegliendo – giorno dopo giorno – se la priorità è mangiare, proteggersi dal freddo, muoversi con un mezzo pubblico o comprare un farmaco che a volte può essere vitale: ognuna di queste opzioni esclude automaticamente tutte le altre. Siamo il paese dell’economia informale, dove più della metà dei lavori si fa in nero, senza contributi e senza assicurazioni. Professioni come insegnare nelle scuole di ogni ordine e grado, o la ricerca scientifica sono oggetto di retribuzioni basse e sempre esposte alla precarietà del mercato. Non è difficile incontrare una persona che sia ingegnere chimico o architetto e che, in mancanza di altro, abbia scelto di guidare un taxi più o meno autorizzato.
In questo contesto che definirei più di miseria che di povertà, le grandi imprese – messicane e straniere – fanno affari d’oro. Per i governi anteriori, creare posti di lavoro era un’impresa relativamente facile: in fondo bastava regolare il mercato del lavoro informale e mettere, sul vassoio d’argento delle imprese straniere, migliaia di posti di lavoro sottopagati o, come preferisco dire io, offrire al miglior offerente centinaia di schiavi. Questo scandalo, con Amlo, deve avere fine. La nuova ministra del Lavoro, Luisa Alcalde (avvocatessa di 35 anni appena) ha già annunciato un incremento sensibile del salario minimo che, in pochissimo tempo, dovrebbe addirittura raddoppiare, spingendo in questo modo verso l’alto tutti gli altri salari».
I vicini del Nord
Negli Stati Uniti, Donald Trump fa il bello e il cattivo tempo, governando via tweet. Il presidente accusa il Messico di varie cose: di esportare negli Usa migranti illegali e droga, ma anche di rubare lavoro agli statunitensi con le industrie Usa delocalizzate sul territorio messicano. Questi problemi indubbiamente esistono. Come è possibile affrontarli e risolverli senza arrivare alle soluzioni drastiche proposte da Trump?
«Migliorando le condizioni di vita di milioni di messicani in Messico. Restituendo, una volta per tutte, il suo vero significato alla sicurezza umana: accesso universale alla salute, all’educazione e alla giustizia; stipendi e condizioni lavorative rispettosi della dignità umana; un accordo di libero commercio che includa anche il libero movimento delle persone. In realtà sono queste le misure drastiche e coraggiose di cui abbiamo bisogno. Quelle di Trump sono solo il riflesso becero delle pulsioni più basse dell’opinione pubblica statunitense».
Si ha l’impressione che il Messico sia indeciso tra l’essere un paese latinoamericano o un paese più legato ai vicini del Nord, Usa e Canada. È un’impressione errata?
«Verrebbe quasi da dire che ogni Sud ha il proprio Nord e che, per ovvie ragioni, ogni Nord ha il proprio Sud. Il Messico è un paese latinoamericano dell’America Settentrionale. In questo, non c’è nessuna contraddizione. La nostra realtà è peculiare proprio grazie alla nostra posizione geografica e alle nostre caratteristiche culturali: non siamo un paese sudamericano, con buona pace dei giornalisti italiani che continuano a descriverci come tale, perché sul planisfero non ci troviamo a Sud del mondo; siamo piuttosto un paese nordamericano di cultura e lingua latine. In questo contesto di diversità, si forma la nostra ricchezza culturale e, proprio da qui, ha origine una rete di opportunità per il Messico e per tutto il continente americano. Noi, oggi, abbiamo l’occasione di proporci come ponte fra il Nord e il Sud, una sorta di cerniera tra le due Americhe: un ponte culturale, sociale, politico, economico, senza muri e con pari opportunità per tutti gli abitanti di tutti i paesi che costituiscono questo meraviglioso e variegato bi-continente. Sento che il progetto di Amlo è portatore proprio di quei principi necessari per trasformare il Messico nella terra di incontro tra tutti i popoli americani: il suo è un messaggio di dialogo, nonviolento e carico di segnali positivi e umanistici che mettono sempre al centro il bene della persona umana a prescindere dalla sua appartenenza etnica, partitica e religiosa».
Professor Pagliai, il benessere di una persona è legato alla salute e all’educazione. In Messico esistono una sanità e una educazione pubbliche?
«In Messico esistono sia un’educazione che una sanità pubblica. La qualità dei servizi è profondamente scaduta negli ultimi 25 anni, a causa di una cultura neoliberale che ha relegato i poveri nel settore pubblico spostando i ricchi verso quello privato. Da quando l’educazione pubblica è diventata, essenzialmente, l’educazione dei poveri, la sua qualità è scesa vertiginosamente. Lo stesso dicasi per la salute: gli ospedali per poveri hanno una bassa qualità dei servizi. Il tutto, però, non è irreversibile. Siamo ancora in tempo per cambiare il senso di marcia».
Per chi votano i poveri
Amlo è stato eletto soprattutto dai poveri, ma anche Matteo Salvini e Donald Trump sono stati votati ed eletti da disoccupati, emarginati, impauriti. Dove sta la differenza? È il fallimento della democrazia?
«Vero, ma la povertà di cui parlo io è un’altra cosa, si tratta di morire di fame, di diarrea, di un raffreddore banale… Vero, ma i disoccupati che votano Salvini non sono necessariamente gli ultimi. Vivono difficoltà grandi, non possono pagare l’affitto, perdono la casa che stavano comprando, ma di lì alla fame e alla disperazione assoluta il salto è grande. Direi piuttosto che alla base del voto leghista e, solo in parte, pentastellato, c’è una buona dose di povertà culturale, quella che, con grande scandalo di alcuni, chiameremmo più volentieri “ignoranza”. Quando poi è la “paura” a scegliere, beh, allora sì, la democrazia ha fallito miseramente. E non si tratta di sminuire i problemi degli italiani – problemi indubbiamente enormi – quanto di dimensionarli su scala mondiale: molti “poveri” italiani sono convinti che la loro povertà sia come quella dei “poveri” africani che si imbarcano sui gommoni. Si sbagliano. C’è povertà e povertà. E, comunque, la povertà non santifica il povero a priori. Se per combatterla, il povero italiano finisce per aggredire il povero extracomunitario con il peso e il potere delle proprie leggi, del proprio sistema, della propria ricchezza insomma, ecco che la povertà dell’italiano diventa un motore di violenza come tanti altri. Il carburante dell’odio. Chi erano gli elettori di Hitler? Chi sono i sostenitori di Maduro? Essenzialmente poveri. Poveri che, per uscire dalla propria condizione, autorizzarono la limitazione dei diritti di tutti (compresi i propri), sopportano la violenza esercitata contro gli altri e chiedono a gran voce la criminalizzazione, la stigmatizzazione, l’emarginazione e l’espulsione degli altri poveri. Ora, se per fallimento della democrazia si intende il fallimento globale di un progetto-paese chiamato Costituzione, mi trova tristemente d’accordo».
Una cattedra speciale
Professore, perché dedicare – in una Università messicana – una cattedra a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, giudici italiani uccisi dalla mafia? Non sarebbe stato più giusto dedicarla a martiri della giustizia messicani? Se non ci fossero giudici messicani da ricordare, ci sono stati tantissimi difensori dei diritti umani e giornalisti…
«La prima risposta che mi viene in mente è la più ovvia: perché si tratta di una cattedra straordinaria fondata in collaborazione con l’ambasciata d’Italia.
Ma, lo riconosco, potrebbe non essere sufficiente. Dunque tenterò di sviluppare una breve riflessione intorno alla collaborazione internazionale su problemi che di locale non hanno assolutamente nulla. Uno di questi, il più grave nei propri effetti immediati, è quello della criminalità organizzata.
La libera cattedra “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” per la cultura della legalità e della responsabilità è il luogo della memoria e della ricerca al servizio della lotta alle mafie che infestano il Messico e il mondo intero. I due giudici siciliani rappresentano, simbolicamente e a livello internazionale, questa lotta. È vero: ci sono 200mila morti e più di 40mila desaparecidos in questo paese, dovuti – direttamente o indirettamente – al fenomeno criminale dei cartelli, ma la nostra situazione non è esattamente quella italiana, dove abbiamo – per il momento – ancora uno stato che si contrappone chiaramente al fenomeno mafioso. Qui in Messico, la contaminazione reciproca tra stato e criminalità è praticamente costante, in una sorta di sistema osmotico che non lascia margini apparenti alla speranza.
Ecco, all’università abbiamo un memoriale dedicato ai 43 di Ayotzinapa (gli studenti scomparsi nel 2014 in circostanze mai chiarite, ndr), così come un centro di documentazione dedicato alla figura del benemerito delle Americhe, Benito Juárez (1806-1872, eroe nazionale, primo indio del continente a rivestire la carica di presidente, ndr). Per la cattedra, la scelta di due simboli “stranieri” ha messo tutti d’accordo. Quella è la magistratura che non c’è e che invece vorremmo anche qui».
Paolo Moiola (seconda puntata – continua)
Messico: E giunse il tempo di Amlo
Dal prossimo 1 dicembre, per la prima volta nella storia del paese, al governo ci sarà un uomo di sinistra: Andrés Manuel López Obrador. Conosciuto con l’acronimo di Amlo, 64 anni, il nuovo presidente è stato votato dal 53,19 per cento dei messicani, stanchi di corruzione, ingiustizie e di una violenza che pare inarrestabile. Lo attende un compito molto difficile.
Un’analisi di padre Jorge García Castillo che, a Città del Messico, dirige le riviste «Esquila Misional» e «Aguiluchos».
Per molte ragioni, in buona parte negative, le elezioni generali messicane che si sono svolte lo scorso 1° luglio, sono state speciali: il Movimiento de Regeneración Nacional (Movimento di rigenerazione nazionale, Morena), fondato e guidato da Andrés Manuel López Obrador (detto Amlo), in coalizione con il Partido del Trabajo e il Partido Encuentro Social (Pes), ha vinto con percentuali mai viste prima.
Dall’altra parte, i grandi perdenti sono stati i due partiti con le maggiori radici politiche in Messico: il Partido Revolucionario Institucional (Partito rivoluzionario istituzionale, Pri) e il Partido Acción Nacional (Partito di azione nazionale, Pan). La parte peggiore è toccata al Pri, che per decenni aveva vinto in quasi tutte le contese elettorali fino a diventare ciò che il peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura, ha definito (già nel 1990) «una dittatura perfetta». I motivi della sua sconfitta? Lotte interne a vari livelli, l’elezione di José Antonio Meade (una persona grigia e discutibile) come candidato per la presidenza della Repubblica, la corruzione, il clientelismo, il coinvolgimento dell’ex presidente Carlos Salinas de Gortari [nella guerra sporca contro Amlo, ndr], il discredito derivante dal comportamento criminale di diversi governatori, membri di rilievo del partito, ecc.
Al momento delle elezioni, il presidente Peña Nieto aveva appena il 20% di approvazione del suo operato. La peggiore situazione nella storia del Pri, motivata da molte ragioni alle quali va aggiunto un caso estremo: la scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa (rapiti il 26-27 settembre 2014 e mai ritrovati ndr); una questione che rimane irrisolta fino ad oggi e che, di per sé, sarebbe sufficiente per far cadere molte personalità del mondo della politica e delle forze dell’ordine, incluso il presidente.
La campagna pre elettorale (in senso lato) è stata lunga, costosa, combattuta e logorante. Durante la stessa sono stati usati tutti i mezzi: denaro in quantità industriale, dibattiti, insulti, minacce e violenza. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che più di 130 candidati a diverse cariche pubbliche sono stati uccisi nel tentativo di scoraggiare elettori e chi osava presentarsi. C’è stato persino un «processo per frode» nello stato del Messico e in Coahuila da parte del partito al potere.
Amlo e una campagna lunga dodici anni
Prima di andare avanti, dobbiamo ricordare che il processo elettorale del 1° luglio ha avuto due livelli: uno federale che includeva la presidenza della Repubblica e il Congresso (128 senatori e 500 deputati della camera bassa) e uno locale per eleggere i governatori degli stati di Chiapas, Guanajuato, Jalisco, Morelos, Puebla, Tabasco, Veracruz e Yucatan, il capo del governo di Città del Messico, congressi locali, municipi e sindaci per un totale di 3.326 posizioni.
Niente e nessuno è riuscito a fermare un processo in cui i cittadini hanno deciso di andare a votare il 1° luglio. Nella gara hanno trionfato in modo schiacciante Andrés Manuel López Obrador e il movimento da lui guidato che ha vinto la maggioranza dei seggi nel Congresso, cinque governatori, i sindaci delle cinque maggiori città del paese e molti altri eletti in posti di minore rilevanza.
Hanno contribuito a questo successo travolgente la tenacia del politico nativo di Tabasco, che ha perseverato in una campagna elettorale durata 12 anni (Amlo si era già presentato nel 2006 e nel 2012, ndr) e le tante situazioni di corruzione, impunità, indegnità morale dei partiti di governo, suoi avversari, che hanno portato alla disintegrazione dello stato, di varie istituzioni e della stessa società civile.
Che paese troverà
A questo punto, è conveniente chiedersi e fare un’analisi del paese che Andrés Manuel López Obrador si troverà a governare. La risposta non è semplice perché c’è un «eccesso di diagnosi» e l’informazione che abbiamo è abbondante e, a volte, contraddittoria. Per evitare di perdersi in un mare di dati, ho scelto di dare un’occhiata a un libro intitolato ¿Y ahora qué? México ante el 2018 («Cosa succede ora? Il Messico prima del 2018»)1. Nel libro, 34 accademici e intellettuali fanno un’analisi sistematica dei fallimenti e delle carenze di questo paese; allo stesso tempo, propongono una serie di iniziative in vista di una radicale trasformazione della realtà.
Tra le questioni affrontate dal libro vi sono la corruzione, l’impunità, l’incompetenza dello stato, le elezioni truccate, il traffico di droga e gli errori compiuti nel combatterlo, l’abbandono della gioventù, la polizia traballante, le carceri come luoghi del crimine, la disuguaglianza, la disconnessione tra il mondo educativo e quello produttivo, le falle del sistema sanitario, il disordine federativo, la debolezza della politica estera, l’inefficienza amministrativa e molte altre piaghe. Tutte situazioni che mantengono il paese in un’arretratezza sistemica. Vediamo di analizzarne alcune.
La violenza
Nel dicembre 2006, Felipe Calderón del Pan, allora neoeletto presidente del Messico, prima delle accuse di brogli elettorali, dichiarò guerra al traffico di droga e lanciò un’offensiva militare e di polizia che non fece altro che peggiorare la situazione. Il presidente sbagliava nelle strategie e non teneva conto che il narcoterrorismo e le organizzazioni criminali a poco a poco erano diventati uno stato all’interno dello stato. In molte occasioni questi gruppi avevano armi più potenti di quelle delle forze dell’ordine ed erano meglio organizzati. A ciò si aggiungeva la complicità dei membri dell’esercito, della marina e della polizia e dei settori della società civile. Le incalcolabili ricchezze delle imprese criminali avevano permesso loro di acquistare il silenzio e la complicità di coloro che avrebbero dovuto proteggere la legalità e la giustizia.
Per quanto riguarda le cifre, in 12 anni di combattimenti contro la criminalità sono state giustiziate, secondo le stime più prudenti, più di 200mila persone senza contare le 35.000 scomparse. Questa situazione supera per la sua portata, la sua modalità e l’estrema crudeltà, quella di alcuni paesi che vivono una guerra dichiarata.
La questione più seria è che il problema è peggiorato invece di migliorare. Per alcune agenzie di stampa, tra cui Animal Político, durante i primi cinque mesi del 2018, ci sono stati più di 13mila omicidi; 2.890 dei quali si sono verificati a maggio, poche settimane prima delle elezioni. Inoltre, in diverse località e stati la percentuale di omicidi è aumentata senza poter fare nulla per evitarlo.
Questo è senza dubbio uno dei problemi più seri che il nuovo governo guidato da Amlo dovrà affrontare.
La corruzione e l’impunità
Su questo argomento, Maria Amparo Casar, nel libro citato, afferma che la corruzione è sistemica e l’impunità una regola che ammette poche eccezioni. I loro costi sono molto pesanti per il paese (p. 24).
Per l’analista, la situazione è aggravata dal fatto che «la lotta alla corruzione è nei programmi di governi e partiti, ma le promesse non sono state seguite da fatti concreti. In altri termini, riguardo alla corruzione, quasi tutto è stato detto e quasi nulla è stato fatto» (p. 33).
L’illegalità
Collegato al problema precedente è la questione dell’illegalità. Secondo Héctor Raúl Solís, coautore del lavoro sopra citato, c’è una convinzione generale – per lui falsa – che i messicani siano corrotti per natura. «Allo stesso modo tutti – dal taquero dell’angolo che ruba l’elettricità al funzionario che devia milioni di pesos – soffriamo di un’innata tendenza a infrangere la legge» (p. 47). Per Solís questa convinzione è falsa perché «non tiene conto dei moltissimi messicani che ogni giorno si conformano alla legge» e, in ogni caso, la repubblica può essere rinnovata, non attraverso atti spettacolari ma piccole azioni che costruiscano l’istituzionalità necessaria (p.52).
Da parte sua, il famoso intellettuale e diplomatico José Ramón Cossio Díaz, scrivendo delle fratture legali che si verificano nel paese, dice che il Messico non ha uno stato di diritto o almeno esso è seriamente manomesso. In questo caso, ci sono due opzioni (p. 63): «Cercare un nuovo modello o persistere nell’attuale», consapevoli che «l’istituzione di uno stato di diritto in una società anonima, diseguale e ferita come quella messicana non è né semplice né veloce» (p. 65). Senza che tutto questo ci debba far cadere nella disperazione o nel cinismo, la lotta deve continuare. Questo è ciò che il popolo messicano si aspetta dalle persone e dalle istituzioni che governeranno il paese nei prossimi anni.
La povertà
Un altro dei grandi problemi che affliggono il Messico è quello della povertà, in particolare la povertà estrema, perché colpisce, secondo le parole del ricercatore John Scott, coautore del lavoro, «il diritto a risorse minime per la sopravvivenza», che «è il diritto umano più basilare» (p. 309). In effetti, in un paese come il Messico a reddito medio-alto, «la persistenza della povertà estrema è moralmente intollerabile» e rappresenta «un doppio fallimento in due aree: l’inclusione produttiva e la protezione sociale» (p. 310).
Lo sconforto di questo male endemico è stato il vessillo degli ultimi governi, anche se poco o nulla è stato fatto per sanarlo. In effetti, il divario tra ricchi e poveri continua a crescere e finora il capitale dei supermilionari aumenta esponenzialmente a scapito dei milioni di messicani che non hanno il minimo necessario. Il salario minimo è da considerarsi un attentato contro la vita e il benessere della maggioranza. Non è sufficiente (si tratta di circa 123 euro mensili, ndr) nemmeno per il paniere di base, tanto meno per coprire i bisogni di salute, educazione, abitazione e spazi di gioco.
Questo problema è una bomba a tempo che può esplodere in qualsiasi momento. Le persone sono stufe di soluzioni palliative e assistenziali che non fanno altro che perpetuare la povertà. Le risorse, in una nazione con un territorio prodigo e generoso, esistono. Solo che sono mal distribuite e, mentre alcuni nuotano nell’abbondanza, altri non hanno l’indispensabile.
L’offerta di Amlo
Alle 23:00 del 1° luglio, prima che vengano diffusi i risultati degli exit poll del suo trionfo, López Obrador convoca un meeting all’Hilton Hotel della Alameda Central (noto parco pubblico, ndr) a Città del Messico. Da lì tiene un discorso che riassume quello che sarà il suo modus operandi come presidente. Una folla osannante lo ascolta nel quartiere dell’hotel e applaude infervorata dal suo messaggio. Soprattutto quando tocca temi come la lotta alla corruzione e all’impunità, il protagonismo dei poveri e il rispetto delle differenze sessuali.
Il tono di questo primo discorso è cambiato radicalmente rispetto a quello portato avanti negli ultimi anni, specialmente durante la pre-campagna e la campagna elettorale. Il politico litigioso, ironico, creativo nell’arte dell’insulto e della minaccia, lascia il posto alla realpolitik e tende la mano a tutti con uno spirito conciliatorio e umanistico. Non parla più di mafie del potere né attacca il mondo degli affari. Al contrario, chiama tutti al dialogo e alla collaborazione.
Lo stesso tono viene usato nel discorso che rivolge pochi istanti dopo ai suoi seguaci concentrati nello Zócalo (piazza della Costituzione, cuore della capitale, ndr), a pochi metri dal Palazzo nazionale, dalla Cattedrale metropolitana e dal quartier generale del governo di Città del Messico.
La strada sarà lunga
Nelle settimane successive all’elezione, López Obrador ha iniziato una frenetica attività chiamando persone, aziende, istituzioni, media, a dialogare e far conoscere quale sarà la sua metodologia di lavoro, a presentare coloro che formeranno il suo gabinetto, a riferire su questioni fondamentali come gli stipendi dei dipendenti pubblici, la sua politica di austerità e decentramento, il trattamento degli ex presidenti e le proposte per combattere la violenza e la corruzione, tra le altre cose.
Niente ha potuto fermare questo processo verso la democrazia: le campagne di discredito, gli attacchi velati ed espliciti al politico del Tabasco, in particolare sui social network, l’avvertimento che la sua elezione avrebbe portato il Messico a una situazione simile a quella del Venezuela di Chávez e la Bolivia di Evo Morales, hanno prodotto l’effetto opposto.
Nella lunga e difficile strada verso la democrazia, la sconfitta del partito di governo e l’indiscutibile trionfo di Amlo segnano un nuovo modo di fare politica in Messico. Più che per il disgusto, la disillusione e il disprezzo verso la classe dei politici e un sistema marcio dalle radici, la gente ha votato per un uomo e un movimento che ispirano fiducia e speranza che le cose cambino.
Questo è ciò che noi messicani speriamo e desideriamo per il bene di tutti, specialmente per le maggioranze impoverite.
Jorge García Castillo
(fine prima puntata – continua) Traduzione e adattamento del testo a cura di Paolo Moiola.
Note
(1) Aguilar Camín, Héctor et al., ¿Y ahora qué? México ante el 2018, Debate, segunda edición, Ciudad de México, febrero 2018.
Politica e religione
Voto laico, ma non troppo
Il Messico è un paese a maggioranza cattolica, ma con una crescita esponenziale degli evangelici. Come sono state affrontate dalle Chiese le elezioni dello scorso luglio?
In Messico, come in molti altri paesi dell’America, non si può parlare più della «Chiesa», ma delle «Chiese» perché queste e il numero dei loro seguaci aumentano di giorno in giorno.
Su questo argomento, Leonardo Alvarez, l’11 maggio scorso, ha scritto sul quotidiano El Pais (nella sua versione internazionale): «Il Messico non sfugge al contesto latinoamericano che ha trasformato il culto evangelico in una forza elettorale importante e diffusa».
Cita anche l’esempio del Costa Rica, dove, ai primi di aprile, Fabricio Alvarado era sul punto di ottenere la vittoria elettorale con un programma marcatamente evangelico e, nel 2016, in Colombia, il voto maturato nei templi è stato decisivo per la vittoria del «No» nel plebiscito per la pace con le Farc. Ma, se prendiamo in considerazione la sua dimensione, non possiamo non citare il Brasile dove il gruppo parlamentare evangelico ha provocato la caduta e l’allontanamento della presidente Dilma Rousseff.
Per quanto riguarda il Messico, anche se l’articolo 40 della Costituzione lo definisce come un paese laico e la legge elettorale vieta partiti religiosi, il Partito incontro sociale (Pes) nelle elezioni del 1° luglio si è presentato in coalizione con il Movimento di rigenerazione nazionale (Morena) di Amlo.
Il Pes è stato fondato da Éric Flores, appartenente ad una chiesa evangelica, ed ha tra i suoi obiettivi la difesa dei valori tradizionali e della famiglia tradizionale. Situazione questa che contrasta con l’ideologia di Morena su questioni come il matrimonio di coppie omosessuali, l’aborto e la legalizzazione delle droghe. Per Roberto Blancarte, uno studioso di questo tema, l’unione tra Obrador e il Pes è «più spirituale che strategica», perché le chiese evangeliche, sorte soprattutto tra i settori emarginati, riproducono gli schemi dei cacicchi (cacicchismo, inteso come l’esercizio personalistico del potere, ndr), legati a una cultura autoritaria che trova analogie in López Obrador.
Per quanto riguarda la Chiesa cattolica messicana, la sua gerarchia non ha mai nascosto le sue preferenze per i candidati di destra e giudica la sinistra partendo da pregiudizi e paure, soprattutto su temi morali considerati non negoziabili. Mi riferisco a questioni quali il matrimonio omosessuale, l’aborto, l’eutanasia. Fino a un recente passato molti hanno collocato la Chiesa cattolica nel campo del conservatore Partito d’azione nazionale, in cui hanno militato cattolici e anche movimenti di estrema destra come Muro e Yunque (gruppi nati negli anni Sessanta, ndr).
Durante l’ultimo processo elettorale, in particolare nelle fasi della campagna, la gerarchia cattolica ha invece evitato di sbilanciarsi.
Più chiare e profetiche si sono dimostrate molte parrocchie, comunità di base, collettivi cattolici, comunità religiose e gruppi di vescovi, in particolare l’arcivescovo di Guadalajara, cardinale José Francisco Robles Ortega, e i vescovi di Veracruz. Tutti questi soggetti hanno accompagnato e guidato il popolo a votare in coscienza.
Jorge García Castillo
Con due anni di ritardo il Congo va al voto
Nella Repubblica democratica del Congo il mandato di Joseph Kabila è scaduto a dicembre 2016. Ma le elezioni sono state rimandate più volte. Finalmente la macchina organizzativa è in moto per realizzarle il 23 dicembre. Kabila ha deciso (a sorpresa) di rispettare la legge e non candidarsi alla presidenza. Però manda avanti un suo delfino e intanto ostacola gli oppositori. Sarà una tattica alla Putin?
Nessuno ci avrebbe scommesso. Si è dovuta attendere la sera dell’8 agosto (scadenza per la presentazione dei candidati alle presidenziali) per averne la certezza: Joseph Kabila non si è ricandidato. Dopo quasi due anni di balletti, slittamenti, bugie, sotterfugi e silenzi, tutto il paese temeva che il presidente, ancora assiso sullo scranno più alto nonostante il suo mandato sia scaduto nel dicembre 2016, avrebbe trovato qualche scappatornia legale, oppure avrebbe forzato le norme vigenti, pur di non abbandonare il potere. Del resto «così fan tutti» in Africa centrale. Dal Rwanda al Congo Brazzaville, passando per il Burundi e l’Uganda, i presidenti-padroni non mollano. E si temeva che Kabila, al potere dal 2001, non sarebbe stato da meno.
E invece no. Stavolta si andrà al voto senza di lui. Il suo partito, il Pprd (Parti du peuple pour la reconstruction et la democratie, partito del popolo per la ricostruzione e la democrazia), ha tenuto frenetiche riunioni fino all’ultimo giorno utile per presentare e registrare i candidati alle prossime elezioni presidenziali, fissate per il 23 dicembre. E alla fine dal cilindro è saltato fuori il nome del delfino designato: per la maggioranza presidenziale, a correre sarà Emmanuel Ramazani Shadary. Non a caso, forse (conoscendo un po’ le dietrologie di molti palazzi nella regione), tale candidatura è stata ufficializzata l’8 agosto 2018.
Il delfino del presidente
Cinquantasette anni, originario di Kabambare nella regione del Maniema (Est), da febbraio segretario permanente del Pprd, Shadary è stato ufficialmente designato candidato presidente per la coalizione Fcc (Front Commun pour le Congo, Fronte comune per il Congo), piattaforma elettorale di Kabila e dei suoi alleati. Come ricorda la rivista Jeune Afrique, Shadary è stato vice premier e ministro dell’Interno, ma soprattutto è stato colpito dalle sanzioni dell’Unione europea dal maggio 2017 per «ostacoli al processo elettorale e violazione dei diritti dell’uomo»: era infatti ministro dell’Interno e responsabile dei servizi di sicurezza durante la sanguinosa repressione delle manifestazioni anti Kabila e anti terzo mandato. A lui va attribuita anche la recente riforma elettorale, ritenuta favorevole al campo di Kabila, che autorizza in particolare l’uso delle «machines à voter» (macchine per votare), un esperimento che dovrebbe portare al voto elettronico sessanta milioni di abitanti spesso senza istruzione e senza alcun accesso a internet e ai moderni mezzi di comunicazione.
Ancora, Shadary era in carica durante la crisi nel Kasai, quando lo scorso anno la regione subì una fiammata di feroce violenza attribuita ai miliziani di Kamuina Nsapu, ma i cui contorni non sono mai stati chiariti e dove ha giocato un ruolo poco limpido l’esercito regolare, inviato a sedare la rivolta ma macchiatosi di esecuzioni sommarie. Ricordiamo fra gli altri il clamoroso e oscuro assassinio di due esperti delle Nazioni Unite, Zaida Catalan e Michael Sharp, che stavano investigando su numerose fosse comuni. Inchieste giornalistiche approfondite hanno portato all’evidenza elementi che mostrerebbero la complicità del governo nell’eliminazione dei due giovani internazionali.
Insomma, con un curriculum così, non c’è molto da stare tranquilli: il delfino di Kabila dimostra di essere «all’altezza» – si fa per dire – del suo predecessore e di volerne portare avanti lo «stile» di governo. Eppure, quando ne è stata ufficializzata la candidatura, tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. Un paradosso, se vogliamo, che la dice lunga sulla situazione politica della Repubblica Democratica del Congo: gioire per la candidatura di un uomo colpito da sanzioni internazionali, semplicemente perché – quanto meno – la sua scelta ha garantito la non ricandidatura del suo capo.
Un candidato fantoccio?
Ora si apre tutta un’altra serie di valutazioni: quanta libertà di movimento avrà Shadary? Perché è stato scelto lui rispetto ad altri, più noti e più attesi, fra i fedelissimi di Kabila? Sarà una marionetta nelle mani di Kabila? Perché quest’ultimo, alla fine, ha accettato di non ripresentarsi? È presto per dirlo. Di certo, prima di giungere a questa mossa un po’ a sorpresa, Kabila ha agito per pararsi le spalle da conseguenze nefaste. Una volta tornato privato cittadino, infatti, nulla lo metterebbe al riparo da una denuncia alla Corte penale internazionale dell’Aja. Troppi i crimini a lui ascrivibili commessi negli anni che lo hanno visto padre padrone del Congo. All’interno del paese, tuttavia, non avrà problemi, poiché in base alla Costituzione diverrà automaticamente senatore a vita, con annessa immunità parlamentare. Non pago di ciò, a luglio ha fatto votare al parlamento una legge che gli garantisce anche tutta una serie di benefit e prebende.
Oppositori indesiderati
Dal canto suo, l’opposizione è ancora in fase di organizzazione.
L’ultima mossa dell’uscente Kabila è stata infatti quella di impedire la registrazione nell’elenco dei candidati presidenti a Moise Katumbi, quello che negli ultimi anni è stato il suo avversario numero uno. Ex governatore del Katanga, uomo ricchissimo, figlio di un greco ebreo sefardita e di una congolese, sposato con una burundo-ruandese tutsi (figlia di un ex ambasciatore ruandese in Belgio), Katumbi aveva già subìto tentativi di delegittimazione nel 2015, quando aveva lasciato la maggioranza presidenziale e il ruolo di governatore per predisporsi alla candidatura alle presidenziali. Nel 2016 fu prima aggredito da un poliziotto che tentò (pare) di avvelenarlo, poi condannato, in contumacia, a 36 mesi di detenzione «per la vendita di una casa non di sua proprietà», costringendolo a rimanere all’estero (dove era precipitosamente corso per farsi curare dal tentativo di avvelenamento) per evitare l’incarcerazione. Il 2 gennaio 2018 ufficializzò la sua candidatura alle presidenziali e il giorno dopo la sua residenza di Lubumbashi venne circondata dalla polizia, che lo accusava di arruolamento di mercenari. Katumbi ha sempre negato la fondatezza di questa accusa, sostenendo di aver semplicemente assunto una vigilanza privata per la sua sicurezza personale. Ma le accuse non erano finite: a maggio venne incolpato di sostenere la ribellione anti Kabila e addirittura di essere dietro l’epidemia di ebola scoppiata nella provincia dell’Equateur. A giugno le autorità congolesi gli revocarono il passaporto, causando il suo arresto a Bruxelles, mentre stava per prendere un aereo. Nel frattempo, in patria e nella diaspora circolavano le voci più disparate sulla sua nazionalità (addirittura dicevano che avesse un passaporto italiano). Insomma, una vera persecuzione mirata a indebolirlo e soprattutto a tenerlo lontano dal paese.
Fino al 3 agosto, quando, giunto in Zambia per entrare in Rdc e andare a registrarsi come candidato presidente, è stato bloccato alla frontiera per giorni, fino alla chiusura delle candidature. Una plateale scorrettezza, che lo ha per ora di fatto escluso dalla corsa, salvo sorprese.
Il ritorno di Bemba
Una sorpresa, invece, è stato il (breve) ritorno in campo del rivale storico di Kabila, Jean-Pierre Bemba: nel 2006 era andato al ballottaggio contro il presidente uscente. La partita si era giocata anche a colpi di cannone. In quei giorni di settembre 2006 ero a Kinshasa e me lo ricordo bene: il centro città fu ostaggio delle truppe fedeli ai due, entrambi autodichiarati vincitori, che si fronteggiavano con armi pesanti e carri armati. Alla fine, Kabila ebbe la meglio. E Bemba cadde nelle maglie della giustizia internazionale, che lo portò a processo all’Aja per crimini contro l’umanità.
Bemba è figlio di un ricco industriale mobutista e per anni aveva avuto le sue truppe personali: un vero signore della guerra. Le sue milizie si erano macchiate di crimini orrendi nell’Est del Congo. Eppure, curiosamente, finì sotto accusa come responsabile per altri misfatti, che i suoi uomini avevano commesso in Repubblica Centrafricana. Bemba fu condannato in primo grado nel 2016 a 18 anni di carcere. Fino a che – a sorpresa – lo scorso 8 giugno la stessa corte lo assolse in appello. Una sorta di autorizzazione a rimettersi in gioco. Sta di fatto che Jean-Pierre Bemba è uscito dal carcere, ha potuto rientrare in Rdc e presentare la propria candidatura, insieme ad altre 24 persone. Fra i più noti, Félix Tshisekedi (figlio dell’eterno oppositore Etienne, deceduto un anno fa), Vital Kamerhe, Adolphe Muzito, Antornine Gizenga. Di Katumbi abbiamo detto. Per inciso, su 25 candidati, una sola è donna.
Ma mentre le opposizioni cercano la quadra per fare fronte comune e provare a sconfiggere la maggioranza presidenziale (la legge elettorale vigente, modificata da Kabila nel 2011 per garantirsi il secondo mandato, esclude infatti il ballottaggio: chi prende più voti al primo turno vince, anche con un venti per cento), ecco il nuovo colpo di scena: la Ceni (Commissione elettorale nazionale indipendente) boccia sei candidature, tra le quali proprio Bemba, che è stato sì prosciolto dall’accusa principale all’Aja, ma ha ancora pendente un giudizio secondario per corruzione di testimoni. Quindi, secondo la legge, non candidabile. E infatti, dopo la sua esclusione dalle liste elettorali, dall’Aja giunge il 17 settembre una condanna a 12 mesi per subornazione di testimoni.
E così, con una scusa o l’altra, gli avversari più temibili sono neutralizzati.
Giusy Baioni
Elezioni legislative
La macchina per il voto
Uno dei punti più discussi del programma elettorale riguarda la cosiddetta machine à voter: il 23 dicembre si dovrebbe infatti andare alle urne col voto elettronico. L’annuncio era stato dato il 31 dicembre 2017 da Corneille Nangaa, presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni). E aveva da subito creato scompiglio. Il timore di brogli è forte e ha portato le opposizioni e anche la Cenco (Conferenza episcopale nazionale congolese) a chiedere alla Ceni di rinunciarvi. Quest’ultima non cede, sostenendo che senza tale dispositivo elettronico non si farebbe in tempo a organizzare le elezioni per il 23 dicembre e che la macchina farebbe risparmiare denaro, oltre che tempo.
Prodotto dalla sudcoreana Miru Systems, è curioso che la stessa ambasciata sudcoreana a Kinshasa si sia presa la briga di sconsigliarne l’uso, per i rischi di irregolarità. Lo stesso dispositivo era stato preso in considerazione dal governo argentino per le elezioni del 2016, ma alcune organizzazioni della società civile si erano mobilitate contro tale ipotesi. Ingaggiando un hacker, avevano dimostrato che era possibile addirittura modificare il voto espresso dal singolo elettore mediante una semplice app sul cellulare. Le stesse associazioni (Fundación vía libre e Poder ciudadano) lo scorso aprile hanno scritto una lettera aperta alla società civile congolese, spiegando tutte le criticità del voto elettronico.
Ecco come funziona: sullo schermo touchscreen della machine à voter saranno visibili le foto dei candidati sia alla presidenza che alle elezioni legislative e provinciali. Il votante selezionerà una persona per ciascuna delle tre elezioni contemporanee e il dispositivo stamperà una scheda col relativo voto all’interno.
Per l’Argentina si trattava di un microchip inserito nella scheda (che l’hacker aveva potuto facilmente clonare e modificare), mentre nel caso congolese il presidente della Ceni Nangaa ha affermato che le schede non conterranno un microchip, troppo costoso, ma un più economico codice QR. Le associazioni argentine obiettano che il votante non è in grado di interpretare detto codice che – teoricamente – potrebbe anche corrispondere a tutt’altro, oppure permettere di identificare il votante. Insomma, nessuna garanzia di segretezza e validità. L’unica cosa certa è che tutte le opposizioni rigettano questo sistema di voto. E chi lo ha provato (fra gli altri, Bemba) ha impiegato parecchio tempo e ha affermato che è troppo complicato.
Ma non basta: una notizia del 14 luglio riportata dall’emittente nazionale Radio Okapi dà l’idea di quali e quanti rischi si stiano correndo. L’articolo titolava «Isangi: una baleniera immobilizzata dopo la scomparsa di una macchina per votare» e raccontava della collera dei commercianti bloccati con le loro merci su un mercantile fluviale, a causa della sparizione di una parte di un lotto che veniva inviato da Kisangani alla provincia della Tshopo per la sensibilizzazione pre voto. Non è dato sapere se sia stata ritrovata, quel che è certo è che il lotto viaggiava senza alcun controllo e che in un paese grande come l’Europa Occidentale tali episodi potrebbero ripetersi più e più volte.
Forte la preoccupazione espressa dall’Onu e secondo le opposizioni tale dispositivo potrebbe divenire fonte di contrasto anche post elettorale.
Giusy Baioni
Venezuela: Un paese sotto anestesia
La situazione sociale, economica e politica è precaria, e peggiora rapidamente. Molti fuggono dal paese. I missionari della Consolata, presenti dalla capitale Caracas alle foci del rio Orinoco, hanno scelto di restare accanto alla gente alimentando la speranza e condividendo la vita con i più poveri.
«Volevo offrirvi un caffè, ma oggi non ho niente». Lo sfogo viene da una madre che riceve una visita a casa sua nella regione di Barlovento, stato di Miranda, in Venezuela. La situazione economica, politica e sociale del paese è così complicata che diventa difficile da capire. Con ampi poteri, il governo di Nicolás Maduro, seguendo il suo ispiratore, Hugo Chávez, controlla tutte le istituzioni e impone la sua ideologia. Forse è per questo che ci sono ancora persone che difendono la «Rivoluzione Bolivariana». Tuttavia, crescono le critiche non solo dell’opposizione, ma anche di alcuni settori della sinistra e della popolazione in generale che soffre le dure conseguenze di una disastrosa gestione economica.
«Non c’è prospettiva per il futuro e la cosa più triste è che le persone si abituano a vivere male. Il Venezuela è un paese anestetizzato da una diffusa rassegnazione», dice padre Adan Ramirez, cancelliere della curia a Caracas, analizzando lo stato generale e lo spirito della popolazione.
Ci sono persone che credono nella possibilità concreta di un cambiamento, ma manca un leader per transformare questo desiderio in un progetto politico alternativo.
«Tra aprile e luglio (2017) in particolare, in varie parti del paese si sono svolte proteste di massa a favore e contro il governo. Il diritto di riunione pacifica non è stato garantito. Secondo i dati forniti dalle autorità, nel contesto di queste proteste di massa sono rimaste uccise almeno 120 persone e più di 1.777 sono state ferite, tra manifestanti, membri delle forze di sicurezza e passanti» (dal Rapporto annuale 2017-2018 di Amnesty International). Centinaia le persone arrestate.
La situazione già precaria sta peggiorando rapidamente. Sebbene il paese abbia grandi riserve di petrolio, l’iperinflazione ha spinto l’economia nel caos.
È un Venezuela in fiamme quello di oggi, di contrapposizioni forti e sanguinarie. Per questo si scorge quella rassegnazione che nasce quando, alzando gli occhi al cielo, non si vedono più le stelle.
La corruzione e la mancanza di beni di prima necessità colpiscono la popolazione che già soffre a causa della carenza di energia elettrica, acqua, gas, trasporti, farmaci e servizi pubblici.
Senza nessuna prospettiva di lavoro, milioni di venezuelani emigrano, soprattutto giovani e professionisti. Quasi tutte le famiglie hanno qualcuno all’estero. Molti genitori affidano i bambini ai nonni e se ne vanno fuori dal paese alla ricerca di fortuna.
Secondo il cardinale Baltazar Porras Cardozo, arcivescovo di Mérida e amministratore apostolico di Caracas, il paese non ha la forza di reagire. «I partiti di opposizione sono disabilitati, i loro leader sono incarcerati o costretti a fuggire all’estero. Le istituzioni sono controllate dal governo che domina anche l’economia. La paura è grande, soprattutto tra i giovani che sono disillusi», dice il cardinale, che sottolinea anche le sfide di questa crisi per la Chiesa: «Rilanciare la speranza e la fede del popolo, oltre che curare l’odio, frutto della polarizzazione».
Il Venezuela è il paese con le maggiori riserve di petrolio del mondo, e questo fa dell’oro nero l’unico motore dell’economia, rappresentando oltre il 95% dei proventi delle esportazioni. Nel 2014, un barile di petrolio era scambiato a 115 dollari americani. Oggi è valutato a 70 dollari, dopo essere sceso a 26 nel 2016.
Il governo di Maduro accusa «la borghesia» di creare una struttura economica che non favorisce lo sviluppo. Un altro nemico sempre citato nelle spiegazioni del presidente sono gli Stati Uniti che, secondo lui, interferiscono per destabilizzare il paese.
La Consolata in Venezuela
In Venezuela lavorano 13 missionari della Consolata:
a Barlovento nelle parrocchie di Panaquire, El Clavo e Tapipa;
nell’archidiocesi e nella città di Barquisimeto, con un Centro di animazione missionaria (Cam);
nel vicariato di Tucupita tra gli indigeni Warao a Tucupita e
Nabasanuka;
a Caracas nella la sede della delegazione, nel seminario propedeutico e di filosofia, e nella parrocchia di Carapita in periferia.
Oltre a soddisfare i bisogni materiali, i missionari si preoccupano di mantenere viva la speranza della gente con una presenza di consolazione spirituale.
I padri keniani, Charles Gachara Munyu e Silvano Ngugi Omuono, lavorano in tre parrocchie di Barlovento, nella diocesi di Guarenas, regione a 100 chilometri da Caracas, controllata da gruppi armati che operano impunemente. Per visitare le 36 piccole comunità del territorio, i missionari hanno bisogno di avvisare i capi di questi gruppi per non correre rischi. Anche la strada nazionale che dà accesso a Tapipa, Panaquire e El Clavo è controllata. «Spesso siamo fermati dai “malandros”, (come vengono chiamati i ragazzi) che minacciano e rubano gli oggetti di valore», afferma padre Silvano. Il missionario ha già avuto la pistola puntata alla testa quattro volte. In una di queste era acompagnato dal vescovo. «Ho pensato qualche volta di lasciare il paese, ma non sono venuto qui per la mia sicurezza. Credo che sia stato Dio a mandarmi, e così Egli mi proteggerà. Vedendo la situazione della gente e come apprezzano la nostra presenza, riprendo coraggio per continuare la mia missione».
«Una volta assunta la missione dobbiamo lasciarci guidare dallo Spirito, con un cuore aperto alla gente, imparare dalla realtà per aiutare con quello che abbiamo. La nostra cultura è diversa, ma il contributo che diamo è quello di creare e formare le comunità di base che in Kenya sono forti».
Questa è la richiesta principale degli animatori, come fa notare il catechista di Panaquire, Frank Rondón: «Abbiamo bisogno di formare ministri della Parola e dell’Eucaristia, catechisti e altri leader che possano assumere il lavoro di animazione delle comunità e non dipendere, così, sempre dai padri».
Nella diocesi di Guarenas ci sono cinque parrocchie senza parroco, e i missionari della Consolata che già lavorano in tre parrocchie, stanno studiando la possibilità di assumerne una quarta a Caucagua, a 15 km da Tapipa.
La pastorale afro
A Barlovento la popolazione è afro americana. «Dopo oltre 30 anni di presenza, adesso possiamo concentrarci in modo più mirato sulla pastorale afro. È necessario creare consapevolezza che essere afrodiscendenti ha il suo valore che può essere integrato nell’esperienza della fede cristiana, con un impatto sulla società, la politica, l’educazione e la salute», afferma padre Charles, missionario con un master in Teologia Biblica. «Questo è un processo lento, ma dobbiamo stabilire alleanze con altre organizzazioni per ottenere i diritti. Per molti anni, la Chiesa non ha riconosciuto l’identità afro del popolo sostenendo che erano tutti venezuelani. La nostra presenza è un segno di speranza, ma dobbiamo ancora lavorare sulla resistenza», dice il padre, presente nel paese dal 2002.
I missionari non pensano solo ai sacramenti. «Non importa se celebriamo le messe o semplicemente facciamo una visita. Il fatto di andare a vedere la gente è sufficiente per dire che non sono soli. Le persone apprezzano molto l’amicizia», aggiunge padre Charles. Eduin Ruiz, uno dei coordinatori della pastorale afro, spiega che «l’obiettivo è riscattare l’identità e i valori della cultura negata nel corso della storia. Ciò richiede un lavoro di inculturazione del Vangelo». Padre Silvanus offre un piccolo esempio di forte potere simbolico: «La stessa campana suonata nel passato per avvertire della fuga di uno schiavo, oggi serve per invitare gli afro americani a partecipare alle celebrazioni».
La terra è ricca per coltivare il cacao, che sarebbe un potenziale economico per le famiglie, ma, purtroppo, il governo impone dei prezzi molto bassi rendendone impossibile il commercio. «La qualità dell’istruzione si sta deteriorando, molte scuole sono state chiuse e i giovani non ricevono una formazione professionale adeguata», lamenta Eduin Ruiz, che aggiunge: «In molte famiglie i bambini non possono contare sulla presenza del padre e finiscono per strada dove sono vittime di violenza, povertà e delinquenza. La nostra lotta è per la vita, contro la droga, l’alcolismo e l’insicurezza».
Essere segni di Consolazione
In visita al Venezuela, padre Stefano Camerlengo, superiore generale, ha lasciato tre parole di incoraggiamento. «La Consolazione: che non è un’idea, una politica, ma Gesù Cristo il Salvatore; la Comunione: la comunità non è costituita solo dal padre, ma da tutti coloro che vivono e lavorano per i valori comuni; la Liberazione: come insiste il papa Francesco, essere Chiesa in uscita significa che non dobbiamo solo pregare tra noi, ma dobbiamo andare a cercare e includere gli altri nella proclamazione del Vangelo che è gioia e salvezza per tutti».
La gente ricorda con affetto tutti i missionari della Consolata che negli ultimi 30 anni hanno lavorato nella regione. La catechista Alejandrina Pimentel rammenta che «ognuno contribuisce con il suo carisma. Cerchiamo di capire tutti. Vado in chiesa per la mia fede e non per il prete», osserva. Pedro Vamonde vede l’importanza di continuare il lavoro: «La vicinanza ai missionari ci ha aiutato a cambiare. La Chiesa siamo noi e dobbiamo contribuire di più per sostenerla». I missionari della Consolata si sono stabiliti in Venezuela nel 1971 con il padre Giovanni Vespertini, nella diocesi di Trujillo. Con l’arrivo nel 1974 di padre Francesco Babbini e di altri, i missionari hanno esteso la loro presenza nell’arcidiocesi di Caracas. Anche le missionarie della Consolata hanno tre comunità nel paese, a Caracas, a Puerto Ayacucho e Tencua.
Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per l’America
Qualche cifra
Il 20 agosto 2018 è stato introdotto il nuovo «bolivar soberano» (BsS) dal valore di 100mila bolivares (Bs) vecchi.
1 $ = 61 BsS (mercato nero: 90)
Il 1 ottobre è stata lanciata la cryptovaluta «Petro» dal valore di 60 $, ufficialmente acquistabile dal 5 novembre 2018.
Prezzi di alcuni prodotti essenziali
prezzo ufficiale in BsS in nero
1 kg di carne 90 250
12 uova 120 360
1 l di latte 49 120
1 kg pollo 78 180
1 kg di formaggio 80 300
1 l olio da cucina 36 80
1 kg di riso 42 70
1 kg zucchero 32 120
1 kg farina polenta 20 30
1 kg farina bianca 54 150
1 l benzina regolare 0,70 (= 70mila Bs, prima costava 1 Bs)
1 l benzina premium 0,90 (da 6 Bs)
1 l Diesel 0,50 Questi prezzi della benzina sono validi solo per chi ha il «carnet de la patria».
Salario minimo: da settembre 2018: 1.800 BsS (30 $ ca.)
Sud Sudan: L’ennesimo processo di pace per il conflitto più cruento
È la guerra civile più efferata degli ultimi tempi. Ma anche la più dimenticata. In 5 anni ha ucciso tra le 50 e le 300mila persone, ha prodotto oltre 3,5 milioni di sfollati e 5 milioni a rischio fame. È stato fatto uso massiccio dello stupro e di violenze anche su minori, disabili, anziani. Da alcuni mesi una mediazione internazionale sta cercando di portare le tante fazioni in conflitto alla firma di una pace duratura. Riuscirà il petrolio dove il buonsenso ha fallito?
È il 5 agosto 2018. A Khartum, capitale del Sudan, Omar al Bashir, controverso presidente (accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità) e mediatore, ottiene la firma di un accordo di pace «provvisorio» tra le fazioni in guerra (civile) nel Sud Sudan. Questo è lo stato più giovane del mondo, si è diviso dal Nord il 9 luglio del 2011. «È come se il loro ex presidente fosse riuscito a imporsi per farli firmare», dice qualcuno. Presenti alla firma pure i presidenti di Kenya, Uganda e Gibuti, oltre che diversi corpi diplomatici. Salva Kiir Mayardit (presidente del Sud Sudan) e il suo acerrimo nemico Riek Machar (primo tra i ribelli), insieme a tutte le altre fazioni in conflitto in Sud Sudan, firmano. Ma il processo di pace non inizia e non finisce qui. Il 27 giugno è stata firmata la «Dichiarazione di Khartum», che doveva essere un cessate il fuoco tra tutte le parti, mentre il 25 luglio è stato siglato un accordo preliminare.
I presidenti lasciano la capitale del Sudan mentre i tecnici mettono a punto l’accordo reale e definitivo. Molti sono gli aspetti da definire sulla sua applicazione.
Ma ora cosa succederà? Riuscirà il più giovane paese dell’Africa, sconvolto da cinque anni di guerra cruenta a pacificarsi? A guardare il video – divenuto virale – che mostra Machar porgere la mano a Kiir e questo che abbassa la testa senza ricambiare il gesto, qualche dubbio ci assale.
A fine agosto arriva la notizia che Machar e i leader del Ssoa (South Sudan Opposition Alliance) non vogliono firmare l’accordo definitivo, che non prenderebbe in considerazione alcune loro richieste su divisione in stati, quote etniche del governo e meccanismi di modifica della Costituzione. Poi, nelmomento in cui scriviamo, Machar dichiara di voler firmare, perché confida che la mediazione sudanese sia garante delle loro rivendicazioni.
Una storia breve
Dopo l’indipendenza dal Sudan, nel 2011, viene creato un governo in cui Kiir è presidente e Machar il suo vice. Subito però riaffiorano le antiche rivalità tra i Dinka, etnia maggioritaria (circa 4 milioni) tra i 64 gruppi etnici sudsudanesi (12,5-13 milioni in tutto), e Nuer la seconda etnia per dimensione (un milione). Nel 2013 il dinka Kiir accusa il nuer Machar di essere artefice di un complotto per rovesciarlo e scoppia la guerra tra le due principali fazioni, che poi si moltiplicheranno.
Nell’agosto 2015 le parti firmano un accordo simile a quello di oggi, che porta a un governo transitorio, in cui Machar è ancora vice presidente (si veda MC maggio 2017). Accordo poi fallito pochi mesi dopo, con Machar che fa una vera «chiamata alle armi» contro i Dinka al potere, chiedendo a tutti i sudsudanesi di combatterli. Operazione che non piace ai paesi della regione e alla comunità internazionale, che invece hanno interesse a stabilizzare il Sud Sudan.
Una poltrona per cinque
I dubbi sulla firma del 5 agosto restano, perché i nodi cruciali non sono stati risolti. I punti fondamentali dell’accordo sono i seguenti: Salva Kiir rimane presidente, mentre Riek Machar ridiventa vicepresidente. Ma ci sono già due vice, ovvero James Wani Igga (di etnia bari), che aveva sostituito lo stesso Machar nel 2013, e Taban Deng Gai, nuer, messo nel 2015 perché rappresentava l’opposizione, la quale però non l’ha mai riconosciuto. A questo punto Machar potrebbe rientrare come primo vicepresidente, mentre se ne aggiungerebbero altri due, in modo da accontentare tutte le fazioni. In particolare i Dinka legati alla famiglia di John Garang (il leader carismatico morto misteriosamente nel 2005), che si dissociano dalla gestione di Kiir di questi anni e i Silluk (si fa il nome di Lam Akol, già alto ufficiale dell’Spla, poi ministro del Sudan e quindi fondatore della fazione Splm – democratic change).
«Sono tutte persone molto speciali e difficili, con delle storie un po’ strane. Lo stesso Salva Kiir, che pure non è un santo, si chiede come farà mai a governare con questi cinque vice presidenti», confida un osservatore.
Si dovrebbe formare un governo di pre transizione che durerebbe in carica alcuni mesi, con lo scopo di creare un parlamento e un nuovo governo di transizione della durata di tre anni, nei quali i seggi e gli incarichi sarebbero contingentati per etnia. Si tratta di fatto di un accordo di condivisione del potere, che però non prevede meccanismi o programmi, ma solo divisione di posti.
I nodi sul tappeto
Uno dei principali punti controversi dell’accodo è quello della sicurezza, da garantire per tutti. Intimamente legato alla creazione di un esercito unico, come vorrebbe il governo. Oggi ci sono una moltitudine di eserciti e di gruppi armati, ognuno legato a una fazione o meglio a un leader. Lo stesso Spla (esercito governativo) è diviso al suo interno. Ma come integrare tutte queste milizie? Sarebbero tanti i militari da mandare a casa, in particolare ufficiali e generali.
Ogni gruppo si garantisce la sicurezza con il suo esercito. Ad esempio, Machar che da anni vive in esilio, per tornare a Juba in sicurezza dovrebbe portarsi il suo esercito, come già successo nel 2016, creando tensioni con l’esercito governativo.
L’altro punto è la suddivisione territoriale, che l’attuale governo vuole portare a 32 stati. Dai 10 stati suddivisi in 86 contee del 2011, si è passati nel 2015 a 28 stati teorici. L’operazione sembra fatta più che per organizzare lo stato, per garantire ulteriori posti di potere da suddividere tra le fazioni. Il problema è che il paese rischia di diventare ancora più ingovernabile.
«Ci sono situazioni molto diverse. È un paese al quale non riesci a dare un’identità». Ci racconta una cooperante che è in Sud Sudan da tre anni e ha avuto modo di viaggiare in diverse zone.
«Nel Nord gli stati Unity, Jonglei, Upper Nile, sono popolati da tribù nomadi, dedite alla pastorizia. Ci sono i problemi di furti di bestiame e delle inondazioni. Sono le zone più arretrate. Rispetto a Greater Equatoria (nel Sud, dove c’è la capitale Juba) c’è un abisso. Quest’ultimo è uno stato a sé. C’è molta instabilità, gruppi armati che non si sa a che fazione appartengono, tante imboscate sulle strade. Nonostante questo, la gente sta tornando dall’Uganda, dove nel 2017 sono fuggiti a milioni. È gente che sta cercando di stabilizzare la propria vita. Negli stati Norhtern e Western Bhar el Ghazal, Warap, Lakes, ci sono altre popolazioni, contadini. A Wau la gente esce dal campo di sfollati e va a coltivare, si fa i mattoni per ricostruire la casa. Poi la notte rientra a dormire nel campo.
Si vedono almeno tre paesi diversi con mentalità e approcci alla vita propri».
Pressioni internazionali
Gli osservatori sono concordi nel giudicare che le pressioni internazionali, in particolare dei paesi dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa), sono state fondamentali per ottenere la firma di tutti i belligeranti. E il Sudan è stato in prima linea. «Il Sudan, come anche il Sud Sudan, versa in una grave crisi economica. Se i pozzi di petrolio del Sud riprendono a pompare, il greggio ha come unica via l’oleodotto che lo porta a Port Sudan, sul Mar Rosso, nel Nord, e Khartum riceve per ogni barile un grossa quota di profitti», dice l’osservatore.
In effetti, il giorno stesso della firma, al Bashir ha annunciato la ripresa dell’estrazione di greggio e, puntuale, il 26 agosto un test è stato fatto nello stato di Unity, alla presenza di due delegazioni di Sudan e Sud Sudan guidate dai rispettivi ministri del Petrolio. La produzione dovrebbe normalizzarsi entro la fine dell’anno. Gli esperti dicono che nel Sud Sudan è passata dai 350.000 barili/anno di cinque anni fa, a circa 120.000 barili/anno.
Altri paesi interessati sono l’Uganda, che ha sempre appoggiato la fazione di Salva Kiir, (mentre il Sudan è piuttosto legato a Riek Machar), l’Etiopia, che ha dovuto accogliere alcune centinaia di migliaia di sfollati, e il Kenya.
Mentre l’Unione europea è stata assente, gli Stati Uniti, che hanno molto investito in Sud Sudan, hanno criticato l’accordo firmato a Khartoum. Inoltre, hanno fatto pressione all’Onu e fatto passare l’embargo sulle armi (13 luglio), ma si tengono lontani dal processo in atto.
Voci dal terreno
Ma quali cambiamenti ha portato sul terreno questo nuovo processo di pace?
Secondo l’operatrice umanitaria, «non c’è alcun cambiamento interno nel paese. Ad esempio in questi giorni si sta combattendo nel campo di sfollati di Juba. Qui ci sono 30.000 persone, tutti Nuer ma di diversi clan, e basta un nulla per fare scoppiare la violenza. Spesso si combattono per portare più servizi al loro gruppo. A livello locale, dove noi andiamo per assistere gli sfollati, l’accordo di pace non ha portato a cambiamenti». E continua: «In alcune zone del Nord gli sfollati rientrati in patria che assistiamo, mi hanno detto: tra alcune settimane ricomincia la stagione secca, le truppe hanno più facilità di spostamento e verranno a riprendere questa zona. Noi siamo già pronti a scappare di nuovo in Sudan».
Un missionario che lavora a Juba ci racconta: «Per l’accordo la gente ha grande speranza. Sono esausti di questa situazione, quindi qualsiasi cosa va bene, purché ci sia tranquillità e l’economia si riprenda. A giugno un dollaro era arrivato a valere 350 sterline sudanesi. Con i salari minimi intorno alle 3-4.000 sterline. Molti prodotti sono di importazione, arrivano dall’Uganda o da altri paesi, per cui i prezzi aumentano con il cambio. Dopo la firma dell’accordo il dollaro è a 160 sterline, e questo dà un grosso respiro alla gente. In realtà al mercato c’è confusione, perché c’è ancora chi applica cambi diversi».
Conferma il missionario: «Il costo della benzina è sceso e questo è importante, soprattutto per le merci trasportate. Ad esempio, il prezzo della farina è sceso. Ma non si sa quanto durerà. Il dubbio è: come faranno queste persone, che sono sempre le stesse al governo, a superare le loro divisioni e disaccordi? Come credere che non siano lì per la loro ambizione, ma per dare un minimo di pace al paese?».
La guerra che va avanti da cinque anni è particolarmente efferata, come denuncia l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu: «[…] Questa è una delle più orrende situazioni dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio dello stupro come strumento di terrore e arma di guerra […]», dichiara l’Alto commissario Zeid Ra’ad Al Hussein.
Un sud sudanese, operatore umanitario, con studi all’estero (come tutti a livello universitario), ma che lavora nel suo paese, analizza la situazione. Raggiunto telefonicamente, ci chiede l’anonimato, come già le altre fonti, per ragioni di sicurezza: «Molte persone sono in attesa degli sviluppi di questa firma. Ma se si guarda alla situazione nel paese, è ancora molto confusa. C’è la fazione del governo, poi ci sono tante fazioni di opposizione. La gente vuole la pace, ma molti non sono pronti per questo, come i politici che cercano solo i propri interessi. C’è molta corruzione in ambiente politico. Tutti vogliono mantenere la loro fetta di potere».
E continua: «Fatto l’accordo di pace, ora devono vedere come metterlo in atto, ovvero come governare. Con questo tipo di accordo è difficile soddisfare tutte le persone. Ci sono tante comunità (o etnie), molte differenze, e se i politici lavoreranno solo a livello politico, sul terreno non si vedranno cambiamenti».
Il coordinatore (africano) di una Ong medica internazionale ci confida: «La situazione è molto fluida.
Ci sono diverse violazioni degli accordi, in molte zone, e gli operatori umanitari sono preoccupati».
A fine luglio, alcune centinaia di giovani armati, hanno attaccato e saccheggiato una base di Ong e Nazioni Unite a Maban, nel Nord dello stato di Upper Nile. Non si capisce che origini abbia questo attacco».
Continua la nostra fonte: «La popolazione aspetta che gli accordi di pace siano realmente implementati, ma finora non ci sono stati ancora cambiamenti.
C’è parecchio pessimismo. I sud sudanesi non hanno molta fiducia. Non è il primo accordo e la gente ha paura che i militari ricomincino a combattersi. Chi è più vicino al governo (o alla etnia del presidente) è più ottimista, al contrario le comunità legate all’opposizione sono più pessimiste.
Le Ong non sono molto sicure che gli accordi saranno implementati. Il problema è anche che ci sono molte richieste da parte dell’opposizione, condizioni molto complesse da garantire».
Società civile cercasi
«Inoltre qui – ci confida il missionario che risiede a Juba, ma ha vissuto anche in altre zone – la popolazione è costretta ad accettare le cose così come sono. Quando il valore della moneta crollava di settimana in settimana mi sono stupito che non ci siano stati scioperi o manifestazioni. La gente sa che non può esprimersi liberamente. Accetta facilmente di farsi proteggere dal forte di turno. Inoltre i gruppi sono spesso allineati etnicamente. La società civile ha ancora una lunga strada da percorrere per dar vita al cambiamento. Probabilmente c’è da aspettare che questa generazione di politici finisca e sia sostituita da un’altra». E continua: «Le Ong nazionali sono finanziate dai grandi enti e offrono servizi di vario tipo. Creano lavoro per la gente locale, ma portano avanti un approccio di emergenza piuttosto che di sviluppo, anche perché questo permette loro di continuare a lavorare».
Importante è stato il ruolo del South Sudan Council of Churches (Consiglio delle chiese sud sudanesi) che riunisce Chiesa cattolica, la Chiesa episcopale (la più diffusa) e la Chiesa presbiteriana.
Ci racconta il missionario: «Il governo rispetta le chiese ma le teme pure. Teme la loro indipendenza. Se una chiesa è allineata la ascolta, altrimenti la lascia un po’ da parte e la Chiesa cattolica è quella che fa più fatica ad allinearsi, quindi si attira più sospetti.
Inoltre è un momento un po’ difficile della nostra Chiesa: quattro diocesi su sette sono senza vescovo. Molte energie devono essere spese per far fronte ai tanti problemi interni e quindi non riesce sempre a farsi ascoltare dal governo. Nonostante tutto le rimane una grande autorità morale: parla una voce unica, non ci sono divisioni etniche in essa. È presente in tutte le comunità (le etnie), per cui non è di parte. Le altre Chiese invece corrono il rischio di essere più allineate e di essere percepite come tali. La Chiesa presbiteriana ha più influenza nelle zone nuer, per cui è stata vista come la chiesa più vicina alle opposizioni. Mentre la Chiesa episcopale aveva gerarchie soprattutto dinka, per cui era vista come filo governativa. Adesso sta superando questo, grazie al nuovo primate più neutrale».
Oltre alle Ong locali e alle Chiese, ci spiega il coordinatore della Ong internazionale, «ci sono altre associazioni per i diritti umani, associazioni delle donne per la pace. Ma le associazioni basate in Sud Sudan devono essere dalla parte del governo. Ce ne sono anche non allineate, ma stanno all’estero, perché non è conveniente per motivi di sicurezza. Essere contro diventa rischioso. Non è un paese nel quale puoi esprimere liberamente quello che vuoi, puoi solo parlare a favore del governo».
La cooperante riassume così le sue sensazioni: «Sono molto delusa. Non è possibile che dal 2013 ci siano sempre le stesse dinamiche. Quello che mi delude di più è che ai politici non importa nulla della gente, fanno solo i loro giochi di potere. Si scontrano e poi vanno a cena assieme. Si stringono le mani, poi litigano di nuovo. Quanto potrà durare un accordo di pace con queste prospettive?»
Marco Bello
Mali elezioni: verso il secondo turno ma accuse di brogli
In Mali lo scorso 29 luglio si è svolto il primo turno delle elezioni presidenziali. In attesa dei risultati definitivi, che saranno pubblicati dal Corte Costituzionale, si profila un ballottaggio senza sorprese tra il presidente in carica, Ibrahim Boubakar Keita e l’oppositore Soumaila Cissé, che si dovrà tenere domenica 12 agosto.
Ma l’opposizione non ci sta, e accusa il governo di «Colpo di stato elettorale». Diciotto candidati dell’opposizione si sono infatti uniti per chiedere il riconteggio dei voti. Le accuse sono di frodi elettorali, compra vendita di voti, e impossibilità di recarsi alle urne in alcune regioni del paese (ad esempio a Timbuctu). Diversi candidati hanno presentato ricorso alla Corte Costituzionale.
L’opposizione chiede pure le dimissioni del ministro dell’Amministrazione territoriale e del decentramento, incaricato dell’organizzazione delle elezioni. Lo stesso Soumaila Cissé, arrivato secondo, qualifica lo scrutinio di «dittatura della frode». Ma per il governo «queste accuse di frodi non sono giustificate», e il presidente del Mali, Keita, si felicita per il processo elettorale in corso. (MB)
Sì, no, forse, I tanti dilemmi dell’energia nucleare
Scrivere un articolo sul nucleare è una vera e propria sfida di comunicazione (e non esclusivamente dal punto di vista scientifico). Il dibattito sull’opportunità o meno di utilizzare l’energia imprigionata nel nucleo di un atomo anche per scopi pacifici e civili si è incuneato, a partire dagli anni Settanta, in inestricabili gangli ideologici. A seconda delle tesi che si vogliono sostenere, l’immensa mole di dati e tesi scientifiche viene troppo spesso seviziata e manipolata a piacere con il solo scopo di suffragare idee preconcette, anche a costo di stravolgere la fisica dell’atomo. È quindi praticamente impossibile, nell’affrontare un argomento così delicato, non incappare negli strali delle tifoserie dell’una o dell’altra squadra. Si aggiunga, poi, la complessità fisica, chimica, matematica che accompagna la materia nucleare che, per essere presentata in modo comprensibile ad un pubblico poco avvezzo all’argomento, deve essere spesso limata e sintetizzata in modo poco ortodosso.
Tutto questo porta spesso ad approssimazioni o a faziosità difficilmente conciliabili con l’informazione che si intende offrire.
Ai lettori di Missioni Consolata tenterò, quindi, di presentare l’argomento nucleare, se non in modo oggettivo, per lo meno cercando di seguire l’onestà intellettuale che dovrebbe contraddistinguere ogni divulgazione, nonostante il mio personale scetticismo su questa fonte energetica soprattutto in fatto di gestione delle centrali.
Piergiorgio Pescali
Dall’atomo alla fusione nucleare
Dalla scoperta della divisibilità dell’atomo (1896) al suo sfruttamento per produrre energia, la scienza della fisica nucleare ha fatto passi enormi. Non sempre nella direzione corretta, come dimostrano le tragedie di Hiroshima e Nagasaki (1945) e l’esistenza di pericolosi armamenti nucleari. Oggi l’energia nucleare viene sfruttata (soprattutto) per usi civili, ma anche in questo caso sul tavolo rimangono problemi seri. Come il pericolo di incidenti (le centrali di Chernobyl e Fukushima ce lo ricordano) e lo smaltimento delle scorie radioattive.
Nel 1914 la casa editrice britannica Macmillan & Co. pubblicò un romanzo di Herbert George Wells, La liberazione del mondo. In quelle 286 pagine si descriveva, in modo fantascientifico, una guerra che sarebbe scoppiata nel 1956 tra la coalizione franco-britannica-statunitense e quella austro-germanica. Il libro di Wells, autore noto al grande pubblico in quanto aveva già dato alle stampe successi come L’isola del dottor Moreau (1896), L’uomo invisibile (1897) e La guerra dei mondi (1898) che tanto panico causò nell’edizione radiofonica di Orson Welles, non raggiunse la fama dei precedenti lavori, ma ipotizzava, per la prima volta, l’utilizzo di un’arma che, sebbene differente nella concezione, avrebbe dominato la storia del mondo dal secondo dopoguerra fino ad oggi: la bomba atomica.
Basandosi sugli studi di Ernest Rutheford, William Ramsay e, soprattutto, di Frederick Soddy, Wells ipotizzò che, in un futuro non troppo lontano, gli eserciti avrebbero potuto utilizzare la scoperta della radioattività per creare armi che uccidessero non solo grazie al loro potenziale distruttivo immediato, ma prolungando nel tempo l’emissione dei radioisotopi.
L’autore morì il 13 agosto 1946, un anno dopo lo scoppio delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki, facendo così in tempo a veder realizzarsi nella storia la sua anticipazione letteraria.
La liberazione del mondo era un libro apocalittico, ma con un finale positivo: nel cancellare gran parte dell’umanità, la bomba atomica aveva anche permesso di gettare le basi per la creazione di nuove forme di pensiero e di governo. Alla fine, dunque, la scienza, in cui il pacifista Wells credeva fermamente, mostrava sempre il lato costruttivo e vantaggioso.
L’innato ottimismo che la società a cavallo tra il XIX e il XX secolo riponeva nel progresso, aveva nella neonata fisica nucleare il suo principale motivo d’essere.
L’atomo è divisibile: la nascita della fisica nucleare
Nel febbraio 1896, pochi anni prima che La liberazione del mondo fosse data alle stampe, la scoperta della radioattività fatta dal fisico francese Henri Becquerel aveva inaugurato l’avventura nucleare smontando la tesi secondo cui l’atomo (dal greco ??????, àtomos, indivisibile) era la parte ultima della materia e dimostrando che invece era a sua volta formato da altre particelle più piccole. Era nata la fisica nucleare.
Ci vorranno altri 36 anni prima che la struttura dell’atomo sia svelata nella sua interezza: nel 1897 Joseph John Thomson scoprì l’elettrone, nel 1919 Ernest Rutheford propose l’esistenza di un nucleo formato da protoni caricati positivamente e nel 1932 James Chadwick ipotizzò l’esistenza all’interno del nucleo di una particella di massa simile a quella del protone, ma di carica neutra: il neutrone.
Proprio quest’ultima scoperta scatenò nuove teorie della fisica e nel 1933 Leo Szilàrd suppose che se un nucleo poteva assorbire un neutrone, avrebbe potuto, allo stesso modo, espellerlo creando una reazione nucleare a catena. Il 4 luglio 1934, lo stesso giorno in cui morì Marie Curie, i cui lavori sulla radioattività erano stati fondamentali per lo sviluppo della fisica nucleare, Szilàrd depositò a Londra il suo brevetto sul modo di sfruttare l’energia contenuta in un nucleo atomico basato sulla reazione a catena di decadimenti nucleari.
Sembrava che la scienza concedesse all’umanità un futuro più roseo che mai, ma all’orizzonte cominciavano ad approssimarsi le nubi nere di un nuovo conflitto mondiale. Fu la Germania nazista la prima nazione a credere all’atomo come fonte inesauribile di energia e di potenza militare. Nel dicembre 1938 un team di fisici tedeschi guidati da Otto Hahn e Fritz Strassmann dimostrò che un nucleo di uranio-235 avrebbe potuto dividersi in altri nuclei più piccoli, se bombardato con un neutrone. Il 13 gennaio 1939 la fisica Lise Meitner, assieme al nipote Otto Frisch, risalirono all’origine della reazione riuscendo a calcolare l’enorme quantità di energia che poteva liberarsi dalla fissione, termine coniato da Frisch in analogia alla fissione di cellule nel campo biologico.
La scoperta di Meitner e Frisch cominciò a scaldare gli animi non solo degli scienziati, ma anche dei militari: se la fissione poteva liberare tale quantità di energia, allora un’arma basata su questa reazione a catena avrebbe dato alla nazione che la possedeva un vantaggio incolmabile sulle altre.
Lo sbaglio del Terzo Reich: l’espulsione degli scienziati ebrei
La guerra bussava ormai alle porte e il Terzo Reich era il paese che aveva la più profonda conoscenza della fisica nucleare. Nell’aprile 1939 l’Heereswaffenamt, l’Ufficio armi dell’esercito tedesco, fondò l’Uranverein, il «club dell’uranio» che avrebbe dovuto approfondire gli studi sulla fissione nucleare. Fortuna volle che i gerarchi nazisti avessero altre priorità e non credevano che la Germania dovesse dare urgenza ad un programma di cui non si aveva sicurezza che potesse essere terminato in tempi brevi. La fiducia nelle istituzioni e nella preparazione militare assecondate dalla remissività sino ad allora mostrata dai governi più ostili al Reich (Gran Bretagna e Francia), sembravano garantire a Berlino una facile vittoria senza dover spendere inutili energie in programmi scientifici alternativi. In più i dirigenti nazisti avevano iniziato sin dal 1933 ad espellere gli ebrei dagli uffici pubblici e, seppur il principale istituto scientifico tedesco, il prestigioso Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft fur physikalische Chemie und Elektrochemie, non fosse strettamente sotto controllo statale, venne fatta pressione affinché venissero allontanati ebrei e comunisti da quello che il quotidiano nazista Volkischer Beobachter definì un «parco giochi per cattolici, socialisti ed ebrei»1. Lo stesso Hitler, quando Max Planck tentò di convincerlo che espellere i ricercatori di razza ebraica sarebbe stato il suicidio della scienza tedesca, rispose di non aver «niente contro gli ebrei in sé. Ma gli ebrei sono tutti comunisti e loro sono miei nemici, a loro faccio la guerra». La cecità del governo nazista fu, nella sua tragicità, provvidenziale perché privò la Germania di una parte importante dell’intellighenzia scientifica. Cervelli come Albert Einstein, Edward Teller, Rudolf Peierls, Hans Bethe, Arthur von Hippel, Max Born, James Franck, Hermann Weyl, Eugene Rabinowitch, Heinrich Kuhn assieme agli stessi Lise Meitner e Otto Frisch espatriarono, così come fece Enrico Fermi dall’Italia. In seguito molti di questi stessi scienziati parteciparono attivamente e diedero contributi fondamentali all’interno del «Progetto Manhattan», l’ambizioso piano voluto da Franklin Delano Roosevelt, su pressione di Leo Slizàrd, Eugene Wigner e Albert Einstein, timorosi che la Germania potesse costruire una bomba nucleare.
La svolta decisiva del progetto che, alla sua massima espansione, impiegava 130.000 addetti, avvenne alle 5.29 del mattino del 16 luglio 1945 quando nel sito di Trinity, a Jornada del Muerto, nel New Mexico, venne fatto scoppiare Gadget, il primo ordigno nucleare prodotto dall’uomo, della potenza di 22 chilotoni.
Contrariamente a quanto si pensi, non vi fu alcuna corsa a due: Hitler non si interessò mai veramente alla bomba nucleare e al termine della guerra fu chiaro a tutti che la Germania era ben lontana dal confezionare un ordigno simile. Quando, il 6 agosto 1945, la Bbc diede l’annuncio dello scoppio della bomba su Hiroshima, Werner Heisenberg, il più celebre tra i fisici coinvolti nell’Uranverein, non credette ad una parola: «Posso solo supporre che qualche dilettante in America, con scarse conoscenze in materia, li abbia ingannati dicendo: “Se sganciate questa ha l’equivalente di 20.000 tonnellate di esplosivo ad alto potenziale”, ma in realtà non funziona per niente»2.
Eisenhower e gli «atomi di pace»
Dopo Hiroshima e Nagasaki il mondo iniziò ad interrogarsi sull’etica della scienza e sul pericolo nucleare. Nel 1956 Robert Jungk mise sotto accusa gli scienziati che avevano collaborato al Progetto Manhattan nel suo libro Gli apprendisti stregoni. Già il fisico tedesco dell’Uranverein, Carl Friedrich von Weizsacker ebbe a dire che «La storia ricorderà che gli americani e inglesi hanno fatto una bomba mentre i tedeschi, sotto il regime di Hitler, hanno prodotto un motore capace di funzionare. In altre parole, in Germania sotto il regime di Hitler si è avuto lo sviluppo pacifico del motore a uranio, mentre americani e inglesi hanno sviluppato questa terrificante arma da guerra»3.
Ma in un mondo sempre più energivoro diveniva indispensabile trovare fonti di energia a basso costo e ad alto rendimento per sostenere lo sviluppo industriale e sociale che si andava delineando a partire dagli anni Cinquanta. Come fare a convincere il mondo intero a utilizzare una tecnologia che aveva dimostrato di essere così distruttiva e che, dopo la guerra, continuava a terrorizzare l’umanità nella contrapposizione tra Est e Ovest? Fu Eisenhower a indicare alle Nazioni Unite un piano di controllo nucleare presentandosi l’8 dicembre 1953 all’Assemblea generale con un discorso che viene considerato lo spartiacque tra il nucleare a scopo bellico e quello a scopo civile: Atomi per la pace4. Il pianeta aveva appena sfiorato un nuovo conflitto nucleare nella guerra di Corea, Stalin era morto da poco e non si sapeva che strada avrebbe preso l’Urss sotto la guida del nuovo segretario del partito. Eisenhower propose un ente sovranazionale che controllasse le scorte di materiale fissile (il combustibile nucleare) «destinato ad essere usato per uno scopo pacifico […] nell’agricoltura, medicina e altre attività pacifiche […] al fine di fornire energia elettrica in abbondanza alle aree del mondo di essa più affamate».
Il 27 giugno 1954 la centrale di Obninsk, in Unione Sovietica, fu il primo impianto nucleare ad essere collegato alla rete elettrica nazionale inaugurando così l’epoca del nucleare a scopo civile. Si sarebbe dovuto attendere il 26 agosto 1956 per vedere la prima centrale nucleare costruita appositamente per generare energia elettrica, la Calder Hall del Regno Unito, entrare in operazione. Da allora la fissione dell’atomo divenne sempre più alla portata di tutti, ed oggi i 448 reattori nucleari sparsi in 31 paesi del mondo producono circa l’11% dell’energia elettrica prodotta nel pianeta e il 5,86% del consumo energetico assoluto5,6,7,8.
Anche l’Italia entrò con entusiasmo nel club del nucleare il 12 maggio 1963, quando venne inaugurata la prima centrale atomica a Latina. Solo tre anni più tardi il nostro paese era il terzo produttore al mondo di energia nucleare9. Sembrava che nulla potesse arrestare l’avanzata della fissione, ma all’eccitazione iniziale seguì una più ponderata disamina dei pro e dei contro.
Il movimento «No Nukes»
Con le contestazioni studentesche del Sessantotto cominciarono ad affacciarsi anche i primi movimenti «No nukes». Diversificati nelle intenzioni, nei metodi e nelle idee, gli attivisti convogliavano i loro timori verso la sicurezza, sia ambientale che umana, e la pericolosa complementarietà dell’industria nucleare civile e militare. Le prime centrali nucleari cominciavano a produrre quantità considerevoli di scorie radioattive che destavano preoccupazione tra la popolazione in quanto di difficile smaltimento. Inoltre i reattori, utilizzando uranio arricchito (uranio con alta percentuale di isotopo 235) e producendo plutonio-239, potevano essere sfruttati dall’industria militare per la produzione di bombe nucleari. Infine, dato che la teoria della fissione e fusione nucleare è identica sia per produrre ordigni che per produrre energia ad uso civile, ogni sviluppo tecnologico dell’uno poteva essere applicato nell’altro campo. Non è un caso che tutti i paesi che possiedono o hanno posseduto un arsenale nucleare abbiano sul loro territorio centrali nucleari per produrre energia a scopo civile o reattori di ricerca10.
Durante gli anni Settanta si moltiplicarono le manifestazioni contro la proliferazione nucleare: si organizzavano concerti, si giravano film, scendevano in campo star dello spettacolo e della politica. Nel 1975 la ventunenne Anne Lund, un’attivista antinucleare danese appartenente alla Organisationen til Oplysning om Atomkraft (Organizzazione per l’informazione sulle centrali nucleari) disegnò uno dei loghi più famosi e utilizzati nella storia della grafica: il sole che ride e che alla domanda «Energia nucleare?» risponde con un gentile, ma perentorio, «No, grazie».
I più gravi disastri nucleari
Alle obiezioni degli attivisti e delle organizzazioni ambientaliste, le compagnie impegnate nel nucleare, appoggiate dai governi, rispondevano assicurando tutti sulla sicurezza e sulla necessità di avere una fonte energetica pulita, efficiente e, soprattutto stabile e economica.
Ma la sicumera mostrata dai fautori del nucleare sembrò frantumarsi di fronte ad una serie di incidenti: la perdita di refrigerante con conseguente parziale fusione del reattore avvenuta il 28 marzo 1979 a Three Miles Island, negli Stati Uniti, fu solo il preludio di quello che, il 26 aprile 1986 accadde a Chernobyl, considerato il più grave incidente della storia del nucleare a scopo civile, seguito, l’11 marzo 2011, da quello, altrettanto pericoloso, di Fukushima, in Giappone. In tutto, dal 1957 ad oggi, nel mondo ci sono stati 14 incidenti che hanno coinvolto reattori nucleari, di cui dieci con conseguenze dirette sull’ambiente e la popolazione circostante11.
Le sciagure di Chernobyl e Fukushima furono manipolate da entrambe gli schieramenti pro e contro il nucleare per portare acqua al proprio mulino, in modo cinico e presentando in modo approssimativo, per non dire fraudolento, mappe, grafici, dati e cifre. In Italia, a seguito dell’incidente di Chernobyl venne indetto un referendum che sancì, con un consenso dell’80,57% dei votanti, la chiusura delle 4 centrali nucleari presenti sul territorio nazionale: Trino Vercellese, Caorso, Latina, Sessa Aurunca. Un tentativo di reintrodurre la fissione venne fatto nel 2011 ma, a poche settimane dal voto, Fukushima determinò l’esito delle urne con un 94,75% di contrari12,13.
La resistenza del nucleare e la crescita delle fonti rinnovabili
L’ondata di scetticismo verso l’energia atomica sembra, però, non aver intaccato l’avanzata del nucleare nel mondo. I 363 reattori nucleari che nel 1985, prima dell’incidente di Chernobyl, producevano 245.779 MWe (= megawatt elettrico, ndr) di energia, nel 2010 (prima di Fukushima) erano saliti a 441 con una produzione elettrica di 375.227 MWe per raggiungere un totale di 391.116 MWe nel 2017. E con 61 reattori in costruzione per 61.264 MWe di potenza, il nucleare sembra essere ancora una fonte energetica attraente, nonostante nei prossimi 10-20 anni dovranno essere smantellati più della metà dei reattori perché troppo vecchi15,16.
Tra i paesi che nel 2010 avevano un contributo energetico dato dal nucleare, solo Germania e Giappone hanno deciso di diminuire in modo sostenuto (ma non annullare del tutto) l’apporto atomico nel loro consumo energetico dopo la catastrofe di Fukushima. Nel primo caso si è passati dal 22,6% del 2010 al 13,1% nel 2016; nel secondo caso dal 29,2% al 2,2%17. Tutte le altre nazioni, comprese alcune di quelle considerate più sensibili ai temi ambientali, come Finlandia, Svezia, Svizzera, Canada, hanno mantenuto attive le proprie centrali18,19.
I motivi di questa tendenza al rialzo sono da ricercarsi in diverse ragioni. Le energie rinnovabili (è anche il caso di ricordare che «rinnovabile» non è sinonimo di energia «pulita»), pur in forte e costante aumento sono ancora troppo suscettibili agli eventi naturali e non sempre possono essere disponibili ad un uso immediato (ad esempio, la carica di un’auto elettrica dura in media tra i 20 e i 40 minuti). Inoltre la crescente richiesta energetica mondiale obbliga le compagnie a rifornire in modo sempre più cospicuo e costante la rete. Gli impianti di produzione di energia rinnovabile, come eolica o fotovoltaica sono ancora troppo costosi, poco concorrenziali, dipendenti dalle condizioni atmosferiche e non in tutte le regioni possono essere installati (i pannelli fotovoltaici, ad esempio, occupano ampie superfici sottraendo aree che potrebbero, ad esempio, essere utilizzate in agricoltura). Le fonti energetiche fossili, come carbone, petrolio, gas naturale oltre che inquinare, hanno forti implicazioni geopolitiche, le scorte sono limitate e la loro estrazione, mano a mano che i giacimenti superficiali si esauriscono, diviene sempre più costosa e tecnologicamente impegnativa.
Infine, parametro certo di non poco conto, tra tutte le fonti energetiche a disposizione, il nucleare è di gran lunga quella che, a parità di unità di combustibile arricchito, genera la maggior quantità di energia20.
Pur non esistendo un parametro oggettivo e universalmente riconosciuto per valutare la convenienza o meno di una fonte energetica rispetto ad un’altra, le compagnie si affidano all’Eroi (Energy Returned On Investment, «ritorno energetico sull’investimento energetico») un valore che indica quanto conveniente è una determinata fonte energica pronta al consumo ottenuto dividendo l’energia prodotta durante tutto il ciclo di attività dell’impianto per l’energia spesa nella produzione, dalla costruzione allo smantellamento dell’impianto stesso, compresi i costi di manutenzione durante il ciclo di vita. Più alto è il suo valore più conveniente è produrre quel tipo di energia. L’Eroi, però, non tiene conto dei costi di produzione delle materie prime e del loro trasporto; di conseguenza i valori per una stessa fonte energetica variano in misura notevole a seconda del periodo, del luogo in cui l’energia è prodotta e consumata, del costo delle materie prime, della manodopera, etc. Ad oggi l’Eroi rimane comunque l’unico parametro scientifico per determinare l’effettiva economicità energetica ed è su questa base che governi e industrie programmano la loro politica energetica. Il nucleare rimane ancora una fonte tra le più convenienti dopo l’idroelettrico e il petrolio21. L’introduzione dei reattori di quarta generazione, prevista tra 10-20 anni, aumenterebbe ancor più l’Eroi.
Le lobbies mondiali e le riserve di uranio
Contrariamente al sentito dire, dal 1985 ad oggi gli investimenti nel nucleare sono in continua diminuzione. L’Oecd ha stimato che nel 2015 sono stati spesi nel campo della ricerca e sviluppo energetico 12,7 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali sono confluiti nel campo della sicurezza, dei problemi ambientali e sociali. I governi tendono a finanziare ricerche in programmi energetici a medio-lungo termine atti ad essere commercializzati, in modo da recuperare, in parte o totalmente, gli investimenti. I capitali privati, invece, sono focalizzati ad investimenti a corto termine migliorando tecnologie già esistenti. Se negli anni Settanta più del 70% degli investimenti in ricerca e sviluppo erano diretti nel campo nucleare, nel 2015 questi si sono ridotti al 20%. Al tempo stesso è aumentato l’interesse verso le fonti energetiche rinnovabili e l’efficienza energetica, campi verso i quali sempre più lobbies industriali guardano con partecipazione, anche per via dei forti incentivi economici offerti dai governi22. Risulta quindi sempre più difficile parlare di ostacoli verso le energie rinnovabili posti da cartelli di grosse multinazionali. Oramai anche le maggiori compagnie impegnate nel campo nucleare destinano una parte sempre più cospicua dei loro investimenti nelle rinnovabili (in particolare solare e eolico).
Tutto questo, però, non esclude che attorno al nucleare vi siano ancora interessi enormi, in particolare per quelle compagnie che operano nei paesi dove i piani energetici nazionali concedono ampi spazi a questa forma di energia. I principali gestori di impianti nucleari sono la francese Edf (58 reattori gestiti), la russa Rosenergoatom (35 reattori gestiti e 7 in costruzione), la sudcoreana Korea Hydro and Nuclear Power Co. (25 reattori gestiti, 3 in costruzione) e l’indiana Nuclear Power Corporation of India Ltd (22 reattori gestiti, 4 in costruzione)23,24.
Più conosciute al grande pubblico, perché presenti sul mercato dei consumatori, sono le multinazionali che si occupano della manutenzione e della costruzione di impianti nucleari: la parte del leone la fanno la Westinghouse (manutenzione di 70 reattori e altri 6 reattori in costruzione), l’Areva (66 reattori in manutenzione, ma appena salvata dal fallimento dallo stato francese, ndr), la General Electric (44 reattori in funzione e 2 in costruzione), la Mitsubishi Heavy Industries, la Toshiba, la Siemens, la Skoda25.
Come si può vedere la galassia delle ditte impegnate nel nucleare è molto variegata e non esclude quegli stessi paesi che al nucleare hanno rinunciato o stanno per rinunciare. A queste si aggiungono le compagnie che estraggono e lavorano l’uranio, metallo che, dopo l’arricchimento, viene utilizzato come combustibile nei reattori nucleari.
Due terzi dell’estrazione mondiale di uranio provengono dal Kazakistan (39% della produzione mondiale nel 2016), Canada (22%) e Australia (10%). Niger e Namibia, serbatornio per il combustibile nucleare francese estraggono ciascuno il 4% della quantità mondiale di uranio26.
Ma se in Kazakistan, in Canada e in Russia le compagnie che estraggono e lavorano uranio o appartengono allo stato o sono ditte a capitale privato per maggioranza locale, in Niger solo il 34% delle compagnie sono statali (il restante 66% sono straniere) mentre in Namibia, dove solo l’1,2% delle compagnie sono locali, la situazione è ancora più spostata verso il mercato straniero27. La chiusura del mercato giapponese e la diminuzione delle centrali in Germania hanno fatto crollare il prezzo del minerale. A seconda dei costi di estrazione e di lavorazione del materiale grezzo, il prezzo medio si aggira sui 130 dollari per kg (con riserve stimate attorno a 5.718.000 ton) per raggiungere i 260 dollari al chilo per l’uranio di difficile estrazione o di bassa purezza iniziale (con riserve stimate pari a 7.641.600 ton)28,29.
L’Australia è la nazione che possiede le riserve mondiali più cospicue (29%), seguita da Kazakhstan (13%), Russia e Canada (9% ciascuno), Sud Africa (6%) e infine Niger, Brasile, Cina, Namibia (5% ciascuno)30.
La produzione nel 2017 è stata di 68.000 tonnellate, 27% delle quali (19.000 ton) dirette verso gli Stati Uniti, 12% verso la Francia (8.000 ton), e poi in Russia, Corea, Cina, Ucraina31. Il forte incremento di domanda energetica cinese, ha indotto questo governo a iniziare una serie di manovre per diminuire la dipendenza verso il mercato estero, in particolare petrolifero. Così, oltre all’impulso dato alle fonti energetiche rinnovabili, è in progetto il raddoppio del contributo dato dal nucleare. La Cina è il paese al mondo dove si sta riscontrando il maggior incremento di energie rinnovabili; oggi il 25% dell’energia prodotta in Cina proviene da fonti energetiche rinnovabili e il 2% dal nucleare; nel 2040 si stima che il nucleare passerà al 4%, mentre il rinnovabile al 57%32. Questo porterà Pechino a importare una quantità di uranio tra le quattro e le cinque volte superiore a quella attuale (tra 14.400 e le 20.500 tonnellate di uranio nel 2035 contro le 4.200 attuali) trasformando la Repubblica popolare nel primo paese al mondo importatore del minerale fissile superando anche gli Stati Uniti33. Allo stesso tempo la domanda di uranio aumenterà per altri mercati che stanno rafforzando la presenza nucleare nel loro scenario energetico: India, Argentina, Giappone, ma anche con new entry come Polonia, Turchia, Emirati Arabi e Viet Nam34. Sebbene la richiesta sarà destinata ad amplificarsi, le riserve di uranio sono talmente vaste che, anche con uno scenario pessimista, potranno durare secoli35.
La radioattività e le scorie
Uno dei principali problemi che nascono dalla fissione nucleare è quello dei rifiuti radioattivi. Per una malsana informazione, ogni qualvolta si pronuncia la parola «radioattività» si ha un sobbalzo di terrore. In realtà tutti noi viviamo immersi nella radioattività. Continuamente. In ogni luogo del mondo. Occorre, quindi, distinguere tra radiazione naturale e radiazione artificiale individuando anche, oltre alla tipologia di radiazione emessa dai singoli componenti, anche la quantità.
Le centrali nucleari producono materiali radioattivi, ma non sono le sole sorgenti di scorie prodotte dalle attività umane. Limitandoci quindi ai soli reattori in funzione a scopo civile, i rifiuti considerati radioattivi si dividono in tre categorie: Llw (Low-Level Radioactive Waste, rifiuti radioattivi a basso tasso di radioattività), Ilw (Intermediate-Level Radioactive Waste, rifiuti a medio tasso di radioattività) e Hlw (High-Level Radioactive Waste, rifiuti ad alto tasso di radioattività). Mentre i Llw costituiscono il 90% del volume totale e non danno particolari problemi di smaltimento, i Ilw e i Hlw sono quelli su cui si innestano i principali e più accesi dibattiti tra chi osteggia e chi, invece, propugna la scelta nucleare. Le scorie Hlw ammontano al 3% dell’intera gamma di rifiuti prodotti da una centrale e all’interno di questa sezione vengono classificati anche i combustibili spenti, le barre di uranio che hanno terminato il loro ciclo vitale all’interno del reattore e che, quindi, posseggono una radioattività molto elevata. Il combustibile spento costituisce lo 0,2% del totale dei rifiuti radioattivi, pari a circa 34.000 m3 annui e di questi circa il 20-25% viene inviato ai cicli di riprocessamento36. Il resto viene trattato con un metodo chiamato vetrificazione.
I Llw sono stoccati in depositi superficiali a causa della loro (relativa) bassa pericolosità, mentre i Ilw e gli Hlw devono essere conservati per anni (da decine a migliaia, a seconda del livello di radioattività emanato) in luoghi geologicamente sicuri e sotterranei facendo levitare in modo sostanziale i costi del ciclo vitale di una centrale atomica.
Per poter essere maneggiati con sufficiente sicurezza, i rifiuti Hlw vengono lasciati in depositi temporanei; il combustibile esausto è mantenuto in media per 5 anni nelle piscine di stoccaggio; durante questo periodo il materiale perde il 90% della sua radioattività. Prima di essere inviato ai centri di riprocessamento, però, le scorie nucleari vengono separate secondo i loro componenti. La composizione media del combustibile esausto contiene il 93,4% di uranio-238, lo 0,71% di uranio-235, 5,15% di prodotti di fissione e 1,3% di plutonio37.
Appare chiaro che, oltre alla pericolosità intrinseca delle scorie, vi è anche il rischio (spesso reale, come abbiamo già scritto) che parte del plutonio generato come scarto di produzione possa essere utilizzato nel campo militare per la costruzione di ordigni nucleari.
Dopo alcune decine di anni, i rifiuti di tipo Hlw possono essere classificati come Ilw, ma la radioattività di tali scorie torna a livelli originari solo dopo migliaia di anni. Rifiuti a basso e medio livello di emissione radioattiva che hanno un emivita38 di 30 anni, possono essere depositati in depositi superficiali o in grotte poco profonde e se, per questo tipo di rifiuti, alcuni siti sono già operativi, molto più dibattuta è la scelta delle aree da destinare alla conservazione dei rifiuti Hlw39. Il deposito del monte Yucca, nel Nevada, che avrebbe dovuto accogliere 70.000 tonnellate di Hlw, è stato definitivamente bocciato nel 2010 dopo 32 anni di verifiche, sopralluoghi, progetti, mentre i siti di Onkalo, in Finlandia, e di Forsmark la cui operatività permetterebbe di contenere combustibile esausto a 450 metri di profondità sono in fase di ultimazione40,41.
Il nucleare in Italia
In paesi come l’Italia, dove per due volte si è respinta la possibilità di dotare il paese di un piano energetico che comprendesse anche il nucleare, il problema del trattamento e deposito delle scorie è oggi il principale tema sul quale si dibatte il tema dell’atomo. Attualmente vi sono cinque i reattori nucleari in funzione, tutti a scopo di ricerca: tre sono gestiti dall’Enea («Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile»), uno dall’università di Palermo e uno dal Laboratorio energia nucleare applicata dell’università di Pavia42.
Le quattro centrali costruite tra gli anni Sessanta e Settanta – Latina, Garigliano (Caserta), Trino Vercellese (Vercelli) e Caorso (Piacenza) – sono in corso di disattivazione assieme agli impianti sperimentali di riprocessamento di combustibile nucleare di Eurex e Itrec, all’impianto di plutonio dell’Enea a Casaccia (Roma) e al reattore Essor del Centro comune di ricerche (Ccr) di Ispra (Varese).
Tutte queste attività hanno generato rifiuti radioattivi a cui si aggiungono annualmente nuove scorie nucleari provenienti dalle attività mediche e dai ciclotroni per la produzione di radiofarmaci. Oggi sono centinaia i centri nel nostro paese che conservano rifiuti radioattivi (la maggior parte provenienti da attività mediche), mentre 19 sono le strutture principali da cui le scorie verranno trasferite per confluire in un deposito nazionale la cui individuazione geografica non è ancora stata decisa43. Questa incredibile lacuna (la gestione delle scorie dovrebbe essere una delle priorità che accompagnano un progetto energetico nazionale che includa il nucleare) dimostra la miopia e la leggerezza con cui la classe politica italiana del passato ha trattato il programma energetico, le cui conseguenze – sia economiche che sociali – oggi paghiamo a caro prezzo.
Il futuro del nucleare
Alla luce di quanto scritto, che futuro avrà il nucleare nel panorama energetico mondiale?
Con lo sviluppo delle energie rinnovabili, i forti incentivi che vengono offerti a chi fa ricerca nel campo e a chi opta per installare impianti e, soprattutto, la paura di un ennesimo incidente, il nucleare potrebbe non essere in grado di competere. Inoltre nei prossimi due o tre decenni la metà dei reattori oggi in funzione dovrà essere smantellata con costi e problematiche di smaltimento enormi. Al loro posto potrebbero subentrare i reattori di IV generazione meno costosi, poco adatti a sviluppi militari e, soprattutto, più sicuri e, successivamente, i reattori che si rifanno al progetto Inpro (International Project on Innovative Nuclear Reactors and Fuel Cycles) coordinato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea). Nel frattempo, però, la transizione tra lo smantellamento degli impianti obsoleti e l’avvio della IV generazione verrebbe occupata dai reattori di piccola portata facili da costruire e semplici da mantenere verso cui hanno mostrato interesse tutti gli stati che nel prossimo futuro dovranno fermare i propri impianti. In tutti questi nuovi progetti l’Italia è presente con i propri ricercatori.
Ma quello a cui il futuro lontano sta guardando con maggior attenzione è la fusione nucleare, una tecnologia basata non più sulla fissione (divisione) del nucleo atomico, bensì sul processo inverso, cioè l’unione di due nuclei. La reazione, più o meno quella che avviene nelle stelle, produrrebbe una quantità enorme di energia (circa 4 volte quella che si verificherebbe nella fissione di una pari massa di uranio-235 e 4 milioni di volte maggiore a quella che si sprigionerebbe da una pari massa di combustibile fossile) accompagnata da una produzione di scorie poco significative44.
Sebbene la ricerca sulla fusione e su un processo che possa essere convenientemente adottato per produrre energia quasi pulita a scopo civile sia stato avviato sei decenni fa, il traguardo sembra ancora lontano. Le difficoltà tecniche sono enormi. In primo luogo, la temperatura: per innescare e mantenere una fusione nucleare occorrono temperature che si aggirano sui 100-150 milioni di gradi. E non vi è alcun materiale che sia in grado di sostenere tale temperatura e contenere il plasma che si forma: ogni contatto con le pareti del contenitore raffredderebbe il plasma interrompendo la reazione. Inoltre ogni contatto con un elemento estraneo inquinerebbe il plasma stesso.
Per fortuna la tecnologia e la ricerca (anche italiana) sulla fusione è riuscita a trovare soluzioni, seppur costose e ancora in fase di sviluppo e sperimentazione, come il contenimento magnetico del plasma. Al primo Tokamak45, il reattore nucleare a fusione costruito nella seconda metà degli anni Sessanta, sono seguiti un’altra ventina di impianti pilota sino a quando un consorzio che comprende Unione europea, India, Cina, Russia, Giappone, Corea e Stati Uniti ha dato inizio al più ambizioso progetto nel campo della fusione nucleare: l’Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), in fase di costruzione a Cadarache, in Francia, che costerà 15 miliardi di dollari (rispetto ai cinque inizialmente preventivati nel 2001) e potrà entrare in funzione nel 203546. Nella migliore delle ipotesi l’uomo potrebbe consumare energia proveniente dalla fusione solo nella seconda metà del secolo. Un intervallo di tempo ancora troppo lungo perché il nostro pianeta possa sopportare un depauperamento delle materie prime e un inquinamento cui è sottoposto a livello attuale.
Nel frattempo, il mondo dovrà funzionare con l’energia disponibile che, qualunque sia la fonte, non è né pulita né infinita.
Piergiorgio?Pescali
Atomi e isotopi
Ogni atomo è formato da elettroni che roteano attorno ad un nucleo formato da protoni e neutroni (disegno). Nonostante l’elettrone abbia una massa 1.836 volte inferiore a quella del protone, la carica delle due particelle è uguale, ma di segno opposto. L’elettrone ha una carica negativa, mentre il protone una carica positiva. Quando in un atomo il numero di protoni è identico a quello degli elettroni, le cariche si annullano a vicenda e l’atomo è neutro. Se, invece, il numero degli elettroni è superiore a quello dei protoni l’atomo si trasforma in ione negativo; all’opposto, si ha uno ione positivo.
La quasi totalità della massa di un atomo è data dal nucleo (99,98% della massa, il restante 0,02% è data dagli elettroni) che, come accennato, contiene, oltre ai protoni, anche i neutroni, particelle di massa simile a quella dei protoni, ma di carica neutra.
Ogni elemento che troviamo in natura, dall’elio con cui sono gonfiati i palloncini, al mercurio al ferro, è definito esclusivamente dal numero di protoni presenti nel nucleo. Il carbonio, ad esempio, ha 6 protoni, l’elio ne ha due, l’idrogeno uno, l’uranio 92.
Il numero di protoni determina il numero atomico (Z) ed è quello che individua la proprietà chimica di un elemento, mentre la somma di protoni e neutroni è detta numero di massa (A).
Stessi elementi possono avere un numero di neutroni (N) diverso all’interno del loro nucleo. In questo caso parliamo di isotopi: sono atomi le cui caratteristiche chimiche rimangono identiche, ma varia il numero di massa.
L’idrogeno, ad esempio, ha un nucleo formato da un solo protone, ma quando accanto al protone troviamo anche un neutrone abbiamo il deuterio, mentre se i neutroni sono due abbiamo il trizio. Deuterio e trizio sono elementi utilizzati nella fusione nucleare.
P.Pescali
Fissione e fusione
I nuclei atomici possono dividersi per formare atomi di numero atomico e numero di massa inferiore, o unirsi per formare atomi di massa maggiore. Nel primo caso si parla di fissione nucleare, nel secondo caso di fusione.
L’elemento utilizzato per produrre energia nelle centrali nucleari a fissione è, generalmente, l’uranio. Non tutto l’uranio è, però, fissile. L’uranio ha 92 protoni nel proprio nucleo ed un peso atomico di 238 (viene indicato come 238U, 92U238 o semplicemente uranio-238). Sino ad oggi conosciamo 11 isotopi dell’uranio; tutti hanno lo stesso numero di protoni (92), ma un numero diverso di neutroni che variano da 138 a 148. Quando viene estratto il minerale è composto da isotopi presenti in diversa percentuale: il 99,3% è uranio-238 (uranio con 92 protoni e 146 neutroni), mentre lo 0,7% è uranio-235 (uranio con 92 protoni e 143 neutroni). Dato che la fissione dell’uranio-238 non dà luogo ad una reazione a catena, il combustibile utilizzato nelle centrali nucleari è l’uranio-235. Ecco perché, una volta estratto, il minerale deve essere arricchito per portare la concentrazione di uranio-235 al 3-5%.
Bombardando l’uranio-235 con un neutrone, il nucleo assorbe la particella trasformandosi in uranio-236 (236U, isotopo dell’uranio con 92 protoni e 144 neutroni). L’altissima instabilità dell’uranio-236 fa sì che il suo nucleo di divida in due nuclei più piccoli liberando altri neutroni che andranno a colpire altri nuclei di uranio-235. Ad ogni fissione si libera una quantità di energia che va a creare calore riscaldando l’acqua attorno al reattore la quale genera vapore che andrà ad alimentare la centrale. A parità di massa, una centrale a fissione può generare energia un milione di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile; una centrale a fusione sarebbe – invece – di 4 milioni di volte superiore.
La fusione è, semplificando al massimo, il processo inverso: due nuclei, generalmente di deuterio e trizio, di fondono per formarne uno più grande (elio). Il deuterio è un elemento comune, lo si può estrarre dall’acqua marina, mentre il trizio, che non esiste in natura in quantità elevate, lo si ricava dal litio, elemento presente nella crosta terrestre. 150 kg di deuterio e 2-3 tonnellate di litio sono sufficienti per generare elettricità per un anno in una città di un milione di persone. L’ostacolo principale della fusione è il confinamento del plasma, che si trova ad una temperatura di centinaia di milioni di gradi. Negli impianti sperimentali si utilizza il confinamento magnetico, che “chiude” il plasma in un campo magnetico impedendogli di entrare a contatto con le pareti del contenitore. Ogni reazione di fusione, oltre che un nucleo di elio produce un neutrone che, essendo di carica neutra, non verrà trattenuto dal campo magnetico e andrà a cedere la sua energia alle pareti del “blanket”, il contenitore toroidale, che si riscalderà. Un fluido asporterà il calore del blanket entrando in un generatore di vapore che farà funzionare una turbina a vapore. A parità di massa, una centrale a fusione può generare energia 4 milioni di volte superiore a quella generata da una fonte energetica tradizionale fossile.
P.P.
La radioattività
La stabilità di un atomo è data dal rapporto tra numero di neutroni e protoni (N/Z) all’interno del nucleo. I protoni, infatti, essendo particelle dotate della stessa carica positiva, tendono a respingersi a vicenda: le forze nucleari attrattive dei soli protoni non sono in grado di prevalere su quelle repulsive. I neutroni, essendo di carica neutra, aumentano proprio le forze nucleari attrattive che riescono a tenere i protoni confinati all’interno del nucleo. Questo equilibrio è ottimale quando il rapporto tra neutroni e protoni si attesta tra 1 e 1,5; quando questo valore viene superato l’atomo diventa instabile.
A questo punto l’isotopo instabile tende a rilasciare energia per riconfigurarsi in un isotopo più stabile. Questo rilascio di energia determina la radioattività e continua sino a quando il rapporto N/Z raggiunge un valore ideale. A seconda dell’isotopo, il rilascio di energia può durare da frazioni di secondo a migliaia di anni e la velocità con cui questa energia è emessa si chiama tempo di dimezzamento. Più il tempo di dimezzamento è breve, più radioattivo sarà l’isotopo. Dato che ad ogni ciclo di emivita il decadimento radioattivo è esponenziale, dopo 7 cicli di dimezzamento l’isotopo contiene meno del’1% della radioattività iniziale.
L’uomo da sempre convive con la radioattività. Raggi cosmici, terreno, cibi contengono isotopi che emettono in continuazione attività radioattiva. In media ogni individuo assorbe annualmente una dose di radiazioni naturali tra i 2,4 e i 3,3 millisievert (il valore varia da luogo a luogo in quanto la radioattività rilasciata dal suolo e dai raggi cosmici non è uniforme su tutto il pianeta).
Questi valori rappresentano circa il 50-70% delle radiazioni totali assorbite dall’uomo in quanto si devono aggiungere le dosi dovute alle attività umane, la quasi totalità delle quali (2,6 millisievert) è dovuta alle attività mediche (radiografie, medicina nucleare, tomografie). Le radiazioni dovute alle attività industriali corrispondono a meno dello 0,1% del totale della dose annuale assorbita (0,003-0,01 mSv).
In genere, però, le radiazioni naturali non hanno alcun effetto sulle nostre cellule o, tuttalpiù, possono essere riparate dalle cellule stesse. Il pericolo avviene quando l’energia delle particelle radioattive è elevata a tal punto da «ferire» la cellula senza che questa riesca a curarsi. In questo caso può continuare a vivere rischiando però di infettare altre cellule, oppure morire. Perché una cellula muoia occorre che la quantità di energia somministrata sia intensa e di breve durata: è il caso peggiore.
Le radiazioni emesse dai reattori nucleari sono di tre tipi:
alfa
beta
gamma
Le particelle alfa sono formate da due protoni e due neutroni. Dotate di bassa energia, posso essere fermate da un semplice foglio di carta.
Le particelle beta sono elettroni. Hanno energia superiore alle particelle alfa, ma non sufficiente da penetrare a fondo nella pelle (sono fermate da fogli di alluminio spessi pochi millimetri). Possono percorrere solo pochi metri nell’aria.
Le particelle gamma sono onde elettromagnetiche simili ai raggi X, quindi dotate di alta energia. Per fermarle occorrono materiali ad alta densità, come il piombo. Nell’aria possono percorrere anche diverse centinaia di metri prima di perdere la loro carica energetica. Al contrario delle particelle alfa e beta, che sono corpuscolari, le particelle gamma sono molto simili ai fotoni della luce (da cui variano solamente per avere una lunghezza d’onda minore). Generalmente, l’emissione delle radiazioni gamma è accompagnata da quelle alfa e beta.
Vi è, infine, un quarto tipo di radiazione, formato da neutroni. Sono particelle ad altissima energia che sono fermate da spessi strati di cemento e di acqua.
P.P.
Hanno firmato questo dossier:
Piergiorgio Pescali– Giornalista e scrittore, laureato in fisica, storia e filosofia, si occupa di Estremo Oriente, in particolare di Sud Est Asiatico, Giappone e penisola coreana. Dal 1996 visita con regolarità la Corea del Nord. Da anni collaboratore di MC, suoi articoli e foto sono stati pubblicati da Avvenire, Il Manifesto, Panorama e, all’estero, da Bbc e Cnn. Il suo blog è: www.pescali.blogspot.com.
A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC
Note
(1) Philip Ball, How 2 Pro-Nazi Nobelists Attacked Einstein’s “Jewish Science”, Scientific American, 13 febbraio 2015.
(2) Jeremy Bernstein, Hitler’s Uranium Club: The Secret Recordings at Farm Hall, Springer Science+Business Media New York, 2001, p. 116.
(3) Jeremy Bernstein, ibidem, p. 138.
(4) La trascrizione dell’intero discorso, assieme all’audio originale, è consultabile sul sito della World Nuclear University.
(5) AEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, References Data Series n. 1, 2017.
(6) AEA, Vienna, Maggio 2017.
(7) IAEA, Energy, Electricity and Nuclear Power Estimates for the Period up to 2050, ibidem, p. 18.
(8) La differenza tra i due dati: l’11% si riferisce al contributo dato dal nucleare alla sola rete elettrica; altre fonti di energia elettrica sono l’idroelettrica, il solare, l’eolica. Il 5,86% si riferisce al contributo dato dal nucleare al consumo energetico assoluto rapportato, quindi, anche con il contributo dato dal petrolio, gas naturale, geotermia, bioenergia.
(9) ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, Comunicazione e informazione in tema di energia nucleare, di G. Forasassi, R. Lofrano, L. Moretti, Documento CERSE-UNIPI RF 1068/2010, Report RdS/2010/153, settembre 2010.
(10) Dei nove paesi che possiedono armi nucleari solo due (Israele e Corea del Nord) non hanno centrali per produrre energia a scopo civile, ma entrambe hanno istituti e impianti nucleari a scopo di ricerca.
(11) The Economist, 12 aprile 2011. La gravità di un incidente nucleare è classificata secondo una scala INES (International Nuclear and Radiological Event Scale) che va da 1 (semplice anomalia) a 7 (incidente catastrofico). Dalla scala 4 l’incidente nucleare ha conseguenze locali. Dal 1957 ci sono stati 2 incidenti su scala 7 (Chernobyl e Fukushima), 1 su scala 6, 3 su scala 5, 4 su scala 4, 2 su scala 3, 1 su scala 2 e 1 su scala 1 (fonte IAEA, The Economist).
(14) Interessante, sul cambio di consenso degli italiani sul nucleare, il citato rapporto ENEA, CIRTEN, Università di Pisa, del settembre 2010 in cui – alle pagine 7/8 – si afferma che alla fine del 2010, pochi mesi prima di Fukushima, il 44% degli italiani sarebbe stato favorevole al ritorno del nucleare in Italia.
(15) IAEA, Vienna, Maggio 2017.
(16) Secondo un rapporto IAEA del maggio 2017, sui 448 reattori in funzione, 65 hanno un’età tra i 41 e 47 anni, 181 hanno tra i 31 e i 40 anni e 108 tra i 21 ed i 30 anni. La vita media di un reattore nucleare di I, II e terza generazione si aggira sui 40 anni, prolungabile a 60 per quelli di III generazione.
(20) A parità di massa la quantità di energia prodotta dalla fissione nucleare è superiore di sei ordini di grandezza (un milione di volte) quella del petrolio.
(21) ASPO Italia, «Associazione per lo studio del picco del petrolio», 2005.
(22) OECD International Energy Administration (IEA), 2015.
(23) IAEA, Vienna, Maggio 2017.
(24) Il numero di reattori nucleari non coincide necessariamente con il numero di impianti nucleari in quanto in uno stesso sito possono essere in funzione più reattori nucleari.
(25) IAEA, Vienna, Maggio 2017.
(26) World Nuclear Association (WNA), luglio 2017.
(27) Le principali compagnie che estraggono, lavorano e smerciano uranio solo la kazaka KazAtomProm (21% del mercato mondiale), la canadese Cameco (17%), la francese AREVA (13%), la russo-canadese ARMZ-Uranium One (13%) e l’australiana BHP Billiton (5%) (fonte: WNA, luglio 2017).
(28) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, OECD 2016, p.9.
(29) I principali siti minerari da cui viene estratto la pechblenda, il minerale che contiene uranio, sono: la McArthur River (Canada), proprietà della Cameco per il 69,8%, che estrae l’11% dell’uranio mondiale, la Cigar Lake (Canada), proprietà della Cameco al 50% (11% dell’uranio mondiale), la Tortkuduk & Myunkun (Kazakhstan), di proprietà del consorzio KatcoJV/Areva (6% dell’uranio mondiale), l’Olimpic Dam (Australia), proprietà della BHP Billiton (5% dell’uranio mondiale), l’Inkai (Kazakhstan), di proprietà del consorzio Inkai JV/Cameco, 5% dell’uranio mondiale e SOMAIR (Niger), per il 63,6% di proprietà dell’Areva, 4% dell’uranio mondiale (fonte: WNA, luglio 2017) .
(30) World Nuclear Association, luglio 2017.
(31) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100.
(32) IEA, World Energy Outloook 2017.
(33) Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016, ibidem.
(34) Ibidem.
(35) Attualmente le riserve totali stimate sono sui 16.130.000 tonnellate; anche presupponendo lo scenario di richiesta più elevato proposto per il 2035 dall’IAEA (93.510 tonnellate totali nel mondo), le riserve basterebbero per 170 anni. (fonte: Nuclear Energy Agency and IAEA, Uranium 2016: Resources, Production and Demand, Annual reactor-related uranium requirement to 2035, OECD 2016, p.99-100).
(36) IAEA, Estimation of Global Inventories of Radioactive Waste and Other Radioactive Materials, June 2008, p.13.
(38) L’emivita (o tempo di dimezzamento) di un isotopo radioattivo è definita come il tempo occorrente perché la metà degli atomi di un campione puro dell’isotopo decadano in un altro elemento.
(39) I depositi ILW e LLW sono situati nel Regno Unito (LLW Repository a Drigg, in Cumbria gestito da un consorzio formato da AREVA, Serco e Studsvik UK), Spagna (El Cabril gestito da ENRESA), Francia (Centre de l’Aube gestito dall’Andra), Giappone (LLW Disposal Centre a Rokkasho-Mura gestito da Japan Nuclear Fuel Limited), USA (in 5 siti, Texas Compact vicino al confine col New Mexico, gestito da Waste Control Specialists; Barnwell, South Carolina gestito da EnergySolutions; Clive, Utah gestito da EnergySolutions; Oak Ridge, Tennessee gestito da EnergySolutions e Richland, Washington, gestito da American Ecology Corporation), Svezia (a Forsmark, in un deposito situato a 50m sotto le rive del Baltico, gestito dal Swedish Nuclear Fuel e dal Waste Management Company) e Finlandia, nel deposito di Onkalo a Olkiluoto e Loviisa, con profondità a 100 metri.
(42) Elaborazione ISPRA dei rapporti attività dei gestori impianti e ARPA/APPA, 2014.
(43) I 19 siti principali che oggi custodiscono i rifiuti nucleari sono le 4 centrali nucleari (gestiti da Sogin), 4 impianti di riciclo di combustibile esausto (gestiti da Enea e Sogin), 7 centri di ricerca nucleare (ENEA di Casaccia, CCR Ispra, Deposito Avogadro, LivaNova, CESNEF -Centro Energia e Studi Nucleari Enrico Fermi- Università di Pavia, Università di Palermo), 3 centri del Servizio Integrato ancora attivi (Nucleco, Campoverde e Protex) e 1 centro di Servizio Integrato non attivo (Cemerad).