Cosa si celebra? Cinque secoli dall’arrivo del Vangelo o dalla conquista coloniale? Il dibattito è aperto. Il popolo filippino ha talmente integrato valori e usanze cristiane da farli diventare parte della propria identità. Ce ne parla un noto storico.
Perché celebrare i 500 anni dall’arrivo della cristianità? Non è una celebrazione del colonialismo? Non si è detto che la fede ci libera?
Abbiamo sempre pensato che, quando gli spagnoli arrivarono, e portarono il cattolicesimo nel paese, 500 anni fa, la gente delle Filippine, senza una propria volontà precisa, fu forzatamente convertita in cattolica. Sebbene san Giovanni Paolo II abbia chiesto scusa e abbia domandato di perdonare il fatto che la chiesa è stata un tempo utilizzata per il colonialismo, questa è solo una parte della storia.
C’è stata, infatti, la Pag-aangkin, ovvero «appropriazione». Come la maggior parte delle influenze straniere arrivate nel nostro paese, abbiamo reso filipino il cattolicesimo, facendolo diventare parte della nostra identità, come i negozi e le case di pietra. Lo abbiamo reso tanto filippino quanto può esserlo.
Abbiamo accettato il cattolicesimo perché esso riflette la fede che la maggior parte dei filippini aveva già, prima del contatto con gli spagnoli nel 1521. Noi vedevamo «anitos» (spiriti degli antenati, ndt) nei santi, vedevamo collane e orecchini nei rosari e croci, vedevamo la nostra morte nel Santo Entierro (processione del Venerdì santo, ndt), e pulivamo la statua con fazzoletti per avere il suo potere di guarigione. Cantavamo il Pasiong Mahal (racconto epico in filippino della passione, morte e resurrezione di Cristo, ndt), come cantiamo i nostri poemi epici.
La fede reale
Davvero l’amore dei filippini per Dio e Gesù è reale. Gli storici sottolineano che la storia evangelica del Dio che sacrifica il suo unico figlio per diffondere luce, che soffre tenebre e morte e risorge nella gloria, è stata anche riletta dai nostri eroi nazionali, come José Rizal e Andrés Bonifacio, nella storia della nostra gente: siamo stati un tempo liberi e prosperi come un’isola [felice], poi abbiamo sofferto disuguaglianze e schiavitù e ora dobbiamo risorgere e riconquistare la nostra libertà (Rizal è forse il maggiore eroe nazionale, la sua esecuzione nel 1896 ne ha fatto un martire della rivoluzione filippina, ndt).
I Katipunteros (membri del Katipunan, società clandestina anti coloniale fondata nel 1892 per liberare il paese dalla Spagna, ndt) tennero un incontro in una grotta nella provincia del Morong, un Venerdì santo, non solo perché era un giorno sacro, ma perché ricordava loro che, proprio come Gesù, essi dovevono essere pronti a sacrificare le proprie vite per salvare il loro popolo dalla schiavitù.
In quell’occasione scrissero con un pezzo di carbone sul muro della grotta: «I figli del popolo sono venuti cercando la libertà. Lunga vita alla libertà!». Andrés Bonifacio ed Emilio Jacinto (eroi e padri della rivoluzione filippina del 1896-99, presidente del Katipunan il primo e alto ufficiale il secondo, ndt) pensavano che per avere una vera «Kalayaan» (libertà) e stare in armonia, fosse necessario avere una buona volontà. Bonifacio ci ricorda che amare Dio è come amare la propria patria natia e i propri compagni.
La narrativa del luce-buio-luce, della tragedia e redenzione, della vita di Gesù Cristo, era la narrativa dei padri e delle madri di questa nazione, usata per immaginare la creazione della nazione stessa. Per sperare in una vita migliore nel futuro.
Ispirazione di vita
In tempi più recenti il fervore religioso ha ispirato anche leader come Hermano Puli e i cattolici del People power revolution (la rivoluzione del 1896-99) per lottare per i propri diritti.
Nelle Filippine, le rivoluzioni sono al di là della politica e sono espresse in molte maniere diverse, tanto che possiamo manifestare la nostra «himagsikan» (ribellione) anche attraverso la nostra fede.
I cinquecento anni passati hanno visto la storia della Chiesa cattolica filippina identificarsi non solo con quella di padre Mamasols e padre Salvis, ma anche con quella di personaggi come il vescovo Domingo de Salazar (primo vescovo di Manila, 1579-94) che lottò contro gli abusi nei confronti degli indigeni perpetrati dai conquistatori spagnoli, o con quella dei padri Pelaez, Gomez, Burgos e Zamora che lottarono per i diritti dei filippini e la loro partecipazione nella direzione della chiesa locale. Nella nostra storia fu un prete cattolico, Gregorio Aglipay, che guidò la prima repubblica costituzionale democratica asiatica (sacerdote, rivoluzionario e nazionalista, partecipò alla guerra di liberazione contro l’occupazione statunitense 1899-1911, ndt). Poi molti religiosi e laici cattolici hanno partecipato alla costruzione della [nostra] storia.
«Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua chiesa», una frase che ogni cattolico recita in ogni messa, significa che i figli e figlie del paese possono avere sbagliato ma la fede dei filippini sostiene la sopravvivenza della cristianità nella nostra nazione. La nostra fede in Dio ci fa sopravvivere a ogni calamità e vicissitudine, e mentre le chiese europee stanno chiudendo una dopo l’altra, i filippini continuano a riempire i luoghi di culto per esprimere la propria fede e gratitudine, qui, e all’estero.
Quindi come non possiamo celebrare 500 anni di cristianità nelle Filippine, quando questa è diventata parte della nostra esperienza nazionale e di quello che noi siamo? Come non possiamo celebrare tale ricorrenza quando questa è la fede della maggioranza dei filippini? Certo è una chiesa umile abbastanza per ammettere di essere sempre bisognosa di purificazione (semper purificanda), e di imparare dalle lezioni dal passato. Ma non dovremmo mai privarci dell’opportunità di celebrare i nostri trionfi.
Rizal disse: «Per predire il destino della nazione, è necessario aprire i libri che parlano del suo passato». Io dico, per celebrare 500 anni della nostra fede in Gesù Cristo dovremmo riflettere sul regalo che questo ci ha dato nell’ispirarci a creare la nostra propria nazione, e mostrare il nostro amore per ogni filippino.
Xiao Chua
Due domande al professor Xiao Chua
Come vive il filippino medio le celebrazioni dei 500 anni?
«Anche se ci dichiariamo un paese cattolico, molta gente pratica la propria fede in Dio senza partecipare alla vita della Chiesa, quindi può anche non essere a conoscenza delle commemorazioni.
Ma per chi è attivo nelle parrocchie, la Conferenza episcopale delle Filippine e anche Radio Veritas, hanno parlato dei 500 anni di evangelizzazione fin dal 2011.
La pandemia ha reso la celebrazione di basso profilo: il giorno preciso del cinquecentenario, la città di Cebu, centro dei festeggiamenti, era in lockdown, e la basilica di Santo Niño ha ammesso un numero limitato di persone durante la santa messa per la rievocazione storica del primo battesimo. A Manila, inoltre, c’è stato solo un rosario virtuale.
La decisione di lasciare che ogni diocesi si organizzasse indipendentemente, ciascuna con un proprio logo e inno, ha rischiato di mostrare una chiesa delle Filippine disunita. I social media, nonostante la pandemia, hanno aiutato, perché la complicata storia della chiesa è stata discussa nei webinar, ad alcuni dei quali sono stato invitato, e ha anche generato interessanti dibattiti tra chi vede questa come la celebrazione del colonialismo e chi invece la celebra come un tributo alla nostra fede».
Come sono state viste queste celebrazioni dal potere in carica, e dal presidente in particolare?
«Sebbene il presidente Duterte avesse esitato a commemorare i 500 anni di cristianità, il governo ha incluso l’anniversario nella triplice commemorazione del Cinquecentenario: Filippine parte della prima circumnavigazione del globo, l’arrivo della cristianità e la vittoria a Mactan di Lapulapu contro Magellano.
Il Comitato nazionale del cinquecentenario (National quincentennial committee, Nqc), incaricato dal presidente di supervisionare gli eventi commemorativi del 1521, si è strettamente coordinato con la gerarchia ecclesiastica, e ha incluso anche aspetti della fede nei resoconti storici, nelle esibizioni e nei materiali prodotti.
Gli storici della chiesa sono stati pure invitati a fare parte del Mojares Panel, che ha preparato il sito della prima messa di Pasqua.
Quindi, nonostante il fatto che la chiesa abbia avuto le sue proprie celebrazioni, non è stata esclusa dallo stato grazie agli sforzi del Nqc e al suo segretariato».
Marco Bello
2/ Dallo sbarco di Magellano al lockdown di Duterte
Il popolo delle 7.641 isole
Paese particolare, galassia di isole, sovrapposizione di culture. Dopo aver subito la colonia e l’occupazione, cerca la sua via. Con lo specifico di aver avuto due presidenti donna, e forse una terza è in arrivo.
Le Filippine sono un paese particolare, composto da 7.641 isole sparpagliate a Sud di Taiwan e a Nord del Borneo e dell’Indonesia. A Est sono lambite dal Mare Cinese meridionale e a Ovest dal Mare delle Filippine. La popolazione, di circa 110 milioni di abitanti, vive prevalentemente su alcune di esse. Esiste tuttavia una grande diaspora, ovvero filippini che vivono, per brevi o lunghi periodi, all’estero, che si stimano essere oltre dieci milioni.
Il paese si può suddividere in tre gruppi di isole: quelle del Nord, regione chiamata Luzon, le isole del centro, Visayas, e le isole del Sud, Mindanao. A Sud Est si trova, inoltre, la lunga isola Palawan.
La storia di questo paese ha visto una lunga colonizzazione spagnola, un’occupazione statunitense e una breve presenza militare giapponese durante la Seconda guerra mondiale. La sfera d’influenza geopolitica è rimasta quella degli Stati Uniti, anche se, in tempi recenti, ci sono state frizioni. Nel frattempo la Cina continua il suo approccio aggressivo in quel tratto di mare.
Cerchiamo di vedere gli aspetti più importanti di questa lunga storia.
Colonia delle colonie
Popolazioni locali (Aeta e Igorot) vivono sulle isole da millenni, quando dal II secolo iniziano le migrazioni di altri popoli dalle attuali Indonesia e Malesia. Anche commercianti cinesi si stabiliscono sulle isole. Nel corso del XV secolo le isole del Sud sono popolate da gente islamica, che si organizza e si costituisce in alcuni sultanati.
È nel 1521 che l’esploratore portoghese Fernando Magellano si imbatte nell’arcipelago, approdando nell’attuale isola centrale di Cebu. Qui stabilisce una base, che chiama San Labaro, e dichiara il territorio annesso al Regno di Spagna. È proprio a Cebu che avvengono i primi battesimi e ha inizio ufficialmente l’evangelizzazione dell’arcipelago. Magellano muore in seguito a uno scontro con un gruppo locale, comandato dal condottiero noto come Lapulapu.
I viaggi dalla Spagna si susseguono, ma le isole interessano anche a olandesi, inglesi e portoghesi i cui avventurieri scorrazzano nella regione. Solo nel 1564 il navigatore Miguel Lopez de Lagazpi, giunto dalle colonie spagnole del Nuovo Mondo (attuale Messico) stabilisce il primo possedimento stabile. Le Filippine per lungo tempo non dipendono dalla madrepatria spagnola, ma dalle sue colonie americane, con capitale Acapulco. Il nome Filippine è dato inizialmente alle isole Leyte e Samar da un altro navigatore, Ruy Lopez de Villalobos, nel 1543, in onore del futuro re Filippo II di Spagna.
Da notare che gli spagnoli non riusciranno mai a sottomettere i musulmani che controllano le isole del Sud, Mindanao e Sulu, e che, con le loro milizie, compiono scorribande nelle altre zone a danno della colonia.
Il dominio spagnolo dura fino alla fine del XIX secolo, quando cresce un movimento indipendentista che lotta per liberare le isole. Sono di questo periodo i maggiori eroi nazionali: José Rizal, Andrés Bonifacio ed Emilio Jacinto. Il primo, poeta, scrittore, rivoluzionario e oculista, viene catturato e ucciso nel 1896, all’età di 35 anni. È il vero ispiratore del movimento nazionalista filippino, e influenza in particolare di Bonifacio e Jacinto, tra i fondatori del Katipunan, il movimento rivoluzionario che porta avanti l’insurrezione.
L’occupazione Usa
L’indipendenza (la prima) è proclamata nel giugno del 1898, e il primo presidente si chiama Emilio Aguinaldo, un altro protagonista della ribellione. Da subito, gli Stati Uniti si interessano all’arcipelago. La Spagna, al termine della guerra ispano-statunitense nelle Americhe (1898), oltre a perdere Cuba, che rientra sotto l’influenza Usa, cede le Filippine, insieme a Porto Rico e Guam (isola del Pacifico, oggi territorio non incorporato degli Usa) in cambio di un indennizzo.
Inizia così l’occupazione statunitense che molto influenzerà la società e la cultura filippina.
Il movimento indipendentista riprende la guerra di liberazione contro il nuovo oppressore, ma questa volta non ha gioco facile. Dopo dodici anni sono circa un milione i filippini morti a causa del conflitto.
Gli Usa si ritirano solo durante la Seconda guerra mondiale, quando il Giappone attacca le isole (1941) e le occupa sconfiggendoli. Famosa è la marcia di 80mila prigionieri nel 1942 sulla penisola di Baatan. Si stima che, per raggiungere a piedi i campi di prigionia, muoiono circa 10mila filippini e 1.200 americani.
L’esercito Usa sbarca nel paese nel 1944 e ne riprende il controllo alla resa definitiva del Giappone il 2 settembre 1945.
L’indipendenza viene poi concessa dagli Usa nel luglio del 1946, ma l’influenza economica e militare della superpotenza, che conserva diverse basi nell’arcipelago, continuerà.
Va ricordato che l’economia è prettamente rurale e la gestione della terra avviene attraverso il grande latifondo. La maggioranza della popolazione, impiegata in agricoltura, è sfruttata con il sistema della mezzadria.
Il periodo Marcos
Ferdinand Marcos, già presidente del Senato, viene eletto capo di stato nel 1965.
Grazie all’appoggio finanziario statunitense, riesce ad avviare nel paese una grande crescita economica. Viene quindi rieletto nel 1969. Intanto, a Mindanao, è attiva una guerriglia indipendentista musulmana, il Fronte di liberazione nazionale dei Moro (Flnm), e in altre zone è presente un altro movimento armato, il Nuovo esercito del popolo, di ispirazione maoista. Marcos sempre appoggiato dai militari Usa, opera una repressione che porterà alla dichiarazione della legge marziale nel 1972, con la quale sospende diritti civili e libertà. Molti oppositori sono costretti all’esilio.
Nel 1973 entra in vigore la nuova Costituzione che permette a Marcos di ricandidarsi e vincere alle elezioni del 1981. Nel nuovo decennio, però, finisce la crescita economica degli anni ‘70.
L’oppositore Benigno Aquino jr., detto Ninoy, di rientro da un lungo esilio, viene assassinato all’aeroporto appena entrato nel paese. La vicenda colpisce la popolazione e inizia il declino del dittatore. Anche gli alleati di sempre lo abbandonano, e gli Stati Uniti spingono Marcos a elezioni anticipate nel 1986. Contro di lui Corazón Aquino, la vedova di Benigno. Marcos sostiene di aver vinto, ma la Aquino, forte dei dati degli osservatori internazionali, contesta i risultati ufficiali. Marcos si vede costretto a lasciare e opta per un esilio negli Stati Uniti.
La presidenza Aquino
Corazon «Cory» Aquino ha il merito di far modificare la Costituzione (1987), riducendo i poteri del presidente, e di cercare una mediazione con gli indipendentisti, dando più autonomia alle isole del Sud e a quelle del Nord. Tenta pure di avviare una riforma agraria. Durante il suo mandato, nel 1991, i militari statunitensi lasciano definitivamente l’arcipelago, dopo quasi un secolo di presenza.
Le succede, nel 1992, il segretario alla difesa, Fidél Ramos, che continua la via per la pacificazione con i gruppi ribelli. Nel 1996 firma un accordo di pace con il Fronte di liberazione nazionale dei Moro. Il leader del Flnm diventa governatore della regione autonoma del Mindanao.
Intanto, la crisi economica che ha coinvolto l’Asia non risparmia le Filippine.
Nel 1998 viene eletto il cantante Joseph Estrada alla presidenza, ma ben presto è coinvolto in importanti casi di corruzione e perde il consenso popolare. La gente scende in piazza contro di lui, e il parlamento inizia un processo di destituzione. Estrada sarebbe titolare di milioni di dollari in conti bancari protetti. Lo stesso presidente si dimette nel gennaio 2001 e viene sostituito con la sua vice, Gloria Macapagal Arroyo.
Gloria Arroyo, figlia d’arte
Gloria Arroyo è figlia del nono presidente delle Filippine, Diosdato Macapagal, predecessore di Marcos. Sotto la sua presidenza, l’economia cresce e l’inflazione diminuisce.
Nel 2004 viene rieletta, ma anche accusata di brogli elettorali. Nonostante questo, la Arroyo resta in carica fino alle elezioni del 2010. La sua figura è controversa. Grande alleata degli Stati Uniti, riesce a fare crescere l’economia anche durante il secondo mandato presidenziale, ma la povertà delle classi basse del paese, al contrario, aumenta.
Nel 2006 elude un tentativo di colpo di stato da parte dell’esercito e proclama la legge marziale. Durante i suoi due mandati continua la lotta, mai estinta, contro i fronti ribelli interni, il Flnm e i comunisti del Nuovo esercito popolare.
Le organizzazioni per i diritti umani rilevano un incremento di omicidi politici di oppositori e di giornalisti durante i due mandati della Arroyo.
Nel 2010 le succede Benigno Aquino III, figlio di Corazón Aquino e Ninoy. Aquino, pur essendo oppositore di Arroyo, si appoggia sulle sue riforme e porta il paese in costante crescita economica. Nonostante questo, è criticato per la cerchia dei suoi collaboratori, accusato di conduzione clientelistica, e per la cattiva gestione di momenti di crisi, come calamità naturali (nel 2013 il tifone Yolanda causa la morte di 8mila persone) o la recrudescenza della guerriglia islamista.
Il candidato del suo partito per le elezioni del 2016 perde contro Rodrigo Duterte.
Duterte, il duro
Rodrigo Duterte, già sindaco di Davao, è il primo presidente delle Filippine originario del Midanao (il Sud). Impone subito una politica di «tolleranza zero» su alcune tematiche, come il traffico e consumo di droga (cfr. MC marzo 2019), utilizzando metodi repressivi al limite della legalità.
Anche nella gestione delle pandemia da Covid-19 Duterte si rivela particolarmente duro. Nel marzo scorso ordina alla polizia di arrestare chiunque non indossi in modo opportuno la mascherina (ad esempio sotto il naso). Altre punizioni sono già state decise e apllicate, per violazioni come quella del coprifuoco.
Il primo lockdown scatta nel marzo 2020 nell’isola centrale Luzon (dove si trova Manila) per 53,3 milioni di persone. Altre chiusure si susseguono nelle diverse isole, mutuate dai governi locali. Il «Time magazine» riporta che, in alcuni casi, i poliziotti possono arrestare, picchiare o anche sparare su chi si trovasse in strada senza permesso.
Nel 2022 gli abitanti delle 7.641 isole si recheranno alle urne. Rodrigo Duterte sta cercando di convincere sua figlia Sara, che gli è già succeduta come sindaco di Davao, a candidarsi. La Costituzione limita, infatti, la presidenza a un solo mandato di sei anni. Sara, trainata dalla popolarità del padre, sta vincendo tutti i sondaggi elettorali, ma non ha ancora deciso.
La migrazione femminile dal Venezuela alla Colombia
Uno zaino di sofferenza
Oggi si stima che la maggioranza dei migranti venezuelani in Colombia sia costituita da donne («migrazione femminizzata»). Per loro, conosciute come simbolo di bellezza, ci sono pericoli e insidie aggiuntive. Inclusa la morte violenta.
Bogotà. «Venezuela duele», il Venezuela fa male. Utilizzando un’espressione che l’indimenticato Eduardo Galeano aveva coniato con riferimento a Cuba («Cuba duele»), si riesce a rendere l’idea del dramma che sta vivendo il paese sudamericano, la sua gente e tutte e tutti coloro che a quella terra tengono particolarmente. Secondo l’Onu, sono più di 5,6 milioni le persone che hanno abbandonato la patria del Libertador Simón Bolívar, un paese in preda a una crisi umanitaria complessa della quale non si vede all’orizzonte una pronta risoluzione. Milioni di venezuelani hanno dato forma a un vero e proprio esodo, il più grande che la regione latinoamericana abbia sperimentato negli ultimi anni. Almeno due milioni di migranti si trovano nella vicina Colombia, un milione in Perù, e altre centinaia di migliaia sparsi tra Ecuador, Cile, Argentina, Brasile, Repubblica Dominicana, Panama, Costa Rica, Messico e anche fuori dalla regione, soprattutto negli Usa, in Spagna e, con una nutrita comunità, anche in Italia.
Il migrante venezuelano
Il trattamento ricevuto dai migranti venezuelani non è omogeneo e risponde a una serie di variabili e considerazioni che vanno dal loro status politico, sociale ed economico, all’età, al genere, al momento storico della migrazione, al titolo di studio o professionale che possiedono e al paese nel quale sono emigrati. Gli ultimi, coloro che appartengono a quella che gli esperti definiscono la terza ondata migratoria (iniziata nel 2015 ed esplosa nel 2018), sono i più vulnerabili. Hanno lasciato il paese solo con quello che sono riusciti a caricarsi sulle spalle iniziando a camminare, letteralmente a camminare. A piedi hanno attraversato ponti, fiumi, selva e montagne. Con la determinazione della ricerca di un futuro migliore per loro e per i loro figli, hanno fatto quello che nessun venezuelano avrebbe mai pensato di poter fare: lasciare la propria casa. Quella venezuelana non è infatti una comunità nella quale la migrazione faccia parte di un processo sociale e storico. Al contrario, il paese sudamericano è stato, fin dal 1800, una terra che ha accolto chiunque scappasse da fame, guerra e miseria. Per questo il Venezuela è, ad oggi, uno dei grandi esempi mondiali di meticciato etnico e culturale. Ora, però, le cose sono cambiate e da paese di accoglienza, il Venezuela si è trasformato nel più grande generatore mondiale di migranti, superato solo dalla Siria.
Donna venezuelana, immagine e mito
In questo immenso e costante flusso migratorio le donne rappresentano quasi il 50% del totale, a volte arrivando anche a superare, come nel 2019 per il caso colombiano, questa percentuale. In questo senso, se pur è necessario riconoscere che la situazione migratoria rappresenta di per sé una sfida, è innegabile che per le donne sia il processo migratorio sia l’inserimento sociale nel paese di destinazione presentino delle insidie e dei pericoli aggiuntivi.
L’immagine della donna venezuelana nella regione latinoamericana (e non solo) è ipersessualizzata e, per decenni, è stata venduta come lo standard di bellezza da eguagliare. Se a questo aggiungiamo la situazione di estrema vulnerabilità e necessità con la quale la maggior parte di loro lascia il Venezuela e l’onnipresente machismo che permea le società latinoamericane, diventa purtroppo facile intuire a quali pericoli siano più esposte. Nello stesso Venezuela il traffico di esseri umani al fine dello sfruttamento sessuale è esploso negli ultimi anni, soprattutto verso Trinidad e Tobago, lo stato caraibico che si trova a soli undici chilometri dal porto venezuelano di Güiria (stato Sucre). La situazione è però particolarmente grave in Colombia, paese sul quale si concentra questo dossier. Già nel 2019, attraverso l’innovativo progetto di ricerca «Mappa interattiva dei casi di donne migranti e rifugiate venezuelane morte e scomparse all’estero», promosso dall’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’Università Carlos III di Madrid, la Colombia emergeva come il paese più pericoloso per le donne venezuelane. A seguito di quel progetto, la pubblicazione «Violencia contra mujeres migrantes venezolanas en Colombia, 2017-2019: Estado de la cuestión, georreferenciación y análisis del fenómeno» (luglio 2020) approfondisce e chiarisce i dettagli della particolare situazione di emergenza vissuta in Colombia dalle donne venezuelane migranti. Nel triennio oggetto di studio (2017-2019), i dati parlano di una «migrazione femminizzata», giacché a dicembre 2019, il 52% dei migranti nel paese erano donne. In termini geografici, la più alta concentrazione di migranti venezuelani in Colombia alla fine del 2019 si trovava nel distretto della capitale Bogotá: 352.431 persone, cioè il 19,9% delle 1.771.237 registrate nel paese dall’ente nazionale Migración Colombia. Analizzando i casi di morte scopriamo che, dal 2017 al 2019, nel paese si sono registrati 349 decessi di donne venezuelane: più di un terzo assassinate. In quel triennio si è registrato un femminicidio di una donna venezuelana in Colombia ogni 11,5 giorni e, se teniamo conto della cifra totale di decessi (morti violente dovute a incidenti, suicidi e morti naturali) osserviamo che, nei tre anni analizzati, in Colombia è morta una donna venezuelana ogni 3 giorni. I casi di morte però non seguono specularmente la concentrazione geografica della migrazione. Infatti, nonostante fosse il distretto della capitale Bogotà il luogo con la più alta concentrazione di migrazione venezuelana in Colombia, in relazione alle morti violente, osserviamo che i dipartimenti di confine di Nord di Santander e La Guajira rappresentano il 46,21% del totale, rispettivamente 38 e 23 casi. Il dato aumenta ancora di più se si considerano solo gli omicidi: in questo caso, i dipartimenti già menzionati, sommano il 52,17% del totale degli omicidi di donne migranti venezuelane nel triennio 2017-2019 in tutto il paese. Questi due dipartimenti corrispondono ai punti di origine delle rotte migratorie del Nord (frontiera di Maicao) e del Sud (frontiera di Cúcuta) della Colombia: rotte che, ad oggi, continuano a essere percorse e continuano a essere estremamente pericolose.
Violenze, femminicidi e «sesso di sopravvivenza»
Le cifre relative alle donne migranti venezuelane morte in Colombia, analizzate nella pubblicazione del 2020, provengono da rapporti ufficiali dell’Istituto nazionale di medicina legale e scienze forensi della Colombia, dalla Direzione delle indagini criminali e Interpol – Polizia nazionale della Colombia (Dijin) e da rapporti di organizzazioni non governative e agenzie dell’Onu. Proprio partendo da un’analisi dei dati raccolti dalla Dijin, si può costruire un profilo tipico della donna venezuelana vittima di femminicidio in Colombia nel triennio 2017-2019: si tratta di una donna di circa 27 anni, con almeno studi elementari, non legata a gruppi illegali, non sposata e con una situazione lavorativa precaria.
Come visto, la situazione delle donne venezuelane migranti a fine 2019 presentava già un grado di estrema emergenza e, con l’arrivo del Covid-19 nel primo trimestre 2020, la loro condizione ha subito un notevole peggioramento. L’impossibilità di raccogliere i dati per le stringenti misure di confinamento, l’invisibilizzazione dei casi e l’impunità dei carnefici, hanno reso le donne ancora più vulnerabili.
Si è diffuso massivamente quello che è conosciuto come «sesso di sopravvivenza» e che consiste nel baratto del proprio corpo in cambio di beni di prima necessità: trasporto, alloggio, alimenti o medicinali vengono «pagati» con sesso. In altre parole, questo diventa moneta di scambio in una pratica di violenza estrema che mira a togliere qualsiasi tipo di dignità all’altro, approfittando di un privilegio circostanziale. Troppo spesso le donne venezuelane non hanno scelta: con figli a carico (insieme a loro in Colombia o in attesa delle rimesse in Venezuela), subiscono questa brutale aggressione strutturale, sacrificando i loro corpi sull’altare del bene maggiore: il sostentamento dei loro figli e delle loro famiglie.
Lungo le rotte migratorie (le descriveremo più avanti), non è strano incrociare migranti venezuelani che provano a fare ritorno in patria (chiamati retornados) dopo un’esperienza fallimentare in un altro paese. Tra di loro molte donne che, oltre al faticoso e lungo processo migratorio, portano addosso il vissuto di esperienze traumatiche e umilianti, di sofferenza e di vergogna che non potranno mai condividere con i loro cari.
La mossa della Colombia
Il 2021 si è aperto però con una luce di speranza. Nonostante la recrudescenza della pandemia e dell’emergenza migratoria, qualcosa in Colombia si è mosso. Lo scorso 8 febbraio, il presidente del paese Iván Duque ha presentato una bozza di decreto che mette in moto lo «Statuto temporaneo di protezione per i migranti venezuelani» (Etpv, nella sua sigla in spagnolo). Questa misura copre legalmente quasi un milione di venezuelani che si trovano in Colombia in condizione di irregolarità migratoria e che sono entrati nel paese prima del 31 gennaio 2021. L’Etpv consiste in un meccanismo di protezione legale temporanea rivolto alla popolazione migrante venezuelana che integra il regime internazionale di protezione dei rifugiati con l’obiettivo di registrazione della popolazione migrante venezuelana nel paese e concede un beneficio temporaneo di regolarizzazione a chi possiede i requisiti stabiliti. L’Etpv sarà valido per 10 anni con possibilità di proroga o risoluzione anticipata a seconda del contesto futuro.
Un primo passo dunque verso la legalizzazione della permanenza delle persone venezuelane migranti in Colombia, condizione però che non risolve tutte le altre vulnerabilità intersezionali che pesano come macigni specialmente sui corpi delle donne.
Diego Battistessa
La migrazione: la via di Cúcuta
Al di là del ponte Simón Bolívar
Passare in Colombia costa soldi e rischi e non risolve i problemi. In aiuto dei migranti è scesa in campo anche la diocesi di Cúcuta.
San José de Cúcuta, attuale capitale del dipartimento colombiano del Nord di Santander, è stata ed è una citta nevralgica del Sud America. Il nome stesso di questa città rispecchia l’incontro-scontro di due mondi, essendo composto da San José (in onore alla figura biblica di Giuseppe, padre putativo di Gesù) e Cúcuta, nome del cacique del popolo indigeno Barí che dominava quelle terre prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli. Un luogo di lotta e insorgenza, una città nella quale, oltre alle numerose placche commemorative del passaggio del Libertador Simón Bolívar, sono presenti due statue in ricordo di donne che ne hanno segnato le vicende e la storia: una è dedicata a Doña Juana Rangel de Cuellar, che nel 1733 donò 782 ettari di terreno al sindaco della città di Pamplona per promuovere la fondazione di Cúcuta; l’altra, all’interno del parco che porta il suo nome, è dedicata all’indipendentista Mercedes Abrego.
Una placca commemorativa racconta la sua storia: «Doña Mercedes Abrego de Reyes. Dama cucutegna, sarta che cucì e omaggiò al Libertador la sua elegante uniforme di Brigadiere con motivo del trionfo di Bolívar su Ramón Correa, nei pressi di Cúcuta. Quando le truppe realiste riconquistarono la città nell’ottobre 1813, fu condannata a morte per aver aiutato i ribelli. Fu giustiziata il 21 di ottobre del 1813 per ordine di Bartolomé Lizon. Fu portata di notte, in vestaglia e scalza, dalla sua casa in Urimaco fino al luogo dell’esecuzione. Camminò per le strade della città sotto forte scorta. Una volta giunta nel luogo predisposto, l’ufficiale a capo della scorta chiese a chiunque si sentisse capace di tagliare con un solo colpo la testa ad una donna, di fare un passo avanti. Ignacio Salas fu il suo assassino, che riversò la sua sete di sangue sulla donna, decapitandola con un solo colpo di sciabola: suscitando in quel modo gli applausi e gli encomi dei suoi compagni d’armi».
Più a Sud, nell’area metropolitana di Cúcuta, troviamo Villa del Rosario. Si tratta della città natale del generale José de Paula Santander e sede dello storico congresso del 1821 nel quale, sotto l’egida di uno dei grandi padri della patria colombiana, Antonio Nariño venne redatta quella che è passata alla storia come la costituzione di Cúcuta. A Villa del Rosario, in quello che oggi è il Parco Grancolombiano, oltre alla casa di Santander, si trova ciò che resta del Tempio del Congresso, semidistrutto dopo il terremoto del 18 di maggio 1875, passato alla storia come «il terremoto delle Ande».
«Trochas» e «trocheros»
Proprio in questa cittadina così emblematica, oggi parte del conglomerato urbano di Cúcuta, si trova il quartiere chiamato «La Parada» (la fermata), punto di inizio della traversia di migliaia di venezuelane e venezuelani migranti. Si tratta del punto zero dell’esodo, uno dei luoghi simbolo del più grosso fenomeno migratorio che la storia recente dell’America Latina ricordi. Il rito di passaggio avveniva attraversando il ponte Simón Bolivar, costruito sul fiume Tachira, frontiera naturale tra due paesi che alternano amore e odio, fin dai tempi dell’indipendenza. Scaramucce diplomatiche prima, ed esigenze sanitarie poi, hanno reso terra desolata quei pochi metri di asfalto che uniscono due mondi così simili ma allo stesso tempo così diversi.
Se i ponti sono chiusi (ma la situazione è in cambiamento, ndr), non è così però per le frontiere informali. Decine infatti sono le trochas, stretti passaggi tra la selva e il fiume Tachira che permettono quotidianamente a centinaia di persone di passare illegalmente da un lato all’altro del confine. A guidare i gruppi di migranti in questi sentieri della speranza attraverso acqua e foresta, sono i trocheros, persone che conoscono la zona e che hanno ottenuto il beneplacito dei gruppi criminali che controllano il contrabbando di merci e persone. Chiunque voglia passare dal Venezuela alla Colombia (e viceversa) deve scendere a patti con i colectivos (gruppi armati al margine della legge, spesso conniventi con la polizia) nella città venezuelana di San Antonio del Tachira.
Una volta pagata la tariffa concordata e trovato un trochero, si può passare, pagando dal lato colombiano un’altra tariffa di «destinazione». A marzo 2021 i prezzi per il passaggio erano relativamente bassi, questo era dovuto soprattutto alla gravissima crisi economica del Venezuela, alla chiusura delle frontiere e alle misure di confinamento stabilite nel paese da Nicolás Maduro. Per passare da Sant’Antonio del Tachira a La Parada erano necessari 5mila pesos colombiani da ambo i lati (un totale di 10mila pesos che equivale a circa 2,5 euro). Il problema però per la maggior parte dei migranti venezuelani è arrivare a Sant’Antonio del Tachira, cosa per niente ovvia e potenzialmente molto pericolosa. Ecco, dunque, che per garantire un transito sicuro da Valencia, Barquisimeto, Merida o San Cristobal, bisogna sborsare l’equivalente di centinaia di dollari ai colectivos. Questo ovviamente vale anche per un eventuale viaggio di ritorno.
I problemi in territorio colombiano
Considerato quanto detto fino ad ora, ci si potrebbe immaginare che una volta arrivati dalla parte colombiana del fiume Tachira, il peggio sia passato e invece i problemi per i migranti venezuelani non faranno che moltiplicarsi. La Parada non è un luogo nel quale pensare di poter rimanere permanentemente e di fatto quasi nessun venezuelano considera questa opzione come un piano percorribile. L’idea è rimanere giusto il tempo necessario per racimolare qualche soldo e poi andare a Cúcuta. Da lì, diventa più facile trovare delle opportunità di guadagno e pianificare il resto del viaggio che passerà per la rotta stradale di 202 km che unisce la capitale del dipartimento del Nord di Santander con Bucaramanga. Una volta giunti a Bucaramanga, ogni scelta diventa possibile: rimanere in Colombia e dirigersi verso un’altra grande città o continuare il viaggio verso un altro paese (Ecuador, Perù, Cile e Argentina) più a Sud.
Nonostante ciò, negli ultimi anni La Parada si è trasformata in una sosta transitoria a medio termine, dove le famiglie venezuelane spendono oramai settimane o mesi. La pandemia ha poi peggiorato le cose, limitando la mobilità e costringendo diversi nuclei familiari a cercare una sistemazione semistabile. In questo contesto è sorta un’«architettura del migrante», promossa da persone locali che hanno visto la possibilità di fare business, trasformando degli stabili fatiscenti in case provvisorie per i venezuelani migranti. Stabili di un solo piano sono stati compartimentati con stanze di dieci metri quadrati ciascuna, nelle quali vivono intere famiglie, condividendo un patio e un bagno in comune. In queste misere, insalubri e promiscue soluzioni abitative, possono vivere anche 5 o 6 famiglie (una per stanza), fino a 30 persone condividendo una doccia e un bagno. Ogni nucleo familiare cucina nella stanza nella quale vive con una bombola di gas noleggiata, che deve pagare giornalmente: anche l’affitto è giornaliero (circa 10 pesos al giorno) e viene pagato ogni sera, chi non paga viene sbattuto fuori.
Per il corpo e per lo spirito
In tutta questa tenebra c’è però un punto di luce: la «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» della diocesi di Cúcuta. Questo spazio di ristoro, per il corpo e per lo spirito, è stato inaugurato il 5 giugno del 2017 e da allora si è trasformato in un luogo di speranza e sollievo per quanti arrivano a La Parada. L’idea della diocesi di Cúcuta era quella di provvedere un appoggio integrale alla popolazione migrante in transito e non, garantendo alimentazione, medicinali e cure mediche, attenzione psicosociale e assistenza legale. La chiesa cattolica di Cúcuta ha messo in marcia un incredibile progetto, appoggiato dallo stesso papa Francesco, che ha visto sommarsi alla causa il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur / Unhcr), Caritas internazionale, Adveniat (il programma della Conferenza episcopale tedesca che sostiene e finanzia progetti pastorali in America Latina e Caraibi), Caritas Colombia, Caritas spagnola, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America e la catena di radio spagnola Cope. Con l’aumento del flusso migratorio nel 2018 e, successivamente, con l’arrivo del Covid-19 a inizio 2020, l’attività della «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» è stata però fortemente rallentata. Negli ultimi mesi si è deciso di ridurre l’accesso alla struttura (che prima offriva servizio a 3.500 persone al giorno) dando la priorità all’alimentazione di bambini, donne e anziani: oggi vengono serviti 350 pasti quotidiani, cifra che non soddisfa la grande richiesta di cibo e assistenza integrale che continua a esistere nel quartiere.
Cúcuta e prostituzione come necessità
A 15 minuti in auto da La Parada, tragitto che la maggior parte dei migranti venezuelani percorrono a piedi, si arriva a Cúcuta. La situazione in città è critica e questo non è dovuto solo al coronavirus (a partire da aprile 2020). Secondo i dati di Migración Colombia al 31 dicembre 2019, nella capitale del dipartimento del Nord di Santander si trovavano circa 105mila cittadini venezuelani su una popolazione totale di 700mila persone (e in tutto il dipartimento più di 200mila venezuelani, che corrispondeva all’11,5% del totale nazionale).
La saturazione degli spazi abitativi e lavorativi ha prodotto in città una precarietà senza precedenti, accompagnata da una situazione di grande vulnerabilità, specialmente per le donne e le bambine. Gli uomini, in mancanza di un’alternativa lavorativa, si dedicano al rebusque: un’attività di riciclaggio attraverso la quale, perlustrando tutte le strade delle città e ispezionando la spazzatura, riescono a raccogliere plastica, alluminio, vetro, cartone e metalli che poi rivendono nei centri preposti al riciclaggio. Per le donne la prima alternativa e la più remunerativa è la prostituzione. Alcune cercano di dedicarsi ad altre attività, come la vendita di caffè nella zona del Terminal dei bus, ma la pressione sociale e la promessa di facili guadagni spesso fa pendere la bilancia verso la vendita dei loro corpi. Oramai a Cúcuta è quasi impossibile trovare una donna in situazione di prostituzione che sia colombiana: «la piazza» è stata occupata completamente dalle donne venezuelane che hanno ridotto della metà le tariffe vigenti prima del loro arrivo. La maggior parte di queste ragazze (spesso di età compresa tra i 18 e 30 anni) non esercitavano la prostituzione in Venezuela ed è qui, lontane da casa, sole e senza alternative che cadono nella rete dei locali notturni che popolano la Septima avenida (Strada numero 7). Molte di loro hanno già svariati figli e alcune li hanno portati con loro nel viaggio. I bambini e le bambine passano le giornate in stanze d’albergo accanto a quelle dove le madri ricevono i clienti che trovano nei locali o per strada. Quasi nessuno di questi bambini è scolarizzato. Passano le giornate dormendo per ingannare la fame o guardando la televisione. Le madri sono coscienti che questa non è la situazione ideale, ma sanno che è l’unico presente che possono offrire, almeno per il momento, ai loro figli.
Sono centinaia le donne venezuelane che riempiono la «settima», e per le misure adottate in Colombia per contenere i contagi, sono costrette a scendere in strade fin dalla mattina per poter lavorare fino all’orario del coprifuoco, ogni giorno sempre più stringente. La polizia spesso entra nei locali facendo ronde e retate, soprattutto per assicurarsi che nessuna minore d’età venga prostituita.
Verso altre piazze
In Colombia, il commercio sessuale è tollerato e in ogni città esistono dei quartieri di tolleranza (veri gironi dell’inferno) dove, a volte, la polizia cerca di fare atto di presenza ricordando che la prostituzione minorile è un reato. A Cúcuta le tariffe sono bassissime e sono le stesse ragazze a pagare la pieza (la stanza d’hotel). Un cliente paga 30mila pesos (7,5 euro) per trenta minuti e considerando i costi che le venezuelane devono sostenere quotidianamente (cibo per loro e per i figli e la stanza dove dormire), molto spesso devono riuscire a trovare almeno tre clienti al giorno. Un’impresa davvero ardua di questi tempi e per questo, molto spesso, sono costrette a negoziare il prezzo fino quasi alla metà.
Però anche Cúcuta, come La Parada, è un luogo di passaggio, soprattutto per le donne che ascoltano le storie di altre compagne d’avventura che raccontano meraviglie, di Cali, Bogotà, Cartagena e Medellin: città dove si può lavorare di più e meglio, dove i clienti sono europei e statunitensi e, dunque, si può inviare più denaro alla famiglia rimasta in Venezuela. Ragione quest’ultima, che rappresenta il vero scopo del processo migratorio per molte di loro.
Per raggiungere queste città via terra da Cúcuta, (la stragrande maggioranza di loro non ha documenti d’identità validi e non può prendere l’aereo) bisogna però arrivare prima a Bucaramanga.
Le tende e la «lavanda» dei piedi
Sono 202 i km che separano Cúcuta-Villa del Rosario da Bucaramanga, capitale del dipartimento di Santander e circondata dalla cordigliera orientale delle Ande. Il cammino verso questa città è pieno di insidie e pericoli ma nonostante ciò, ad oggi, sono migliaia i migranti venezuelani che hanno realizzato a piedi (a volte scalzi) questa traversata. Lungo quella che è già stata ribattezzata la ruta de los caminantes («la rotta dei camminanti») sono stati installati nel corso degli ultimi anni almeno 13 punti di aiuto e supporto. I primi 9 si trovano nel primo tratto di 75 km (circa 16 ore di cammino) che collega Villa del Rosario con la cittadina di Pamplona. Si tratta di punti di ristoro, alberghi dove poter pernottare, tende nelle quali ricevere assistenza medica e cibo: un sollievo fisico e spirituale.
Sono molte le organizzazioni, confessionali e non, dedicate ad aiutare i camminanti. Tra queste spiccano sicuramente: Samaritan’s Pursue, con l’albergo situato nella località Don Juana a 35 km da Cúcuta, e la Carpa esperanza Jucum (Tenda speranza della gioventù), situata a pochi km da Pamplona, dove giovani volontari si dedicano alla «lavanda» dei piedi dei migranti, alla cura delle piaghe e a distribuire nuovi calzari.
Una volta giunti a Pamplona, i migranti devono riposare e recuperare energie perché li aspetta la parte più dura e pericolosa del viaggio: la scalata del «paramo de Berlin», un passaggio di montagna a più di 3mila metri d’altezza. Da Pamplona a Bucaramanga ci sono altri 4 punti di appoggio che cercano di provvedere i migranti con acqua, cibo e indumenti pesanti per far fronte al freddo delle Ande che alle volte raggiunge gli zero gradi. Le persone provenienti dal Venezuela sono abituate ad un clima caldo. Per loro la traversata di questo passaggio di montagna è qualcosa di sovrumano. Uomini e donne, spesso con bambini piccoli in braccio, in pantaloni corti e t-shirt, con ciabatte o scarpe sportive non adatte a quel clima. Questa è la scena che si ripete costantemente nel «paramo de Berlin», e che più di una volta ha rappresentato una condanna a morte per le persone più fragili, sfiancate dalle lunghe ore di cammino, già malate, o per i più piccoli. Superato il passo, inizia la discesa verso Bucaramanga, un punto di luce e speranza prima di decidere verso dove e come proseguire il cammino. Nel 2020 la pandemia da Covid-19 e le relative restrizioni alla circolazione hanno ridotto il flusso di camminanti, ma – nel primo semestre 2021 (specialmente tra gennaio e marzo) – si è tornati a vedere un fiume di persone che, in fila indiana, la maggior parte con lo zaino con i colori della bandiera bolivariana in spalla, camminano e camminano. Senza sosta.
Diego Battistessa
La migrazione: la via della Guajira
Quando il destino è la strada
Anche la penisola colombiana della Guajira è territorio di transito per molte migranti venezuelane. Tappa di un percorso verso altre città dove curarsi o partorire. O prostituirsi con i turisti del sesso.
La Striscia, «la Raya», così si chiama popolarmente lo spartiacque che, nella penisola della Guajira, divide ufficialmente la Repubblica bolivariana del Venezuela dalla Colombia. Si tratta di pochi metri che per migliaia di venezuelane e venezuelani rappresentano la possibilità di un nuovo inizio. Per lungo tempo questa frontiera (mentre scriviamo la situazione è in evoluzione, ndr), così come le altre tra Venezuela e Colombia, è rimasta chiusa. Le autorità permettevano solo il passaggio, a piedi, dei membri delle comunità transnazionali indigene Wayuú, nativi della penisola della Guajira, che vivono a cavallo dei due stati. Per tutti gli altri l’unico passaggio era attraverso las trochas (i sentieri), che comunque si trovano a pochi metri da «La Raya». Non esiste infatti un vero e proprio controllo militare di questa frontiera dal lato colombiano: gli unici funzionari presenti sono quelli di Migración Colombia, che non hanno funzione di ordine pubblico. È così che, nonostante la pandemia da Covid-19 e le restrizioni, centinaia di persone continuano ad arrivare in Colombia dal fluido confine nel Nord del paese.
Prima tappa a Maicao, Colombia
Una volta entrati in Colombia, nel dipartimento della Guajira (che prende il nome dalla stessa penisola), la prima sfida per i migranti è riuscire a raggiungere la città più vicina: Maicao. Sì, perché «la Raya» si trova nella frazione di Paraguachón, appartenente a Maicao, ma distante 12 km dall’urbe. A Paraguachón, esiste un primo centro di attenzione al migrante gestito da Acnur e dalla Croce rossa colombiana, ma si trovano anche decine di intermediari informali che offrono, a chi se lo può permettere, ogni tipo di servizio: trasporto, merce di contrabbando e cambio moneta, tra gli altri. Chi arriva a Paraguachón spesso viene dalla città venezuelana di Maracaibo (stato Zulia) e ha affrontato un lungo viaggio di più di 100 km con mezzi di fortuna (spesso sul sedile posteriore di una moto) e pagando i colectivos per avere «garanzia» di un passaggio sicuro. Una volta superata la frontiera, molti migranti decidono di proseguire a piedi per Maicao, sotto il sole inclemente della Guajira. Non è solo il sole però a costituire una sfida e un pericolo (soprattutto per le persone anziane e le donne incinte), ma sono anche le bande di predoni che popolano questa terra di nessuno. I taxisti che percorrono la rotta di collegamento tra la frontiera e Maicao sono sempre in allerta e, quando possono, viaggiano in convoglio per dissuadere possibili attacchi armati con fine di rapina.
Da questa frontiera, così come da quella di Cúcuta, solevano passare due tipi di migranti. I commercianti, che venivano per pochi giorni o settimane in Colombia per acquistare merci da poter poi introdurre in Venezuela, e coloro che, invece, zaino bolivariano in spalla, erano decisi ad abbandonare la terra di Bolívar. Dal 2018 in avanti, anno del totale collasso della moneta nazionale venezuelana (il bolívar), il potere d’acquisto dei venezuelani si è ridotto all’osso e il paese è ormai de facto dollarizzato. Questo, e la lunga chiusura delle frontiere, ha ridotto tantissimo il flusso di commercianti e oramai gli unici venezuelani in arrivo sono quelli che scappano da una delle peggiori crisi umanitarie della regione. Come succede per la rotta Sud a Cúcuta-Villa del Rosario, l’idea è quella di fare un breve stop a Maicao per continuare poi lungo la costa per Riohacha, Santa Marta, Barranquilla e, a volte, Cartagena.
A Riohacha, capitale della Guajira
Riohacha è la capitale del dipartimento della Guajira ed è una cittadina che riunisce un crogiolo di etnie, tradizioni e conflitti sociali. Mestizos, afrodiscendenti e indigeni Wayuú abitano lo spazio urbano e rurale (in modo direttamente proporzionale al loro status economico e sociale), vivendo ora gomito a gomito con l’incipiente migrazione venezuelana. Acnur ha aperto in città un grande ufficio vicino al lungomare, cercando di supportare sia l’amministrazione locale che le organizzazioni che appoggiano i migranti. Il dipartimento della Guajira è però uno dei dipartimenti più depressi a livello economico di tutta la Colombia e, in questo contesto, sviluppare azioni di mitigazione della vulnerabilità dei migranti venezuelani, diventa molto difficile. Per questo anche Riohacha per la maggior parte dei migranti non rappresenta una meta, ma una tappa transitoria verso città economicamente più attive e che presentano maggiori opportunità. Inoltre, per quelle donne venezuelane che vedono nella prostituzione l’unico mezzo di sostentamento, Riohacha è un’ambiente ostile e inospitale, dove non è possibile prostituirsi per la strada alla luce del sole. In città prevale una mentalità proibizionista e anche se la prostituzione è implicitamente tollerata, non può però essere esibita in bella vista. Questo e la mancanza di un turismo internazionale, che nel Nord si concentra a Santa Marta e Cartagena, spingono le donne a continuare il loro viaggio verso Ovest.
Santa Marta, capitale del dipartimento di Magdalena, è una città conosciuta per le sue coste ed è meta di turismo nazionale e internazionale. I samari (questo il gentilizio per gli abitanti della città) sono molto fieri della loro tradizione e cultura, e di uno dei grandi figli della città: Carlos Alberto Valderrama (El Pibe Valderrama) famoso calciatore dalla folta capigliatura ossigenata che impressionava il mondo negli anni Novanta. A Santa Marta la migrazione venezuelana è molto presente, e il lungo mare è tristemente popolato da donne venezuelane in situazione di prostituzione. Da Riohacha a Santa Marta ci vogliono almeno tre ore e mezza di bus ma, anche in questo caso, per alcuni la rotta viene fatta a piedi. In questa città le donne venezuelane in situazione di prostituzione raccontano di una particolare dinamica che le vede impegnate in quelle che loro stesse definiscono «stagioni lavorative». Prima della pandemia e della conseguente chiusura delle frontiere e difficoltà di movimento, solevano venire a Santa Marta direttamente dalla zona di Maracaibo e qui si fermavano per circa due mesi. Con il denaro raccolto prostituendosi, tornavano in Venezuela dove le aspettava la famiglia (soprattutto madri e figli). Rimanevano in Venezuela fino a quando il denaro raccolto non cominciava a scarseggiare, momento nel quale diventava necessario tornare a Santa Marta per una nuova «stagione». Questa dinamica, come detto, si è interrotta con l’arrivo del Covid-19, quando decine di donne venezuelane sono rimaste bloccate in Colombia, senza poter vedere la loro famiglia da più di un anno.
In questo senso, oltre allo stile di vita estremamente logorante, l’aspetto psicologico sta passando loro una fattura molto salata. Lontane dai figli che avevano salutato pensando di poterli vedere solo dopo qualche settimana, molte di loro hanno perso familiari morti per la pandemia, persone care alle quali non hanno potuto dire addio. A Santa Marta la prostituzione è tollerata e accettata, tanto che si esercita fin dalle prime ore del giorno lungo tutto il lungomare, soprattutto nel centrale parco Bolívar e anche di fronte all’edificio dell’amministrazione centrale del dipartimento.
Le Ong di Barranquilla
Cento chilometri a Ovest di Santa Marta si trova Barranquilla, conosciuta anche come «la arenosa», capitale del dipartimento dell’Atlantico. Qui la situazione della migrazione venezuelana è completamente differente rispetto alle altre città che formano la rotta Nord: le persone che hanno lasciato il Venezuela cercano in questa città la possibilità di stabilirsi in modo permanente. Barranquilla è la quinta città più grande della Colombia, con una popolazione di un milione di abitanti, il 10% dei quali sono migranti venezuelani.
Si tratta di un polo commerciale importante dove, prima della pandemia, abbondavano le opportunità di lavoro e di commercio. Il clima costiero è un altro elemento di confort per i migranti venezuelani che, nel corso degli ultimi anni, hanno visto Barranquilla come una reale opportunità di ricostruzione di un futuro di speranza. In questa città si trova uno dei più brillanti esperimenti di supporto locale integrale alla popolazione migrante di tutta la Colombia: il «Centro di integrazione per i migranti», creato nel novembre 2019 dall’amministrazione comunale della città. Questo punto di supporto si trova tra la Carrera 45 e Calle 45, alle porte del centro storico della città. Adriana Padilla è la coordinatrice della struttura, che lavora in costante coordinamento con la direzione del Gruppo interagenzia sui flussi migratori misti (Gifmm) e con le diverse organizzazioni che lo compongono. Questo centro è davvero il fiore all’occhiello dell’assistenza alla migrazione venezuelana in Colombia. Al suo interno vengono svolte attività polivalenti portate avanti tra le altre da Oim, Acnur, Unicef e Croce rossa colombiana. Inoltre, la risposta alle diverse esigenze delle persone che accedono al centro è legata ad un accordo quadro con un’altra dozzina di Ong nazionali e internazionali (Plan international, Danish refugee council e World vision), che svolgono attività specialistiche per rispondere a particolari situazioni di vulnerabilità. Nella struttura, grazie al finanziamento di Acnur e al lavoro svolto da alcune Ong locali (come De Pana Que Si e Fuvadis), si sono aperti anche canali di appoggio per rispondere alle particolari situazioni delle donne venezuelane migranti (in special modo gravidanze e situazioni di violenza familiare) e delle persone appartenenti al gruppo Lgbtiq+ (persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer).
La prostituzione a Barranquilla
Barranquilla è stata la meta di centinaia di donne venezuelane migranti che cercavano un posto sicuro dove partorire o dove poter essere visitate e accompagnate durante la loro gravidanza. Negli ospedali colombiani sette migranti venezuelani su dieci sono donne; a Barranquilla, città di riferimento della costa colombiana, il 70% dei parti è di madri venezuelane.
Per quanto riguarda le donne venezuelane in situazione di prostituzione, esse si concentrano nei locali che popolano il centro storico, nella zona del Parque de los enamorados (parco degli innamorati), lungo la Carrera 40, tra le strade 45 e 42. Camminando per quella zona, estremamente pericolosa nelle ore notturne, si possono intravedere decine di donne migranti venezuelane «ammassate» dentro i locali in attesa dei clienti di turno. A Barranquilla però, così come in altre città economicamente più attive (come, ad esempio, Medellin), la prostituzione si muove anche attraverso internet. Sono decine infatti le pagine di incontri dove le donne venezuelane offrono i loro servizi in appartamenti, centri di massaggi erotici, bar o direttamente a domicilio. Un «mercato» cresciuto in maniera esponenziale, soprattutto con le restrizioni per evitare i contagi da Covid-19 che hanno portato alla chiusura di molti locali e all’attivazione del coprifuoco a partire dalle venti.
… e a Cartagena de Indias
Come detto, per la maggior parte dei migranti venezuelani la rotta Nord si interrompe a Barranquila, ma non mancano coloro che, percorrendo altri 120 km verso Ovest, decidono di arrivare alla città di Cartagena de Indias, vero grande polo turistico internazionale del «Caribe colombiano». In questa città si vive praticamente solo di turismo e sono centinaia i venezuelani che lavorano per le strade come promotori di ogni tipo di servizio. Una delle grandi piaghe di Cartagena è però il turismo sessuale, dovuto in gran parte a uomini statunitensi ed europei che arrivano nella capitale del dipartimento di Bolívar solo alla ricerca di droga e prostituzione. Le autorità locali hanno combattuto, soprattutto nel 2018, questo fenomeno, ma ad oggi la situazione non è cambiata molto. Alla sera, la zona della torre dell’orologio, giusto all’entrata della cinta muraria della città, si popola di donne in situazione di prostituzione a caccia del turista di turno. Anche in questo caso, la maggior parte di loro sono venezuelane, giovani, avvenenti, con diversi interventi di chirurgia plastica per incarnare quello stereotipo così mercificato ed esportato in tutto il mondo dalla fabbrica della bellezza di Osmel Sousa (il padrino di Miss Venezuela). Le tariffe variano: si può passare dai 100 dollari per 30 minuti ai 500 dollari per tutta la notte. È per questo che Cartagena, soprattutto per le giovani migranti venezuelane che rispondono ai parametri del mercato del sesso, diventa il luogo dove i turisti sessuali sono disposti a comprare il loro corpo pagando in dollari sonanti.
Diego Battistessa
Inserti
«Ranchitos»
Capita spesso che famiglie di migranti venezuelani, trovandosi nell’impossibilità di pagare un alloggio nelle località colombiane nelle quali giungono, decidano di occupare un pezzo di terra in periferia e costruire un «ranchito» (baracca). Si tratta di costruzioni fatte di cartoni, lamiere, teloni e coperte. Luoghi senza acqua ed elettricità, insalubri, spesso in zone rischiose (come il costato di una montagna), ma che per i migranti sono ciò che di più può somigliare alla parola casa. Dopo l’arrivo di una o due famiglie si sparge la voce ed è così che altre decine di persone giungono per occupare il loro pezzetto di terra e potersi mettere un tetto sopra la testa. Di solito, gli abitanti delle città dove avvengono le invasioni non vedono di buon occhio questa pratica e le amministrazioni locali provano, spesso con la forza, a sfrattare gli occupanti non fornendo loro però nessuna soluzione alternativa. Questo è quello che sta succedendo nel quartiere San Matteo, periferia di Cúcuta, dove è sorto da due anni un insediamento di migranti venezuelani ribattezzato «Nuova Speranza». Si tratta di una ventina di baracche costruite su di un suolo argilloso e sull’orlo di un crepaccio: un accampamento dove vivono circa 70 persone (18 famiglie), metà delle quali minori d’età. Gli «invasori» hanno trovato il modo di collegarsi alla rete elettrica cittadina e anche per l’acqua hanno trovato il modo di diventare autosufficienti con un sistema (precario) di tubature. Non sono ben accetti dai vicini del quartiere San Matteo, specialmente dal centro di addestramento della polizia che si trova giusto sopra di loro, in cima alla collina. Ad oggi l’amministrazione della città di Cúcuta ha intimato lo sgombero della zona per motivi legati alla sicurezza e alla salute degli stessi migranti (soprattutto dei minori) ma senza offrire alternative, nessuno lascerà «Nuova Speranza».
Di.Ba.
Torturatori
A Bogotà esiste un quartiere dove ad ogni ora del giorno è possibile «comprare» un corpo di una donna venezuelana migrante. Si tratta di Santa Fe, zona di tolleranza della capitale colombiana, fiera della spoliazione dei diritti, luogo nel quale si commercia approfittando della miseria altrui. Donne e ragazzine (molte sono minorenni), praticamente nude, aspettano sui marciapiedi delle strade dalle 15 alla 22, il torturatore di turno. Sì perché, come ricordano María Galindo e Sonia Sánchez nel libro Ninguna mujer nace puta, una donna in situazione di prostituzione si incontra con prostituenti, stupratori e torturatori, non con clienti. Camminando per quelle strade, ciò che si vede è la nudità dei loro corpi, ma quello che molti non vedono (non vogliono vedere) è la nudità di diritti. Donne e bambine vestite solo di forza di spirito e dignità, tenute spesso in piedi dalla droga (che aiuta anche a non sentire la fame), mentre deambulano in una strada che oramai è tutto il loro mondo, tutto il loro inferno. Vivono negli hotel della zona (spesso con i loro figli), pagando una quota giornaliera. Inviano settimanalmente soldi ai parenti rimasti in Venezuela, che quasi mai sono al corrente della non vita che fanno queste donne nel quartiere di Santa Fe. Ombre, fantasmi di ciò che erano un tempo: in Venezuela molte di loro prima del collasso del paese, avevano davanti una promettente carriera professionale oppure stavano frequentando l’università.
Di.Ba
I morti di Sonia
Si chiama Sonia Bermúdez Robles, ha 65 anni e per tutta la vita ha avuto a che fare con la morte essendo una tanatologa forense. Sonia è originaria di Riohacha e proprio nella capitale della Guajira ha lavorato per più di 40 anni nell’istituto di medicina legale, realizzando circa 5mila autopsie. Nel 1996, a dieci chilometri dalla città, sulla via per Valledupar, Sonia occupa un terreno di cinque ettari di proprietà del comune e inaugura il cimitero «Gente como uno» (Gente comune, come noi). Inizialmente il cimitero rispondeva all’esigenza di dare sepoltura agli N.N. e alle persone di bassa o nessuna capacità economica (persone che non sarebbero state sepolte nel cimitero centrale della città), ma con l’esplosione della crisi migratoria venezuelana le cose sono cambiate drasticamente. A partire dal 2018, sono state decine le richieste ricevute da Sonia per poter dare sepoltura ai migranti venezuelani morti nella Guajira: persone le cui famiglie non disponevano di risorse economiche per il funerale e delle quali né lo stato venezuelano, né quello colombiano, erano disposti a farsi carico. Di fronte a questa situazione Sonia ha risposto «presente», e da quel momento ha dato cristiana sepoltura a più di 500 migranti venezuelani nel suo cimitero, la maggior parte infanti e persone anziane. Il lavoro di Sonia è oggi riconosciuto internazionalmente, e anche l’Onu ha celebrato il suo esempio di solidarietà e costruzione della pace.
Di.Ba
Libia: Le macerie della guerra
Una città abitata da discendenti degli schiavi. Una popolazione che durante la guerra si è schierata dalla parte sbagliata. Tawargha ha pagato tutto questo con l’annientamento della sua comunità. Vediamo cosa è successo durante la guerra e che ne è oggi.
Siamo a Misurata, nel luglio 2012. Ciccio è ossessionato dal ricordo del suo chihuahua. Si chiamava Alex: un omaggio al suo idolo calcistico Alessandro Del Piero. Alex è morto nella primavera del 2011, nella fase più calda della guerra civile libica. Terrorizzato dal colpo di un mortaio esploso vicino casa, aveva cercato rifugio in una grondaia nella quale era rimasto incastrato. Ciccio lo ha trovato lì, morto.
«Il cuore di Alex – ricorda Ciccio – non resistette allo stress di quei giorni. A Misurata non faceva altro che piovere piombo».
Ciccio è di Misurata, una delle città che più hanno dato filo da torcere agli uomini di Muammar Gheddafi. La sua famiglia conta ben nove martiri della rivoluzione. La perdita di tutti quei parenti lo aveva scosso, ma non così tanto da indurlo a imbracciare un fucile per vendicarli e liberare la Libia da Shafshufa (Ricciolone), come veniva chiamato sottovoce il Rais. È stata la perdita di Alex a sancire l’inizio del nuovo corso rivoluzionario di Ciccio.
«Vedere il mio Alex morto di crepacuore fece scattare qualcosa in me. Era la creatura più innocente sulla faccia della terra. Montò in me una collera mai provata prima e il giorno seguente ero già un thuwar (rivoluzionario)».
Murad – il vero nome di Ciccio – ha 27 anni. Ciccio è il soprannome che i suoi compagni d’armi gli hanno affibbiato quando si è presentato alla qatiba (brigata) cui appartenevano alcuni dei suoi cari perduti in combattimento. L’ingombrante stazza di Murad, sommata alla diffusione della lingua italiana in Libia, non ha lasciato scampo al ragazzo: il nome di battaglia «Ciccio» è stato un plebiscito.
Ciccio il miliziano
Da oltre un anno Ciccio fa parte della qatiba misuratina Malik Idris, in onore di re Idris, detronizzato nel 1969 a seguito del golpe di Gheddafi.
Il quartier generale della Malik Idris si trova all’ingresso Ovest di Misurata, sullo stradone che collega la città alla capitale Tripoli. L’intero compound è circondato da scheletri di carri armati e pick up andati distrutti durante la guerra.
È luglio inoltrato, il caldo è asfissiante e le prime ombre della sera non portano alcun refrigerio. È finalmente arrivata l’ora della rottura del digiuno del Ramadan. Un’unica scodella con del latte di mandorla viene fatta girare tra i miliziani e il primo a poggiarci le labbra è Ali, il capo della Malik Idris.
Poco più che quarantenne, fisico asciutto e baffi neri, Ali apre la busta di datteri da distribuire ai suoi. «Guai a te se te li mangi tutti come l’ultima volta», intima Ali al povero Ciccio. «È un bravissimo ragazzo, ma ha un chiodo fisso: quel chihuahua. Mi chiedo come possa piacere tanto una bestia del genere».
Incurante, Ciccio caccia dalla tasca dei jeans un Nokia malconcio sul cui display c’è una foto che lo ritrae con Alex in braccio. «Lui è dalla mia parte. Mi porta bene! Se sono sopravvissuto a Shafshufa è anche un po’ merito suo». Bacia lo schermo del cellulare come se fosse una reliquia.
La guerra è ufficialmente finita da quasi un anno. Tutto fa sperare al meglio per la nuova Libia hurra (libera). Ma nessuno vuole abbandonare le armi, e la qatiba Malik Idris non è da meno. Ali e i suoi uomini vogliono dimostrare cosa fanno i rivoluzionari in tempo di pace.
L’appuntamento è per l’indomani all’alba. I thuwar, puntualissimi, si fanno trovare già con i motori accesi a bordo di due pick up tirati a lucido. Saldata sui cassoni, l’immancabile artiglieria contraerea.
Oltre a Ciccio e ad Ali, ci sono Mohamed, cinquantenne capo in seconda; Salam, appena diciottenne; Abdul-Kareem, trentenne; Amir, l’undicenne primogenito di Ali che maneggia il kalashnikov con la destrezza di un veterano. I thuwar, in tre per vettura, sono eccitatissimi. «Si va a caccia di negri a Tawergha», annuncia con un ghigno Ali.
Città fantasma
Tawergha, distante una quarantina di chilometri da Misurata, è stata ridotta a un cumulo di macerie dalla furia della qatiba di Misurata. Prima della rivoluzione del 2011 era abitata dai circa 35mila neri discendenti degli schiavi condotti in Libia nel corso del XVIII secolo. Oggi è deserta.
Gheddafi aveva piazzato ad hoc molti tawergha (pure il nome degli abitanti, ndr) agli alti ranghi dell’esercito e della pubblica amministrazione. Durante la guerra, Tawergha era stata anche la base di lancio dei missili governativi Grad che avevano messo in ginocchio Misurata.
«Odiamo i negri tawergha – afferma senza giri di parole Mohamed – perché stuprarono le donne misuratine durante la guerra. Per questo ci siamo scatenati contro di loro».
Mohamed, Salam e Ciccio, l’equipaggio del pick up che fa da apripista, giurano di non avere in famiglia casi di donne violentate.
Difficile arrivare a un numero approssimativo delle presunte violenze sessuali perpetrate dai tawergha. L’Onu non dispone di dati attendibili. A Misurata c’è chi sostiene di avere visto i video degli stupri scovati nei cellulari confiscati ai prigionieri tawergha, ma sono immagini che con ogni probabilità non verranno mai utilizzate come prova davanti a un tribunale, soprattutto per la reticenza dei familiari delle vittime.
Tawergha è una città fantasma. Mohamed ha una mano sul volante e l’altra sul kalashnikov. Appena scorge in lontananza un cagnone nero che rovista tra i rifiuti in cerca di cibo, lo punta, si scaglia contro di lui a tutta velocità, caccia fuori dal finestrino del pick up l’arma e fa fuoco con la mano sinistra, non la sua preferita. «Sarà appartenuto a un tawergha e quindi è un cane tawergha», urla e digrigna i denti. Manca di parecchio il bersaglio. A tutta velocità i pick up percorrono quella grande groviera che è diventata la città. Inchiodano davanti a una villetta danneggiata esternamente dal fuoco e disabitata. «È questa qui. Dai, rapidi», urla Ali.
Ha inizio lo spettacolo: Ali fa fuori due caricatori contro la credenza della cucina e un frigorifero malandato; Mohamed mette in fila delle bottiglie, e questa volta centra ogni bersaglio al primo colpo; con una spranga di ferro Abdul-Kareem si scaraventa contro le pale di un ventilatore da soffitto; Salam sfonda a calci le ante di un armadio nella camera da letto dei bambini; il piccolo Amir raggruppa dei giornali ingialliti e gli dà fuoco senza riuscire ad appiccare un incendio: «La benzina! Dovevo portare la benzina!»; Ciccio urina sulle foto di famiglia trovate in un ripostiglio.
Il tutto dura più di mezz’ora. Ali prende una mappa di Tawergha e con un pennarello fa una croce sul punto dove è segnata la villetta. «Ogni volta che visitiamo una casa – sorride il capo – la segniamo qui. Ci manca poco per passare al setaccio tutta la città».
I tesori dei Tawergha
Ciccio sussurra qualcosa all’orecchio di Ali. «Ok ma fa presto. E se trovi qualcosa voglio la mia parte», gli risponde il comandante. Ciccio afferra una pala dal cassone del pick up e comincia a scavare davanti l’uscio della villetta vandalizzata. Secondo una recente leggenda, durante la guerra, al momento della fuga dalla città, i tawergha avrebbero scavato delle buche all’ingresso di casa seppellendo oggetti preziosi per non farli finire nelle mani dei thuwar. E, vuole sempre la leggenda, i tawergha approfitterebbero delle tenebre per recuperare i loro tesori.
Ciccio raggiunge il gruppo a mani vuote e tutto sporco di terra. Il goffo miliziano emana una puzza di sudore acido che fa subito scattare le battute impietose dei suoi compagni. Ripone la pala nel cassone e sbuffa sonoramente. È tempo di ripartire. Per i 250 chilometri che dividono Tawergha da Tripoli, disseminati di posti di blocco delle milizie, quasi non viene proferita parola. La sete e la fame del Ramadan si fanno sentire.
Essere nero in Libia
La tappa successiva è il campo per sfollati di Fellah, alle porte della capitale. Prima della guerra questo era il cantiere di una clinica privata. Oggi sono rimasti solo una quindicina di container utilizzati per ospitare i tawergha scappati dalla loro città. L’Onu presta una modestissima assistenza a circa mille sfollati della città fantasma che non hanno potuto trovare una soluzione più dignitosa, magari all’estero. La «sicurezza» è gestita dai thuwar. Non è un’impresa semplice convincere Ali e la sua truppa a rimanere al di fuori della recinzione. Vogliono assistere ai colloqui con gli sfollati. «Quei negri – sbotta Mohamed – raccontano un sacco di balle. Sono delle serpi, negano di avere violentato le figlie di Misurata». Ma alla fine desistono e optano per un riposino all’ombra di una palma.
Gli anziani tawergha sono tutti riuniti sotto un tendone. «Non abbiamo nulla da perdere, ci ammazzassero pure quei cani. Questa non è più vita per noi», esordisce Houssein, 73 anni, maestro di scuola elementare in pensione, che durante la guerra ha perso sette dei suoi undici figli. «Essere nero in Libia oggi vuol dire essere un uomo morto. È vero, Tawergha è rimasta fedele a Gheddafi fino alla fine. Ma che potevamo fare?».
«Siamo cittadini libici – interviene Omar, 68 anni, che a Tawergha aveva un piccolo ristorante – e abbiamo dei diritti che vengono calpestati di continuo. Gli stupri delle donne ci sono stati da una parte e dall’altra. E poi, dato che siamo neri, ci associano ai mercenari africani assoldati da Gheddafi».
Una donna spinge la sedia a rotelle di Samir, 27 anni. L’uomo è in queste condizioni da quasi un anno. Fuggiva da Tawergha insieme al fratello maggiore Yoosuf. I due sono incappati in una qatiba misuratina. I miliziani hanno pestato a sangue i due fratelli fino a spaccare loro le ossa di braccia e gambe. L’ultimo colpo in testa, sferrato con una mazza di legno, è stato letale per Yoosuf. Samir ha visto un solo dottore dopo settimane dall’aggressione, troppo tardi per ricomporre le fratture riportate.
Il tempo a disposizione al campo di Fellah è terminato. È Ciccio a comunicarlo, indicando col dito l’orologio al polso. Una volta varcata l’uscita, senza dire nulla, Ciccio corre indietro verso gli anziani tawergha. Visto da lontano, il miliziano sembra usare modi gentili nei loro confronti. Ma la cortesia dura ben poco: Ciccio comincia a imprecare contro di loro, arrivando a puntargli contro il kalashnikov. «Non mi hanno voluto dire dove hanno sepolto i loro tesori. Gli ho pure proposto che avremmo potuto fare a metà, che l’oro l’avrei recuperato io. Sono furbi quei negri, vogliono tenersi tutto per loro».
Aprile 2021
Dopo nove anni dal nostro viaggio, ci domandiamo come sia la situazione della città di Tawerga oggi, se continua a essere una città fantasma o meno. Riusciamo a contattare due tawergha. Non è stato facile. Hanno accettato di parlare a patto di rimanere nel più assoluto anonimato. Sono due cugini di Tawergha, dal 2011 residenti a Tripoli.
Raggiunti via Skype, si mostrano in video con delle sciarpe che coprono la parte inferiore del volto. Hanno gli occhi scavati e una profonda stempiatura. Sembrano avere più anni di quelli dichiarati, 33 e 36. Si percepisce subito che i due uomini sono molto affiatati: uno termina le frasi dell’altro.
Spiegano che la tregua stipulata nel 2019 tra Misurata e Tawergha sembra tenere, e che da allora circa 4mila persone hanno fatto ritorno alla città fantasma. «Noi abbiamo deciso di vivere in capitale ma abbiamo alcuni parenti che hanno preferito riappropriarsi delle loro case. Non è un’impresa facile rimettere in piedi una montagna di macerie, specialmente quando i fondi a disposizione sono scarsissimi».
Il governo di Fayez al-Serraj ha stanziato circa 100 milioni di dinari (circa 18 milioni di euro) per la ricostruzione di Tawergha e i risarcimenti ai familiari delle vittime di Misurata morte in battaglia contro i tawergha. «Non è chiara la distribuzione di questo denaro e se realmente è arrivato a destinazione», si fanno eco i due cugini.
Le uniche attività commerciali che hanno riaperto a Tawergha sono negozi di alimentari e qualche ferramenta. «Per qualsiasi altro prodotto bisogna mettersi in macchina e raggiungere Misurata, con il rischio di essere presi a schiaffi solo per il colore della pelle, oppure andare a Tripoli. Che razza di vita può mai essere questa?».
Il neo governo di Mohamed al-Menfi (in carica dal 15 marzo scorso, ndr) si è detto interessato alla rinascita di Tawergha. «È giusto dargli il tempo di lavorare, ma non vogliamo farci troppe illusioni. Tutti sanno ciò che ha dovuto subire la nostra gente, peggio di come siamo stati trattati dalla cacciata di Gheddafi non può certo andarci».
Dalla fine della guerra, la maggior parte dei tawergha si è stabilmente stanziata a Tripoli e Bengasi. Persone che sono riuscite, tra mille difficoltà, a ricostruirsi una parvenza di vita normale grazie a lavori umili. Gli stessi due cugini, ai bei tempi di Tawergha geometra e titolare di una ditta di spedizioni, attualmente sono impiegati come netturbini con una paga da fame.
«Quelli che sono tornati non vogliono parlare, temono rappresaglie. Non crediamo che Tawergha si ripopolerà più come una volta. Ormai quello è un luogo di dolore, non è rimasto nulla di buono lì. Neanche i tesori di cui tanto hanno parlato i thuwar di Misurata».
Luca Salvatore Pistone
Modi e la deriva maggioritaria
testo di Maria Tavernini |
Delegittimare i processi e le istituzioni democratiche, criminalizzare il dissenso e calpestare i principi costituzionali è una tendenza sempre più frequente nell’India di oggi. A rimetterci, soprattutto poveri e minoranze.
«Il vero buio all’orizzonte è la svolta che sta prendendo la democrazia indiana, come se fosse sulla strada della perdizione», si legge nel duro editoriale dello scrittore Pratap Bhanu Mehta, sul quotidiano Indian Express, all’indomani della storica marcia di trattori che il 26 gennaio scorso – 72ª festa della Repubblica – ha sfilato nella capitale indiana in parallelo alla parata militare ufficiale.
È stata una manifestazione enorme, con centinaia di migliaia di contadini e contadine provenienti da tutta l’India.
Dopo due mesi, accampati ai confini di Delhi, hanno invocato (e ancora oggi, mentre scriviamo, invocano) il ritiro delle liberalizzazioni decise a settembre dal governo nazionalista guidato dal Bharatiya Janata Party (Bjp). Riforma considerata lesiva dai lavoratori della terra che rappresentano oltre la metà della forza lavoro indiana, in quanto favoriscono i colossi dell’agroalimentare ai danni dei piccoli produttori.
Una protesta che ha raccolto enorme sostegno dalla società civile, anche internazionale, alla quale il governo ha risposto con indifferenza prima, e con la repressione poi.
Nuova India intollerante
La tendenza a delegittimare i processi e le istituzioni democratiche, criminalizzare il dissenso e calpestare i principi costituzionali, è sempre più frequente nell’India di oggi, tanto che lo svedese V-Dem Institute a marzo ha declassificato l’India come «autocrazia elettorale», rilevando che gran parte del declino delle libertà democratiche è avvenuto dopo la vittoria di Narendra Modi.
Lo schema usato contro il movimento dei contadini è lo stesso impiegato contro altri movimenti precedenti: screditare l’agitazione, sobillare le violenze e accusare manifestanti e giornalisti di attività «anti nazionali».
Il buio sembra davvero calare sul subcontinente, su quell’idea di democrazia laica e inclusiva che prese corpo quando, nell’agosto del 1947, l’India Britannica ottenne l’indipendenza dalla Corona, smembrandosi in un Pakistan musulmano e un’India a maggioranza hindu.
Per capire il lento e inesorabile declino delle istituzioni democratiche indiane e la svolta autoritaria e maggioritaria dell’esecutivo, bisogna raccogliere elementi sparpagliati in un arco temporale di diversi anni. L’instabile democrazia indiana, che ha resistito a passate derive autoritarie, è oggi messa a repentaglio dal suprematismo identitario del governo guidato dai nazionalisti hindu; ma, soprattutto, dall’ascesa di una «nuova idea» di India: intollerante e sciovinista.
Quella dei contadini – una mobilitazione senza precedenti, ancora in corso – è stata la prima grande protesta dopo la sospensione imposta dal coronavirus.
Islamofobia hindu
La pandemia in India si è innestata in un periodo molto delicato: a dicembre 2019, il governo aveva varato il Citizenship amendment act (Caa), un emendamento alla legge sulla cittadinanza, considerato discriminatorio verso la comunità musulmana e in netto contrasto con i principi costituzionali in quanto avrebbe reso l’appartenenza religiosa un prerequisito per la naturalizzazione.
Il Caa era solo l’ultima di una serie di azioni volte ad alienare la popolazione musulmana dell’India e a consacrare il suprematismo hindu, ma aveva avuto il merito di riunire le minoranze del paese – musulmani, Dalit, comunità tribali, donne, lgbt – in una protesta trasversale e pacifica che era stata però da subito repressa.
A fine febbraio 2020, poi, la capitale – epicentro nazionale della mobilitazione – era stata travolta da un’ondata di violenza settaria in risposta alle proteste che avevano riempito le strade del paese.
Le responsabilità del pogrom contro la comunità musulmana a Delhi Nordest erano state fatte ricadere sulle vittime, anziché sulla destra hindu, nonostante alcuni esponenti del partito avessero intimato di «dare una lezione ai traditori». Poi è arrivata la pandemia. Le proteste sono state sgomberate, ma non la criminalizzazione del dissenso.
Covid e repressione
Quando il coronavirus ha raggiunto l’India, il lockdown nazionale si è tramutato in una tragedia tristemente annunciata.
Il contesto di forte povertà, e un’economia già in forte recessione, basata per oltre l’80% su scambi informali, ne hanno amplificato l’impatto sociale.
Quando il 24 marzo 2020 il premier Narendra Modi ha annunciato la chiusura, 1,35 miliardi di persone hanno avuto quattro ore per prepararsi. Molti dei cosiddetti urban migrants, centinaia di milioni di persone che negli anni si erano trasferite dalle campagne impoverite alle grandi metropoli nel tentativo di sfuggire alla fame, ingrossando le fila dei poveri urbani, non hanno avuto altra scelta che affidarsi alla rete familiare tornando nei villaggi di origine.
Il caso dell’India – il terzo paese al mondo per numero di contagi in termini assoluti, ma i cui numeri vanno letti in rapporto alla popolazione – è particolarmente drammatico anche a causa della repressione che si è abbattuta come una scure sulla società civile, proprio nei mesi in cui si consumava una gravissima emergenza sanitaria, sociale e umanitaria.
Dissenso sotto la lente
Il 2020 ha visto sconvolgimenti epocali in tutto il mondo – soprattutto in termini di distruzione dei mezzi di sussistenza e aumento della povertà -, e l’India non ha fatto eccezione.
Il lockdown indiano è stato disumano, almeno per i più poveri.
Il governo, quando interrogato, non ha fornito i numeri di quanta gente sia morta di stenti nel tentativo di tornare a casa, di quanti posti di lavoro siano andati perduti per il lockdown, di quanti milioni di persone (ri)sprofonderanno nella povertà, in barba al millantato Indian dream.
La mancanza di dati sui migranti e le fasce deboli, e in generale sulla tragedia in corso, a fronte di migliaia di pagine e dati raccolti per incastrare attivisti e manifestanti accusati di sedizione e attività anti nazionali, dà la misura della distanza dell’esecutivo da una fetta di popolazione politicamente invisibile.
Nessuno tocchi il governo
Proprio nei mesi dell’emergenza Covid, centinaia di persone sono state arrestate o accusate ai sensi della legge sulle attività illegali o di quella sulla sicurezza nazionale: due norme in base alle quali si può essere incarcerati per un semplice sospetto.
Tra gli arrestati, c’erano diversi studenti e attivisti legati alle proteste di fine 2019, incolpati di aver istigato i Delhi riots.
Altri, invece, almeno 16, sono stati fermati sulla base di accuse mai provate, per il caso di Bhima Koregaon, gli scontri tra alte caste e Dalit del gennaio 2018.
La repressione in questi mesi si è abbattuta sulle voci libere e su chi difende i diritti degli ultimi: dietro le sbarre delle sovraffollate carceri indiane in tempo di Covid sono finite attiviste incinte, anziani poeti, stimati frati, leader contadini, studenti, attivisti anticaste, noti giornalisti e docenti. La lista dei prigionieri politici è lunga: un esempio su tutti, padre Stan Swamy, gesuita che difende i diritti dei popoli tribali nelle foreste più remote del paese. Il sacerdote 83enne e gravemente malato, è in cella, in condizioni terribili, accusato di sostenere il maoismo.
La repressione del dissenso oggi, in India, non fa distinzioni: chiunque osi criticare il governo, rischia di essere accusato, intimidito, perseguitato. Anche i media e la Corte suprema hanno perso, pezzo dopo pezzo, indipendenza e imparzialità.
Declino graduale
L’ascesa del suprematismo identitario hindu è stato un processo graduale, accompagnato dal progressivo smantellamento delle istituzioni e delle salvaguardie democratiche.
Una tendenza – quella verso il nazionalismo maggioritario e militante – iniziata già dal primo mandato del Bjp.
Alle elezioni del 2014, Narendra Modi si era presentato come l’uomo del progresso, colui che avrebbe dato all’India il posto che meritava nel mondo: la sua ricetta di neoliberismo e industrializzazione sfrenata era riuscita a conquistare un elettorato stanco di scandali e corruzione, affamato di riscatto.
Già durante il primo mandato, però, l’agenda dell’esecutivo si è gradualmente spostata dalla retorica dello sviluppo alle politiche maggioritarie, escludenti e islamofobe, fedeli alle frange più estreme della destra hindu.
La marginalizzazione e la stigmatizzazione della comunità musulmana – e delle minoranze più in generale – è stata graduale e inesorabile: in questi ultimi sei anni si è tradotta in leggi antislamiche, linciaggi pubblici, violenze settarie, arresti di «voci critiche», e un diffuso clima di impunità tra le squadracce hindu.
Hindutva, o hinduità
Se le avvisaglie del primo mandato Modi non fossero state abbastanza evidenti, con il secondo mandato è ormai chiaro che l’enfasi sul progresso ha ceduto il passo all’etnonazionalismo confessionale del Bjp.
L’hindutva, o «hinduità», teorizzata da Vinayak Damodar Savarkar nel 1923, è la forma prevalente di nazionalismo in India.
Quando il partito capeggiato da Modi è stato riconfermato alle politiche nella primavera del 2019 con un mandato senza precedenti, l’esecutivo ha accelerato il progetto di un’India a trazione hindu in cui le minoranze, soprattutto quella musulmana, saranno sempre più ai margini.
Il 2020 era considerato l’anno in cui l’India sarebbe diventata una «super potenza». Stiamo invece assistendo è una profonda crisi della democrazia, del pluralismo e del secolarismo indiano.
La questione Kashmir
Pochi mesi dopo l’inizio del secondo mandato Modi, New Delhi ha unilateralmente abolito l’autonomia del Kashmir, l’unico stato a maggioranza musulmana dell’India: un territorio al centro di un’annosa disputa territoriale con il vicino Pakistan, insanguinato da 30 anni d’insurrezione separatista e una brutale repressione delle forze dell’ordine.
Da allora, il Kashmir è sotto un assedio permanente – che si somma a decenni di presenza militare massiccia, percepita come un’occupazione dai civili – con leader politici locali arrestati, giornalisti e media silenziati, attivisti perseguitati e incarcerati e diffuse violazioni dei diritti umani, come dimostrano diversi rapporti e inchieste indipendenti. Al lockdown militare e digitale – il più lungo mai imposto in una democrazia – ha poi fatto seguito quello per il coronavirus.
Un tempio al posto della moschea
Poi, a novembre 2019 è arrivata un’importante sentenza della Corte suprema su un’annosa disputa legale: quella riguardante il caso di Ayodhya. La Corte ha dato il via libera alla costruzione del tempio di Rama sulle rovine della moschea di Babur, distrutta nel ‘92 dagli estremisti di destra, avallando il fanatismo hindu.
Infine, l’emendamento alla legge sulla cittadinanza del dicembre del 2019 ha concesso alle minoranze provenienti da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan che risiedono in India – tranne quella musulmana – di avere accesso preferenziale alle procedure per la naturalizzazione.
Tutto sembra andare nella direzione dell’Hindu Rashtra, la nazione a trazione hindu anelata dal Rashtriya Swayamsevak Sangh (l’organizzazione paramilitare volontaria della destra hindu apertamente ispirata al fascismo cui era appartenuto anche l’assassino del Mahatma Gandhi), in cui non c’è spazio per le minoranze, soprattutto per i musulmani, che in India sono 200 milioni, il 14,2% della popolazione.
Frattura insanabile
Negli anni ’90, la destra hindu aveva conquistato sempre maggior peso nel panorama politico indiano. Le organizzazioni della Sangh Parivar, la cosiddetta «famiglia» – la destra hindu militante e sciovinista -, credono nella superiorità degli hindu (l’80% della popolazione) sulle altre comunità religiose, e guardano a quella musulmana come a una minaccia, alimentando un senso di insicurezza utile per mobilitare le masse.
Gli scontri settari – come quelli che avevano accompagnato la partizione dell’India britannica e l’enorme migrazione delle minoranze religiose oltre l’allora neonato confine – non sono una novità in India, ma ad Ayodhya, una polverosa cittadina nello stato dell’Uttar Pradesh, nel 1992, con la distruzione della moschea costruita nel XVI secolo dalla dinastia moghul, e i successivi massacri compiuti dagli estremisti hindu che hanno portato a migliaia di morti, si è consumata una delle pagine più buie della storia dell’India repubblicana. Tutt’oggi una frattura insanabile tra hindu e musulmani.
La carovana dei fanatici
In quegli anni, il Ram Yath Ratra, il movimento capeggiato dalle organizzazioni della destra hindu, sostenute da Lal Krishna Advani, tra i fondatori del Bjp e allora presidente del partito, mirava alla costruzione del tempio del dio Rama ad Ayodhya.
Gli hindu reclamavano la terra dove sorgeva la moschea di Babur del XVI secolo, perché considerata il luogo natale del dio hindu e perché, a detta loro, il luogo di culto musulmano era costruito sulle rovine del preesistente tempio hindu dedicato, appunto, a Rama.
Il movimento aveva organizzato un pellegrinaggio di kar sevaks, i volontari della causa hindu: una carovana di fanatici che raccoglieva adepti e seminava violenze al suo passaggio, tanto che Advani era stato arrestato infiammando ancora di più i suoi sostenitori.
Quando i militanti avevano raggiunto Ayodhya, nel dicembre del 1992, il comizio ai piedi della moschea era stato solo il preludio dell’azione: arrampicati sulle cupole, armati di mazze e picconi, gli estremisti avevano buttato giù l’edificio sotto gli occhi della polizia. La demolizione della Babri Masjid aveva poi innescato un’ondata di scontri tra hindu e musulmani che avevano portato ad almeno duemila morti. La recente sentenza del 2019 ha chiuso il cerchio: concedendo agli hindu quel terreno e dando il via libera alla costruzione del tempio, ha legittimato di fatto il fanatismo hindu.
Modi e il pogrom del Gujarat
Quando nel 2014 l’India ha messo il suo futuro nelle mani di Modi, che prometteva di essere l’uomo del cambiamento, in molti hanno chiuso un occhio sul suo passato: lui, «figlio di un umile venditore di tè», fin da ragazzo aveva militato nel Rss, scalando poi i quadri del Bjp fino a diventare il governatore dello stato del Gujarat ai tempi del pogrom antimusulmano che nel 2002 ha insanguinato lo stato Nord occidentale, facendo oltre duemila morti, quasi tutti musulmani.
I Gujarat riots avrebbero scosso profondamente l’opinione pubblica mondiale. La scintilla che aveva innescato le violenze era stata l’incendio di un treno carico di militanti della causa hindu che stava rientrando proprio da Ayodhya, dove si era tenuto un raduno per la costruzione del tempio di Rama. L’incidente del treno – le cui reali cause non sono mai state appurate – aveva scatenato la furia dei fanatici hindu che hanno messo a ferro e fuoco lo stato in tre giorni di violenze mirate: un vero e proprio pogrom, avallato dalla polizia e dalle autorità politiche dello stato. Modi, accusato di non aver fermato le violenze, sarebbe stato poi prosciolto.
Un personaggio così polarizzante e controverso a capo dell’esecutivo, forte di una legittimazione enorme, in soli sei anni di governo si è reso artefice di un preoccupante declino delle istituzioni e dei valori democratici e costituzionali che sta facendo dell’India un paese molto diverso da quello che abbiamo finora conosciuto e raccontato.
Maria Tavernini*
* Giornalista indipendente, ha vissuto per diversi anni in India, di cui scrive per «Altreconomia», «TRT World», «Reset Doc», «Q Code Magazine», «Osservatorio Diritti», tra gli altri, occupandosi di tematiche sociali, diritti umani, questioni di genere e ambientali, nel quadro dei più ampi cambiamenti politico sociali. Nel 2021 ha pubblicato il libro No going back, Prospero editore.
L’Uruguay, un «cuscinetto» tra Brasile e Argentina
Una scelta di laicità
Si dice che gli uruguaiani discendano dai migranti, soprattutto gli spagnoli e gli italiani, che arrivarono nell’Ottocento. È un dato di fatto, però parziale. I Guaraní e gli altri popoli indigeni sono scomparsi da tempo, ma hanno lasciato la loro impronta. Reportage dal paese più laico dell’America Latina.
Montevideo. L’Uruguay è la parentesi tranquilla tra i giganti Brasile e Argentina. È il paese più ricco (assieme al Cile) e più laico dell’America Latina, con i partiti politici più vecchi del mondo, il Partido blanco e il Partido colorado. Rinomata la sua stabilità in una regione caratterizzata da grandi passioni e grandi delusioni, «siamo argentini col valium», sentenziò Eduardo Galeano, scrittore uruguaiano di fama internazionale. Nel Novecento, era la «Svizzera d’America Latina», «un paese piccolo e felice, con istituzioni sociali esemplari» secondo Albert Einstein che lo visitò nel 1925, quando era già presente il divorzio, il divieto del lavoro minorile, i permessi di maternità e le pensioni di invalidità.
È curiosa la storia di questo paesito, come lo chiamano affettuosamente i suoi abitanti, esteso come mezza Italia, ma con meno degli abitanti della Toscana (3,5 milioni contro 3,7), metà dei quali concentrati nella capitale, Montevideo.
«Il nostro padre fondatore, José Artigas, a inizio Ottocento non lottava per l’Uruguay indipendente, ma sognava una federazione delle province del Rio de La Plata, una patria grande. Anche culturalmente non c’erano ragioni perché nascesse uno stato qui, siamo molto simili agli argentini. La storia andò diversamente: la diplomazia inglese sostenne la nascita di uno stato cuscinetto tra l’impero spagnolo e quello portoghese, tra Argentina e Brasile, in una zona chiave per la navigazione dei fiumi che portano al cuore dell’America Latina», spiega a MC Luis Bertola, storico economico presso la Universidad de la República dell’Uruguay.
Un paese di soli immigrati?
«I messicani discendono dai Maya, i peruviani dagli Incas, gli uruguaiani discendono dalle navi», recita un detto nazionale. Nel 1860, un terzo della popolazione era composto da migranti. E sono loro, soprattutto spagnoli e italiani, arrivati a fine Ottocento, che hanno fatto il paese. Letteralmente hanno costruito l’Uruguay, e soprattutto la sua capitale cosmopolita, Montevideo: i suoi palazzi liberty, il porto, i sindacati, le squadre di calcio, le imprese. E hanno cambiato i gusti e affermato le mode: a inizio Novecento circolano automobili Fiat, si beve vino spagnolo e Fernet di Milano. E ancora oggi, nella cucina si riconosce quell’impronta: si può mangiare una torta pascualina, torta salata di bieta secondo la ricetta ligure, o una milanesa napolitana, un incontro tra una cotoletta e una pizza.
Bertola però avverte «la storia dei migranti che arrivano con le navi a fondare l’Uruguay è un po’ un mito. Com’è un mito che tutta la popolazione indigena, i Guaraní, sia stata sterminata dagli spagnoli, che serve a rafforzare l’idea che siamo purosangue “europei”. Gli studi genetici dicono che il 30% della popolazione attuale è di discendenza indigena. Pensate al calciatore Edison Cavani, che ha giocato in Italia, a Palermo e Napoli: i tratti del suo viso sono indigeni. Esiste ancora oggi una segregazione, un’esclusione per origine, che passa anche dal discorso storico prevalente», afferma Bertola, che ha dedicato parte dei suoi studi alle origini della popolazione per spiegare la storia economica dei paesi latinoamericani.
Garibaldi e i colorados
È certo però che la relazione tra migrazione e Uruguay è inscindibile, come mostra la storia di un italiano: Giuseppe Garibaldi. Il quale visse circa un decennio, negli anni ’40 dell’Ottocento, a Montevideo, a stretto contatto con la grande comunità italiana. Per sostenere la famiglia si impegnò nei lavori più disparati, fu anche insegnante di matematica. Fondò la Legione italiana, impegnata nell’attività rivoluzionaria e militare a favore del giovane stato uruguaiano. La Legione, oltre che per il coraggio in battaglia, si caratterizzava per un particolare: le camicie rosse. L’origine dell’indumento simbolo delle cause patriottiche, sembra si debba più che altro alla necessità: una spedizione di stoffa rossa destinata agli operai di Montevideo che il generale italiano acquistò a basso costo per vestire i suoi soldati. È in Sud America, tra Brasile e Uruguay, che Garibaldi maturò il polso di comandante carismatico e affinò la tattica della guerriglia poi utilizzata nel Risorgimento italiano. Ed è lì che «l’eroe dei due mondi» crebbe nel suo amore per la libertà: nelle sue memorie racconta come lo affascinassero le immense praterie della Pampa e il modo di vivere libero e indipendente dei suoi abitanti, i gauchos.
La storia del paese si è sviluppata nella relazione, spesso conflittuale, tra Montevideo e l’interior, tra la metropoli e la campagna. È un paese «macrocefalo», afferma Bertola, «con una capitale sproporzionata, per dimensioni e rilevanza, rispetto al resto. Già nell’Ottocento, l’urbanizzazione cresceva rapidamente, poca gente era impiegata nell’agricoltura e nell’allevamento, la maggior parte lavorava nei servizi e nel settore terziario. Abbiamo avuto grandi classi medie prima di avere una grande classe operaia», così Bertola spiega la nascita di una società liberale e moderna per l’epoca. L’espressione politica di queste classi medie, in particolare della borghesia commerciale, era il Partido colorado, mentre il Partido blanco, più conservatore, era il riferimento degli interessi rurali dell’interior. Si tratta di due partiti dell’establishment, ma sono formazioni pigliatutto, alternatesi al potere ininterrottamente dal 1828 fino al 2004, con la parentesi della dittatura militare 1973-1988. Il conflitto tra i due partiti ha diviso a lungo la società. Ne è un esempio proprio Garibaldi, considerato un eroe dai colorados, per le sue vittorie nella Guerra grande (1839-1851), una guerra civile e internazionale, che ha visto blancos e colorados schierati sui fronti opposti. Garibaldi era schierato con i colorados, che ancora oggi espongono un suo ritratto nella loro sede e gli hanno dedicato una statua sulla rambla del porto della capitale.
Molto dell’Uruguay odierno lo si capisce attraverso la figura del colorado José Batlle y Ordóñez, presidente della Repubblica nel 1903-1907 e nel 1911-1915, che ha lasciato un’impronta ben più profonda di quella dei suoi due governi. A lui si deve la modernizzazione dello stato, i diritti dei lavoratori, dei minori, delle donne, la divisione tra stato e chiesa. La sua eredità, il «battlsimo» (ci si riferisce così all’ala sinistra dei colorados, e ad una tendenza socialdemocratica o anche di sinistra anticlericale) ha marcato a fondo cultura e politica del paesito per tutto il Novecento. Ed è da questa tendenza che sorge il Frente amplio, una coalizione di partiti che, nel 2004, romperà il secolare monopolio blancos-colorados.
I cinquant’anni del Frente amplio
Il Frente amplio (Fa), di cui quest’anno si celebrano i cinquant’anni di storia, è un pezzo del mosaico delle stranezze del paesito. Un movimento di partiti di sinistra di ogni tendenza, dai democristiani agli ex guerriglieri tupamaro, è anche un modo di essere, un’identità per gli uruguaiani. In una società altamente politicizzata, dove il voto è obbligatorio, è comune che le persone dichiarino la loro adesione politica. E oggi, passeggiando per le strade della capitale, è frequente vedere le bandiere tricolore del Fa ai balconi dei condomini o i murales con slogan e i volti dei suoi leader. «È un piccolo mistero l’esistenza di un soggetto politico così variegato, che unisce culture così diverse. Un po’ si deve al pragmatismo e alla maturità dei dirigenti politici, che hanno sempre messo a valore ciò che li univa, anziché ciò che li divideva. Il Fa, ad esempio, non si è mai definito socialista, benché al suo interno vi siano molti gruppi di tale tendenza. I leader politici hanno fatto concessioni ideologiche a favore dell’unità. L’altra ragione dell’unità è l’origine: il Fa è nato come unione dei militanti di base, con i comitati di quartiere, movimenti cattolici, studenti e operai. C’è una mistica dell’origine, le radici popolari e i movimenti di base, che spinge molti a sentirsi frenteamplisti, prima che a identificarsi con uno dei suoi molti partiti. Gli elettori cambiano il loro voto tra i partiti del Fa, ma restano leali al Fa. I partiti lo sanno e restano leali al patto di unità», spiega Bertola. Il Frente amplio è stato al governo per quindici anni, dal 2005 al 2020, cambiando profondamente il paese. Nel quindicennio, si sono alternate due figure, fondamentali nella storia del paese: José «Pepe» Mujica e Tabaré Vázquez.
Pepe Mujica, la semplicità al potere
José Mujica, «el Pepe» come lo chiamano nel Rio de La Plata, è un leader affascinante e sobrio, sopravvissuto alle torture della dittatura, che lo chiuse in un pozzo per dodici anni, come racconta il film La noche de 12 años. Mujica, che di recente ha abbandonato la politica attiva, è uno degli esponenti tupamaro, il movimento di sinistra rivoluzionaria che ha dato vita ad azioni di guerriglia urbana tra metà anni ’60 e inizio anni ’70. I tupamaro si fecero conoscere con iniziative contro la corruzione e per la giustizia sociale, come il furto di un carico di alimenti di proprietà di una grande impresa poi distribuito agli abitanti di un quartiere povero. I «Robin Hood della guerriglia», come li definì il New York Times, godevano dell’appoggio di una parte importante della popolazione. È grazie a questo appoggio, ad esempio, che nel 1971, centoundici tupamaro, tra cui lo stesso Mujica, scapparono dal carcere di Punta Carretas, realizzando l’evasione di detenuti politici più grande della storia. Nei primi due anni di dittatura l’organizzazione fu sostanzialmente smantellata, i leader arrestati, uccisi o in esilio. La dittatura nel paese fu una notte lunga dodici anni, durante i quali, scrive Galeano, «Libertà è stato solo il nome di una piazza e di un carcere. In quel carcere, tutti erano prigionieri, eccetto i secondini e gli esuli. C’erano tre milioni di detenuti, benché sembrasse fossero solo qualche migliaio. Capucci invisibili coprirono gli uruguaiani, condannati all’isolamento e al silenzio, benché non vivessero la tortura. Paura e silenzio furono le regole della vita quotidiana. La dittatura, nemica di tutto ciò che cresce e si muove, ricoprì di cemento i prati delle piazze e tagliò tutti gli alberi che poté».
Con il ritorno alla democrazia, gli ex tupamaro, deposte le armi, hanno accettato la sfida elettorale e si sono riuniti in quello che oggi è il primo partito del Fa per consensi: il Movimiento de participación popular (Mpp).
Nella politica del Mpp ai tempi della democrazia, c’è un elemento di fondo che fa rumore: una relazione di vicinanza e rispetto con i militari. Proprio con gli esponenti dell’armata responsabile delle torture e della repressione nei tempi della dittatura, Mujica e i suoi tengono aperto un dialogo. Le interpretazioni di questa relazione – apparentemente una «sindrome di Stoccolma» per la quale i torturati si innamorano dei torturatori – sono le più disparate, da quella cospirativa (un accordo siglato ai tempi della dittatura, benché non vi siano prove né evidenze), alla vicinanza di idee, «la comunione del ferro», tra ex combattenti. Quel che è certo è che, una volta arrivati al governo, gli ex guerriglieri hanno optato per il ministero della Difesa, con Fernández Huidobro, «el Ñato», anche lui sopravvissuto a un decennio di carcere in isolamento. Mujica ha raccontato di un pranzo con «i pezzi grossi dell’armata, generali, colonnelli, militari fascisti, c’era di tutto» finalizzato a creare un clima di cordialità. E ancora oggi Mujica tiene aperto il dialogo con Guido Manini, ex generale, ora leader di Cabildo Abierto, partito di estrema destra attualmente al governo. Qualunque sia l’origine e la natura di questa curiosa relazione, è una delle tante stranezze di un paesito solo apparentemente tranquillo.
Il successo elettorale del Mpp si deve «soprattutto alla figura di Mujica», afferma Bertola, che da studente fu un attivista tupamaro.
Eletto presidente nel 2009, Mujica promuove politiche sociali ed economiche di successo, con la riduzione di disoccupazione e povertà, e legalizza l’aborto e il consumo della cannabis. Ma il consenso popolare è probabilmente più legato al suo modo di essere, di interpretare il suo ruolo pubblico, lontano dagli schemi tradizionali, anche per gli standard della sinistra latinoamericana. Nel 2014, a un giornalista spagnolo stupito nello scoprire come il presidente dell’Uruguay viva in una casa di due stanze, Mujica semplicemente risponde: «Il vantaggio di avere una casa così piccola è che tra me e mia moglie spazziamo e riordiniamo tutto in un lampo».
Tabaré Vazquez, il medico riformatore
Prima e dopo Mujica, presidente è un uomo la cui storia racconta molto dell’anima dell’Uruguay: Tabaré Vazquez. Il Frente vince le elezioni del 2004 e arriva per la prima volta al governo nazionale con quest’uomo, un medico socialista figlio dell’Uruguay popolare, nato nel 1940 nel quartiere operaio La Teja. Tabaré Vazquez cresce in una casa con le pietre sul tetto per non farlo volare via quando c’è vento forte, gioca come portiere nei campetti di terra battuta. All’università sceglie medicina e, nel frattempo, si innamora di Maria Auxiliadora Delgado, con la quale resterà unito tutta la vita. Siamo a metà degli anni ’70. L’Uruguay, come tutto il Cono Sur, vive la dittatura militare, i morti e gli scomparsi caduti nella rete di repressione della polizia politica.
La vita di Tabaré si divide tra la famiglia, l’impegno sociale e il mestiere di medico. Si specializza in oncologia, perché «ho perso i miei genitori e mia sorella per il cancro. Ho un nemico e lo voglio combattere», e diventa uno degli specialisti più importanti della regione.
Nel 1979 diviene presidente del Club Progresso, la piccola squadra di calcio de La Teja. Tabaré usa il calcio per promuovere attività sociali nel quartiere e porta la squadra alla consacrazione. Nel 1989, il Progresso vince lo scudetto e gioca la Coppa libertadores, la Champions league latino-americana.
In quell’anno ci sono le elezioni a sindaco di Montevideo e il Frente amplio cerca una figura fuori dagli schemi. Scelgono lui. Tabaré presenta un programma di proposte concrete e lo slogan è «consideralo fatto». Va in giro a piedi. Nelle assemblee è lui che passa il microfono per ascoltare più che per parlare. La politica, dice, è come la medicina: «Bisogna ascoltare chi vive un problema poiché spesso ne conosce la soluzione, come il malato conosce la sua malattia». Vince e diventa il primo sindaco di sinistra della capitale, è la prima vittoria nella storia del Frente amplio. Mantiene le promesse e raggiunge livelli di consenso altissimi, smentisce la leggenda nera per cui il ruolo di sindaco di Montevideo è una tomba per la carriera politica. E la sua carriera fa un balzo: nel 1994 è candidato del Frente amplio a presidente della Repubblica. Perde, ma il Fa diventa un attore politico alla pari dei partiti storici. Tabaré comincia a modellare la coalizione sulla sua idea di riformismo pragmatico.
Il suo riferimento era Salvador Allende, anche lui medico, socialista e massone. «Da lui, possiamo apprendere molto. Anche gli errori da non ripetere», diceva riferendosi al presidente cileno eletto democraticamente e poi rovesciato da un golpe sostenuto dagli Stati Uniti.
Quando si va alle elezioni presidenziali del 2004, il paese non si è ancora rialzato dalla crisi bancaria del 2002, trasformatasi nella peggiore crisi economica della sua storia, spingendo due persone su cinque in povertà. Tabaré come candidato del Fa deve scontrarsi con la propaganda della destra: «Con la sinistra arriveranno povertà e conflitti sociali, le istituzioni saranno distrutte, finiremo come Cuba». Lui non è certo un estremista, ma questa retorica ha sempre funzionato in Uruguay.
Stavolta però l’aria è diversa, lo si capisce nella chiusura della campagna elettorale a Montevideo, un immenso fiume di persone riempie l’Avenida del Libertador, mentre suona «Todo cambia» di Mercedes Sosa. Il Frente amplio vince e finisce il bipolarismo che durava dal 1828.
Dopo 15 anni, tornano i conservatori
Comincia un’azione di governo su due assi. Primo: verità e giustizia per i crimini della dittatura militare. E poi le riforme: immediato sostegno ai poveri. Tabaré risponde alle critiche: «C’è chi dice che i poveri useranno il denaro del piano di Emergenza per comprarsi il vino. E io chiedo: perché i poveri non possono bersi un vino?». La gestione dell’economia è sapiente, viene approvata una riforma fiscale in senso progressivo, i conti tornano in ordine e il paese riparte. Nasce poi il Sistema di salute universale, la legge sul lavoro domestico, l’Agenzia per l’innovazione e la ricerca, gli investimenti sulla digitalizzazione. Ma la riforma che tutti ricordano è il Plan Ceibal: un computer per tutti i bambini. Molti, durante la pandemia di Coronavirus e la quarantena, hanno ricordato il primo governo del Fa, la salute pubblica e l’educazione digitale grazie alle quali il paese ha reagito bene al Covid-19. La critica principale al suo primo governo è il veto presidenziale posto alla legge pro-aborto, già votata dal Parlamento, che lo porterà a dimettersi dal Partito socialista (componente del Frente).
Con il secondo governo Tabaré, tra il 2015 e il 2020, viene estesa la copertura pubblica per le cure ad anziani, bambini, disabili; si decreta l’educazione come bene essenziale; col Plan Ceibal arriva un tablet a tutti gli anziani. Secondo la Confederazione sindacale internazionale, l’Uruguay diventa il paese più avanzato nelle Americhe, da Nord a Sud, per rispetto dei «diritti del lavoro, della libertà di associazione, della contrattazione collettiva e dello sciopero».
Nel 2019 muore la moglie e quello stesso giorno Tabaré annuncia che sta lottando contro un cancro al polmone. Una beffa: l’uomo colpito dal male che ha studiato da medico e combattuto da presidente, con le sue leggi antifumo. A fine anno, il Partido blanco – grazie a una vittoria risicata – torna al governo. Cala il sipario sul lungo quindicennio del Fa, senza una polemica né un ricorso da parte degli sconfitti. La transizione è esemplare: un altro dei falsi miti sulla sinistra rotti da Tabaré.
Tabaré muore il 6 dicembre 2020, a ottant’anni. Il governo dichiara tre giorni di lutto nazionale, le strade si riempiono di persone emozionate, fiori e messaggi. Uno dice: «Una maestra, grata di aver vissuto mentre eri presidente». La sua figura è la personificazione della saga della sinistra uruguaiana, una storia di molte sconfitte ma che alla fine trova la strada per la vittoria, assicurando stabilità democratica, crescita con uguaglianza e redistribuzione del potere. Un ciclo lungo 15 anni, conclusosi con la morte di Tabaré e il ritiro dalla vita pubblica di Pepe Mujica. Oggi il Frente amplio cerca nuove strade.
Federico Nastasi
Uruguay
Forma di governo: Repubblica presidenziale.
Presidente: dal 1 marzo 2020, Luis Alberto Lacalle Pou (Partido blanco, di centro destra).
Superficie: 176mila km² (circa metà dell’Italia).
Abitanti: 3,4 milioni (circa 40% sono di origine italiana).
Popoli indigeni: sono quasi estinti come popoli autonomi.
Città principali: Montevideo (capitale con 1,9 milioni di abitanti), Salto, Punta del Este (principale centro turistico), Colonia del Sacramento (città storica).
Religioni principali: 58% cristiani (42% cattolici, 16% protestanti); 17% credenti senza affiliazione; 16% atei; 5% agnostici; 5% altre religioni.
Economia: agricoltura (soia) e allevamento (bovino e ovino); Pil pro capite 22.400 Usd (secondo paese dell’America Latina dopo il Cile).
Vaccino anti-Covid principale: Sinovac.
La Chiesa cattolica
Piccola (eppure presente)
Meno della metà della popolazione si dichiara cattolica. Eppure, il cattolicesimo è componente essenziale della cultura nazionale. I cattolici sono tra i conservatori, ma anche nel Fronte ampio. E c’erano tra i tupamaros.
Il 25 dicembre in Uruguay si festeggia il giorno della famiglia, la Settimana santa è la settimana del turismo. «La chiesa cattolica è piccola e povera. E un prete che cammina per strada attira l’attenzione», spiega Eduardo Murias, ex seminarista, funzionario pubblico e «fervente cattolico». Nel paesito, meno della metà della popolazione si dichiara cattolica, un unicum in un’America Latina dove il cattolicesimo è sempre stato molto diffuso.
«La nascita dell’Uruguay non è frutto dell’evangelizzazione dei popoli indigeni, come in altri paesi della regione. I migranti arrivati dall’Europa erano liberali, socialisti e anarchici, riuniti in logge massoniche anticlericali. E inoltre, con la separazione chiesa-stato iniziata a metà Ottocento, presto la religione divenne un fatto privato e i poteri pubblici pienamente laici. Il presidente José Batlle y Ordóñez canalizzò il liberalismo radicale delle classi medie urbane e accelerò la laicizzazione dello stato», spiega a MC Juan Pablo Martí, professore di storia economica della Universidad de la Republica, e «cattolico poco praticante, aderente alla Comunidad de Vida Cristiana dei gesuiti». «Qui, essere sacerdote non eleva a nessuno status particolare. Ricordo quando dissi alla mia famiglia e agli amici che volevo essere sacerdote: “Che peccato, che spreco”, mi dissero. Nessuno mi incoraggiò, sembrava una scelta senza senso», racconta Murias, che ha abbandonato il seminario, ma non la fede.
All’opposizione della dittatura
Nonostante queste premesse, il cattolicesimo è una delle principali componenti della cultura nazionale. «L’azione pubblica tra fine ‘800 e inizio ‘900 nasceva dall’impulso dei cattolici: si pensi alle società di mutuo soccorso; alle cooperative di risparmio, alle casse popolari, ai sindacati di lavoratori cristiani», spiega Martí. «E anche se l’educazione del mio paese è assolutamente laica, storicamente, le scuole delle congregazioni gesuite e domenicane sono state fondamentali, molti presidenti passarono da quelle aule», afferma lo storico.
Politicamente, non vi è un partito cattolico di riferimento, vi sono settori cattolici nei partiti tradizionali, nel partito conservatore blanco soprattutto. Ma anche tra i colorados e il Frente amplio, nato nel 1971 grazie al contributo della Democrazia cristiana e della gioventù cattolica di sinistra. E anche tra i guerriglieri tupamaro c’erano cattolici.
Durante la dittatura, la Chiesa divenne uno spazio di militanza e mobilitazione sociale contro il regime, grazie all’impegno del clero e dei fedeli. A differenza dell’Argentina, qui le gerarchie non supportarono i militari: l’arcivescovo Carlos Parteli di Montevideo fu – discreto ma inarrestabile – una spina nel fianco della dittatura. Marcelo Mendiharat, vescovo della diocesi di Salto, fu perseguitato e se ne andò in Argentina, altri sacerdoti furono perseguitati come oppositori alla dittatura. Le parrocchie aprirono le porte agli incontri politici, in un’epoca in cui sindacati e partiti erano vietati. Fu in quei saloni che crebbe una parte della classe dirigente del Frente amplio. «Un quarto dei deputati del Fa sono cristiani, alcuni cattolici altri evangelici. Si riconoscono come militanti cristiani. Javier Miranda, presidente del Fa, figlio di un comunista desaparecido, è cresciuto in un collegio gesuita e spesso afferma che la sua militanza si deve alla sua formazione religiosa», spiega Martí.
«Durante i cacerolazos contro la dittatura, le chiese facevano suonare le campane a sostegno della protesta. Nel 1983, nel salone della chiesa Los Capuchinos San Antonio y Santa Clara, nel centro di Montevideo, si tenne uno sciopero della fame per la scarcerazione di Adolfo Wassen, dirigente tupamaro affetto da un cancro mortale, perché potesse passare in casa gli ultimi giorni della battaglia contro la malattia», mi racconta Martin, maestro di yoga e cattolico.
Pro o contro Francesco
Il rinnovamento della Chiesa con il Concilio Vaticano II (1962-1965) trovò terreno fertile in Uruguay, dove già da inizio Novecento si anticipavano alcune delle conclusioni del Concilio, in particolare l’idea di una «Chiesa vicina ai bisognosi e lontana dal potere». Spiega Martì: «Negli anni Sessanta, la gioventù cattolica, l’Azione Cattolica in particolare, era molto attiva nel sociale ed era molto progressista, il Concilio formalizzò questo impegno». E, all’epoca, non mancavano i preti operai «come il mio, nel quartiere la Blanqueda, che lavorava in fabbrica perché non voleva essere mantenuto dalla Chiesa», ricorda Martin.
Quella che si conosce come teologia della liberazione, in Uruguay ha diversi esponenti, tutt’ora in gran forza. E genera diffidenza verso chi, come Eduardo Murias, vive la fede in maniera diversa. Un punto di dissidio tra i fedeli è la figura di Francesco. Il papa argentino qui divide: «A volte lo chiamo Bergoglio, non Francesco, mi viene difficile riconoscerlo come papa. Non lo critico, ma le sue posizioni teologiche mi generano confusione, non danno certezze a noi fedeli. E la Chiesa dev’essere di tutti, la sua figura ha diviso più che unire. In Argentina lo accusano di essere peronista, a me non interessa la politica, mi chiedo però perché stia cambiando le nostre tradizioni liturgiche», si anima Eduardo e aggiunge: «La Chiesa è di tutti. Io vengo dalla tradizionale spiritualista, ma ho fatto molte azioni per i più deboli. Non voglio vivere in una Chiesa di soli seguaci della teologia della liberazione. Per me la fede è azione e preghiera insieme».
A Murias piacerebbe una Chiesa meno legata al prete e con più attivismo dei fedeli, «come dice Francesco», afferma, dopo aver chiarito le sue critiche al papa. «Durante la pandemia, ho fatto molto volontariato e la gente l’ha apprezzato, adesso alcuni vengono in chiesa con me. Per superare la diffidenza verso il cattolicesimo, bisognerà sviluppare di più l’impegno dei fedeli e non aspettare le iniziative del prete. Ci sono pochi movimenti di base, bisognerebbe rafforzarli». E bisognerebbe «sanzionare con forza i preti che commettono violenze sessuali, non solo cambiarli di parrocchia», continua Eduardo, riferendosi ai recenti scandali che hanno riguardato abusi sui minori nella chiesa di Minas. «Siamo una iglesia chica e molte cose si sanno prima che scoppino gli scandali, la vox populi corre più della giustizia ordinaria. La nostra è una Chiesa apatica che non ha preso le dovute misure in tempo», critica Eduardo. Bisognerebbe «dare ai preti la formazione adatta sul voto del celibato. Ricordo che quando ero in seminario, un prete spagnolo ci disse che quando incrociavamo una bella ragazza per strada, dovevamo cambiare marciapiede. Ma non si può scappare tutta la vita», conclude Eduardo.
Federico Nastasi
La comunità armena
Uruguay, un paese accogliente
«Sono armena», mi dice con il suo spagnolo rioplatense Silvana, una libraia della Ciudad Vieja di Montevideo. Silvana, benché sia nata in Uruguay, non parli armeno e non abbia mai messo piede in Armenia, ci tiene alla sua identità. E come lei ci sono circa quindicimila armeni nel paesito, grati all’Uruguay per essere stato il primo paese al mondo ad avere riconosciuto il «Medz Yeghern», il genocidio armeno, con una legge nel 1965.
Tra il 1915 e il 1916, l’Impero ottomano, guidato dal governo dei «Giovani Turchi», pianificò e realizzò la deportazione della popolazione armena dal proprio territorio, autorizzata con la legge Tehcir del 29 maggio 1915, provocando la morte di un milione e mezzo di armeni. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 a Costantinopoli, con un’operazione che decapitò l’intellighenzia armena, più di mille tra giornalisti, scrittori, poeti, delegati al parlamento, furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada. Nelle marce della morte, che coinvolsero 1,2 milioni di persone, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento. I maschi delle famiglie, adulti e bambini, vennero trucidati, e le donne trascinate attraverso atroci marce forzate e campi di prigionia.
Malgrado l’esodo e le prove fotografiche che testimoniano l’accaduto, la Turchia non riconosce quello che molti storici definiscono il primo genocidio moderno, basato sulla programmazione «scientifica» dello sterminio.
Nel 2016, in occasione del centenario del genocidio, papa Francesco ha visitato l’Armenia, condannando il genocidio e ha pregato per evitare che questa tragedia possa ripetersi. Durante la visita a Erevan, ha sottolineato come la memoria possa essere «fonte di pace» per portare i due paesi sulla strada della riconciliazione.
Il paese che chiedeva migranti
«Negli anni ‘20 e ‘30, l’Uruguay faceva propaganda pro immigrazione: arrivarono italiani, spagnoli, e anche sette-ottomila armeni. Partivano dal Libano, dalla Francia o dalla Siria. Erano cresciuti negli orfanotrofi, poiché il genocidio si era già perpetrato. «Erano smarriti, non avevano idea di dove fossero arrivati, non avevano niente in mano», spiega a MC Diego Karamanukian, intellettuale della comunità armena di Montevideo, che parla un perfetto armeno e dirige Radio Arax, programma radiofonico di cultura armena.
Com’è possibile che dopo un secolo dal genocidio, quattro generazioni e 13mila chilometri di distanza dal luogo degli avvenimenti, l’identità armena sia ancora così forte sulla sponda nord del Rio de La Plata? «Sono cresciuto con i racconti di terrore di mia nonna, che è stata serva di una famiglia turca. Arrivò qui non per cercare lavoro, ma per non farsi ammazzare. Curare questa identità è una reazione al genocidio e al negazionismo che dura tutt’ora», spiega Daniel Manuelian. Lui e Diego sono dirigenti di Hnchakian, il partito socialdemocratico armeno presente in molti paesi, tra cui Libano, Usa e anche Uruguay. Per questa intervista, ci ricevono a Casa Armenia, un bell’edificio con giardino nel quartiere residenziale del Prado, nella parte Ovest di Montevideo. È sede del partito, luogo di cultura, sport e feste.
«È incredibile pensare come un gruppo di persone, arrivate coperte solo di stracci, in poco tempo non solo trovò lavoro e mise su famiglia, ma organizzò la comunità, fondò scuole, chiese, associazioni, giornali, radio, cori, festival musicali. Così curarono l’identità perseguitata dall’Impero ottomano, la misero in salvo dall’oblio», ragiona con orgoglio Diego, descrivendo l’attività dei primi armeni di Uruguay. «Sono arrivati sapendo che non c’era un biglietto di ritorno, hanno costruito qui la patria che avevano perso. Si sono riuniti attorno al centro di Montevideo, dove c’erano le industrie. E forse c’è anche una ragione geografica e nostalgica: andarono lì perché cercavano le montagne del loro paese», continua Diego. I primi arrivati, all’inizio, lavoravano come operai, in attività che non richiedevano la conoscenza dello spagnolo. Poi, si dedicarono ai piccoli commerci e alle botteghe, agli almacenes. Nei vecchi edifici nella parte occidentale della città, ci sono ancora insegne in spagnolo e armeno. L’ex presidente Tabaré Vazquez raccontava che nel suo quartiere, La Teja, la sua famiglia, in un periodo di ristrettezze, aveva ricevuto aiuto e cibo da un commerciante armeno.
«Qui gli armeni si sono fatti volere bene e hanno contribuito alla costruzione del paese. Non ci siamo ghettizzati, al contrario. Prima di tutto siamo armeni, ma siamo uruguaiani: tifiamo Nacional e Peñarol (i due club di calcio più seguiti del paese, ndr), abbiamo visto l’Uruguay due volte campione del mondo. La nostra cucina si è mescolata con quella uruguaiana: qui puoi mangiare un buonissimo lehmeyun (una specie di pizza armena, ndr) con aggiunta di mozzarella locale. Abbiamo ricevuto accoglienza e riconoscimento: a Montevideo si può passeggiare su Rambla Armenia, ci sono monumenti e targhe che ricordano il genocidio, e il 24 aprile è il Giorno della Memoria. Se in Armenia dici che sei uruguaiano, ti si aprono le porte», spiega Diego.
Difendere l’identità armena
«È il negazionismo che mi fa rabbia. Io sono la prova viva del genocidio. Se non ci fosse stato, semplicemente non sarei qui. Me lo ha spiegato uno psicologo: ci teniamo così tanto alla nostra identità perché il nostro è un trauma non riconosciuto», racconta Daniel. Ma oggi l’identità della comunità in Uruguay è a rischio: «Mio figlio non parla l’armeno, non si interessa molto alla storia, non vive il mio stesso trauma. Ma se per strada gli gridano “armeno” si gira. È la quarta generazione, l’identità col tempo si perde», confessa un po’ sconsolato Daniel.
«In Libano, Turchia, Siria, l’identità armena si mantiene attraverso la religione cristiana ortodossa: essere armeni è un modo per non essere musulmani. Qui in Uruguay, un paese così laico, il tema religioso non è conflittuale. Quindi, è più difficile curare l’identità», ragiona Diego. Che prosegue un po’ sconfortato: «La lingua è un problema, è difficile, pochi la parlano e pochissimi la insegnano, non si parla più in famiglia». Ma poi ha un guizzo: «A volte la curiosità risorge. C’è chi segue corsi online di armeno, adesso c’è anche un corso universitario. E poi, con internet, molti seguono le notizie dell’Armenia, come adesso con il conflitto del Nagorno Karabakh. Si sta affievolendo l’identità, ma non scomparirà. L’identità è volontà», conclude con un po’ di speranza.
Federico Nastasi
Il calcio, una religione laica
È celeste il colore della passione
In Uruguay, il calcio è una vera religione laica. Lo gioca chiunque, ovunque, con qualunque clima, a qualunque ora. Anche per questo un paese tanto piccolo ha mietuto successi.
Viaggiando per l’Uruguay, un giorno sono arrivato a Mercedes, un paese sulla riva del Rio Negro, il fiume che fa da frontiera con l’Argentina. Pochi giorni prima, il fiume aveva esondato e rimaneva fango e acqua stagnante sulla sponda, attrezzata con panchine, altalene e (naturalmente) griglie per la carne. Quella volta mi sono incantato a fissare una partita di pallone, zaini per terra a indicare le porte, undici contro undici con l’acqua fino alle caviglie.
Il calcio è la vera religione dell’Uruguay, lo gioca chiunque, ovunque, con qualunque clima, a qualunque ora. Così si spiega come un paese così piccolo abbia vinto due Coppe del mondo (1930 e 1950) e due medaglie dei Giochi Olimpici (1924 e 1928), quattro trofei come le stelle che la Celeste, la nazionale uruguaiana, espone sulla maglia. Dal paesito provengono campioni in ogni epoca, da Juan Alberto Schiaffino – campione del mondo nel 1950 con l’Uruguay e titolare anche della nazionale italiana – a Luis Suarez, centravanti dell’Atletico Madrid e massimo realizzatore con la nazionale. È la Celeste che accende la passione degli uruguaiani, quando finalmente possono vedere tutti insieme i loro campioni, normalmente impegnati nei club europei. Da quindici anni, alla guida della nazionale c’è Óscar Tabárez, detto il Maestro, ex insegnante di scuola e filosofo del pallone. Lui ha costruito un modello di selezione di giovani campioni (El proceso) che ha permesso la crescita costante degli atleti, dalle giovanili, fino all’affermazione in nazionale. Il suo motto, «il cammino è la ricompensa», esemplifica la dedizione e la passione grazie alla quale è diventato l’allenatore di nazionale più longevo del mondo.
Ed è nel paesito che si è giocata la prima edizione della Coppa del mondo, al Estadio Centenario, nel 1930. Oggi lo stadio ospita il Museo del calcio che, insieme ai cimeli delle imprese della Celeste, mostra i numeri della passione: 598 club di calcio per bambini con 60mila aderenti, si giocano duemila partite a settimana, recita un tabellone con malcelato orgoglio.
Di recente, la passione si è diffusa anche tra le donne. Jessica, trentenne funzionaria del ministero della Cultura, mi racconta che da bambina le piaceva giocare a calcio, ma negli anni ’90 non era ben vista una bimba con gli scarpini e dovette rinunciare. Oggi finalmente si possono osservare partite di calcio femminile sulla rambla e l’Uruguay ha ospitato il mondiale under-17 di calcio femminile nel 2018.
Il calcio e la dittatura
Le vicende calcistiche si legano anche alla storia politica del paese. Nel 1980, l’Uruguay ospitò il Mundialito, un torneo a inviti per le sei nazionali vincitrici della Coppa del Mondo. Ad un mese dall’inizio del torneo, il 30 novembre, si svolse un referendum costituzionale, che nelle intenzioni dei militari avrebbe dovuto legittimare il governo dittatoriale di Aparicio Méndez. Il risultato fu sorprendente: la giunta al potere fu sconfitta. La dittatura cercò di evitare che il torneo si trasformasse in un megafono per l’opposizione, provando a strumentalizzarlo a proprio favore, secondo l’esempio di due anni prima offerto dalla giunta militare di Videla con i mondiali argentini. Al Mundialito, l’Uruguay giocò alla grande, superò l’Italia di Bearzot per 2-0, e in finale incontrò il Brasile. Si ripeteva una sfida epica, con lo storico precedente del campionato del mondo 1950, il Maracanazo, che vide la Celeste festeggiare la sua seconda Coppa del mondo, e la Seleção vivere una delle sue peggiori tragedie sportive. Anche al Mundialito, la Celeste uscirà vincitrice per 2-1 contro un Brasile di campioni, guidato da Santana. E la dittatura militare, perso il referendum e fallito il tentativo di strumentalizzazione del torneo, si avviò sul viale del tramonto, sancito con il ritorno della democrazia quattro anni dopo.
Una passione interclassista
Al calcio è dedicato Splendori e miserie del gioco del calcio, uno dei libri più famosi di Eduardo Galeano, nel quale si chiede: «In cosa il calcio rassomiglia a Dio? Nella devozione dei suoi fedeli, nello scetticismo di molti intellettuali».
Nel paesito, a dire il vero, la passione per il pallone è interclassista e negli stadi si mescolano persone di ogni origine. «L’Uruguay è uno di quei paesi dove dovrebbero mettere delle porte di calcio alle frontiere. Al visitatore sarebbe chiaro che quel paese altro non è che un gran campo di football con l’aggiunta di alcune presenze accidentali: alberi, mucche, strade, edifici», ha scritto l’argentino Jorge Valdano. Ripensando alla partita vista sul lungofiume di Mercedes, con la palla che neanche rimbalzava nel prato zuppo d’acqua, credo che Valdano avesse proprio ragione.
Federico Nastasi – dottorando in economia, ricercatore presso il Cepal (Comisión económica para América Latina), giornalista indipendente. Vive in America Latina, tra Montevideo e Santiago del Cile, collaborando con radio, riviste, quotidiani in italiano e spagnolo. Ha raccontato il referendum cileno con la newsletter «Plaza Dignidad – Lettere dal Cile». È alla sua seconda collaborazione con MC dopo il dossier Cile dello scorso marzo.
A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.
Ribelli, mercenari ed eserciti
testo di Marco Bello |
Pare strano che uno dei paesi più poveri dell’Africa sia di tanto interesse per potenze mondiali e continentali. Il conflitto che dura dal 2013 e si sta riattizzando, sotto forme diverse, suscita non pochi interrogativi. La risposta, come sempre, sta nel sottosuolo.
«La gente è demoralizzata. La cosa più brutta è che manca la speranza», ci racconta una nostra fonte da Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, che richiede l’anonimato.
Nel grande paese nel cuore dell’Africa (esteso due volte l’Italia, con 5 milioni di abitanti), senza sbocchi sul mare, negli ultimi mesi da sotto le ceneri di una mai spenta guerra civile, è venuta una fiammata.
Tutto è iniziato a metà dicembre 2020, quando sei gruppi ribelli, attori del conflitto che ha insanguinato il paese tra il 2013 e il 2018, sono tornati allo scoperto uniti sotto il nome di Coalizione dei patrioti per il cambiamento (Cpc) e ha attaccato l’esercito regolare, le Faca (Forze armate centro africane), prendendo il controllo di diverse città. Si dice che siano arrivati a controllare i due terzi del paese. È stata la ripresa della guerra,che, dopo gli accordi di Karthoum del 2019 tra governo e alcune fazioni ribelli, si era placata, lasciando di fatto irrisolti molti problemi.
«Una mossa che in qualche modo ci si aspettava con l’approssimarsi delle elezioni», rivela la nostra fonte. Il 27 dicembre scorso, si è infatti tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali e legislative. Elezioni perturbate appunto dagli attacchi della Coalizione in diverse zone del paese. Il 14 marzo, poi si è svolto il secondo turno delle legislative, ma anche il recupero del primo turno nei seggi dove non era stato possibile votare. Le presidenziali, invece, avevano già dato un risultato al primo turno, con la rielezione del presidente Faustin-Archange Touadéra, in carica da cinque anni, con quasi il 54% dei voti.
La rinascita dei ribelli
Ma chi sono questi ribelli? Come sono organizzati? Chi li arma? E quali sono le altre forze in campo?
Nella Coalizione si assiste a un «matrimonio contro natura», commenta la nostra fonte, in quanto si trovano gli anti Balaka con gli ex Séléka, feroci avversari negli anni 2013-2018. Inoltre a metà marzo la Coalizione ha chiesto al generale François Bozizé, di diventare il suo coordinatore, e lui ha accettato. Bozizé, presidente dal 2003 al 2013, che era stato cacciato dal potere proprio dai Séléka.
La nostra fonte mette in evidenza alcune anomalie dell’attuale ribellione: «I ribelli di oggi sembrano diversi da quelli del periodo precedente. Sono bene armati e organizzati. Non compiono saccheggi efferati come facevano prima. Sembra che ci sia qualche finanziamento dietro. Questo è un primo elemento». Inoltre, continua, «la coalizione nasce contro il presidente Touadéra, però ha disturbato le elezioni in zone del paese dove questi difficilmente avrebbe vinto. Anche questo elemento è strano».
I ribelli, intorno al 20 dicembre, oltre a conquistare diverse città, hanno pure bloccato la Rn3, strada principale che collega Bangui con il Camerun, e quindi con lo sbocco sul mare, il porto di Douala, e il resto del mondo. Tutte le merci principali, compresi i beni di prima necessità, arrivano nel paese attraverso la Rn3, che passa da Bossembélé, Baoro, Bouar. «È il cordone ombelicale del paese, ed è rimasto bloccato due mesi. Così i prezzi in capitale e nel resto del paese sono aumentati», ci racconta padre Federico Trinchero, delegato provinciale dei Carmelitani Scalzi in Rca, raggiunto telefonicamente a Bangui.
Intorno al 13 gennaio i ribelli hanno attaccato Bangui, e sono stati a un passo dal conquistarla. «C’è stato un tentativo, che però non ha convinto nessuno, di prendere la capitale. È sembrata una finta. Erano pochi e male organizzati, al contrario del solito. Un altro elemento quanto meno strano». La nostra fonte sembra quasi ipotizzare degli accordi segreti tra ribelli e presidente.
Nuovi alleati
La mossa del presidente Touadéra, già a dicembre, è stata quella di chiedere aiuto a due alleati fondamentali e insoliti per un paese da sempre «feudo» della Francia: il Rwanda di Paul Kagame e la Russia di Vladimir Putin.
Il Rwanda era già presente nel paese con un contingente nella Minusca (i caschi blu dell’Onu), per la quale, tra l’altro, fornisce il numero più elevato di uomini (1.686, dato di agosto 2020), ma ha prontamente schierato militari sotto i colori nazionali, circa 800 uomini ben armati e addestrati. «Il Rwanda da tempo aveva interesse a estendere la sua zona d’influenza in un paese ricco di oro e diamanti come la Rca», e si sa, il piccolo Rwanda è uno dei maggiori esportatori di minerali e preziosi (oro, coltan, ecc.), sottratti a paesi terzi (in particolare la Repubblica democratica del Congo).
I russi invece sono presenti in Rca con mercenari, o paramilitari, una milizia privata, assimilabile alla Wagner, compagnia militare privata, che avrebbe legami diretti con il ministero della Difesa russo, e che è stata impiegata in Siria e in Ucraina. Ufficialmente, l’ambasciatore Vladimir Titorenko, in un’intervista rilasciata a Radio France internationale, li chiama «istruttori», al servizio del ministero della Difesa russo, che in nessuno caso sono coinvolti in scontri armati. Chi li ha visti in azione dice che sono piccoli gruppi di militari esperti, sui 35-40 anni, che non stanno nelle caserme, ma si mischiano con la gente, occupando delle case vuote, dove stabiliscono le loro basi. Sono ben armati, forniti di risorse economiche, «pieni di dollari», e affiancano le truppe della Faca in operazioni di combattimento. L’ambasciatore conferma un incremento di 300 unità sulle 235 già presenti nel paese e pure quattro elicotteri da combattimento.
Grazie a questi potenti alleati, le Faca hanno potuto respingere i ribelli della Coalizione, riconquistando città dopo città, a partire da fine gennaio. «In effetti i ribelli si sono ritirati mano a mano che gli altri risalivano. Il problema è che non si è fatta pulizia, queste milizie si sono solo spostate», dice la fonte. In questo modo però è stata liberata anche la strada verso il Camerun, il 22 febbraio, e i camion hanno ripreso a circolare.
Ma la gente ha paura, i ribelli sono nelle campagne. «Nella nostra scuola di Baoro, gli alunni sono passati da 1.700 a 800, perché i genitori non vogliono mandarli. L’ospedale nei pressi di Bouar è inattivo, perché il personale e i pazienti non si fidano ad andarci», ci dice padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano a Bouar.
Caschi «blu stinto»
Poi c’è la missione delle Nazioni Unite in Rca (Minusca), presente nel paese dal 2014, una delle tre più grandi missioni Onu al mondo. Oggi può contare su circa 13.200 effettivi (di cui 10.800 militari, gli altri polizia e staff tecnico) e ha recentemente chiesto e ottenuto dal Consiglio di sicurezza un aumento di 3.700 unità. Le loro regole d’ingaggio non prevedono di attaccare il nemico, ma di rendere sicuro il processo elettorale.
La gente li accusa di immobilismo. «I ribelli sanno che i militari Minusca non possono andare oltre un raggio di cinque chilometri dalla loro postazione, per cui mettono il posto di blocco per fermare la gente a sei, e fanno quello che vogliono. Molti pensano che la richiesta di aumento sia una vergogna, perché aumenteranno le spese, ma continueranno a non fare niente».
Le vittime dei recenti scontri sono soprattutto i civili, di cui si contano circa 200mila profughi. La metà sono sfollati interni, secondo l’Ocha (Organizzazione delle Nazioni Unite per il coordinamento umanitario). Circa 105mila si trovano invece in Rdc, Ciad, Camerun e Congo.
Cuori uniti
Il presidente Touadéra non è molto amato dalla popolazione: «In cinque anni non ha fatto granché – dice la nostra fonte -. Adesso è stato rieletto con poco più di 300mila voti, ovvero meno del 20% degli aventi diritto. Questo ci dice che è una presidenza debole e che la situazione non è per nulla stabile, potrebbero esserci recriminazioni».
Anche le legislative non sono state tanto favorevoli al partito del presidente, il Mcu (Movimento cuori uniti) che, pur restando maggioritario, è inseguito da indipendenti e opposizione. Anche il 14 marzo, in diverse zone del paese non si è potuto votare, ma l’Autorità nazionale elettorale ha assicurato che il 96% dei seggi è stato aperto.
Il maggiore concorrente di Touadéra, arrivato secondo alle presidenziali, è Anicet-Georges Dologuélé. È stato rieletto all’Assemblea nazionale, ma non brilla per iniziativa. «Le opposizioni, in particolare Dologuélé, hanno molto deluso. Non hanno reagito in tempo, avrebbero potuto creare delle alleanze, negoziare qualcosa di politico, ma non sono state all’altezza», sostiene la nostra fonte.
Secondo padre Federico: «Al contrario che nel 2013, nei recenti scontri non c’è l’elemento confessionale. Il tentativo di destabilizzare il paese è solo una guerra per il potere, quelli che erano nemici sono diventati alleati, uniti per prendere il potere». E continua: «Abbiamo passato due mesi nei quali la gente era disperata, se ci fosse stato un colpo di stato, saremmo tornati al punto di partenza. Adesso, dopo la controffensiva di regolari e alleati, la gente reagisce e cerca di riprendere le proprie attività».
Marco Bello
Intervista al cardinale Dieudonné Nzapalainga
L’instancabile ricerca della pace
Il giovane cardinale del Centrafrica percorre senza sosta il paese. Spesso con i «colleghi» musulmani e protestanti. Vuole parlare al cuore e alla coscienza. Perché crede fermamente che una uova società si possa costruire. Ma solo con l’impegno e la partecipazione di tutti.
Abbiamo contattato telefonicamente il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, per chiedergli il suo punto di vista sulla ripresa della guerra. Monsignor Nzapalainga è anche un religioso della Congregazione dello Spirito Santo.
Cardinale, quali sono i maggiori problemi della Rca oggi?
«Il problema più importante è il raggiungimento della pace, perché quando c’è insicurezza, i bambini non vanno a scuola, i genitori non possono lavorare nel campo, la gente vive nascosta.
Affinché ci sia la pace occorre che i dirigenti si riuniscano, inizi un dialogo, e chi combatte riprenda a fare il lavoro che faceva prima di pensare che prendendo le armi si può diventare ricchi, distruggendo, saccheggiando. La pace inizia nel cuore di ognuno».
Lei sta percorrendo il paese per incontrare la gente.
«Sono appena rientrato da un’area di campagna, dove ho chiesto alla gente cosa è successo alla loro vita. Mi hanno spiegato dell’arrivo dei ribelli, di cosa hanno fatto, poi dell’arrivo dei regolari. Ho chiesto a tutti come potremmo ripartire, imparando da quanto è successo.
Quando sono andato a Banagassou ho parlato con i ribelli. Li ho incontrati, ho chiesto loro da dove venivano, e perché erano venuti qui e a fare cosa. All’inizio erano nervosi.
Quando si va a cercare la pace occorre farsi piccoli. Io e il mio gruppo abbiamo camminato per due chilometri e mezzo per incontrarli. Poi abbiamo aspettato che ci ricevessero. Hanno sparato in aria, ma io ho detto che se avessimo avuto paura, e fatto dietro front, non avremmo potuto costruire la pace. Forse era il modo per darci il benvenuto. Finalmente ci hanno ricevuto e abbiamo parlato con un generale e alcuni suoi collaboratori. Noi pensiamo che siano il nemico, il diavolo, ma bisogna andare a incontrarli, parlare con loro, alle loro coscienze, mendicare la fraternità e l’abbandono delle armi, affinché tutto torni normale.
Poi ci hanno detto che erano venuti a difendere il paese ed erano pronti a morire per esso. Ho chiesto al generale se aveva una madre, mogle e figli, e mi ha risposto di sì. Ho detto che loro non hanno chiesto di essere vedova, orfani. È una questione di responsabilità. Ho anche detto loro che il villaggio si era svuotato, la gente dormiva dispersa all’addiaccio, senza sicurezza, e che non è così che possiamo costruire un paese.
Andando via un giovane ufficiale mi ha accompagnato, e, in disparte, mi ha detto che le mie parole lo avevano toccato, che voleva lasciare il gruppo, che però lo avrebbero ucciso.
Ho poi saputo che tre giorni dopo la nostra visita, i ribelli hanno lasciato la posizione. Questo vuol dire che un cammino di pace è iniziato».
Ma come fare per mettere tutti d’accordo?
«Come in tutto il mondo, non possono esserci due capitani sulla stessa nave. Oggi abbiamo un presidente, si aspetta la fine del suo mandato, e si fanno altre elezioni. Ma se vogliamo cacciarlo con le armi, domani verrà un altro che le userà per mandare via noi. Bisogna che tutti accettino di deporre le armi e tornino alle proprie occupazioni. Quando vedo questi giovani armati, cerco di parlare ai loro cuori, alle loro coscienze».
In generale qual è dunque il ruolo della Chiesa?
«È fare mediazione, perché Dio unisce, mette insieme, e così dobbiamo fare noi. Il ruolo della Chiesa è anche asciugare le lacrime, perché ci sono delle vittime. Gente che ha perso tutto, può avere l’istinto della collera, dell’odio. Noi dobbiamo dire loro che Dio non li ha abbandonati, e non devono cadere nel circolo vizioso della violenza. C’è impunità, ma ci deve essere giustizia. Chi ha sbagliato deve essere fermato, occorre spiegargli che ciò non è bene.
In Rca c’è la Piattaforma delle confessioni religiose, della quale fanno parte musulmani, protestanti e cattolici. Quando riusciamo, andiamo a fare le visite insieme, io, un imam e un pastore. Se ad esempio un ribelle musulmano dice: “Il vostro ruolo è pregare Dio, perché vi immischiate in politica?”. L’imam cita un versetto del Corano nel quale si dice che i fedeli che soffrono e sono divisi, sono figli di Dio e il sacro libro domanda loro di unirsi, dialogare, trovare soluzioni. Questa è una citazione che io non potrei fare. È insieme che cerchiamo il cammino per la pace, non ci sono riferimenti solo nella Bibbia. Insieme costruiremo la nostra società».
Il presidente Touadéra e il suo governo stanno cercando la pace?
«Sì, lo abbiamo incoraggiato a cercare la pace. Io sono andato con altri vescovi a parlargli, dicendo: anche se avete vinto la guerra, occorre fare la pace con il nemico, altrimenti chi ha perso si preparerà per vendicarsi. Abbiamo piuttosto interesse a integrare tutti, affinché ognuno abbia il suo posto e si costruisca il paese insieme. L’aspetto militare non basta, occorre anche quello politico. Noi parliamo con i ribelli e parliamo con il governo. Interpelliamo anche la comunità internazionale».
E a livello internazionale, la missione dei caschi blu cosa fa?
«Vengono da tanti paesi, è difficile metterli tutti insieme. Hanno un ruolo di interposizione, non devono sparare. Ci sono cose che funzionano, ma anche dei limiti, bisogna avere il coraggio di dirlo. La loro presenza permette di proteggere la gente, ma per contro sono passivi, quando ci sono conflitti non intervengono e la popolazione non capisce perché siano venuti così armati se poi non possono difenderli dagli attacchi».
In Centrafrica che misure sono state prese per la pandemia da Covid-19?
«Le autorità hanno preso delle misure, ma posso dire che qui c’è la mano di Dio. Qui ci sono state sensibilizzazioni che non hanno portato la gente a usare le mascherine, eppure le vittime sono state poche. Così la gente ha iniziato a dire che la malattia non è qui».
Cardinale Nzapalainga, secondo lei cosa impedisce che la guerra finisca?
«In Centrafrica non si fabbricano le armi, c’è qualcuno che le vende e si arricchisce. Vengono qui per comprare in modo illecito diamanti, oro e altri preziosi. Questi trafficanti non vogliono che la guerra finisca. Per via normale dovrebbero pagare concessioni, rendere conto del loro operato. Ma vogliono andare direttamente dai produttori. Occorre combattere questo traffico».
Un conflitto velocissimo e, al tempo stesso, violentissimo. Questa è stata la guerra in Tigray scoppiata il 4 novembre 2020 e durata un mese (ma combattimenti continuano tuttora nelle montagne) con gravi conseguenze umanitarie.
È un conflitto dalle radici profonde, quello al quale abbiamo assistito nel novembre scorso in Etiopia, per questo, allo scopo di comprenderne le ragioni, bisogna ripercorrere la storia del paese degli ultimi decenni.
Dei cento milioni di abitanti dell’Etiopia, il 6-7 per cento abita nella regione settentrionale del Tigray, confinante con l’Eritrea. Essi appartengono all’etnia tigrina, la stessa che è in maggioranza in Eritrea.
Negli ultimi cinquant’anni, pur essendo minoranza, i Tigrini hanno sempre ricoperto un ruolo determinante nel paese.
Potere tigrino
Siamo negli anni Settanta. Dalle montagne del Tigray, aspre e altissime, parte la resistenza contro la sanguinosa dittatura di Menghistu Haile Mariam, l’uomo che nel 1974 ha rovesciato l’imperatore Haile Selassie, e con lui la millenaria dinastia salomonide.
Proprio su quelle montagne, i Tigrini creano le loro basi, e conducono una guerriglia durissima.
In questa lotta si serra un’alleanza storica tra eritrei, guidati da Isayas Afeworki, e Tigrini etiopi, guidati da Meles Zenawi.
Quando nel 1991 questi due attori riescono, in alleanza con altre forze regionali, ad abbattere il regime dell’odiato «negus rosso», conquistando il potere, l’Eritrea si avvia all’indipendenza, e Meles Zenawi diventa premier, sostenuto dal Tigray people’s liberation front (Tplf, Fronte popolare di liberazione del Tigray).
Meles rimane al potere fino alla morte nel 2012. Sono anni duri nei quali, nonostante venga introdotto nel paese un sistema federale, il potere è concentrato saldamente nelle mani dei Tigrini che lo gestiscono con fermezza, senza grande rispetto delle altre etnie, in particolare gli Amhara, che per secoli sono stati l’anima della classe dirigente etiope, e gli Oromo, che, sebbene rappresentino l’etnia maggioritaria, sono sempre stati esclusi dal potere politico ed economico.
La vendetta
Con la morte di Zenawi, per i Tigrini iniziano i problemi. Progressivamente sono messi ai margini, in un processo che subisce un’accelerazione nel 2018, dopo l’arrivo di Abiy Ahmed al potere.
Abiy, primo ministro etiope, è un oromo con una lunga carriera militare all’ombra dei Tigrini. Arrivato al governo, da un lato, apre spazi alle etnie oromo e amhara, dall’altro restringe l’influenza dei Tigrini.
La mossa che scatena lo scontro con il Tplf data il 21 novembre 2019, quando Abiy dà vita al nuovo Prosperity party (Partito della prosperità), tramite la fusione di tre dei quattro partiti che componevano il Fronte democratico rivoluzionario popolare etiope (Eprdf), e di altri cinque partiti affiliati. I partiti includono l’Oromo democratic party (Odp), il Southern ethiopian people’s democratic movement (Sepdm), l’Amhara democratic party (Adp), la Harari national league (Hnl), l’Ethiopian somali people’s democratic party (Espdp), l’Afar national democratic party (Andp), il Gambella people’s unity party (Gpup) e il Benishangul Gumuz people’s democratic party (Bgpdp).
Una mossa che non viene accolta bene dai leader del Tplf, i quali, infatti, ne rimangono fuori e si arroccano nel Tigray.
A settembre 2020, nonostante i divieti imposti dal premier Abiy, si svolgono le elezioni per il rinnovo delle istituzioni regionali nel Tigray, vinte, come facilmente previsto da tutti i media nazionali e internazionali, con ampio margine dal Tplf.
Il parlamento di Addis Abeba taglia i rapporti con l’esecutivo del Tigray, dichiarandolo illegittimo, e annuncia che da questo momento in avanti avrà a che fare solo con le strutture amministrative locali (comuni, amministrazioni distrettuali, ecc.) per mantenere «i servizi di base» a favore della popolazione.
La goccia che fa traboccare il vaso è l’occupazione di una base militare dell’esercito federale da parte delle milizie del Tplf. È guerra.
Conflitto breve e feroce
Come tutti i conflitti civili, anche quello in Tigray è durissimo, non solo per i combattenti, ma anche per la popolazione civile.
«La situazione era già drammatica prima della guerra – spiega Fessaha Alganesh, dottoressa italoeritrea, da anni attiva nell’aiuto agli eritrei ospitati nei campi profughi del Tigray -, con l’invasione delle locuste, i campi distrutti, la carenza di cibo, l’epidemia di Covid-19. A queste piaghe bibliche, si sono aggiunti i combattimenti sul terreno e i bombardamenti dal cielo».
Presto si diffondono notizie di stragi. A Mai Kadra, il 9 novembre, sembra che siano uccise decine di persone di etnia amhara. Nella città di Axum, che gli ortodossi etiopi considerano santa perché lì sarebbe conservata l’Arca dell’Alleanza, è segnalata una strage di centinaia di Tigrini che avrebbero impedito l’accesso ai luoghi santi da parte delle milizie. Diverse sono poi le segnalazioni di incidenti, inclusi attacchi di artiglieria su aree popolate, attacchi deliberati ai civili, esecuzioni extragiudiziali e saccheggi diffusi.
Non si conosce l’esatto numero dei morti in combattimento. Si sa però che 950mila civili sono costretti ad abbandonare le proprie case e i propri villaggi.
Migliaia di Tigrini fuggono in Sudan per cercare rifugio dalle bombe e dalle violenze. «Ho parlato con una donna che è riuscita ad arrivare in un campo profughi sudanese – continua Alganesh -. Mi ha detto che quando sono iniziati i bombardamenti intorno al suo villaggio, presa dalla paura, si è caricata il figlio più piccolo in spalla e ha preso per mano quello più grande. Ha percorso, senza nulla da mangiare, decine di chilometri per cercare un rifugio sicuro. È drammatico quanto sta succedendo. I civili fanno fatica a capire che senso abbia questa guerra».
Questa situazione impedisce l’accesso degli operatori umanitari, cosa che rende impossibile verificare sul campo tutte le denunce di violazioni dei diritti umani.
«Se i civili sono stati deliberatamente uccisi da una o più parti in conflitto, queste uccisioni costituiscono crimini di guerra. Ci sarà bisogno di indagini indipendenti, imparziali, approfondite e trasparenti per stabilire la responsabilità e garantire la giustizia», dichiara la responsabile delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, che descrive gli incidenti «strazianti» e «spaventosi».
In un mese, l’esercito federale di Addis Abeba, coadiuvato dalle milizie amhara, invade tutta la regione.
Analisti militari accusano l’Eritrea di essere scesa in campo. Il governo di Asmara, che nel 2018 ha siglato un accordo di pace con Addis Abeba, avrebbe accettato volentieri di sostenere l’esercito etiope per vendicarsi di quella dirigenza tigrina che per una ventina di anni gli si era contrapposta.
A puntare il dito contro l’Eritrea sono soprattutto gli Stati Uniti. Grazie a immagini satellitari, comunicazioni intercettate e numerosi report, gli Usa avrebbero raccolto le prove del coinvolgimento dei soldati di Isaias Afewerki. Tra i loro reparti ci sarebbero anche numerosi somali che Mogadiscio aveva inviato ad addestrarsi nei campi militari eritrei e che si sarebbero trovati a combattere contro i Tigrini.
In Somalia il caso è sollevato in parlamento, ma il governo del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmaajo non offre risposte convincenti e, al momento, si sa solo che alcuni militari di Mogadiscio sono morti (anche se le autorità affermano che sono morti durante l’addestramento).
Quella che sembra una vittoria semplice, però, potrebbe trasformarsi in una sorta di Vietnam per gli etiopi. Le forze del Tigray hanno ripiegato sulle montagne. Si sono rifugiate in una regione che conoscono bene, dove per anni hanno combattuto contro il regime di Menghistu e dove, si dice, abbiano sempre tenuto in efficienza, e ben forniti di armi, alcuni rifugi.
Il Tigray oggi
«A Macallè la situazione sembra tranquilla, apparentemente pacifica. Non si vedono poliziotti per strada. Ci sono solo alcuni agenti della polizia federale nella stazione principale e nelle vie principali. Le strade sono pattugliate da soldati armati che si muovono su veicoli equipaggiati con mitragliatrici. Ci sono alcuni posti di blocco in punti strategici della città, come i valichi. L’elettricità arriva nelle case, i telefoni funzionano, ma non ci sono collegamenti Internet. Il cibo è disponibile, il sistema bancario funziona, i prezzi sembrano normali». Sono queste le impressioni di un testimone, rientrato da poco dal Tigray e che vuole mantenere l’anonimato. Le sue parole trasmettono un’immagine tranquilla della capitale del Tigray, ma la realtà pare più complessa. «Le persone – continua la nostra fonte – sono caute, alcune non vogliono uscire di casa, non vogliono essere chiamate, altre sono traumatizzate. Le donne hanno paura a uscire perché temono di essere violentate. Tutti raccontano storie orribili dei giorni in cui, a novembre, la capitale del Tigray è stata al centro dei combattimenti».
La nostra fonte conferma che gli scontri sul campo non sono terminati, e che i miliziani del Tplf stanno continuando a combattere sulle montagne. «Abbiamo udito spari di artiglieria pesante – ricorda -. Apparentemente erano lontani, ma erano talmente forti che li abbiamo sentiti all’interno della nostra abitazione con porte e finestre chiuse. La salva è durata per circa 10-15 minuti poi è finita all’improvviso com’era iniziata».
Da più parti si segnala la presenza di soldati eritrei, somali, emiratini, miliziani amhara. La nostra fonte non ha visto di persona i militari di Asmara, né quelli somali o emiratini, ma ha raccolto testimonianze sulla loro presenza. «Da quanto mi hanno raccontato – osserva la nostra fonte -, gli eritrei avrebbero annesso una striscia di confine settentrionale a Nord di Adigrat. Gli eritrei sono temuti per la crudeltà e i saccheggi. Mi hanno raccontato che spesso ucciderebbero civili innocenti vendicandosi per le perdite subite durante i combattimenti».
La nostra fonte ha raccolto testimonianze anche sui miliziani di etnia amhara, sui somali e sugli emiratini. «Secondo quanto mi hanno detto le persone del posto – continua -, anche i miliziani amhara saccheggerebbero il territorio. Per quanto riguarda i somali, sono stati visti da testimoni oculari nelle loro uniformi vicino a Macallè. Farebbero parte di quei reparti che erano stati inviati in Eritrea per addestrarsi e si dice siano stati impiegati per combattere nel Tigray. Gli Emirati arabi uniti invece avrebbero schierato propri droni facendoli decollare dalla loro base in Eritrea, anche se la loro presenza è stata denunciata solo dai media vicini al Tplf».
Quale futuro?
Quello in Tigray è stato un conflitto locale che avrà profonde ricadute a livello nazionale.
La sconfitta del Tplf ha (al momento) messo la sordina a un forte movimento di fronda che minacciava direttamente il potere di Abiy Ahmed. In questo senso, la sconfitta invia un messaggio ad altre importanti forze etnonazionaliste, come l’Oromo liberation front, e quelle che hanno destabilizzato la tormentata regione di Benishangul-Gumuz.
L’allontanamento del Tplf dalla politica nazionale può inoltre essere visto, come è scritto in uno studio elaborato per Ispi da Aleksi Ylönen, del Center for international studies di Lisbona, come una mossa «per promuovere l’unità e l’armonia etnica», portando «a una ripresa della popolarità e alla fiducia in un progetto nazionale comune».
Rimuovere il Tplf da un ruolo preminente nella politica e nell’economia nazionali e garantire che non riprenderà il potere nel processo di liberalizzazione economica, è scritto nell’analisi di Ylönen, «sembra essere stato cruciale nei calcoli dell’amministrazione Abiy», perché favorirebbe «una graduale apertura dell’economia» rispetto alla visione localista dei Tigrini.
Il premier dovrà però ora pagare un prezzo elevato per il sostegno ricevuto da Asmara e dalle milizie amhara. Molto probabilmente alle truppe eritree sarà concesso il permesso di occupare quelle aree nel Tigray assegnate all’Eritrea nella decisione della Commissione per i confini Eritrea-Etiopia del 2002 (al termine della guerra del 1998-2000). A loro volta le milizie amhara potranno riprendere il controllo delle terre che erano state ritenute rubate durante il governo del Tplf.
Enrico Casale
Myanmar: Con tre dita al cielo
testo di Piergiorgio Pescali |
I militari non avevano mai abbandonato il potere. Oggi se lo sono ripreso per intero, sotto lo sguardo accondiscendente della Cina. La leader Aung San Suu Kyi è stata posta agli arresti, ma neppure lei è esente da responsabilità.
Proteste di piazza, vittime, persone incarcerate, coprifuoco. Il colpo di stato avvenuto lo scorso primo febbraio ha fatto precipitare il Myanmar nella paura di un ritorno alla dittatura militare, già sperimentata tra il 1962 e il 2010. Allora le conseguenze furono sanguinose per il popolo e la politica: l’embargo voluto dagli Stati Uniti assieme alla Gran Bretagna, e in seguito da tutte le democrazie occidentali aveva messo in crisi non tanto un’economia già poco sviluppata e concentrata nelle mani di pochi conglomerati controllati in gran parte dai generali, quanto milioni di birmani, in particolare donne, impiegati a centinaia di migliaia nelle industrie tessili e artigianali del paese che furono costrette a chiudere. Per mantenere i loro profitti, ai generali bastò però cambiare partner commerciali, raccogliendosi attorno agli abbracci di Cina e Thailandia. Dal punto di vista politico, ogni opposizione venne cancellata, e i leader più in vista incarcerati o, come nel caso di Aung San Suu Kyi, posti agli arresti domiciliari. Gli ufficiali che oggi guidano il Tatmadaw, l’esercito birmano, non sono gli stessi che per cinque decenni tennero la nazione sottomessa ai loro assurdi voleri: questi hanno viaggiato e studiato all’estero, hanno tessuto rapporti con diplomazie e imprenditori di tutto il mondo, hanno vissuto la rivoluzione sociale che, in quest’ultimo decennio, ha trasformato il paese. Ma, pur essendo più disponibili dei predecessori ai compromessi e al dialogo, non sono immuni da rigurgiti totalitaristici. In Myanmar, così come nella vicina Thailandia, il confine tra dittatura e democrazia è alquanto labile.
Il ruolo del Tatmadaw
Per governare un paese etnicamente frammentato in miriadi di lingue, culture, fedi, economie, società, ci vuole un’istituzione forte e trasversale. Dispiace ammetterlo, ma l’unica organizzazione in grado di rappresentare tutte queste tendenze è proprio il Tatmadaw. Del resto, la stessa Aung San Suu Kyi non ha mai negato la necessità di avvalersi dei militari per governare. Sin dal suo primissimo comizio, tenuto nel 1989, la Lady ha sempre detto chiaramente che una Birmania senza il Tatmadaw (peraltro fondato da suo padre) non avrebbe potuto esistere.
Questo è il nodo più nevralgico e problematico della democrazia birmana: una nazione che, per mantenere la propria unità, deve poggiarsi sulle forze armate sarà sempre caratterizzata da estrema fragilità. Per questo ha bisogno di un leader non solo forte e autorevole, ma anche politicamente capace di gestire i delicatissimi equilibri esistenti tra il parlamento e l’esercito. Il primo più o meno rappresentativo delle forze democratiche, il secondo necessariamente forte per intervenire con determinazione ogni qual volta l’unità del paese venga messa in pericolo.
La signora e il generale
Nel Myanmar del 2021 si sono venuti a confrontare due leader capaci di rappresentare queste identità: Aung San Suu Kyi e Min Aung Hlaing. La prima è sostenuta dal voto popolare ed è a capo di un partito, la «Lega nazionale per la democrazia» (Lnd), che detiene la maggioranza assoluta nella camera dei rappresentanti (258 seggi su 440). Il secondo è comandante delle forze armate, un generale a cinque stelle, uomo duro che ha speso otto anni della sua carriera nello stato dello Shan entrando in conflitto con il Myanmar national democratic alliance army, la coalizione di eserciti etnici che controllavano il commercio dell’oppio e quello, ormai più redditizio e sicuro, delle metanfetamine.
Due personalità che, seppur differenti per formazione professionale, provenienza famigliare e idee politiche, sono molto simili tra loro in fatto di ambizioni e suscettibilità. Nessuno dei due sopporta l’altro, ma mentre Min Aung Hlaing non aveva bisogno di Aung San Suu Kyi, questa non poteva governare senza Min Aung Hlaing.
I due piatti della bilancia hanno mantenuto una difficile stabilità sino a quando i due leader si sono limitati a regnare entro i loro limiti. Aung San Suu Kyi ha approfittato della momentanea debolezza dei vertici del Tatmadaw monopolizzando la scena politica e accentrando su di sé tutte le cariche più importanti delle istituzioni parlamentari: consigliere di Stato (premier),
ministro degli Esteri, presidente della Lega nazionale per la democrazia, presidente del Comitato per la pace nel Rakhine e presidente del Comitato per il dialogo con le nazioni etniche. Non potendo, per Costituzione, occupare la carica di presidente ha fatto eleggere il proprio avvocato Win Myint per poi occupare il posto di ministro dell’ufficio del presidente e divenire lei stessa presidente de facto della nazione. Un raggiro costituzionale che in qualunque altro paese democratico sarebbe stato oggetto di proteste e accuse di scandalo e disonestà, ma che nel nuovo corso della politica birmana è stato addirittura portato ad esempio in una famosa intervista fatta a Tin Oo, il patron (93enne) e uno dei fondatori della Lega per la democrazia di cui la Signora è presidente. Le dichiarazioni, imprudenti ma significative, di Tin Oo dimostrano quanto misteriosa e ambigua sia la visione di democrazia posseduta dai politici locali.
Le mosse del generale
Sul lato opposto, l’ascesa di Min Aung Hlaing ha posto di fronte alla premier birmana un formidabile avversario che si è rivelato ancora più scaltro di lei nell’aprirsi nuovi spazi. A differenza della sua rivale, il generale ha iniziato a tessere un dialogo con le «nazioni etniche», in particolare con i kachin cristiani e con i rakhine buddhisti, meritandosi l’approvazione dell’inviato giapponese del programma per la riconciliazione nazionale Yohei Sasakawa. Nel maggio 2020 Min Aung Hlaing ha riorganizzato i vertici militari rafforzando la presenza di una nuova leva di giovani ufficiali a lui fedeli. Al tempo stesso, ha iniziato a preparare una poltrona di presidenza dell’Union solidarity democratic party (Usdp) per blindare la posizione della sua famiglia in campo imprenditoriale in previsione del suo imminente (a giugno 2021) ritiro in pensione. La protezione dei beni acquisiti durante la carriera è una costante sempre presente nella politica birmana, in particolare tra i militari. Questi hanno sempre approfittato del loro potere per accumulare ricchezze e piazzare nei posti chiave loro famigliari dedicando gli ultimi anni della loro vita professionale a instaurare legami con i loro potenziali successori affinché non cadessero in disgrazia.
Grazie al decennio passato nello stato Shan, Min Aung Hlaing ha potuto costruire un impero economico immenso, ma l’arrivo nel 2016 di Aung San Suu Kyi al potere ha rischiato di mettere in pericolo la sua ricchezza. Ha posposto quindi il suo pensionamento di cinque anni (dal 2016 al 2021) iniziando a muovere le sue pedine. E quando, il prossimo giugno, si ritirerà dalla carica di comandante delle forze armate, cercherà di traslare la sua influenza in campo politico candidandosi a presidente dell’Usdp.
Il putsch militare del 1° febbraio è quindi da vedersi anche in una visione personalistica della politica birmana.
Vittorie ed errori
Aung San Suu Kyi, The Lady, è forse una delle poche personalità oneste del paese e a lei dobbiamo molto: la sua perseveranza nel continuare a denunciare le nefandezze dei militari durante gli anni della dittatura è stata d’esempio per chiunque lottasse per i diritti umani. La Lady ha dimostrato che, con la tenacia, è possibile raggiungere obiettivi che appaiono impossibili. Tuttavia, come spesso accade ai personaggi pubblici, quando Aung San Suu Kyi si è trovata a dover mettere in pratica i proclami e le promesse lanciate mentre era all’opposizione, la sua inadeguatezza e inesperienza sono uscite allo scoperto, smantellando la sua figura idealizzata.
Al netto delle interferenze e dei giochi di potere che si sono realizzati nel parlamento con i militari, Aung San Suu Kyi ha pesantissime responsabilità nella disastrosa gestione dei rapporti con le nazioni etniche e con la classe lavoratrice del paese.
Per favorire gli interessi minerari cinesi, ad esempio, ha costretto migliaia di contadini ad abbandonare i loro villaggi e le loro terre a Letpadaung affermando che il bene della nazione è superiore a quello individuale. Lo stesso è avvenuto con i Mon e i Kachin.
Sul piano dei rapporti con le varie etnie, la consigliera di stato è stata pesantemente criticata dalle stesse associazioni, organizzazioni e governi che le avevano garantito incondizionato appoggio negli anni della sua prigionia. Più volte ha glissato l’argomento Rohingya, Kachin, Mon rifiutando ostinatamente di condannare le violenze perpetrate ai loro danni. Su questo tema si è consumato l’ultimo atto dello scontro con i militari.
Già nello stato Kachin, il Tatmadaw aveva iniziato, con la mediazione giapponese, una serie di colloqui con la Chiesa battista (i Kachin hanno una forte rappresentanza di cristiani protestanti) e con il Kachin independence organisation nonostante Aung San Suu Kyi avesse cercato di ostacolare il dialogo.
Buddhisti e Musulmani
Nello stato Rakhine, il doppio confronto che vedeva governo e militari uniti contro i Rohingya musulmani a Sud e contro i buddhisti dell’Arakan army a Nord, si è sviluppato in modo completamente divergente. Mentre i Rohingya continuano a essere oggetto di brutalità e persecuzioni da parte della maggioranza buddhista rakhine con la complicità sia del governo che della chiesa buddhista e delle forze armate, nelle zone settentrionali, dove i musulmani sono praticamente assenti, è la guerriglia indipendentista dell’Arakan army a impegnare le forze governative.
Lo stato Rakhine (Arakan è il nome storico della regione, mentre Rakhine è il nome dato dai militari nel 1989 in conformità con l’etnia maggioritaria) è l’unico che, nelle elezioni del 2015, ha visto prevalere con una maggioranza assoluta l’Arakan national party (Anp). Secondo la Costituzione, avrebbe, quindi, dovuto essere questo partito a formare il governo regionale, ma Aung San Suu Kyi, con un colpo di mano anticostituzionale, ha imposto un gabinetto a guida Lnd. Questo ha inasprito la già delicata situazione sociale portando a una recrudescenza delle attività della guerriglia.
Il 14 ottobre 2020, tre settimane prima delle elezioni generali che hanno visto la vittoria dell’Lnd sul piano nazionale, tre membri del partito sono stati rapiti dall’Arakan army. Due giorni dopo la Commissione elettorale ha deciso di annullare le elezioni nel Rakhine. Questa mossa ha generato proteste e nuove manifestazioni che sono rientrate solo dopo che il Tatmadaw, ancora con la mediazione giapponese, ha raggiunto un accordo con l’Anp e l’Arakan army. Secondo i punti dell’accordo, non ratificato dal governo di Aung San Suu Kyi, gli elettori dello stato avrebbero potuto recarsi alle urne entro la fine di gennaio 2021.
La protesta delle tre dita
A seguito del colpo di stato militare, manifestazioni popolari si sono susseguite in tutta la nazione. Anche suore e preti si sono mobilitati scendendo in piazza con manifesti e mostrando le tre dita, un gesto divenuto simbolo di protesta in Thailandia nel novembre 2014 sull’onda dell’emotività suscitata dalla serie cinematografica Hunger Games e adottate, come altre mode provenienti dalla vicina nazione, anche in Myanmar.
Le contestazioni si sono ripetute in tutto il paese, ma se nelle regioni che comprendono la Birmania storica, abitata dall’etnia maggioritaria bamar (la stessa di Aung San Suu Kyi), sono state partecipate e sparse su tutto il territorio, negli stati etnici i cortei sono stati sporadici e limitati nelle grosse città dove si concentrano i Bamar.
Sui media occidentali sono apparse anche foto di rifugiati rohingya con le tre dita alzate accompagnate con didascalie che pretendevano che anche questi musulmani, del cui dramma erano responsabili sia i militari che Aung San Suu Kyi, si fossero schierati accanto alla leader birmana incarcerata. Nulla di più infondato. Quasi nessuno dei siti amministrati da attivisti rohingya ha espresso solidarietà con Aung San Suu Kyi, ma tutti hanno mostrato la loro «solidarietà con il popolo del Myanmar» o con «coloro che lottano per la democrazia». «La dittatura deve finire, ma Aung San Suu Kyi non è la risposta», è il commento che si legge più frequentemente. Non sono inoltre mancate le foto in cui si vede il monaco Sitagu Sayadaw, il più rispettato monaco della sangha buddhista dello stato Rakhine e strenuo sostenitore della lotta contro i musulmani, ricevere doni dal generale Tun Tun Naung assieme ad altri due comandanti regionali dello stato Rakhine all’indomani del colpo di stato.
L’età del futuro
Quale sarà allora il futuro del Myanmar? Se si vuole riprendere la strada della democrazia, alternative ad Aung San Suu Kyi non sembra ve ne siano, con buona pace per le minoranze etniche.
La Lady è l’unica personalità in grado di convogliare le idee assai confuse e frastagliate della Lega nazionale per la democrazia. Allo stesso tempo, però, Aung San Suu Kyi non è quello che si può definire un genio politico: ha inanellato un errore dopo l’altro nella sua gestione governativa (e anche prima, tra cui rifiutare il dialogo con Khin Nyunt quando era agli arresti domiciliari dando così via libera all’ascesa del generale Than Shwe).
Del resto, un governo di soli civili sarebbe impossibile, non solo perché non sarebbe in grado di contrastare la disintegrazione del Myanmar, ma anche perché i militari sono appoggiati da tutti i governi del Sud Est asiatico. I militari birmani, infatti, reprimono quelle istanze centrifughe etniche che minano non solo l’unità del loro paese, ma anche quella della Thailandia (che non concede cittadinanza alle proprie etnie), della Cina (che già deve fronteggiare le richieste di autonomia dei tibetani e degli uiguri) e dell’India (che non ha ancora risolto il problema dell’Assam). Se il governo birmano concedesse ampia autonomia o addirittura indipendenza ad alcune delle proprie nazionalità etniche, si rischierebbe di attivare quell’«effetto domino» profetizzato da Eisenhower e sul quale si scrisse la dottrina di McNamara in Vietnam (se un paese diventa comunista, anche gli altri potrebbero seguirlo).
Quindi, se non c’è alternativa democratica ad Aung San Suu Kyi, l’unica speranza è che, dopo il colpo di stato, la Lady si trovi in condizione tale da cercare appoggio internazionale e rivedere così la sua politica nei confronti delle etnie (non solo Rohingya) e la sua politica di svendita economica del paese. Certo è che l’ex consigliera di stato ha già 75 anni e non è in ottima salute. Occorre quindi trovare quanto prima un suo successore. Al momento però all’orizzonte non si vede nessuno in grado di sostituirla.
La deriva autoritaria dell’élite al potere. L’impunità a livelli mai visti. I banditi che controllano la popolazione. Mentre imperversa l’«economica del rapimento». La diaspora guarda con grande preoccupazione il 2021: l’anno di tutte le sfide.
È il 28 agosto 2020, a Port-au-Prince l’avvocato Monferrier Dorval viene freddato con un proiettile. Dorval era il presidente dell’Ordine degli avvocati della capitale, e stava lottando per migliorare la situazione nel suo paese. L’assassinio suscita indignazione in molti settori della società haitiana.
Quattro mesi dopo, il 28 dicembre, in un assalto è ferito gravemente il giornalista Vario Sérant, e ucciso l’ingegnere Obelson Mésidor, che è in auto con lui. Collaboratore della Nazioni unite e insegnate all’Università di stato di Haiti, Sérant viene salvato per il rotto della cuffia.
Due eventi non isolati, segnali di una situazione sociale ormai al limite del collasso nel paese caraibico.
Ma cerchiamo di capire cosa sta succedendo.
Uomo solo al comando
Il 7 febbraio 2017, dopo un’elezione contestata (svoltasi tra fine 2015 e gennaio 2016) e un anno di transizione (con presidente ad interim il presidente del senato Joselerme Privert), è diventato capo di stato Jovenel Moise. Grande imprenditore agricolo, anche noto come «Neg banan» (l’uomo delle banane, in creolo), Moise rappresenta una ristretta classe di neo arricchiti grazie a traffici e commerci più o meno leciti. Una classe legata alla destra storica duvalierista, di cui fa parte anche il cantante Joseph Martelly, che lo ha preceduto alla presidenza (2011-2016) (si veda MC aprile 2017).
Come già Martelly, anche Moise ha evitato accuratamente di realizzare elezioni, facendo scadere gli eletti locali prima, e poi, a inizio 2020, la camera dei deputati e due terzi del senato. Da allora, non essendoci più il parlamento (ad eccezione di un terzo del senato, dieci senatori), il presidente, governa per decreto, forzando la Costituzione e facendo diventare Haiti una «quasi» dittatura presidenziale.
Mentre Martelly non era riuscito a creare consenso per un Consiglio elettorale provvisorio (Cep), e, quindi, a costituire questo organo fondamentale, Moise ha avuto a disposizione un Cep riconosciuto e funzionante, durante gran parte del suo mandato. Nonostante questo, non ha realizzato le elezioni, fino alle dimissioni del Cep, nell’agosto 2019, a causa della constatazione, da parte dello stesso, che non c’erano le condizioni per realizzare la consultazione elettorale.
«Moise vuole cambiare la struttura istituzionale del paese, ma vuole farlo tutto da solo», ci confida il giornalista Gotson Pierre. «Non ha mai smesso di criticare il fatto che c’è una condivisione di potere (dettata dalla Costituzione, ndr). Lui è per un potere presidenziale, mettendo il presidente della Repubblica a capo supremo della nazione. Come è stato durante la dittature dei Duvalier».
E continua: «Vuole liberarsi istituzionalmente, per governare liberamente. Per questo motivo dice: da quando non c’è più il parlamento, facciamo molte cose. L’organo legislativo è un ostacolo per lui».
Così dal gennaio dello scorso anno, scadute le due camere, Moise ha firmato molti decreti, alcuni dei quali piuttosto discutibili e, soprattutto, senza il controllo di nessuna altra istituzione. Di fatto sta legiferando in modo diretto, e molti sono decreti che modificano le istituzioni repubblicane. «Ha fatto oltre quaranta decreti nei vari settori, per esempio nell’ambito dell’organizzazione degli ordini professionali, del codice penale, e di altri organi indipendenti, come la corte superiore dei conti».
Alcuni decreti mettono a rischio la libertà e i diritti fondamentali, come quello che istituisce l’Agenzia nazionale d’intelligence (Ani), molto criticato da opposizione e società civile. Questa struttura, infatti, ricorda tanto la milizia dei famigerati Tonton Macoute: «Sarà un’agenzia dei servizi segreti, i cui membri possono essere armati, e andare a casa delle persone senza mandato. Renderanno conto solo al presidente, il che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso». Da notare che gli ambasciatori delle diverse cancellerie, in generale mantengono una posizione defilata, omettendo di ostacolare la deriva autoritaria del presidente. Chi ci parla ricorda bene i Duvalier e la loro milizia: padre Jean-Yves Urfié, missionario francese della congregazione dello Spirito Santo, ha iniziato a lavorare ad Haiti nel 1964. Da Duvalier è stato pure espulso nel ‘69, per poi tornare nel paese.
Ritorno al passato?
Il disegno di Moise è chiaro. Con un decreto del 7 gennaio, il presidente rende pubblico il suo calendario elettorale. Vuole realizzare un referendum costituzionale il 25 aprile di quest’anno e poi elezioni presidenziali, legislative e locali, tra il 19 settembre e il 21 novembre. Per arrivare il 22 gennaio 2022 alla proclamazione ufficiale dei risultati, e procedere all’insediamento del presidente della repubblica il 7 febbraio, data simbolo della caduta di Jean-Claude Duvalier (7 febbraio 1986).
Le questioni sul tavolo sono diverse e complesse. Primo: il mandato dell’attuale presidente scade il 7 febbraio 2021 e non 2022 (su questo punto c’è un’ambiguità nella Costituzione). Secondo: il Consiglio elettorale provvisorio si è dimesso e Moise ha creato il proprio Cep (nell’ottobre scorso) che non risponde alla normale procedura, non ha un consenso tra le istituzioni ed è dunque illegale, non avendo neppure prestato giuramento di fronte alla Corte di cassazione. Terzo: la Costituzione, per essere riformata, prevede un iter complesso di modifica, con diversi passaggi in parlamento, a cavallo tra due legislature. Moise invece ha creato un comitato di redazione, «composto da amici suoi», sottolinea padre Jean-Yves, ai suoi ordini, incaricato di redigere un progetto di Costituzione. Questo sarà votato dal popolo al referendum e diventerebbe dunque valido, nei programmi del presidente, entro maggio. Anche questo procedimento è illegale. Come è possibile tutto ciò? Una spiegazione ce la può dare Jaques Stephen Alexis, grande scrittore, medico e uomo politico haitiano (1922-1961), quando diceva che Haiti è il paese del «Réalisme Merveilleux» (realismo meraviglioso).
Gotson Pierre tenta di spiegarci. «Con il referendum costituzionale, Moise vuole modificare la Costituzione, ma violando la Costituzione attuale. È la prima volta dal 1987, quando è stata promulgata, che chi detiene il potere osa metterla di lato. Ci sono stati i colpi di stato, ma la Costituzione è stata sempre menzionata, e si parlava di ritorno all’ordine democratico. Ma con Moise, siamo fuori dalla Costituzione, e lui agisce senza avvertire, senza un discorso: dice “creiamo un comitato per fare una nuova costituzione”, e questo senza contattare nessuno. È pura arbitrarietà».
Inoltre, si conoscono già le grandi linee della nuova carta fondamentale: «Si ha l’impressione che questa Costituzione l’abbia già pensata: massimi poteri al presidente, soppressione del primo ministro, il parlamento diventa unicamerale, eliminando il senato. Siamo in una grande riforma istituzionale, portata avanti in maniera informale, e tutto è fatto dall’esecutivo da solo».
Il rischio per lo stato è dunque elevato, continua il giornalista: «Il referendum consacrerà l’insieme dei decreti che sono già stati pubblicati sui diversi settori della vita pubblica. Cancellerà tutte le acquisizioni democratiche del 1986 in materia istituzionale. Da circa un anno siamo in questo processo».
Qualcuno non è d’accordo
L’opposizione politica e gli altri settori della società haitiana cosa dicono? «Il movimento popolare era più forte nel 2019, aveva bloccato il paese durante diverse settimane», ricorda padre Urfié, riferendosi al cosiddetto «paylock», ovvero il blocco totale del paese nell’autunno di quell’anno, causato da diversi settori della società che protestavano contro la corruzione del presidente e il suo entourage nell’affare Petrocaribe: aiuti venezuelani ad Haiti dirottati nei forzieri di pochi.
Però l’opposizione politica è variegata e divisa, ci ricorda il missionario, che negli anni ‘90 era stato un promotore dei movimenti sociali e della democrazia nel paese, attraverso le comunità di base, rischiando varie volte la vita: «Nell’opposizione ci sono anche personaggi simili a Moise. Quindi, il popolo non ha fiducia in molti dei suoi dirigenti. Inoltre questi non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generalizzato, invece ci sono gruppi gli uni contro gli altri. Troviamo quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (si riferisce al putsch di Raoul Cédras, 1991-1994, che lui ha vissuto in prima persona, ndr). È qualcuno che è diventato molto ricco grazie a traffici strani».
Gotson Pierre approfondisce: «C’è rivalità fra i leader, ma forse c’è anche un problema di rappresentazione, che rende le cose difficili. Che messaggio comunicano? Stanno iniziando a cambiare, parlano di transizione, perché, secondo loro, Moise deve rispettare la Costituzione. È una richiesta legittima, anche agli occhi della comunità internazionale, la quale sostiene globalmente Moise, anche se c’è stata qualche dichiarazione contro il governare per decreto».
«Ora fanno incontri, anche se è un po’ tardi. Il processo d’intesa a livello dell’opposizione non è facile, per molteplici ragioni. Tendenze, differenze nel panorama politico haitiano, molti ostacoli.
C’è una ricerca di concertazione, quello che si constata è che non arrivano, per il momento, a invertire il rapporto di forza con il presidente. Occorre mobilitare veramente la gente e smuovere le cose».
Vuoto istituzionale
A inizio gennaio, si è riunito quel che resta del parlamento, ovvero dieci senatori (un terzo del senato, che ad Haiti è rinnovato ogni due anni in modo parziale). Questi reduci hanno eletto il presidente del senato, nella figura di Joseph Lambert, che diventa, oltre a Moise, la sola carica istituzionale di vertice attualmente eletta ad Haiti. Politico di lungo corso, è in parlamento dal 1990, e aveva l’ambizione di fare il primo ministro con Moise.
«Il presidente si è fatto il vuoto istituzionale intorno, gli unici eletti sono i dieci senatori. Come la transizione del dopo Martelly è stata guidata dal presidente del senato dell’epoca, così Lambert sarebbe forse l’unico titolato a sostituire Moise dopo il 7 febbraio. Sembra che abbia avuto contatti con l’ambasciata Usa. Potrebbe essere contro Moise oppure suo alleato», analizza il giornalista.
Lambert è un altro personaggio ambiguo, già consigliere di Michel Martelly, una nostra fonte ci dice che è classificato dalla Dea statunitense come responsabile di traffico di stupefacenti.
Diversi gruppi della società civile e dell’opposizione politica hanno iniziato la mobilitazione delle piazze dal 15 gennaio, per opporsi alla permanenza di Moise dopo il 7 febbraio e per una transizione. La repressione da parte dei corpi speciali di intervento rapido (Cimo) e della polizia, è stata violenta, con l’uso di lacrimogeni, proiettili di gomma ma anche armi reali.
La Rete nazionale per la difesa dei diritti umani, Rnddh, il 22 gennaio ha scritto in un comunicato che: «I recenti avvenimenti […] costituiscono una violazione flagrante delle libertà di espressione, circolazione e libertà individuali del popolo haitiano». Dice inoltre: «[La Rnddh] giudica inquietante che questi casi di violazioni si siano intensificati all’indomani delle dichiarazioni minacciose del presidente Jovenel Moise, il 19 gennaio […], e che la sua Agenzia nazionale d’intelligence, già attiva, gli permetta di raccogliere informazioni relative ai cittadini che partecipano o finanziano i movimenti antigovernativi. Perché, ha affermato, quello che era possibile negli anni scorsi, non lo sarà più nel 2021».
Nelle mani delle Gang
Gotson Pierre ci ricorda che per invertire il rapporto di forza occorre una mobilitazione generale. Ma anche che oggi, ad Haiti, c’è una problematica sociale molto forte: «Se queste mobilitazioni riescono, allora è un segnale molto buono. Ma le difficoltà sono tante, perché praticamente tutti i quartieri sono controllati dalle gang. In certi casi la gente non può uscire di casa, c’è il rischio che non possano andare a manifestare».
In molti quartieri la popolazione è in ostaggio, le gang (termine creolo di origine inglese, che indica bande armate di malviventi), sovente hanno in mano la situazione, malgrado le operazioni di polizia. Gang che intessono legami con i politici, e le più importanti sono vicine, o fanno accordi, con chi detiene il potere.
«È un fenomeno che si è già visto nel passato, ma adesso, non solo è più forte, hanno più gente, più armi, ma si è generalizzato. In tutti i quartieri troviamo delle cellule di gang. In alcuni sono molto più sviluppate che in altri, ma non si può dire che ci sia un luogo esente. E le troviamo anche in altre città, oltre che in capitale. In certi quartieri non c’è un’aggressione evidente: le gang ci sono e fanno i loro affari. Ma in altri, è una vera e propria guerra. Ad esempio, Bel Aire (quartiere centrale di Port-au-Prince, ndr): non si può passare adesso, trovi strade sbarrate, vie vuote, tutto è chiuso».
L’economia del rapimento
Un altro fenomeno, legato alle gang, che si sta diffondendo sempre più, è quello dei rapimenti a scopo di estorsione, chiamati qui kidnapping. «È il banditismo. Penso che sia un fenomeno che si nutre dell’impunità, il traffico di armi e di droga. Quando la situazione è questa, chi è senza scrupoli riesce a fare di tutto. Inoltre, tutto questo funziona bene quando si ha il banditismo di stato», racconta Gotson Pierre.
«Attraverso i rapimenti fanno molti soldi, e non parlo dei ricavi dei piccoli rapitori, o dei soldà come li chiamano qui. Si tratta di centinaia di migliaia di dollari, talvolta milioni, tutto in cash, che passano di mano e sono gestiti ai livelli alti delle gang. È una vera e propria industria remunerativa, e tutti questi contanti devono sicuramente andare da qualche parte e servire a qualcosa». Qualcuno fa l’ipotesi che questo denaro servirà a finanziare le prossime elezioni.
Occorre purtroppo osservare, che «quando il kidnapping funziona, tutto funziona». Molti soldi girano, molte persone lavorano, è come se ci fosse un’«economia del kidnapping».
Iliana Joseph, presidente di Haititalia, associazione culturale della diaspora haitiana in Italia, mette l’accento su alcuni aspetti: «Hanno inventato rapimenti che non eravamo abituati a vedere: hanno capito che con questo sistema si fanno tanti soldi, allora la cosa si è diffusa, anche grazie alla televisione. Non erano mai arrivati a rapire bambini o famigliari di persone del popolo». E parla delle paure di chi vive lontano: «Se qualcuno sa che un vicino di casa ha un parente all’estero, questo può essere preso di mira. Chiedono dei riscatti molto elevati che spesso non si possono pagare. Se non si paga, i rapiti vengono ammazzati. Neanche le generazioni più anziane di noi avevano mai visto una situazione così nel paese. Io non ho mai avuto paura di prendere un aereo e andare al mio paese, in 25 anni che vivo in Italia. Oggi ci penso bene. Tutto questo è molto grave».
Il Covid ha colpito poco Haiti in modo diretto. Durante la prima ondata è stato abbozzato un lockdown. Ora non più, e i casi stanno aumentando. Ma un effetto importante è stato indiretto.
Ancora Iliana Joseph: «Chi vive all’estero sostiene la sua famiglia con le rimesse, che sono un’entrata rilevante nel bilancio di Haiti. La pandemia, e il conseguente lockdown, ha fatto perdere il lavoro a una gran parte della diaspora nel mondo, con il conseguente crollo degli invii in valuta pregiata. Questo ha aumentato la povertà in maniera diffusa e contribuito a far degenerare la situazione sociale nel paese».
Marco Bello
Nota
Mentre stiamo chiudendo la rivista, gli eventi ad Haiti sono in rapida evoluzione. Torneremo sulla situazione quando si sarà stabilizzata.
Sottotraccia da tempo, la rivolta cilena è scoppiata nell’ottobre del 2019. È costata molto, ma ha raggiunto un obiettivo impensabile: la formazione (ad aprile 2021) di un’assemblea che dovrà redigere una nuova Costituzione, sostitutiva di quella del 1980 voluta dal generale Augusto Pinochet.
Santiago del Cile, Metro Estación Central, 18 ottobre 2019. Il governo ha annunciato l’aumento di 30 pesos del biglietto della metro, meno di 4 centesimi di euro. Una ragazza salta il tornello ed entra senza pagare. La segue un altro, poi una ragazza. In breve, si diffonde l’evasione massiva in decine di stazioni della metro di Santiago: «Evadir es otra forma de luchar», «non pagare è un’altra forma di lottare», gridano i giovani.
È il primo smottamento, al quale il governo risponde con la repressione. La protesta aumenta e viene imposto il coprifuoco. La rabbia esplode e in poco tempo l’urlo indistinto si traduce in una voce chiara che domanda un radicale ripensamento del paese. Il 25 ottobre 2019 si riuniscono pacificamente nella piazza centrale di Santiago, Plaza Italia o Plaza Baquedano, ribattezzata «Plaza de la Dignidad», due milioni di persone nella marcia «más grande de Chile» per chiedere un nuovo patto sociale, per ridefinire le regole del gioco da cima a fondo. In questa giornata si saldano le proteste degli studenti, delle femministe, dei lavoratori della salute, dei movimenti indigenisti, ma soprattutto il malessere della gente comune.
«Chile despertó», gridano i manifestanti, il Cile si è risvegliato, cantano uomini e donne di tutte le generazioni, nelle piazze di tutto il paese, dai deserti del Nord fino alle città della Tierra del Fuego. Nelle piazze convivono manifestanti pacifici, gruppi musicali, performance teatrali, assemblee improvvisate e frange più violente. Il paese arde: bruciano edifici di banche, fondi pensione, supermercati, infrastrutture pubbliche e anche qualche chiesa (il clero cileno è scosso da scandali di abusi sessuali, sui quali sta cercando di far luce papa Francesco, e di cui parliamo nell’ultima parte di questo dossier). Il governo di centro destra, guidato dal magnate Sebastian Piñera, sembra sul punto di crollare quando cede a una richiesta che fino a poco fa sembrava irrealizzabile. Il 15 novembre 2019 «l’Accordo per la pace e la nuova Costituzione», sottoscritto trasversalmente dai partiti, disegna uno scenario inedito: l’apertura di un processo costituente che porterà a superare la Costituzione del 1980, imposta dalla dittatura militare e architrave del modello neoliberista che ha dato forma al Cile odierno.
Comincia così il percorso costituente che il paese da oltre un anno sta sperimentando. «La protesta di ottobre 2019 nasce da un movimento ampio, senza leader né richieste precise. Va inquadrata nella dinamica dei grandi movimenti globali, dagli Usa a Hong Kong. Ci sono importanti aspettative verso la nuova Costituzione, ma è bene chiarire che molte richieste di cambiamento non riguardano la Carta, ma politiche pubbliche e cambi culturali: «Penso alle pensioni basse», spiega a Missioni Consolata Josè Antonio Viera-Gallo, primo presidente della Camera del Cile della transizione democratica, tra il 1990 e il 1993. Fa poi un parallelo con l’Italia, paese dove – insieme a migliaia di connazionali – trovò rifugio dalla dittatura di Pinochet. «Il momento costituente cileno è privo dell’epica della Costituente italiana, della volontà di ricostruire il paese distrutto dalla guerra e dal fascismo. E privo dei grandi leader della Costituente spagnola che, pur di superare la dittatura accettarono la monarchia, la stessa che combatterono nella guerra civile. Per questo credo si debba puntare sull’essenziale: un ruolo più ampio dello stato in economia; ridurre i quorum ipermaggioritari; decentralizzare lo stato; riconoscere i popoli originari, un dramma del Cile odierno; allargare i diritti sociali e politici. Fare queste cose sarebbe già tanto, cambierebbe il paese. Tuttavia, il processo ha una sua originalità: l’assemblea che dovrebbe redigere la nuova Costituzione avrà perfetta parità di genere, un unicum al mondo. Questo è il risultato di un voto trasversale in parlamento che mi fa pensare che alcuni risultati per l’uguaglianza di genere siano ormai irreversibili», conclude il politico cileno.
La pandemia di Coronavirus rallenta il processo costituente, ma senza interromperlo. Inizialmente previsto per aprile, il referendum viene celebrato il 25 ottobre 2020. E i risultati sono incontrovertibili: i «Sì» per la nuova Costituzione raggiungono il 78,25%. Il secondo quesito, «Quale organo dovrà redigere la nuova Costituzione?», vede prevalere con il 79% l’opzione di un’assemblea interamente eletta dai cittadini. L’affluenza è stata la più alta dal ritorno alla democrazia, ma comunque inferiore al 50%. Adesso la sfida è trasformare la forza del risultato elettorale in un nuovo patto sociale, passare dal «voto destituente al patto costituente», ha scritto il politologo Juan Pablo Luna.
Un occhio della testa
Plaza de la Dignidad è l’epicentro del processo costituente cileno. Lì, nei mesi della protesta, si ritrovano mamme con i passeggini, coppie di innamorati, anziani che ricordano i tempi di Pinochet. E, quasi a ogni corteo, volano pietre, si costruiscono barricate, si respira aspro l’odore dei lacrimogeni, crepita il fuoco. C’è certamente una componente di violenti organizzati tra i manifestanti. La rabbia però trabocca oltre questa organizzazione e coinvolge anche i manifestanti a volto scoperto, le persone comuni che assistono agli abusi della polizia. Agli occhi di un europeo abituato alle categorie di buoni e cattivi, al Pasolini di Valle Giulia che difende i poliziotti contro gli studenti borghesi, quel che succede in Cile non è comprensibile. Per due motivi: primo, qui i manifestanti non sono studenti borghesi, ma i rappresentanti di un malcontento condiviso dalla maggioranza della popolazione; secondo, qui la polizia ha una lunga e consolidata tradizione di abusi di potere al proprio attivo, come testimonia il report della missione Onu sulla violenza durante la protesta. Un libro dell’orrore che ripercorre, col linguaggio formale del resoconto, l’insieme di violenze, abusi, torture, morti sospette. La specialità della polizia cilena è generare danni permanenti alla vista, con l’uso di proiettili di gomma. Analisi ex post sui bossoli mostrano la presenza di piombo dentro le cartucce. Così, 472 persone sono ferite agli occhi dall’inizio delle proteste. Tra queste c’è Gustavo Gatica, uno studente di psicologia di 21 anni. Il pomeriggio dell’8 novembre 2019 passeggia per Plaza de la Dignidad insieme al fratello e scatta delle fotografie con la sua nuova macchina Sony. Viene colpito dagli spari dei carabineros a entrambi gli occhi. Resterà cieco per sempre. «In Cile, la dignità vale un occhio della testa», recita una scritta di vernice in Plaza Dignidad.
Lo stato di diritto europeo qui non esiste. Pertanto, non si possono applicare le stesse categorie interpretative per capire ciò che avviene. Pasolini ci viene in aiuto quando dice che «chi viene odiato inizia a odiare»: questa è una buona chiave per intendere il clima d’odio che attraversa il paese. Un odio tra manifestanti, polizia, classi sociali.
La violenta repressione delle forze dell’ordine si accompagna con le azioni di resistenza della primera línea, l’avanguardia delle manifestazioni, composta da giovanissimi che costruiscono barricate, affrontano le forze dell’ordine con pietre, fionde e si difendono con caschi e scudi di plastica. Molti di loro provengono da uno dei più grandi fallimenti delle politiche pubbliche cilene, il Sename, «Sistema nazionale dei minori», che dovrebbe prendersi cura dei minori soli, ma che, invece, è un inferno in terra: violenze sessuali, adozioni illegali, vendita di organi. Chi entra al Sename è condannato a una vita di marginalità, dalla quale è quasi impossibile venir fuori. Una parte di questi ragazzi ha trovato nella primera línea un luogo di rappresentanza, scrive la giornalista Carolina Rojas. «Ragazzini cresciuti nella violenza si esprimono con il linguaggio della violenza, impossibile chiedere loro un elenco delle riforme urgenti per il paese», afferma la politologa Javiera Arce. La grande maggioranza dei manifestanti è assolutamente pacifica, ma tra alcuni di loro prevale un sentimento di tolleranza della violenza della primera línea. «Ci proteggono dai carabineros, permettono a tutti di manifestare pacificamente», racconta Marcia, manifestante in Plaza de la Dignidad.
Frustrazione e consapevolezza
La domanda è: perché nel paese più florido e pacifico dell’America Latina, che si vantava di essere il più europeo, è bastato l’aumento di pochi spiccioli del biglietto della metropolitana per far detonare un processo di radicale ripensamento sfociato nell’avvio di una nuova fase costituente? Per lungo tempo considerato un caso di successo tra i paesi latinoamericani, il Cile ha sconfitto la povertà assoluta, ma ha fallito nella redistribuzione della ricchezza. Oggi fa parte del club dei paesi ricchi Ocse e ha un reddito pro capite di circa 24mila $, la soglia attorno alla quale un paese si considera di reddito medio, ma le diseguaglianze sono profonde: il 75% dei lavoratori guadagna meno di 700 $ al mese e la pensione media è di 300 $. Come mostrano i dati Cepal (Comisión económica para América Latina), un quarto del totale della ricchezza è nelle mani dell’1% della popolazione, mentre il 10% concentra il 66% della torta. All’estremo opposto, la metà delle famiglie più povere detiene il 2% della ricchezza.
Per tutti gli anni Novanta, il Cile ha davvero sognato di toccare il cielo con un dito. Il sogno si materializzava in consumi di massa: televisori, case, auto, assicurazioni sanitarie, università per i figli e vacanze, grazie a un sistema di credito al consumo che ha permesso anche alle classi più umili di consumare al di sopra delle proprie possibilità. Così è nata la bolla dell’iper-indebitamento nella quale la famiglia media cilena ha un debito di circa il 75% del proprio reddito. Con il rallentamento della crescita mondiale, il peso del debito è aumentato e si è persa l’idea di un futuro migliore. «I cileni ricchi vivono come i ricchi in Germania, i poveri come in Mongolia», nota Branko Milanovic, ex capo economista della Banca mondiale.
La disuguaglianza tra ricchi e poveri si riconosce anche dal diverso sguardo sul futuro. Le élite cilene hanno sempre a disposizione opportunità personali o di corporazione, mentre i ceti popolari senza aspirazioni collettive e gravati dal peso del debito individuale sono spinti verso l’impoverimento. L’uguaglianza materiale è una delle basi su cui poggia la domanda popolare per una nuova Costituzione.
«Ci trattano come consumatori, non come cittadini», ci spiega Claudia Heiss, direttrice del corso di Scienza politica della Universidad de Chile. La frustrazione è forte soprattutto nei giovani professionisti, cresciuti con la democrazia, che non hanno conosciuto la povertà né la dittatura, e hanno creduto alla promessa della meritocrazia: «Sei padrone del tuo destino, dipende tutto da te». Sono «l’eroe sconfitto del paese. Lavorano in ambiti diversi da quelli per cui hanno studiato, si sono rassegnati a un futuro più piccolo di quello che avevano sognato», li descrive il sociologo Manuel Canales.
«I giovani professionisti frustrati sono la coscienza sociale del movimento popolare del 2019», continua Canales, che ha promosso dei laboratori di ricerca su questo segmento di popolazione. Hanno studiato, affogano nei debiti per pagarsi la laurea, ma è grazie all’educazione se parlano il linguaggio della scienza e della legge, grazie all’educazione hanno preso coscienza dell’ingiustizia di una società dove le relazioni contano più di titoli di studio e sacrifici. Con la protesta del 2019 hanno compreso che il loro malessere non è un fallimento individuale, ma un fatto collettivo. La protesta li ha liberati dal senso di colpa, da debitori sono diventati creditori, chiedono indietro le promesse tradite. «Abbiamo aperto gli occhi», «Ci siamo tolti la benda», spiegano al gruppo di ricerca di Canales. La teoria neoliberista, di cui sono impregnate la Costituzione vigente e la società, non è stata sostituita da un’ideologia diversa. Ma qualcosa è cambiato, si è liberata un’energia, una forza di cooperazione, come nel caso delle ollas comunes, i pasti organizzati dai vicini durante la quarantena. «C’è rabbia e c’è speranza in questi giovani professionisti», conclude la ricerca di Canales.
Provare a inventare un paese
Di cosa è fatta l’energia sprigionata dalla frustrazione dei cileni? Si è posta la stessa domanda Clelia Bartoli, filosofa del diritto presso l’Università di Palermo, che ha raccolto in un libro, «Aquí se funda un país», i suoi studi sul paese. La ricercatrice siciliana ha visitato il Cile durante la rivolta e ha potuto fare esperienza di quella felicità pubblica di cui parlava Hannah Arendt, che nasce dalla scoperta collettiva che ciò che esiste può essere messo in discussione, tentando una riconfigurazione della comunità tramite la comunità stessa. La differenza, spiega Bartoli, è che la felicità privata si gusta solo quando l’oggetto del desiderio è stato conquistato, mentre la felicità pubblica è un processo. L’improvviso moltiplicarsi di iniziative di mobilitazione, resistenza e dibattito in Cile si può spiegare con il fatto che le persone abbiano assaporato l’inatteso piacere dell’agorà. Lo sforzo di trasformare il mondo in un posto migliore è gratificante già in corso d’opera, durante la lotta per raggiungerlo.
«Così, la percezione improvvisa (o l’illusione) che posso agire per cambiare la società in meglio, e che inoltre posso unirmi ad altri con lo stesso obiettivo è, in tali circostanze, piacevole in sé. Per assaporare questo piacere non è necessario che la società venga effettivamente trasformata nel breve periodo: è sufficiente agire come se il cambiamento fosse possibile», ragiona l’autrice. Lo slogan «Chile despertó» è una maniera per descrivere questo insight collettivo: l’eccitante scoperta che la realtà non è un copione già scritto dalle autorità, ma qualcosa di cui si può divenire artefici insieme ad altri.
Il titolo del libro della professoressa Bartoli – Qui si fonda un paese – riprende quello di un’esperienza di teatro di cittadinanza ideata da un gruppo di giovani attori cileni. La performance, che dura un giorno intero, invita gli spettatori a inventare insieme la bandiera, l’inno, le regole, i principi, i diritti e i servizi di uno stato immaginario. «Quando ho chiesto a quei ragazzi e a quelle ragazze come era venuta loro in mente questa idea, mi hanno risposto: “Reimmaginare insieme il paese che vorremmo abitare è esattamente quello che stiamo provando a fare adesso qui in Cile”», racconta Bartoli.
Un processo costituente sui generis
Il processo cileno è interessante anche perché mostra le contraddizioni e le relazioni tra poteri costituiti e il potere costituente. I poteri costituiti sono, nel caso cileno, tutto ciò che era riconosciuto come legittima autorità fino allo scoppio della rivolta del 2019: il governo, i carabineros, il parlamento, la Costituzione del 1980. Il potere costituente è invece Plaza de la Dignidad, una potenza distruttrice del vecchio assetto e creatrice di quello venturo. Esso è, per definizione, indisciplinato ed extralegale. «Nei cambi di sistema, chi si impadronisce del potere costituente stralcia le vecchie norme e permane in una dimensione priva di legge, finché una nuova Costituzione non verrà emanata e, con essa, il nuovo ordine», prosegue Bartoli. Il problema è ciò che avviene nella transizione tra il vecchio e il nuovo ordine. Si pensi al passaggio tra il regime fascista e la Repubblica italiana, nella transizione tra il vecchio potere e la costituente, la resistenza diede vita ad atti extralegali (ad esempio, Mussolini appeso per i piedi a piazzale Loreto), finché, tramite la Costituzione repubblicana, furono reinventate le regole, i principi della comunità e nacque una nuova legittimazione. «ll momento di transizione da un ordinamento a un altro, è il vero scoglio per i filosofi del diritto poiché avviene uno spiazzante sovvertimento del rapporto tra fatti e norme. In tempi di ordinaria amministrazione, la legge giudica i fatti e decreta se questi siano legittimi o meno. In tempi di profonda crisi politica, il rapporto tra regole e realtà si inverte. Sono i fatti che imperiosamente dettano legge alla legge, che determinano l’abrogazione e la sostituzione dei poteri fino ad allora vigenti», spiega Bartoli.
Tornando al Cile, il caso è un unicum poiché il parlamento e il governo – i soggetti titolari dei poteri costituiti – hanno ceduto alla possibilità che si avvii una nuova fase costituente, ma hanno trovato la maniera di indirizzare il potere costituente, mantenendo il controllo della situazione, attraverso l’«Accordo per la pace e la nuova Costituzione» firmato a novembre 2019. È piuttosto scontato che i custodi dello status quo provino a non lasciarsi scalzare, mentre gli insorti tentino di riscrivere le regole del gioco senza i vincoli imposti da chi ha governato fino a ora. «La stranezza del caso cileno consiste quindi nel fatto che i poteri costituiti – che la rivolta popolare addita come illegittimi – siano riusciti a dare norme al potere costituente, ammansendolo e disciplinandolo. Evitando che vi sia quell’intervallo extralegale che solitamente si frappone tra il vecchio e il nuovo corso», conclude la ricercatrice palermitana.
Verso l’Assemblea costituente
L’11 aprile 2021 si terranno le elezioni dei 155 membri della Convenzione costituzionale (Cc), la prima Assemblea costituente con perfetta parità di genere al mondo. Vi saranno anche seggi garantiti per i dieci popoli originari (il 10,8% dei 18 milioni di cileni), tra questi gli Aymara dei deserti del Nord, i Rapanui dell’isola omonima, e il più grande: il popolo Mapuche. Vi è un grande dibattito sulla possibilità di eleggere membri indipendenti dai partiti tradizionali nella Cc, poiché, come spiega lo storico cileno di origini liguri Sergio Grez Toso, «la legge che regola le elezioni per la Costituente è la stessa per il parlamento, favorisce dunque i partiti tradizionali, i quali non devono raccogliere firme per presentare le liste». Ma «il problema non è escludere i politici di professione a favore degli indipendenti, né escludere le élite di Santiago, o che un settore politico schiacci un altro. Il dilemma è come rappresentare proporzionalmente la diversità del paese, dato il clima di diffidenza, le regole e l’iniqua distribuzione di risorse economiche e reti relazionali», afferma il politologo Juan Pablo Luna.
Una volta eletta, la convenzione costituente lavorerà da maggio 2021 a maggio 2022 per redigere la proposta di nuova Costituzione, il testo dovrà essere approvato con 2/3 dell’assemblea – clausola imposta dai partiti di destra per consentire l’avvio del processo costituente – e sarà poi sottoposto a voto referendario di ratifica nell’agosto 2022. Se la proposta dovesse essere respinta, resterà in vigore la Costituzione del 1980.
Il processo costituente è complesso, ma tutto sommato lineare. L’esito non scontato, la domanda di fondo è se si raggiungeranno i 2/3 della Cc per approvare un testo minimo che metta d’accordo tutti sull’essenziale, rischiando così però di deludere le aspettative popolari. O se invece, si possa osare di più, accordarsi su un testo costituzionale più ricco che risponda alle pressanti esigenze di cambiamento che sono venute dal movimento del 2019.
Federico Nastasi
Il popolo dei Mapuche
Combattuti e discriminati (ma mai sconfitti)
Incas e conquistatori spagnoli non riuscirono a sottometterli. Dopo l’indipendenza dalla Spagna, furono traditi. La dittatura di Pinochet non riconobbe mai i loro diritti e li escluse dalla Costituzione. Oggi la scrittura di una nuova carta fondamentale potrebbe dare ai Mapuche un po’ di giustizia.
Tra le mille bandiere che sventolano a Plaza Dignidad, spiccano gli stendardi mapuche: l’unico popolo indigeno che è riuscito a tener testa ai conquistadores, sebbene a carissimo prezzo, e tuttora vittima di plurime discriminazioni. Nella wenüfoye, la bandiera mapuche, è riassunta la cosmogonia di quel popolo: le tre fasce orizzontali rappresentano le diverse dimensioni dell’esistenza (la blu si riferisce a quella celeste, la verde a quella terrestre, la rossa alla dimensione interiore, della natura e dell’uomo); al centro, c’è il tamburo sacro, le cui decorazioni alludono ai punti cardinali e al ciclo delle stagioni.
Cosa simboleggia la wenüfoye per gli insorti cileni? Per intendere il Cile e il momento costituente in atto, è indispensabile comprendere cosa rappresenta il popolo mapuche nella cultura cilena.
Due visioni del mondo opposte
La questione mapuche risale ai tempi della colonizzazione, un conflitto secolare basato su due visioni del mondo inconciliabili: quella europea legata all’idea di progresso, a una concezione del tempo lineare e fondata sulla proprietà privata; e quella mapuche che pensa il tempo in maniera circolare e non conosce l’idea di progredire. I Mapuche vivono in comunità, vedono come un abominio la proprietà privata della terra. Il mapu è la terra, vi sono terre sacre ed è lì che vivono gli antenati. È, dunque, inconcepibile che qualcuno recinti i boschi, mettendoci un cartello «proprietà privata» e separando i Mapuche dai loro predecessori e dalle terre ancestrali del Wallmapu, la terra mapuche.
I Mapuche resistettero prima agli Incas, poi ai conquistatori spagnoli, i quali, non potendoli sconfiggere, nel 1641 firmarono con essi un trattato di pace. Come fece a resistere una popolazione nomade e apparentemente meno potente di altri regni indigeni, i quali invece furono travolti dagli invasori? La forza dei Mapuche sembra stia proprio nell’assenza di un’organizzazione politica centralizzata. Tradizionalmente, questa popolazione si aggregava in nuclei piccoli, sparpagliati e mobili, con una leadership fluida, a metà tra la sfera politica e spirituale. Ciò li avrebbe resi più sfuggenti alla capacità del conquistatore di sconfiggerli, sottometterli o corromperli.
All’inizio del XIX secolo, le diverse comunità indigene ebbero un ruolo determinante nel conseguimento dell’indipendenza cilena dal dominio spagnolo. Ma una volta che la nuova nazione fu costituita, ne furono traditi. Le terre nelle quali i Mapuche e gli altri popoli originari vivevano di agricoltura e allevamento, furono un po’ alla volta vendute «legalmente» o addirittura donate dalla classe dirigente cilena a magnati locali e stranieri e a multinazionali in cambio di appoggio e favori. Da metà Ottocento, i Mapuche si trovarono a combattere contro le truppe del nuovo Cile indipendente. E contro i coloni, migranti europei ai quali era stato promesso un sogno di prosperità, un pezzo di terra e che invece si ritrovarono in mezzo a un conflitto che non conoscevano. Il governo socialista di Allende (1970-1973) avviò una riforma per l’esproprio dei latifondi e la loro statalizzazione o redistribuzione ai contadini e ai popoli originari. La dittatura, sostenuta dai grandi proprietari fondiari, non solo interruppe questo processo, ma varò una controriforma agraria attraverso cui le terre confiscate vennero restituite ai vecchi detentori. E i Mapuche, in gran numero contadini e comunisti, furono tra i primi obiettivi della repressione seguita al golpe.
Le ferite procurate da secoli di conflitti sono profonde: sottomissione, razzismo, conversioni forzate, culture cancellate.
Lo scontro tra stato e movimenti indigenisti è ancora vicenda di cronaca. Uno dei casi che ha destato maggiore indignazione nell’opinione pubblica cilena è stato quello dell’uccisione di Camilo Catrillanca per mano del comando Jungla, una squadra speciale di carabineros, addestrata tra Colombia e Stati Uniti per svolgere operazioni preventive nelle regioni del Bio Bio e dell’Araucania, dove è più presente la popolazione mapuche. Il giovane contadino mapuche è stato freddato mentre lavorava il suo campo, esattamente un anno prima dello scoppio della protesta di Plaza de la Dignidad.
Il «colonialismo giuridico» dello stato cileno
Oggi, nel processo costituente in atto, i Mapuche vedono un’opportunità. Il «colonialismo giuridico» si manifesta anche nella grande omissione della Costituzione, l’unica in America Latina a non menzionare i popoli indigeni. In tal modo non sono tutelate le lingue e le culture, né tantomeno riconosciuti – anche solo parzialmente – gli istituti, le norme e le consuetudini che caratterizzano la vita dei nativi del subcontinente americano fin dall’epoca precolombiana. Ecco perché una delle richieste più condivise della mobilitazione attuale è per una nuova Costituzione «plurinazionale».
«Partecipiamo al processo, vogliamo una nuova Costituzione che riconosca le varie nazionalità presenti in Cile, come è successo in Brasile e Bolivia di recente», spiega Jessica Cayupi, avvocata e portavoce della Rete delle donne mapuche. E continua: «Chiediamo diritti collettivi come popolo: libertà di insegnamento della nostra lingua, di cultura, autodeterminazione. E terre. Non vogliamo essere indipendenti, è un risarcimento per tutto ciò che ci è stato tolto in passato. La nuova Costituzione, scritta con la partecipazione diretta dei popoli originari, è il primo passo».
Una cultura di libertà e dignità
«I Maya e gli Aztechi hanno lasciato templi e piramidi, gli Incas il Cuzco. Perché dovremmo essere orgogliosi della cultura mapuche? – si chiede il filosofo Gastón Soublette -. Sono gli unici che non si sono arresi agli spagnoli. A questa resistenza è dedicato “La Araucana”, poema epico in lingua spagnola della fine del XVI secolo. Ma cosa hanno difeso per tre secoli? La loro cultura materiale era povera, la ceramica banale. L’opera magna dei Mapuche è immateriale: è una cultura di libertà e di dignità umana. I Mapuche sono come il popolo di Israele: non ha lasciato tracce materiali rilevanti, ma ha dato il monoteismo al mondo». Forse anche per questo la wenüfoye è diventata uno dei simboli della grande protesta sociale di fine 2019.
Visione europea e cosmovisione mapuche
In mapudungún (letteralmente, parlare della terra), la lingua dei Mapuche, esistono quattordici verbi per descrivere modi e gradi del risvegliarsi. Questa attenzione meticolosa al passaggio tra sonno e veglia è legata alla cosmovisione di questo popolo. Nella cosmologia mapuche, l’uomo – Wenchu, da wen (cielo) e chu (contrarre; cfr. Diccionario Mapuche), traducibile come «l’uomo è un cielo contratto in un corpo» – cascò dal cielo perdendo i sensi nell’impatto sulla terra. Allora la donna – Dhomo, cioè «lei per la quale siamo di più», poiché dà luce, ma anche perché eleva, risveglia l’uomo – scese dal cielo a risvegliarlo, ma dimenticò di svegliare il cuore. Da allora la missione dell’essere umano è fare in modo che la propria anima torni a essere pienamente vigile e cosciente.
La cultura mapuche, la lingua in particolare, è stata per lungo tempo un elemento di discriminazione. Jessica Cayupi è una warriachi, una Mapuche nata in città. «Sono nata a Santiago in una famiglia mapuche. I miei non mi hanno insegnato il mapudungun, perché non volevano trasmettermi lo stigma di essere indigena. Ho vissuto il razzismo e sono cresciuta con il mito della discendenza europea. Un cognome spagnolo è più prestigioso di uno mapuche. Ma ci si dimentica che gli spagnoli qui arrivavano spesso come uomini soli. Non si sono riprodotti tra loro, hanno trovato le donne indigene, molte sono state violentate. E i battesimi forzati hanno cancellato i nostri nomi. Ci hanno imposto lo spagnolo e la loro religione, cancellando la nostra lingua e la nostra cosmovisione. La nostra cultura è per certi versi superiore a quella europea, che mette l’uomo al centro del mondo. Per noi si deve vivere in armonia con tutte le forme di vita, umane e non. Tutto ha uno spirito. Da bambina litigavo con i miei coetanei quando spezzavano il ramo di un albero per gioco. Per me è un abominio. È superiore alla nostra, la cultura dell’accumulazione e dell’individualismo che ha prodotto il disastro ambientale in atto?», si chiede Cayupi.
Violenza e camion
Nella divisione amministrativa odierna, la Wallmapu corrisponde all’Araucania, la regione più povera del paese dove industrie estrattive, spesso straniere, hanno un comportamento predatorio, distribuiscono poca ricchezza e lasciano siccità e inquinamento. In Wallmapu si respira un clima di violenza latente: zone militarizzate, fondi agricoli protetti dai carabinieri, camion bruciati, blocchi stradali. Ogni tanto la violenza esplode e qualcuno muore. È successo a una coppia di anziani proprietari terrieri, discendenti di europei, bruciati vivi in casa. Ed è successo a diversi Mapuche, colpiti alle spalle dalle pallottole dai carabinieri, i quali hanno poi messo in piedi goffi tentativi di depistaggio.
Ad agosto 2020, numerosi tir hanno bloccato importanti snodi stradali del paese, richiamando alla memoria quanto avvenne nell’ottobre del 1972 (paro de los camioneros), quando quarantamila autisti incrociarono le braccia per quasi un mese. Allora si trattò di un piano per destabilizzare il governo Allende, promosso dal padronato economico e industriale, supportato dagli Stati Uniti di Richard Nixon e Henry Kissinger (come confermano gli archivi Usa desecretati a fine 2020) e realizzato d’intesa con gli apparati militari che, infatti, non intervennero a bloccare la protesta.
La manifestazione degli autotrasportatori del 2020, come quella del 1972, è uno sciopero padronale in quanto promosso dai proprietari dei camion più che dai camioneros stessi. I tir che trasportano i prodotti di quelle aziende sono stati sovente il bersaglio degli attacchi di membri di gruppi radicali mapuche. Le organizzazioni di categoria hanno promosso l’agitazione reclamando e ottenendo maggiori interventi e investimenti per incrementare la sicurezza nelle rotte verso il Sud del paese, nonché drastiche misure repressive nei confronti dei riottosi.
Passata la tormenta dei giorni di protesta di agosto, è tornato il quotidiano: nei disegni dei bambini dell’Araucania, insieme al prato alla casa e al cielo, ci sono gli elicotteri e le camionette dei militari. I figli degli opposti fronti crescono dentro un contesto di violenza. Per fare la pace, conclude Jessica Cayupi, «serve giustizia innanzitutto. Il processo costituente è il primo passo, non l’ultimo. La nostra lotta durerà ancora».
Federico Nastasi
La Chiesa cattolica cilena durante la dittatura
Solidarietà (ma anche connivenza)
La Chiesa cattolica cilena ha conosciuto luci ed ombre. Le prime sono legate alle azioni meritorie della Vicaría de la solidaridad, le seconde ad alcuni scandali per i quali papa Francesco ha chiesto perdono.
Durante la lunga notte della dittatura militare di Pinochet (1973-1990), la chiesa cilena ha vissuto due esperienze completamente diverse, opposte tra loro.
Ha visto nascere la Vicaría de la solidaridad, un centro di aiuto giuridico, di coordinamento dei familiari delle vittime della dittatura, dove la fede si intrecciava con l’azione sociale, spesso con veri e propri atti di eroismo. Contemporaneamente, un’altra parte della chiesa è stata refugium peccatorum dei sostenitori della dittatura, offrendo un porto sicuro a quella parte di società cilena conservatrice che la notte del golpe militare aveva brindato con champagne per celebrare la fine del governo di Unidad Popolar del presidente Allende.
Due sono le figure che rappresentano questa dualità: Fernando Karadima e Raúl Silva Henríquez.
Il Rasputin di Santiago
Fernando Karadima Fariña, sacerdote dal 1958, era il parroco della chiesa El Bosque, nella provincia di Santiago, punto di riferimento delle élite cilene. La sua figura è un enigma nella storia del paese: un uomo «volgare e illetterato» che è giunto a «dominare il settore conservatore della società cilena», diventando il responsabile di molti giovani rampolli di quel mondo. Molti di essi sono poi diventati vittime dei suoi abusi sessuali per anni.
La parrocchia El Bosque era l’opposto della chiesa post conciliare di Medellin e Puebla, ovvero di quella chiesa latinoamericana che univa la fede alla prassi assumendo un ruolo sociale. Il «Rasputin di Santiago» non si preoccupava delle ingiustizie sociali e infantilizzava i fedeli pretendendo sottomissione, minacciando continuamente l’inferno e disprezzando le donne, per le quali era previsto un ruolo di obbedienza e subalternità. L’accesso al paradiso era garantito solo dalla fede cieca ne «El Rey» o «El Santito», come si faceva chiamare Karadima. Assistevano alle sue messe consiglieri di Pinochet, ricchi impresari, ex terroristi di estrema destra, e soprattutto un gruppo di adolescenti fragili, spesso cresciuti senza padre. Quest’ultimo elemento era una delle chiavi che Karadima utilizzava per annichilire quei ragazzi e ottenerne favori sessuali, sfruttando il suo ruolo di padre spirituale e i segreti della confessione. Le vittime avrebbero in seguito dichiarato di essersi sentite colpevoli di aver svegliato in lui il desiderio sessuale, a riprova della pervasività del controllo psicologico del loro carnefice.
Il prete svolgeva poi un ruolo fondamentale: induceva – con ogni mezzo – «la vocazione» al sacerdozio nei giovani. El Bosque era un’oasi nel deserto delle vocazioni che la chiesa cilena stava attraversando. Karadima era il direttore spirituale di giovani brillanti che venivano da famiglie di destra, i quali poi scalavano facilmente le gerarchie. Si stima abbia indirizzato una cinquantina di giovani al sacerdozio e che, grazie a loro, abbia costruito una ragnatela di potere nella nomenklatura ecclesiastica cilena, «una rete di protezione attorno ai suoi abusi, l’alibi della sua perversione», dice Luis Lira (in J.A. Guzmán, G. Villarrubia, M. González, Los secretos del imperio Karadima, 2011). Grazie a questa rete, alla conoscenza degli indicibili segreti di molti prelati e alla sua consuetudine con il potere, Karadima è entrato in relazione con Angelo Sodano, nunzio apostolico in Cile tra il 1977 e il 1988, l’epoca feroce della dittatura militare. Sodano lo avrebbe promosso negli ambienti romani, cercando i suoi consigli nelle nomine dei vescovi. Il punto di contatto tra Karadima e Sodano sarebbe stato Rodrigo Serrano Bombal, funzionario della Dina, la polizia segreta di Pinochet, secondo quanto ha raccontato il medico James Hamilton, una delle vittime del prete, che ha aggiunto: «Karadima era ultra pinochettista».
Sodano era assai vicino alla dittatura di Pinochet. È stato lui a coordinare, nel 1987, la visita di Giovanni Paolo II in Cile. Soltanto nel dicembre 2019, il prelato è stato allontanato da incarichi di responsabilità da papa Francesco, per la copertura che aveva fornito all’ex padre messicano Maciel Marcial, fondatore dei Legionari di Cristo, pedofilo e abusatore seriale.
La ragnatela di Karadima è stata squarciata da una donna: Veronica Miranda. È stata lei, la sposa di James Hamilton, che ha cominciato a rifiutarsi di obbedire agli ordini del sacerdote, il quale l’aveva accusata davanti al marito di essere posseduta dal demonio. È stata lei che prima è riuscita a far parlare il marito in casa, poi ha sporto pubblica denuncia. Quando il matrimonio tra i due si è rotto, i coniugi sono stati inizialmente isolati dal loro circuito sociale e accusati di mentire. Ma ormai il guscio era rotto. Insieme ad Hamilton, molti altri uomini hanno denunciato Karadima per gli abusi subiti. La verità è venuta a galla, nonostante numerosi tentativi di insabbiamento del clero cileno: Karadima (condannato nel 2011 dal tribunale ecclesiastico e nel 2018 ridotto allo stato laicale da Francesco) è stato il punto più evidente di una rete di perversione presente dentro la chiesa cilena.
Il viaggio di Francesco
Nel suo (difficile) viaggio nel paese (15-18 gennaio 2018), papa Francesco ha incontrato una delegazione delle vittime di abusi: «Sento dolore e vergogna per il danno irreparabile causato ai giovani da alcuni ministri della Chiesa. È giusto chiedere scusa e appoggiare con ogni mezzo le vittime, e impegnarsi perché non accada mai più» ha detto il pontefice.
Come si spiega dunque l’enigma Karadima? Come ha fatto un uomo «di tanta poca luce e tante meschine ambizioni» ad arrivare a guidare la spiritualità della élite cilena, a costruire una rete di favori, abusi e silenzi? Lo ha fatto solo «grazie a giganteschi aiuti arrivati dalle convinzioni politiche e morali delle élite degli anni ’80, le quali erano attratte dal suo messaggio semplice: il peccato peggiore è quello sessuale, la salvezza e la bontà si raggiungono pregando in una cappella, senza occuparsi di ciò che accade al di fuori del proprio circolo sociale». Nell’ambiente di El Bosque, la predicazione di Karadima permetteva alle élite di conciliare la ricchezza materiale, la condizione di classe dominante e la fede, dentro un sistema di protezione garantita dalla dittatura militare. Il messaggio di Karadima «riscaldava le loro anime», conclude l’inchiesta del libro I segreti dell’impero Karadima.
L’arcivescovo della Solidaridad
Mentre le élite cilene accorrevano al pulpito di Karadima e si tappavano occhi e orecchie di fronte ai mormorii di abusi e di corruzione, nella stessa città di Santiago vi era un’altra chiesa.
Il 4 ottobre 1973, nel giorno di San Francesco, meno di un mese dopo il golpe militare, è nato il «Comitato di Cooperazione per la pace», promosso dall’arcivescovo di Santiago, Raúl Silva Henríquez, per la chiesa cattolica, insieme ai rappresentanti dell’ebraismo e delle confessioni luterana e ortodossa e alcuni pastori evangelici. L’obiettivo era quello di vigilare in modo stabile sulla violazione dei diritti umani perpetrati fin dal primo giorno dell’insediamento di Augusto Pinochet. Per due anni, questo gruppo ha offerto assistenza sociale e legale ai detenuti, a coloro che subivano le torture e le crudeltà degli agenti del generale.
Nel 1975, a causa delle pressioni della dittatura, il Comitato è stato sciolto. L’arcivescovo Raúl Silva Henríquez ha però reagito chiedendo e ottenendo da Paolo VI la creazione della «Vicaría de la solidaridad».
Così, mentre la repressione di Pinochet non conosceva pause, la Vicaría, grazie alla protezione della Chiesa cattolica, ha potuto continuare il lavoro interrotto del Comitato per la pace. Le sue attività erano divise in quattro dipartimenti: giuridico, del lavoro, agricolo e territoriale, arrivando a impiegare fino a 300 persone, tra giuristi, medici, psicologi e altro personale. Oltre a offrire difesa giuridica, promuoveva attività lavorative e di formazione, pubblicava la rivista Solidaridad, organizzava mense sociali che alimentavano migliaia di persone al giorno durante la crisi del 1982. Ed è diventata il punto di raccolta delle denunce di sparizione, permettendo così di costruire un archivio dei desaparecidos. In almeno due occasioni, nel 1978 e nel 1984, ha promosso eventi pubblici a favore dei diritti umani. Non potendo chiuderla, il governo militare ha provato a più riprese a terrorizzare i suoi membri, tramite minacce, persecuzioni, espulsioni e anche assassinii. Ciononostante, la Vicaría ha continuato ad operare durante tutta la lunga notte della dittatura e si è sciolta solo nel 1992, con il ritorno della democrazia. Oggi esiste una Fondazione che ne conserva l’archivio e ne promuove la memoria.
Due modi di intendere la fede
Raúl Silva Henriquez e Fernando Karadima sono le due facce della Chiesa in America Latina. Nelle differenze tra queste due figure, vi è la differente concezione della fede, del ruolo del pastore, del Concilio Vaticano II, del rapporto con le ingiustizie sociali. Una differenza che ha attraversato la Chiesa latinoamericana nel corso della seconda metà del Novecento e che è tuttora vigente.
Federico Nastasi
Archivio MC
Paolo Moiola, «Buon lavoro, presidenta», maggio 2014;
Paolo Moiola, Il peso della memoria, giugno 2014;
Paolo Moiola, Forse Darwin piangerebbe, luglio 2014;
Paolo Moiola, Eroi e terroristi in un paese ingiusto, gennaio 2011;
C. Meneses – L. Rubino, Dietro i sorrisi, l’ombra del generale, aprile 2010.
Hanno firmato questo dossier:
Federico Nastasi – Dottorando in economia, ricercatore presso il Cepal (Comisión económica para América Latina), giornalista indipendente. Vive in America Latina, tra Montevideo e Santiago del Cile, collaborando con radio, riviste, quotidiani in italiano e spagnolo. Ha raccontato il referendum cileno con la newsletter «Plaza Dignidad – Lettere dal Cile». È alla sua prima collaborazione con MC.
A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.