Arabia Saudita – Usa: Trump d’Arabia


All’Arabia Saudita, paese ritenuto il principale sponsor (ideologico e finanziario) del terrorismo jihadista, Donald Trump ha venduto armi per miliardi di dollari. Il presidente e il re saudita hanno indicato l’Iran sciita come l’unico responsabile del terrore. Pochi giorni dopo la visita l’Isis ha attaccato Tehran.

Riyadh, Arabia Saudita, 21 maggio 2017. Nessuno dimenticherà presto quell’inquietante immagine, rimbalzata nei media e nei social network di tutto il mondo, che ritrae intorno a un globo luminoso il presidente Usa Donald Trump, il re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud, padrone di casa, il presidente egiziano al-Sisi e, ai loro lati, i leader di altri 50 paesi islamici. La scena pare evocare rappresentazioni di fratellanze occulte per il dominio sul mondo.

Armi e miliardi

Il primo viaggio estero di Donald Trump aveva obiettivi politici, ma soprattutto economici a tutto vantaggio degli Stati Uniti. L’accordo stipulato con Riyadh prevede una vendita di armi all’Arabia Saudita per un valore di 110 miliardi di dollari da pagare subito e altri 350 miliardi in dieci anni. Un accordo elefantiaco che – come scrive John Wight (counterpunch.org, 23 maggio) – potrebbe essere un «incentivo che la politica e i media statunitensi richiedono per girarsi dall’altra parte quando [l’Arabia Saudita] decapita, crocifigge, cava gli occhi pubblicamente, e esegue altre punizioni crudeli e barbare su base regolare». Tale arsenale di distruzione dovrà difendere il già ben difeso Israele e rappresenterà una minaccia sia per l’Iran, uno dei bersagli preferiti della propaganda bellica di Trump, sia per tutto il Vicino e Medio Oriente e Nordafrica.

Trump: Iran terrorista

Nella sua visita, Trump non ha lesinato elogi per il regime di Riyadh, esaltandolo, paradossalmente, per la «lotta al terrorismo» e lanciando, allo stesso tempo, dure accuse all’Iran. Visti gli ampi studi e la documentazione al riguardo, non è un segreto per nessuno che la dottrina salafita wahhabita dell’Arabia Saudita sia la matrice ideologica e metodologica del jihadismo sia di al-Qa‘ida sia del Daesh, e responsabile del sostegno materiale all’estremismo cosiddetto islamico.

Appare dunque un chiaro segno di appoggio alle politiche di Riyadh, il discorso aggressivo e manipolatorio di Trump verso l’Iran: «Dal Libano all’Iraq allo Yemen, l’Iran finanzia, arma e addestra terroristi, milizie e altri gruppi estremisti che diffondono distruzione e caos nella regione. Per decenni, l’Iran ha alimentato il fuoco dei conflitti settari e del terrore. È un governo che parla apertamente di omicidi di massa, promettendo la distruzione di Israele, la morte dell’America, e la rovina per molti leader e nazioni riunite in questa stanza. Tra gli interventi più tragici e destabilizzanti dell’Iran c’è la Siria. […] Le nazioni responsabili devono lavorare insieme per porre fine alla crisi umanitaria in Siria, sradicare l’Isis, e riportare la stabilità nella regione. […] Finché il regime iraniano non diventerà un partner per la pace, tutte le nazioni con coscienza devono lavorare insieme per isolarlo, impedirgli di finanziare il terrorismo e pregare per il giorno in cui gli iraniani avranno il governo giusto che si meritano».

Trump attacca un paese che due giorni prima, il 19 maggio, era andato alle urne e aveva rieletto il moderato e filo occidentale Hassan Rohani (vedi sotto).

AFP PHOTO / Saudi Royal Palace / BANDAR AL-JALOUD

Re al-Saud: l’Iran è il colpevole

Ancora più grottesta la dichiarazione di re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud: «L’Arabia Saudita rifiuta ogni estremismo e lotterà per fermarne il finanziamento. Vogliamo una vera collaborazione con gli Stati Uniti per perseguire la via dello sviluppo e della pace, così come chiede la nostra religione. L’islam sarà sempre la religione della pietà e della tolleranza. Oggi, tuttavia, alcuni presunti musulmani vogliono presentare un quadro distorto della nostra religione. L’Arabia Saudita non ha mai conosciuto il terrorismo fino alla rivoluzione khomeinista. L’Iran interferisce negli affari interni di altri paesi, come dimostra il suo intervento nello Yemen (Riyahd è protagonista in quella guerra, ndr). Noi non consideriamo nemico il popolo iraniano ma il regime iraniano. Con l’accordo di Sua eccellenza Trump colpiremo il terrorismo, divulgheremo inoltre la cultura della tolleranza contro il terrore e la sua propaganda».

Pecunia non olet

La chiave di lettura di tutta l’operazione di propaganda Usa-Saudita sta qui: «Vi ringraziamo per la creazione di questo grande momento storico – ha affermato Trump -, e per il vostro massiccio investimento in America, nella sua industria e lavoro. Vi ringraziamo anche per i vostri investimenti nel futuro di questa parte del mondo».

Pecunia non olet (il denaro non puzza): questo vale per qualsiasi potente, ma ancora di più per Trump, che, oltre a essere un capo di Stato è anche, o soprattutto, un uomo d’affari miliardario. In qualche modo, è quanto ha fatto notare il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che, secondo quanto ha riportato l’agenzia iraniana ParsToday, ha sottolineato come uno degli obiettivi di Trump è «mungere i sauditi». Zarif ha ricordato che Riyadh è il più importante acquirente delle armi americane e, con Israele, il primo alleato di Washington nel Medio Oriente .

Probabilmente, come diversi analisti indipendenti hanno rilevato, le accuse di Trump, e di tutti gli altri presidenti Usa, contro l’Iran sono parte di una strategia volta a creare timori e minacce in Medio Oriente, e a vendere costosi arsenali bellici ai paesi arabi e islamici della regione.

Il «pacchetto di armamenti» (oltre 450 miliardi di dollari per tank, navi militari, sistemi missilistici di difesa, radar e comunicazioni, e tecnologia della sicurezza cibernetica) servirà – secondo quanto affermato dalla Casa Bianca – a «promuovere la sicurezza del Regno e della regione del Golfo di fronte alle minacce iraniane». Servirà anche a espandere le attività delle aziende statunitensi in Medio Oriente e a creare decine di migliaia di posti di lavoro nell’industria della «difesa», come si legge nella dichiarazione.

Sunniti contro sciiti

Il gotha dell’islam sunnita riunito in Arabia Saudita, tra sabato 20 e domenica 21 maggio, aveva l’aria minacciosa di una coalizione anti-sciita in procinto di organizzare una guerra a tutto campo contro gli odiati avversari religiosi, ma soprattutto geopolitici, nel Vicino e Medio Oriente. Infatti, il terrorismo mediorientale, cioè al-Qa‘ida e le sue filiazioni (compresa quella definita «moderata» di Jabat al-Nusra), e il Daesh (Isis), hanno origine e supporto nel paese ospite del vertice arabo e non certo in Iran. Una farsa pericolosa, dunque, portata avanti da leader irresponsabili.

Da parte sua, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha perseguito due obiettivi importanti allo stesso tempo, e interconnessi tra loro: quello del business miliardario e dell’affondo all’Iran, in una prospettiva di conflitto totale tra i due schieramenti mediorientali: il sunnita – con i paesi del Golfo e la Turchia, determinati a dominare nella regione -, e quello sciita – con l’Iran, il Libano degli Hezbollah e la Siria di Assad. Fondamentale, in questo risiko giocato sulla pelle di milioni di esseri umani, sarà il ruolo della Russia di Putin e della Cina, che per il momento mantengono una certa compostezza.

Attraverso il business degli armamenti e di tutto l’indotto bellico l’economia statunitense prenderà fiato. Inoltre, gli Usa forniranno ulteriore protezione e sicurezza incondizionate a Israele – nonostante i crimini di cui continua a macchiarsi contro gli autoctoni Palestinesi -, e stabiliranno un predominio sul sempre strategico Medio Oriente. Insomma, siamo in una nuova fase del neocolonialismo occidentale, con gli Stati Uniti di Trump a ricoprire il ruolo di attore principale, in competizione o alleanza conflittuale con Gran Bretagna e Francia, e in antagonismo con Russia e Cina.

Il tornaconto dei leader arabi

Come storicamente hanno già dimostrato più volte, a partire dalla fine del secolo XIX e proseguendo nel XX, i leader arabi si distinguono per la totale incapacità di guardare oltre il loro tornaconto personale e familiare, e di seguire una politica estera autonoma, unitaria e in contrasto con quella delle potenze coloniali. Per comprendere la situazione odierna, infatti, è fondamentale ritornare alla storia dei paesi arabi dei primi decenni del Novecento e ai fallimentari accordi tra sceicchi arabi e potenze europee per la spartizione del Vicino e Medio Oriente, e alle vicende coloniali europee in Libia. Insomma, gli errori arabi si ripetono all’infinito, senza lasciar intravedere una maturazione.

La storia è ciclica, soprattutto nel mondo arabo e islamico e quando ci sono di mezzo potere e affari. Speriamo che questa nuova e macabra farsa non si trasformi in un’altra tragedia.

Angela Lano

1 / Il terrorismo e la «svolta» del 5 giugno 2017

Arabia Saudita contro Qatar

Lo scorso 5 giugno Arabia Saudita, Egitto, Bahrein ed Emirati arabi uniti hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar. L’Arabia Saudita, genitrice ideologica e materiale di ogni forma di devianza dottrinale, e i suoi alleati accusano Doha di «finanziare il terrorismo». E qui s’intende l’Iran e le sue relazioni con Siria e Hezbollah che, secondo il Trump-pensiero, sono all’origine del terrorismo, e non – invece – al-Qa’ida e il Daesh, come noto finanziate da Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. Riyadh investe soldi a palate in Europa, Asia, Africa e Americhe sia per «business» sia per attività di «catechesi» (wahhabi). Il Qatar ha comprato mezza Europa e anch’esso finanzia qua e là per diffondere la stessa ideologia wahhabi. Tra i due paesi è in atto da tempo una guerra per procura che si allarga sempre di più, e il cui obiettivo è il controllo di vaste aree di Africa e Medio Oriente. Entrambi sono appoggiati da potenze occidentali (Stati Uniti, Israele, Gran Bretagna, Francia) che vedono in certe dinamiche l’«utile caos» per continuare a colonizzare militarmente ed economicamente ampie regioni del mondo. La crisi tra i paesi del Golfo sembra essere precipitata dopo la visita del businessman nonché presidente Usa, Trump, in Arabia Saudita.

Angela Lano

2 / Iran: le prime conseguenze

Tehran sotto attacco

Mercoledì 7 giugno terroristi dell’Isis hanno attaccato il parlamento di Tehran facendo almeno 12 morti. Il fatto è avvenuto dopo la rielezione di Hassan Rohani e dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e suoi alleati con il Qatar (notizia a lato). Con Razie Amani, giornalista iraniana e docente all’Università di Tehran, abbiamo parlato delle accuse di Trump all’Iran.

«Le dichiarazioni di Trump sono in linea con la creazione di una Nato araba e con la presenza massiccia delle armi statunitensi in Medio Oriente, a difesa di Israele. L’attacco contro l’Iran è anche contro il Libano di Hezbollah e la Siria di Assad (cioè, gli “assi della resistenza”). Il Daesh, come fu per al-Qa‘ida, è stato creato per destabilizzare il Vicino e Medio Oriene, in particolare il Libano e la Siria».

A livello geopolitico che esiti avrà l’alleanza economico-militare tra Usa e Arabia, rafforzata dai recenti accordi? «Secondo me non esiste una vera alleanza, ma un affare enorme che gli Usa hanno fatto in Arabia Saudita, non solo a livello economico ma anche per rendere più forte la presenza statunitense in Medio Oriente. L’unica reale conseguenza geopolitica è il rafforzamento del regime di Riyadh in quanto suddito di Stati Uniti e Israele, e il tentativo di indebolimento dell’Iran nella regione. Dobbiamo comprendere che la Nato non gioca più a scacchi con la Russia sul territorio europeo, come decenni fa. Lo fa in Medio Oriente».

Rohani è stato rieletto. Quali sono le motivazioni e le prospettive? «È la figura che rappresenta la parte “moderata” e filo occidentale del paese. Rohani ha basato la sua propaganda elettorale sulla paura: “Se non voterete me, ci saranno guerra e sanzioni occidentali”. Come se le sanzioni non fossero in atto già da lungo tempo. La sua missione è realizzare un’apertura e una maggiore obbedienza dell’Iran agli Usa e alla grande finanza mondiale. Ma sappiamo che ciò non servirà a nulla, anzi, sarà dannoso». L’attentato del 7 giugno lo dimostra.

Angela Lano




La Croazia: Una spiaggia non basta


Indipendente dal 1991, la Croazia racchiude molteplici identità, una ricchezza che spesso produce tensioni. Le cicatrici della storia ad esempio riemergono periodicamente sia all’interno del paese sia nei rapporti con gli ex fratelli jugoslavi, in primis con la Serbia. Ai problemi politici si sono aggiunti quelli economici e sociali. L’entrata nell’Unione europea e il boom del turismo non sono stati sufficienti a evitare anni di recessione economica e la fuga dei giovani dal paese.

Est o Ovest? Europa centrale, Balcani o Mediterraneo? La geografia e la storia della Croazia non sono d’aiuto quando si tratta di posizionare il paese all’interno di queste categorie concettuali. La giovane repubblica, indipendente dal 1991, ha infatti diverse anime, che si ritrovano nei suoi dialetti, nei suoi stili architettonici e persino nella sua gastronomia. Terra di isole adriatiche, montagne innevate e pianure danubiane, la Croazia trae dalla propria ricchezza culturale le sue multiple identità: romana, slava, veneziana, austro-ungarica, jugoslava, europea… Un patrimonio di influenze e di sfumature, da cui derivano però anche le tensioni del presente. Le interpretazioni del passato, le opinioni sulla religione o ancora i rapporti con i paesi confinanti, scatenano periodicamente dei dibattiti capaci di spaccare in due la società croata, producendo un costante senso di lacerazione, che nemmeno l’ingresso nell’Unione europea, nell’estate del 2013, è riuscito a placare.

Se la presidente guarda a Višegrad

«Vorrei che non si utilizzasse più l’espressione “Balcani occidentali” per indicare questa regione. Parliamo piuttosto di Sud Est europeo». Nel novembre del 2015, in occasione di un vertice multilaterale, la presidente croata Kolinda Grabar-Kitarovi? ha espresso così il suo punto di vista sulla questione geografica della Croazia e dei suoi vicini. Il termine «Balcani» veniva allora bandito dai discorsi ufficiali della capo di Stato, eletta ad inizio 2015 tra le fila del partito conservatore Hdz e decisa ad avvicinare il paese al cosiddetto gruppo di Višegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Anche se la diplomazia internazionale ha in realtà mantenuto il vecchio vocabolario, per la Croazia, l’approccio di Grabar-Kitarovi? ha marcato un cambio di passo, confermato in quello stesso mese di novembre anche dal risultato delle elezioni legislative. L’Hdz, vincitore relativo dello scrutinio, è riuscito infatti a tornare al potere dopo una parentesi socialdemocratica (2011-2015) ed il governo che ne è risultato, guidato dal premier tecnico Tihomir Oreškovi?, ha riaperto in meno di un anno tutte le ferite proprie del tessuto sociale croato.

Le cicatrici della storia

L’esempio più significativo è quello di Zlatko Hasanbegovi?, uno storico accusato di revisionismo e negazionismo, ma nominato ministro della Cultura. Tra dichiarazioni sprezzanti e decisioni liberticide (ad esempio, la sospensione dei fondi pubblici ai media no-profit e al quotidiano della minoranza italiana «La Voce del Popolo»), Hasanbegovi? si è fatto notare anche per le sue osservazioni sul campo di concentramento di Jasenovac, il lager croato in cui morirono durante la Seconda guerra mondiale più di 83mila persone. «Tra le 20mila e le 40mila», è stata invece la stima del ministro, fatta proprio alla vigilia della cerimonia commemorativa nell’aprile 2016, boicottata allora dai rappresentanti delle vittime serbe ed ebree. Accadeva appena un anno fa, ma le radici del dibattito vanno cercate nel 1941, «l’anno che continua a tornare» come l’ha definito il celebre storico croato-bosniaco Slavko Goldstein. Nel 1941, lo scoppio della Guerra mondiale ha diviso il paese in due: tra ustascia e partigiani, i primi sostenitori dello Stato indipendente croato (Ndh), alleato della Germania nazista e dell’Italia fascista e guidato da Ante Paveli?; i secondi schierati con Josip Broz, detto Tito, diventato poi il leader della Jugoslavia socialista. E da allora, il 1941 «continua a tornare» come una maledizione.

Lo scontro sui diritti civili

La carriera ministeriale di Hasanbegovi?, convinto che la Croazia abbia «perso la Seconda guerra mondiale», è durata appena un anno. Nel giugno del 2016, il primo ministro Oreškovi? è stato sfiduciato, dopo che uno scandalo di corruzione aveva diviso i due partiti di maggioranza. Tuttavia, anche se si è trattato del «governo più breve della storia croata», come l’ha battezzato la stampa locale, diverse polarizzazioni proprie del paese sono state accentuate proprio in quel periodo. Oltre al caso Hasanbegovi?, che ha portato nel paese anche una missione del Consiglio d’Europa preoccupato per lo stato della libertà di espressione, un secondo terreno di scontro è stato quello della questione dell’aborto e dei diritti civili. Già nel 2013, ai tempi del governo socialdemocratico (Sdp), il fronte conservatore «Nel nome della famiglia» (U ime obitelji) era riuscito a rendere illegale il matrimonio tra persone dello stesso sesso, dopo aver organizzato un referendum costituzionale. L’esecutivo aveva risposto approvando le unioni civili anche per le coppie omosessuali, ma non era riuscito a chiudere il dibattito, in un paese che si professa cattolico quasi al 100%.

Durante il mandato di Oreškovi?, quindi, questo stesso movimento è tornato alla ribalta organizzando una «Marcia per la vita», con l’obiettivo di «proibire l’aborto in Croazia», come assicurava allora uno dei registi dell’evento, Vice John Batarelo, presidente dell’Ong «Vigilare». Al corteo, a cui presero parte migliaia di persone, sfilò in prima fila anche la moglie del premier, mentre a qualche metro di distanza si teneva una seconda manifestazione, voluta dai gruppi femministi e Lgbt della capitale e con obiettivi diametralmente opposti. Anche se è difficile che i militanti di «Nel nome della famiglia» arrivino a vietare l’interruzione di gravidanza, va detto che il tribunale di Zagabria, rispondendo ad una denuncia del 1991, ha dato al parlamento croato due anni di tempo (fino al 2019) per aggiornare la normativa in materia di aborto (che risale al 1978) in modo da renderla pienamente compatibile con l’ordinamento nato dopo la dissoluzione della Jugoslavia. La riforma della normativa non mancherà dunque di riaccendere il dibattito.

Croazia-Serbia: una ruggine che non passa

Un’altra questione religiosa – e legata anch’essa all’anno 1941 – ci porta ad affrontare il capitolo dei rapporti con la Serbia. Il caso del cardinale croato Alojzije Stepinac provoca infatti degli scontri regolari tra le cancellerie di Belgrado e di Zagabria. In breve, Stepinac (1898-1960), che fu arcivescovo nella capitale croata durante la Seconda guerra mondiale, è accusato dalle autorità serbe di crimini di guerra e di collaborazionismo con il regime di Ante Paveli? e, proprio per questo, fu condannato a 16 anni di prigione nel 1946 dalla giustizia jugoslava. Ma per la Croazia, Stepinac fu in realtà una vittima del comunismo, come dimostra il fatto che papa Giovanni Paolo II lo abbia proclamato «beato» nel 1998 e che una commissione in Vaticano stia discutendo ora della sua eventuale santificazione. Lungi dall’essere aneddotica come potrebbe sembrare, questa vicenda funge da leitmotiv nelle relazioni bilaterali serbo-croate, intervallate dagli anniversari del conflitto e dalle frequenti dichiarazioni incendiarie.

Anche in questo caso, l’apice della tensione diplomatica tra Croazia e Serbia è stato raggiunto durante il mandato di Oreškovi?, quando il ministro degli Esteri di Zagabria era Miro Kova? – uno dei falchi dell’Hdz – ed il suo corrispettivo serbo era Ivica Da?i?, alla guida del Partito socialista (Sps) che fu di Slobodan Miloševi?. Nell’estate del 2016, Belgrado si è spinta fino a scrivere all’Unione europea per protestare contro «la riabilitazione dell’ideologia ustascia in Croazia», mentre a livello locale continuavano le provocazioni, almeno fino alla nuova tornata elettorale croata. La nuova vittoria dell’Hdz, epurato questa volta dal suo vecchio leader Tomislav Karamarko e guidato dal più moderato Andrej Plenkovi?, ha portato ad una rosa di ministri quasi completamente rinnovata. Lungi dall’aver estinto le fonti di conflitto all’interno della società, il «riaccentramento» dell’esecutivo croato ha comunque contribuito a limitare la retorica nazionalista nei confronti dei vicini.

La stanchezza dei giovani

In questo contesto pesantemente influenzato dal passato (dal 1941, prima ancora che dal 1991), che ne è delle giovani generazioni? Anche qui, si fa sentire la stessa divisione che attraversa la società nel suo insieme, ma con una novità. Se è vero che una parte della gioventù croata rimane sensibile ai discorsi che ruotano attorno alla retorica conservatrice, un’altra parte, stanca del dibattito politico nazionale e avvilita dalle magre prospettive economiche, sceglie sempre più spesso la via dell’emigrazione (a maggior ragione dopo il 2013, anno dell’ingresso del paese nell’Ue). Spinti da una disoccupazione giovanile che supera il 30% (dati fine 2016), i ventenni croati preferiscono traslocare in Irlanda, Germania o in altri paesi dell’Europa settentrionale. E non sono un’eccezione: secondo un sondaggio realizzato a febbraio 2017 dal portale MojPosao.hr, quattro cittadini su cinque sono pronti a lasciare il proprio paese pur di trovare un posto di lavoro. Una vera e propria emorragia, al punto che secondo alcuni osservatori la Croazia conterebbe oggi meno di 4 milioni di abitanti, contrariamente a quanto affermato dal censimento del 2011, che ne rilevava 4,3 milioni.

Instabilità

Colpita da sei anni di recessione (2009 – 2015) e prigioniera delle ricorrenti discussioni politiche e religiose, la Croazia fatica dunque a trovare quella serenità necessaria a costruire il suo tanto agognato futuro europeo. Il ritorno della crescita, sostenuta soprattutto dal turismo che nel 2016 ha portato nel paese 16 milioni di visitatori (rappresentando quasi un quinto del Pil, vedi pag. 28) e l’elezione di un governo più moderato (ma già in crisi a metà 2017) sembrano rappresentare le giuste condizioni per voltare pagina in Croazia. Ma gli sforzi di una parte della società croata per lasciarsi alle spalle i fantasmi del nazionalismo dovranno fare i conti con il contesto regionale, caratterizzato da una crescente instabilità nei Balcani. In bilico tra passato e futuro, Zagabria ha oggi l’urgenza di completare il processo di riconciliazione con la propria storia recente e con i suoi vicini. Solo su delle basi prive di retorica, il paese potrà finalmente abbracciare tutte le sue identità.

Giovanni Vale*

* Giornalista professionista, Giovanni Vale è collaboratore di diverse testate italiane e francesi. Laureato in Scienze internazionali e diplomatiche all’università di Trieste, scrive perlopiù di Balcani per Il Piccolo, Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa e per Pagina99.

 


Migranti e «rotta balcanica»

Più Budapest che Bruxelles

La crisi dei migranti non ha risparmiato Zagabria. Che ha fatto le sue scelte.

La «rotta balcanica». Con quest’espressione, la stampa internazionale ha battezzato, nell’estate del 2015, il flusso di rifugiati che ha attraversato per mesi la Turchia, la Grecia e alcuni paesi dell’ex Jugoslavia, portando decine di migliaia di persone all’interno dello spazio comunitario. Siriani, iracheni o, ancora, afghani in fuga dai conflitti in Medio Oriente, hanno raggiunto in questo modo il territorio dell’Unione europea (e più precisamente lo spazio Schengen) nella speranza di ottenere una protezione umanitaria. Per la Croazia, questo flusso migratorio ha rappresentato una sfida logistica, prima ancora che politica. Il paese è stato coinvolto nella cosiddetta «rotta» a partire dal 15 settembre 2015, ovvero da quando il governo di Budapest ha ultimato il suo «muro», una barriera provvista di filo spinato e lunga più di 170 km con cui ha sigillato il confine serbo-ungherese. Da allora, la colonna di rifugiati che quotidianamente attraversava il Nord della Serbia in direzione settentrionale ha deviato verso ovest, entrando sul territorio croato.

Il governo di Zagabria, allora guidato dal premier socialdemocratico Zoran Milanovi?, ha dapprima deciso di far proseguire il flusso verso l’Ungheria, poi – dinanzi alla costruzione di una seconda barriera da parte di Budapest (questa volta al confine croato) – ha ripiegato sulla Slovenia. Data la geografia della Croazia, che pone la capitale lontana dalle pianure della Slavonia, interessate da questi eventi, si può dire che pochi cittadini croati abbiano realmente percepito la crisi migratoria del 2015, come è invece avvenuto nella vicina Serbia o ancor più in Grecia. Inoltre, similmente agli altri paesi della regione, soltanto un numero insignificante di rifugiati ha fatto domanda di asilo alle autorità croate, preferendo piuttosto proseguire verso la Germania e l’Europa settentrionale. Ciononostante, la questione migratoria ha avuto delle conseguenze politiche, prima nei rapporti con i vicini (tensioni con l’Ungheria, la Serbia e la Slovenia), poi, dal punto di vista interno.

Le elezioni di fine 2015 hanno infatti portato ad un cambio di governo a Zagabria ed il nuovo esecutivo si è schierato su posizioni più filo ungheresi sul tema delle migrazioni. Come la presidente Grabar-Kitarovi? aveva manifestato il suo appoggio ai paesi del gruppo di Višegrad (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia), così il premier Oreškovi? ha assicurato fin da subito di capire il bisogno di sicurezza di Budapest e Vienna. Nella primavera del 2016, gli stati della «rotta balcanica» (Austria compresa) hanno dunque deciso di contraddire apertamente la posizione di Bruxelles, decidendo autonomamente di sbarrare il passaggio ai profughi, prima permettendo l’accesso a soltanto tre nazionalità (siriani, afghani e iracheni), considerati a priori come legittimi beneficiari della protezione umanitaria, poi chiudendo definitivamente l’ingresso in Macedonia ed isolando così la Grecia. L’accordo turco-europeo ha poi permesso di includere anche Atene in una soluzione comune.

Gio.Va.


La Chiesa cattolica croata

Diffusa, forte e schierata

In Croazia nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica. Limitata e ostacolata all’epoca della Jugoslavia socialista, oggi la Chiesa croata è su posizioni conservatrici e nazionaliste.

A lungo controllata all’epoca della Jugoslavia socialista, la Chiesa cattolica croata si è schierata fin dall’indipendenza nel 1991 su posizioni molto conservatrici. Vicina all’«Unione democratica croata» (Hdz) – il principale partito di destra – la Chiesa svolge tuttora un ruolo di primo piano nel dibattito politico nazionale. Ferocemente anti-comunista e spesso apertamente nazionalista, la gerarchia ecclesiastica croata si esprime sia tramite il suo quotidiano, il «Glas Koncila», sia per mezzo dei suoi alti prelati, periodicamente autori di dichiarazioni forti e schierate.

Alla vigilia delle ultime elezioni parlamentari, ad esempio, il vescovo di Sisak Vlado Koši? ha invitato espressamente i suoi concittadini a votare per l’Hdz e non permettere un ritorno dei socialdemocratici al potere. L’anno prima, nel maggio del 2015, l’arcivescovo di Zagabria Josip Bozani? aveva invece celebrato una messa a Bleiburg in Austria, in occasione del 70° anniversario del massacro di migliaia di cittadini croati compiuto nel 1945 dai partigiani jugoslavi. Ogni anno, la commemorazione di questa vendetta degli uomini di Tito contro gli esponenti dello sconfitto «Stato indipendente di Croazia» (Ndh) raduna nella piccola cittadina dell’Austria meridionale migliaia di militanti croati di estrema destra ed alcuni dei suoi rappresentanti politici. La presenza di alti esponenti ecclesiastici è perciò vista come controversa, così come lo è la figura di Alojzije Stepinac (1898-1960), arcivescovo di Zagabria che la Chiesa croata vorrebbe santo ma che la Serbia considera un criminale di guerra (vedi pezzo principale).

Dalle questioni legate al matrimonio e all’aborto fino alla battaglia contro le unioni omosessuali (contro cui la gerarchia cattolica croata si è battuta con successo nel 2013), gli interventi della Chiesa nel dibattito politico della Croazia sono dunque numerosi e costanti. Nel paese, nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica.

Giovanni Vale


Ex Jugoslavia

Ci eravamo tanto amati

Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, i rapporti con gli ex «fratelli» sono all’insegna del sospetto reciproco.

Il golfo di Pirano, la frontiera sul Danubio o ancora il ponte di Sabbioncello. Ecco tre dossier bilaterali che la Croazia discute oggi con i suoi vicini. Si tratta di questioni nate con la dissoluzione della Jugoslavia e con la necessità di dividere un patrimonio che prima era comune e che non sono ancora state risolte.

Il primo caso è quello che coinvolge Croazia e Slovenia, tuttora impegnate a tracciare una frontiera marittima nelle acque del golfo di Pirano, poco lontano da Trieste. È una controversia vecchia di 25 anni e che ha visto diverse evoluzioni, ma nessuna soluzione condivisa. Lubiana chiede un accesso indipendente alle acque internazionali e rivendica una sovranità più ampia sulla baia, incontrando però l’opposizione di Zagabria. Negli anni, i negoziati si sono susseguiti così come le proposte di nuove carte nautiche. Dopo l’ingresso della Croazia nell’Ue, il diverbio è finito davanti ad una corte internazionale di arbitrato, ma nell’estate del 2015, quando il tribunale stava per esprimersi, una fuga di notizie tra i giudici e i rappresentanti sloveni ha convinto le autorità croate ad abbandonare il processo. Così, ad oltre un quarto di secolo dalla fine della Jugoslavia, i pescatori di entrambi i paesi non sanno ancora dove finiscono formalmente le acque del proprio stato ed iniziano quelle dei vicini.

Anche con la Serbia, una frontiera precisa rimane da tracciare. I paesi sono separati dal corso del Danubio, ma la Croazia fa appello a dei documenti catastali di epoca austroungarica e reclama alcuni ettari di terra che si trovano oggi oltre il fiume. Belgrado, inutile dirlo, si oppone ed ecco che la disputa – anche qui, vecchia di oltre 25 anni – ha permesso la “nascita” del Liberland, uno “stato” autoproclamatosi indipendente su un isolotto che nessuno dei due stati rivendica come proprio. E se la vicenda del confine tuttora da definire fa capolino solo raramente sulla stampa locale, è soltanto perché i motivi di tensione tra i due paesi non mancano: dalla tutela della rispettive minoranze al trattamento dei crimini di guerra, passando per la più recente (e spesso esplicita) corsa agli armamenti, le relazioni bilaterali serbo-croate sono già ben fornite.

Infine, con la Bosnia-Erzegovina, Zagabria discute due temi principali: le sorti dei croati residenti in Bosnia, che premono per la creazione di una «terza entità» federata nel paese, ed il modo in cui bypassare il corridoio di Neum, unico acceso al mare bosniaco ma causa dell’isolamento della contea di Dubrovnik dal resto della Croazia. Il primo argomento è decisamente molto spinoso, perché prevede una riforma dei trattati di Dayton del 1995 che equivarrebbe ad aprire il vaso di Pandora del delicato sistema istituzionale bosniaco. Più abbordabile, invece, il dossier di Neum. A questo proposito, due paesi hanno trovato un accordo per la costruzione di un ponte che collegherà la penisola di Sabbioncello alla terraferma dalmata e i lavori dovrebbero iniziare entro la fine del 2017.

Gio.Va.


Turismo e ambiente

Turisti: tanti, forse troppi

Fonte primaria dell’economia della Croazia, il turismo incontrollato comincia a produrre danni collaterali.

Sedici milioni di visitatori l’anno, con un contributo pari a quasi il 20% del Prodotto interno lordo (Pil). Il turismo rappresenta per la Croazia una priorità economica ed è un settore a dir poco strategico. Ogni anno, l’inizio dell’estate in Dalmazia, in Istria e sulle isole marca una delle ricorrenze annuali più importanti per il paese, che dipende in larga misura (forse eccessivamente) dai risultati della stagione turistica. E se nei fatti, la Croazia registra ogni anno dei nuovi record nel numero di arrivi o di pernottamenti, questo continuo boom comincia già a provocare i primi danni collaterali.

A Dubrovnik o al parco nazionale dei laghi di Plitvice, il numero dei turisti supera ormai la quota massima indicata dall’Unesco come parametro per la protezione del patrimonio culturale e naturale. Si parla di 10mila persone al giorno in fila sui bastioni della vecchia Ragusa e di oltre 15mila all’interno del celebre parco croato: un flusso eccessivo per l’Unesco che ha già intimato alle autorità di Zagabria di rimediare alla situazione. Inoltre, altre conseguenze negative, anche se più difficilmente quantificabili, colpiscono le città della costa e le comunità che le abitano. Accade così che nel centro di Spalato ci sono sempre meno residenti locali, seguendo l’esempio di quanto già successo per le vie della vicina Traù (Trogir). Il successo della spiaggia di Zr?e sull’isola di Pago rappresenta anch’esso un’opportunità e una sfida per le autorità locali, impegnate ora a trovare un equilibrio tra il turismo di massa legato alle discoteca e la voglia di promuovere i propri siti storici e culturali.

Proprio per rimediare a questa strategia mono-settoriale che colpisce le coste croate, un movimento si è sviluppato negli ultimi anni in Dalmazia. Si tratta del «movimento delle isole» (Pokret Otoka), un’iniziativa lanciata da un gruppo di giovani abitanti (perlopiù donne) con l’obiettivo di immaginare e pianificare un futuro sostenibile per le mille isole croate. Nato a fine 2015, Pokret Otoka ha creato una rete per lo scambio di idee e buone pratiche e ha recentemente portato alla firma di una «Dichiarazione dell’isola intelligente» (Smart Island Declaration), presentata a fine marzo 2017 a Bruxelles.

Gio.Va.

 




Zimbabwe: Mugabe, 93 anni, pronto a ricandidarsi nel 2018


Il più longevo dei governanti africani ha portato il suo paese sull’orlo del baratro. Un tempo granaio d’Africa, lo Zimbabwe soffre oggi continue crisi alimentari. Ma Mugabe, come sostiene sua moglie, «sarebbe rieletto anche da morto». Intanto si prepara, con difficoltà, la sua successione.

Robert Mugabe ha compiuto 93 anni. È il più anziano leader africano ed è in carica dal 1980. Ma, nonostante l’età, non ha alcuna intenzione di cedere il potere. Si ricandiderà alla presidenza nel 2018. E certamente sarà rieletto. Perché, come dice sua moglie Grace: «Robert verrebbe rieletto anche se fosse morto».

In 37 anni di potere pressoché assoluto, Mugabe ha creato un apparato di consenso fortissimo che, come diceva Benito Mussolini, sa usare «il bastone e la carota».

Le mani sulle istituzioni

«È molto abile nel giocare al “divide et impera” – spiega un missionario che da anni opera in Zimbabwe e che, per motivi di sicurezza, vuole rimanere anonimo -. Nella mia ingenuità, nel 1980, quando finì il governo razzista di Ian Smith, pensavo che fosse positivo che Mugabe non avesse una propria corrente nel suo partito, lo Zanu Pf (Zimbabwe african national union). La sorpresa è stata grande quando ci siamo resi conto che lui amava governare mettendo uno contro l’altro sia all’interno del suo partito sia a livello di paese».

Ma il suo non è solo un gioco politico. È qualcosa di più. È in grado di mantenersi al potere attraverso la forza del ricatto. Promuove alle cariche più importanti le persone che sa di poter tenere in pugno. Si racconta che un politico sia stato nominato ministro dopo aver ucciso l’amante di sua moglie. Si narra anche che abbia nominato governatore di una provincia un membro del suo partito che era stato fermato con feticci che utilizzava nelle messe nere. Mugabe conosceva i loro reati e sapeva anche che avrebbe potuto tranquillamente ricattare i due politici se non avessero eseguito pedissequamente i suoi ordini.

D’altra parte, il presidente zimbabweano ha una forte presa su tutto l’apparato statale: polizia, forze armate, servizi segreti, magistrati. La maggior parte dei giudici proviene dalle file del partito di governo. Non tutti, ma se un caso approda di fronte al giudice «sbagliato», il regime è in grado di allungare i tempi delle indagini e dei processi in modo tale che non si giunga mai a un verdetto. È il caso delle cause intentate dall’opposizione per 26 seggi vinti dallo Zanu Pf nelle elezioni del 2002. I giudici avrebbero dovuto esprimersi sulle violenze e sulle intimidazioni delle milizie del partito di governo, ma 15 anni dopo non è stata emessa alcuna sentenza.

Il presidente Robert Mugabe e la sua moglie e first lady Grace Mugabe. / AFP PHOTO / Jekesai NJIKIZANA

La moglie Grace

Da tempo, ormai, a fianco del presidente è comparsa sua moglie Grace. Mugabe l’ha sposata in seconde nozze dopo la morte della prima moglie (Sally Hayfron). Il matrimonio è stato celebrato in pompa magna, ma senza aspettare che Grace avesse divorziato dal primo marito Stanley Goreraza, un pilota militare zimbabweano. Fin da subito, Grace si è rivelata una donna ambiziosa. Come segretaria personale del presidente, lo ha spinto a prendere decisioni al limite del ridicolo. Come quando alla signoraè stato riconosciuto il dottorato in Sociologia due mesi dopo l’iscrizione all’università. L’influenza del marito ha certamente contato più delle ore passate sui libri. Ma, ciò che è più grave, ne ha influenzato e ne influenza le decisioni politiche. Dando al regime quell’impronta radicale che ha assunto a partire dagli anni Novanta. Non è un caso che gli Stati Uniti e l’Unione europea abbiano inserito la signora Mugabe nella lista delle personalità zimbabweane soggette a sanzioni per il loro ruolo assunto nel regime.

Grace Mugabe, che ha 52 anni, però non si ferma. Il suo obiettivo è prendere il posto del marito alla presidenza. Fino ad alcuni anni fa, la candidatura sembrava non avere rivali. Poi, lentamente, i gerarchi dello Zanu-Pf hanno iniziato a mettersi di traverso ostacolando con tutti i mezzi possibili la sua ascesa. Lo stesso Mugabe ha ammesso che all’interno dello Zanu-Pf c’è chi la detesta e fa di tutto per sbarrarle la strada. Tutto ciò fa presagire le tensioni che potranno esserci in Zimbabwe dopo la morte del presidente.

Secondo la studiosa di questioni africane, Teresa Nogueira Pinto, intepellata dal quotidiano francese «Le Monde», si prospettano tre scenari possibili per la successione: l’ascesa del vicepresidente Emmerson Mnangagwa, il quale potrebbe aprire a riforme e, quindi, a una transizione morbida; la vittoria di Grace, che porterebbe a gravi tensioni all’interno del partito e quindi un’instabilità continua; l’implosione dello Zanu-Pf che significherebbe guerra civile, caos e violenze.

Protesta ad Harare. / Tafadzwa Ufumeli / Anadolu Agency

Opposizione in catene

L’opposizione non ha vita facile in Zimbabwe. La principale formazione che lotta contro lo strapotere di Mugabe è il Movement for Democratic Change (Mdc) guidato da Morgan Tsvangirai, ex leader sindacale, per anni Segretario generale dello Zimbabwe Congress of Trades Unions. È un partito di matrice socialdemocratica nato non nelle aree rurali, ma nelle principali città e, in particolare, nella capitale Harare. L’Mdc si è candidato nelle elezioni del 2000, ma solo nel 2008 è riuscito a portare una consistente pattuglia di deputati in parlamento. Lo stesso Mugabe, in una dichiarazione che gli è sfuggita, ha ammesso che Tsvangirai avrebbe il 73% dei consensi in un’elezione presidenziale trasparente e che si svolgesse secondo le regole democratiche.

Ma Tsvangirai non è l’unico oppositore a dar fastidio a Mugabe. Negli ultimi mesi è emersa la figura del pastore battista Evan Mawarire. Il 19 aprile 2016 il religioso ha pubblicato su Facebook un video nel quale, in prima persona e con una bandiera zimbabweana al collo, chiede che il Governo avvii una serie di riforme politiche ed economiche. Quel video è diventato virale e il movimento #ThisFlag, cresciuto a livello nazionale, ha iniziato a promuovere scioperi tra i più partecipati negli ultimi anni in Zimbabwe. Ovviamente, il regime gli si è rivoltato contro. Mawarire, dopo essere stato criticato apertamente dallo stesso Mugabe, è stato arrestato in luglio per incitamento alla violenza pubblica, ma poi è stato rilasciato. Ha deciso così di rifugiarsi negli Stati Uniti, anche per fuggire alle minacce di morte alla moglie e ai figli. Quando il primo febbraio ha deciso di rientrare in patria, ha trovato alla frontiera la polizia che lo ha arrestato di nuovo con l’accusa di voler rovesciare il governo, reato per il quale è prevista una pena di vent’anni di carcere.

La protesta ha fatto altre vittime oltre a Mawarire. La polizia ha incarcerato gli attivisti Linda Masarira, Acie Lumumba, Denford Ngadziore, il giornalista Whatomore Makokoba, l’ex leader studentesco Promise Mkwananzi, il sindacalista Stan Zvorwadza e il pastore Philip Mugadza.

Il pastore Evan Mawarire, leader di un movimento di protesta / AFP PHOTO / Jekesai NJIKIZANA

Cristiani divisi

Le Chiese cristiane non hanno posizioni comuni e sono spaccate al loro interno. Alcune parti della Chiesa cattolica hanno provato a opporsi a Mugabe. Monsignor Pius Aleck Mvundla Ncube, arcivescovo di Bulawayo (la seconda città del paese), per anni è stato uno dei principali oppositori di Mugabe. Le sue invettive colpivano duro il regime. Ha organizzato diverse manifestazioni di protesta e in lui molti vedevano un possibile leader dell’opposizione politica. Uno scandalo sessuale però l’ha travolto e indotto a uscire di scena. Un giornale controllato dal governo ha pubblicato nel 2007 alcune foto che ritraevano un uomo nudo insieme a tre donne. Le immagini erano sfocate, ma il quotidiano affermava che quell’uomo fosse proprio mons. Ncube. Papa Benedetto XVI gli ha così chiesto di rassegnare le dimissioni. Cosa che lui ha fatto l’11 settembre 2007 per poi sparire dalla ribalta mediatica e dalla scena politica zimbabweana.

«Alcune frange della Chiesa cattolica – spiega un altro missionario, anche lui sotto richiesta di anonimato – continuano però a denunciare le ingiustizie del regime. E lo fanno con molta più forza di quanto facessero sotto il regime bianco di Ian Smith. Questo è un segnale positivo. Sarebbe però utile che tutti i cristiani fossero uniti, mentre così non è».

La Chiesa anglicana, molto forte nel paese, ha resistito a un tentativo del presidente Mugabe di prenderne il controllo. Alcuni anni fa, Norbert Kunonga, un religioso fedelissimo di Mugabe, ha provato, istigato dal regime, a creare una Provincia anglicana indipendente in Zimbabwe. Ma è stato sconfessato dalla Comunione anglicana e la maggior parte dei fedeli si sono rifiutati di seguirlo.

«Le Chiese cristiane indipendenti – continua il missionario -, supportano apertamente Mugabe soprattutto quando il presidente si scaglia contro gli omosessuali e invita le donne a “rimanere al proprio posto”, cioè a casa. Queste uscite di Mugabe gli garantiscono un forte supporto. Le Chiese pentecostali invece si proclamano apolitiche e non si interessano in alcun modo della lotta per il potere, promuovendo il successo in campo economico».

Tafadzwa Ufumeli / Anadolu Agency

Quel che resta dell’economia

L’economia è al collasso. Il regime segregazionista di Ian Smith, deprecabile e condannabile sotto il profilo politico e sociale, aveva però lasciato in eredità al paese un’economia funzionante. L’agricoltura era organizzata in modo industriale e riusciva a produrre un surplus che veniva esportato garantendo un’ottima fonte di valuta pregiata. Lo Zimbabwe poi aveva un buon tessuto industriale che creava profitti e occupazione. Le risorse non erano ben distribuite, ma una buona politica economica avrebbe potuto portare una equa redistribuzione dei redditi a vantaggio di tutta la società.

Il primo colpo a questo sistema è stato dato dall’accettazione da parte di Mugabe delle politiche di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale. Queste, negli anni, hanno portato a un progressivo impoverimento industriale. «Oggi le statistiche ufficiali – continua il missionario – parlano di un’industria che funziona al 30% delle sue reali potenzialità. In realtà, non esiste più un’industria zimbabweana. Per comprenderlo è sufficiente fare un giro nelle periferie di Harare e di Bulawayo».

Un secondo e mortale colpo all’economia è stato dato dalla riforma agraria del 2000. Fin dai primi giorni dell’indipendenza, Mugabe aveva parlato della necessità di una redistribuzione ai coltivatori neri delle terre in mano ai latifondisti bianchi. Una politica che non era avversata di principio dai grandi farmer, ma che stentava a decollare. La maggior parte delle terre migliori, alla fine degli anni Novanta, era ancora in mano ai bianchi che, però, solo in parte erano gli eredi dei coloni britannici. Mugabe, cogliendo l’occasione del mancato supporto dei bianchi a un suo progetto di riforma costituzionale (che prevedeva la nomina a presidente a vita dello stesso Mugabe), nel 2000 ha varato una riforma agraria che ha espropriato le terre dei bianchi assegnandole però non ai contadini neri, ma ai fedelissimi del regime (in maggioranza incapaci di gestire una grande tenuta). L’economia è così crollata.

Oggi lo Zimbabwe è un paese che deve importare derrate agricole. Per placare l’inflazione, la valuta locale è stata ritirata e sostituita dal dollaro statunitense. Il 70% della forza lavoro è disoccupata. Ma forse Mugabe si occuperà di questa crisi nel prossimo mandato.

Enrico Casale