Solo Dio può salvare il Centrafrica

Centrafrica, dal Carmel di Bangui ci scrive padre Federico Trinchero |


Il primo maggio 2018, durante la messa a Notre Dame de Fatima, – una parrocchia di Bangui capitale della Repubblica Centrafricana (Centrafrica) – un gruppo di miliziani ha lanciato un attacco con granate sui fedeli. Sedici i morti – tra i quali il sacerdote – e un centinaio i feriti. È l’ennesimo atto di una guerra di potere iniziata nel 2012, e che è stata trasformata in conflitto etnico-religioso. La testimonianza di un missionario a Bangui.

«Nei momenti più difficili emergono degli eroi e non dubito che degli eroi esistano nel Centrafrica per alzarsi, come un solo uomo, per dire no alla violenza, no alla barbarie, no alla distruzione di se stessi». È questo l’appello che l’arcivescovo di Bangui, il cardinale Dieudonné Nzapalainga, ha rivolto alla capitale e all’intera nazione in questi giorni drammatici, carichi di tensione e di tristezza.

Cos’è successo a Bangui?

La mattina del primo maggio, durante una celebrazione nella parrocchia di Notre Dame de Fatima (a poca distanza dal nostro convento), un gruppo armato proveniente dal quartiere Km5 (Pk5 è un’enclave a maggioranza musulmana, da anni il focolaio principale delle tensioni della capitale) ha aperto il fuoco sulla gente in preghiera provocando 16 morti e un centinaio di feriti. L’incursione è avvenuta come rappresaglia in reazione a un tentativo da parte delle forze dell’ordine di catturare alcuni elementi di questo gruppo armato che, di fatto, tiene in ostaggio la capitale e alcuni degli stessi musulmani del quartiere.

I fedeli a Fatima avevano appena proclamato la loro fede e stava per iniziare l’offertorio. Ma la messa è continuata con il sacrificio di sedici cristiani, tra i quali un sacerdote, l’abbé Albert Tungumale Baba. Lo scontro è poi continuato per giorni in altri quartieri della città provocando altri morti, altri feriti e la distruzione di due moschee.

nella Repubblica Centrafricana un massacro tira l’altro

L’episodio del primo maggio, che ha ferito e lasciato quasi incredula l’intera città, è avvenuto inoltre a poche settimane dell’uccisione a Séko (nel centro del paese) di un altro sacerdote, l’abbé Désiré Angbabata, insieme a undici suoi parrocchiani (assassinio avvenuto il 21 marzo 2018).

L’abbé Albert, settantun anni, tra i sacerdoti più anziani del clero di Bangui, era un pastore stimato e conosciuto per la sua semplicità e simpatia, e soprattutto per la sua opera discreta e infaticabile in favore della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Durante le fasi più acute della guerra aveva accolto per diversi anni, nella sua parrocchia vicinissima al Km5, migliaia di profughi provenienti dai quartieri vicini. L’abbé Albert, inoltre, era a tutti noto per il suo grande amore per il sango, la lingua nazionale della Repubblica Centrafricana, non particolarmente ricca di vocaboli. L’abbé Albert riusciva a tradurre ogni parola (senza usare il francese), con soluzioni geniali o giri di parole divertenti. Una volta, mentre eravamo in macchina insieme, tradusse pure il mio nome, decretando che mi si doveva chiamare Bwa (che in sango significa sacerdote) Federiki.

Salvare il Centrafrica

In un’intervista l’abbé Albert aveva detto che solo Dio può ormai salvare il Centrafrica. Non aveva tutti i torti. A salvare il Centrafrica ci hanno provato, e ci stanno ancora provando, in tanti: l’esercito nazionale, le truppe dell’Unione africana, la missione francese (che ha comunque il grande merito di aver impedito che il conflitto diventasse un massacro), i soldati dell’Unione europea, poi la Minusca, la grande missione dell’Onu (che, pur con tutti i suoi limiti, resta al momento l’unica soluzione possibile) e ora sono all’orizzonte anche i russi. Ci ha provato pure papa Francesco che, con la sua visita nel novembre del 2015, era riuscito a regalare una tregua sufficiente per eleggere democraticamente un nuovo presidente. Con il tempo, purtroppo, l’effetto di quella visita è come svanito e l’occasione di voltare pagina è stata per l’ennesima volta sprecata. Gli scontri si sono moltiplicati su tutta l’estensione del paese e quella pace, che avevamo appena accarezzato, sembra quasi più lontana di prima.

AFP PHOTO / FLORENT VERGNES

Una guerra, perché?

Perché è iniziata questa guerra? E perché sembra impossibile arrestarla? Le guerre sono sempre complesse, iniziano per tanti motivi ed evolvono nel tempo. Anche per chi abita qui da anni è difficile spiegare le vere ragioni del conflitto e, ancor di più, suggerire la soluzione giusta per spegnere l’incendio evitando che si propaghi ora qui, ora là – quasi come i fuochi della savana – lasciando solo morti, distruzione, paura e scoraggiamento. Attualmente i due campi avversari non sono neppure così nettamente distinguibili, come nei primi anni della guerra, tra Seleka (la coalizione delle milizie a maggioranza musulmana, tra cui anche mercenari di altri paesi) e gli anti-balaka (le milizie di autodifesa, sorte a difesa della popolazione del paese, a maggioranza cristiana, ma dalle quali i vescovi hanno sempre preso le distanze). La Seleka è ufficialmente sciolta. Ogni gruppo di ribelli ha il suo capo, i suoi obiettivi e la sua zona d’influenza (ad esempio l’Unione per la pace in Centrafrica è il gruppo che ha compiuto l’attacco a Séko, ndr). Non c’è più quella guerra casa per casa, quartiere per quartiere che Bangui aveva conosciuto nel 2013 e nel 2014. Ora si tratta di battaglie che hanno per protagonisti gruppi di autodifesa, i soldati dell’Onu o le forze dell’ordine. Tre quarti del paese sono come fuori dal controllo dell’autorità dello stato.

AFP PHOTO / FLORENT VERGNES

Guerra per le risorse

La guerra nel Centrafrica, iniziata di fatto già nel 2012, non è uno scontro confessionale o etnico. Si tratta piuttosto dell’ennesimo conflitto per la conquista del potere e per lo sfruttamento delle ricchezze di cui abbonda il sottosuolo (ad esempio i diamanti, ndr). Purtroppo, l’elemento confessionale si è inserito violentemente, avvelenando quella convivenza tra cristiani e musulmani che faceva del Centrafrica – in un tempo ormai lontano – un esempio di coabitazione pacifica. Seko e Fatima confermano che per ritornare alla situazione precedente la strada è ancora lunga.

Durante l’omelia, in occasione dei funerali del sacerdote ucciso e di alcune delle vittime, il cardinale di Bangui ha messo tutti con le spalle al muro denunciando l’inerzia del governo, la lentezza dell’Onu e il rischio che i cristiani cedano allo sconforto o, peggio ancora, alla logica della violenza e della vendetta. C’è un nemico insidioso che sta distruggendo il Centrafrica. E questo nemico, ha scandito il Cardinale, è il diavolo. Solo le armi della fede possono vincerlo.

Bangui, ferita al cuore della sua fede, non è arrabbiata con Dio. È arrabbiata piuttosto con quegli uomini che non vogliono la pace e, quasi obbedendo a un’agenda nascosta, si ostinano a bloccare il paese, come se fosse ineluttabilmente condannato alla miseria e alla guerra. Bangui e tutto il Centrafica sono in cerca di eroi – tra i governanti, i soldati, i giovani – che si alzino come un solo uomo e dicano no alla guerra e sì alla pace.

Federico Trinchero*

carmelitano scalzo, è missionario in Rca e superiore del convento Notre Dame du Mont Carmel di Bangui. Avevamo scritto di lui nel luglio del 2014.


La voce del cardinale Dieudonné Nzapalainga

AFP PHOTO / SAMIR TOUNSI

Dobbiamo essere le sentinelle

In seguito al massacro di Fatima, e al linciaggio di due musulmani per rappresaglia, il cardinale Dieudonné Nzapalainga invita alla calma: «Cosa abbiamo fatto di questo paese? Colpi di stato, ammutinamenti, ribellioni a ripetizione. I risultati sono davanti a noi: abbiamo morti, saccheggi e distruzione. Gli ultimi drammatici avvenimenti ci ricordano che la violenza non porta soluzioni ai nostri problemi».
Pubblichiamo parte della sua predica al funerale delle vittime del primo maggio.

Cari fratelli e sorelle,
l’arcidiocesi di Bangui è in lutto. Piange i suoi figli. Le nostre lacrime non si fermano da quando abbiamo saputo dell’atto terroristico, barbaro, commesso alla parrocchia Notre Dame de Fatima, durante la grande celebrazione eucaristica del primo maggio scorso. Un sentimento di tristezza, di collera, di desolazione abita il nostro cuore e ci fa sprofondare in una dura prova. Che fare?
Dopo alcuni momenti di preghiera e di riflessione, abbiamo la certezza che il Signore non abbandona mai coloro che credono in lui. Nei momenti di grande tribolazione viene in loro soccorso per liberarli, consolarli, medicare le loro ferite e asciugare le loro lacrime. Ecco perché abbiamo scelto di tenere gli stessi testi liturgici letti a Fatima. Non chiudiamo il nostro cuore, ma ascoltiamo la voce del Signore che ci parla, perché lui solo è nostro rifugio, nostra salvezza.
Nella prima lettura, Paolo ha subito l’aggressione dei giudei venuti da Antiochia. L’hanno lapidato e portato fuori dalla città pensando che fosse morto. Il loro piano era di mettere fine all’annuncio della Buona novella in quella città. Per questo, occorreva uccidere Paolo. Ma hanno fallito. Il testo continua: «Il giorno successivo con Barnaba, Paolo parte per Derbé. Annunciarono la Buona novella … e fecero un buon numero di discepoli». […]
Questo testo è una vera profezia. L’abbé Tungumale Baba è stato aggredito, ucciso. Il suo corpo trascinato nella città di Bangui. I suoi aggressori hanno pensato di aver vinto. No, non potranno mai eliminare la Chiesa cattolica. Non potranno mai mettere fine all’annuncio della Buona novella a Fatima. Paolo dopo l’aggressione diceva: «Dobbiamo passare molte prove, per entrare nel regno di Dio». Sì, nel nome della nostra fede, l’abbé Tungumale Baba e gli altri fedeli che hanno trovato la morte a Fatima, hanno vissuto le loro prove e sono oggi nel regno di Dio.
Nel Vangelo proclamato Gesù diceva ai suoi discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non è alla maniera del mondo che ve la do. Che il vostro cuore non sia sconvolto né spaventato». Ecco un’altra frase profetica che descrive la situazione che viviamo. Tutti noi siamo sconvolti. Tutti noi siamo spaventati. Il nostro vivere insieme, la nostra coesione sociale, la nostra unità nazionale è stata violata e rimessa in questione dai nemici della pace.
L’ora è grave, perché la crisi è profonda e multidimensionale, con aspetti nascosti, di chi tira i fili, nell’ombra, e chi non ha alcuna considerazione per l’uomo. I nemici della pace hanno il loro piano; è per questo che dobbiamo essere vigilanti per non cedere ad alcuna manipolazione. Dobbiamo prendere le distanze e giocare il nostro ruolo di sentinelle, di vedette, di chi guarda lontano e agisce con prudenza e virtù.
Il discorso di papa Francesco durante la sua visita a Bangui, può aiutarci a capire la nostra crisi. Il papa afferma che la violenza è un’azione del diavolo; le persone cadono sotto il potere del male: «Tutte le nostre comunità soffrono indistintamente dell’ingiustizia e dell’odio cieco che il diavolo libera», diceva il santo Padre. Per conseguenza, noi siamo impegnati in una battaglia spirituale […]. Il diavolo si scatena contro di noi, perché siamo la capitale spirituale del mondo. La prima Porta santa del giubileo della misericordia, la terra benedetta da Dio. Noi andiamo a combattere e vincere con le armi della fede. Per questo facciamo nostre le raccomandazioni di san Paolo […].

Padre Federico, Natale 2014, nel campo profughi del convento dei Carmelitani di Bangui.

A coloro che ci governano noi esprimiamo la nostra riconoscenza per gli sforzi fatti nella formazione dei nostri militari. D’altronde noi vi lanciamo questo appello: prendete in maniera risoluta e determinata la vostra responsabilità. Il popolo soffre e chiede protezione. Domani rischia di essere tardi. Il nemico che abbiamo di fronte non ha pietà per nessuno. È pronto a colpire ad ogni occasione. Il ritardo nell’intervento ha lasciato il campo libero al nemico. Noi contiamo i nostri morti e i nostri feriti. Vi chiedo di rivedere il vostro sistema di difesa e la vostra strategia per un’azione coordinata ed efficace delle nostre forze di difesa nazionale.
Alla comunità internazionale, e in particolare alla Minusca (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Centrafrica, ndr): noi vi ringraziamo per la vostra presenza al capezzale della nazione centrafricana, e l’appoggio al processo di pace in corso. Ciò nonostante vogliamo attirare la vostra attenzione sulla lentezza degli interventi e la mancanza di professionalità di certi contingenti. Noi sappiamo che voi avete efficaci mezzi di comunicazione. Quando sentite il nostro Sos, per favore, venite presto per proteggerci e salvarci. E siamo convinti che Dio ci darà la forza di fare sempre meglio. Noi vi reiteriamo il desiderio della popolazione di vedere una buona coordinazione tra la Minusca e le forze di difesa nazionale. Assumetevi la vostra responsabilità, in nome di Dio.

Cari fratelli e sorelle, certo abbiamo perso dei cari membri della nostra famiglia, ma teniamo le testimonianze viventi del loro passaggio in mezzo a noi. […]
Figlio mio Baba, ci mancherai. Ho di te il ricordo di un pastore instancabile che amava il suo ministero. Un prete umile. Non una sola volta ti ho visto in collera. Tu accettavi volentieri gli scherzi dei tuoi confratelli. Il tuo amore per il sango (la lingua africana più diffusa, ndr) ci appassionava. Tu eri un prete coraggioso. Amavi l’Eucarestia e la celebravi ogni giorno. In carica nella Commissione diocesana giustizia e pace, operavi per il dialogo interreligioso e per la pace. Hai fatto la scelta di abitare in una casa molto vicina alla tua parrocchia, anche se questa abitazione era vicina a Km5. Sì, figlio, tu hai vissuto quello che predicavi.
Il Signore ti ha dato la grazia. Hai trovato la morte durante la celebrazione dell’Eucarestia che amavi. Il Vangelo proclamato quel giorno parlava della pace per la quale tu operavi. Fedele servitore, entra nella gioia del tuo maestro. […] Non dimenticarti della tua famiglia. Due giorni prima di morire, a un funerale, all’omelia dicevi di non aver paura della morte, ma di considerarla come un’amica, perché ci permette di vedere Dio. […]

Liberamente tradotto da Marco Bello

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Brasile: L’ex presidente Lula è in carcere

Testo su Lula e Brasile di GianfrancoGraziola |


Un paese che esautora una presidente – Dilma Rousseff – per sostituirla con Michel Temer, inviso ai più e coinvolto in gravi scandali. Un paese dove una giovane politica – Marielle Franco – è assassinata dalla polizia. Un paese dove un prete – padre José Amaro – è arrestato per ordine dei latifondisti. Un paese dove un ex presidente, in testa a tutti i sondaggi per le elezioni di ottobre 2018, è condannato a 12 anni senza prove. Un paese siffatto è una democrazia alla deriva.

In questi ultimi mesi il sistema dei media – le televisioni Globo, Sbt, Record, Band e le riviste come Veja, Epoca o Isto é – ha costruito e dato in pasto al popolo brasiliano il caso Lula. Attorno a lui ha tessuto una trama gigantesca che in realtà ha prodotto l’effetto contrario a quello sperato: l’ex presidente ha visto aumentare la propria popolarità e le intenzioni di voto in suo favore per le elezioni previste a ottobre 2018. Per capire bene la situazione, occorre partire dal 2016 con il colpo di stato orchestrato dal parlamento brasiliano (con la connivenza del potere giudiziario), che ha destituito la presidente Dilma (del PT, lo stesso partito di Lula, ndr) democraticamente eletta per sostituirla con Michel Temer, un fantoccio gradito e approvato dal mercato economico e capace di restituire il gigante brasiliano al controllo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.

La conferma del complotto sta nel fatto che alla presidente destituita lo stesso potere giudiziario, attraverso l’azione del presidente della suprema corte Ricardo Lewandowski, non ha cancellato né i diritti civili né quelli politici, tanto che Dilma Rousseff è candidata al senato per lo stato di Mina Gerais, un tempo roccaforte del senatore Aécio Neves, candidato sconfitto alle elezioni presidenziali del 2014 dalla stessa Rousseff.

Sostenitori di Lula davant ialal cattedrale di Sao Paulo, l’11 aprile 2018. (Photo by Cris Faga/NurPhoto)

Governo e parlamento BBB

Il governo Temer è sostenuto da un parlamento, la cui composizione riflette e esprime alcune tendenze fondamentaliste: sia in campo religioso, col gruppo chiamato della Bibbia (bancada da bíblia o evangelica), composto da evangelici e neopentecostali, sia in campo economico, col gruppo dei latifondisti e della monocoltura (bancada do boi o ruralista), che a sua volta si appoggia al gruppo militarista, chiamato bancada da bala, che vorrebbe risolvere tutte le questioni con la forza e gli interventi militari.

Le azioni concrete del governo Temer passano attraverso il suo piano di pseudo riforme, prima fra tutte quella del lavoro, seguita da quella – fortunatamente fallita – della previdenza e accompagnate dal discorso populista della modernizzazione del paese e della lotta all’inflazione.

Contemporaneamente all’azione governativa si sviluppa e prende sempre più corpo quella mediatica che fa dell’operazione lava jato (autolavaggio) del potere giudiziario la vetrina che esalta e incorona una immagine di giustizia al di sopra delle parti, etica e medicina contro la corruzione. In realtà ancora una volta, la poderosa macchina dei media, ormai consacrata nel ruolo di quarto potere, illude il popolo brasiliano esaltando una falsa immagine della giustizia che apparentemente è uguale per tutti, mentre in realtà non lo è affatto.

La giustizia brasiliana è responsabile di un sistema penitenziario sempre più sovraffollato e caotico e del dilagare della violenza, assieme all’impunità, agli abusi di potere delle forze dell’ordine, alla tortura, ai massacri e «genocidi» della gioventù che si susseguono giornalmente e di cui nessuno ha memoria. Non possiamo e dobbiamo avere dubbi: siamo davanti a un sistema giudiziario che ha fatto a pezzi la Costituzione e si è sostituito ad essa nel governo del paese.

(Brasília – DF, 19/04/2017) Il giudice Federale Sérgio Moro stringe la mano al presidente Michel Temer
(Foto: Marcos Corrêa/PR)

L’esempio eclatante che conferma questa realtà è proprio quello dell’ex presidente Lula, in cui la giustizia, trasformata in show mediatico, ha avuto il compito di demolire, con la complicità del giudice Sérgio Moro, la sua immagine e soprattutto di toglierlo dalla corsa alla presidenza. Naturalmente questo sarebbe il secondo atto del colpo di stato, dato che tutti i sondaggi già davano Lula nuovamente presidente senza rivale alcuno. Sta di fatto che, accecato da una sete legalista e irrazionale, lo stesso potere giudiziario ha finito per dimostrare ancora una volta la sua reale impotenza e fragilità trasformando quello che doveva essere la sua consacrazione in una sconfitta: l’esecuzione della carcerazione ha, infatti, trasformato un ex presidente e apparentemente comune carcerato in un eroe nazionale consacrandolo per sempre nella memoria e nell’immaginario simbolico del popolo.

Ma vi è un ulteriore elemento inquietante: la mancanza di prove concrete che possano mantenere in carcere sia Luis Inacio da Silva Lula come tanti altri personaggi (Antonio Palocci, Eduardo Cunha, Nestor Cerverô, etc.) dello spettacolo messo in scena a Curitiba (dove lavora il giudice Moro, ndr). Qualsiasi giurista serio sa bene che la cosiddetta delação premiada (confessione incentivata), copiosamente usata nella strategia anticorruzione, pur risplendendo di notorietà, ha però fondamenta fragili e inconsistenti.

Lula è stato condannato in due gradi di giudizio su quattro. Gli ultimi gradi spettano al Tribunale superiore di giustizia (Superior Tribunal de Justiça) e al Supremo tribunale federale (Supremo Tribunal Federal). Due anni fa la stessa corte stabilì che, dopo il secondo giudizio, il giudice può far eseguire l’eventuale ordine di carcerazione. Una decisione molto controversa e da vari giuristi considerata incostituzionale. Il problema si è riproposto oggi con Lula, arrestato subito dopo il secondo giudizio.

Per questo vi è chi oggi afferma, e lo stesso Lula lo ha denunciato pubblicamente, che il mandato di carcerazione per l’ex presidente sarebbe in realtà originato dalla Tv Globo, capitanata dalla famiglia Marinho, indispettita dalla sua forte popolarità che neppure i mezzi più moderni sono riusciti a scalfire. Prova di tale popolarità sono le manifestazioni che ancora oggi continuano in tutto il paese e si susseguono notte e giorno davanti alla sede della polizia federale a Curitiba dove Lula è carcerato. Vedremo cosa succederà quando – tra luglio e agosto – si deciderà sulla sua partecipazione o esclusione alle elezioni di ottobre.

Da Marielle Franco a padre José Amaro

Marielle Franco (© Mídia NINJA)

Oltre alla questione di Lula vi è una serie di altre questioni che hanno reso esplosiva la situazione e che fanno temere un possibile ritorno dei militari al potere. Come dimostra la situazione nello stato di Rio de Janeiro. Il governo federale ha mandato l’esercito e messo un generale come responsabile della sicurezza, esautorando di fatto il governo locale. Lo stato è diventato una trincea, un campo di battaglia, con una moltiplicazione folle della violenza. Una violenza che nasce dal braccio di ferro tra le mafie della droga e le stesse forze di sicurezza, anch’esse coinvolte nel gigantesco sistema corruttivo. A questo si aggiunge, come si dice da più parti, l’esecuzione (14 marzo 2018) ad opera della polizia della consigliera comunale e attivista Marielle Franco e del suo autista.

E ancora gli interventi, in più parti del paese, da Nord a Sud, da Est a Ovest, della Guardia Nacional – braccio forte dell’esercito noto per la sua violenza – a reprimere i popoli indigeni e tradizionali, a massacrare i piccoli proprietari di terra e i sem terra e a imprigionare i loro difensori. Come è accaduto a Altamira, prelazia di Xingu, stato del Pará, a padre José Amaro, compagno e continuatore dell’azione di Dorothy Stang (missionaria brasiliana di origine statunitense assassinata nel Pará da sicari dei latifondisti nel febbraio 2005, ndr).

E allora ritorna nuovamente la domanda: quale futuro aspetta il popolo brasiliano? Nessuno si azzarda a fare previsioni, ma il timore è grande anche perché vari generali dell’esercito (da Eduardo Villas Bôas a Luiz Gonzaga Schroeder), tra cui alcuni in pensione, hanno alzato la testa e fatto sentire la loro voce minacciando, senza mezze misure, una possibile sostituzione di Temer, presidente fantoccio, con uno di loro.

È un peccato che il presunto grande obiettivo dell’attuale governo e dello stesso potere giudiziario di sconfiggere e debellare la corruzione si realizzerà – forse – in un’altra era. Per ora ci si accontenta di essere al servizio del mercato e di controllare una società che continua a registrare forti e insostenibili diseguaglianze, vera causa della crescente violenza e insicurezza.

Gianfranco Graziola

L’autore: Padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata, vive a San Paolo e è vice coordinatore nazionale della Pastorale carceraria che conta circa 6 mila agenti volontari (sacerdoti, religiosi, religiose, laici di tutte le età) che settimanalmente visitano le carceri in tutti gli stati del paese.

 


La strategia: un golpe tira l’altro

Dietro gli attuali avvenimenti politici ci sono le trame del complesso imprenditoriale-finanziario-mediatico. L’esplicita lettura di due prestigiose istituzioni della Chiesa cattolica brasiliana: il Consiglio indigenista (Cimi) e la Pastorale della terra (Cpt).

Brasília – il deputato Jair Bolsonaro, famoso per le sue posizioni da ultradestra (Fabio Rodrigues Pozzebom/Agência Brasil)

È la strategia «dei grandi conglomerati impresariali, del capitale nazionale e internazionale, che cercano di dare continuità al processo neocolonialista di rapina dei diritti del popolo brasiliano e dei beni naturali del nostro paese». Non ha usato termini edulcorati il comunicato del Consiglio indigenista missionario (Cimi) per commentare l’arresto di Lula.

Il Cimi accusa parte del sistema giudiziario di essersi piegato agli interessi privati delle élite nascondendosi dietro uno «pseudo discorso anticorruzione». L’organismo della Chiesa cattolica brasiliana parla di violenza politica, nonché di persecuzione, criminalizzazione e repressione verso i leader e i movimenti di resistenza.

Egualmente netta, anche se con qualche puntualizzazione, è stata la difesa della Commissione pastorale della terra (Cpt). Questa ha ricordato di avere criticato i governi Lula soprattutto per le sue politiche agrarie, agricole e ambientali. Tuttavia, è innegabile che quei governi avessero ridotto le diseguaglianze sociali attraverso politiche di redistribuzione del reddito e di inclusione sociale.

Identicamente al Cimi anche la Cpt individua chiaramente i colpevoli, interessati a impedire il ritorno di Lula con ogni mezzo possibile, compresa «una falsa e ipocrita lotta alla corruzione sistemica» che – guarda caso – dimentica i leader di altri partiti, colpevoli di note attività criminali.

«Mettendo da parte gli interessi popolari, ciò che questo complesso imprenditoriale-finanziario-mediatico fa, con l’appoggio militare velato o esplicito, è nutrire – strategicamente – l’odio, l’intolleranza e il pregiudizio, espressioni del fascismo sociale, in cui solo l’individuo vale con i suoi interessi privati, non più la società e la condivisione collettiva di beni comuni e pubblici. L’avanzata della violenza impunita nelle campagne e nelle città è la sua faccia più crudele».

Anche dopo la sua carcerazione Lula, pur penalizzato nei numeri, ha continuato a guidare i sondaggi elettorali per le presidenziali di ottobre 2018: tutti i suoi possibili avversari – tra cui l’indomita Marina Silva e gli ultraconservatori Aécio Neves e Jair Bolsonaro – sono nettamente distanziati. Ma si tratta di esercizi teorici dato che, stando così le cose, molto difficilmente Lula potrà candidarsi.

Paolo Moiola

 




Siria: Una guerra interminabile, cruenta e pericolosa

Testimonianza su la Siria di Mtanious Hadad |


Dopo sette anni, la guerra siriana non trova ancora una soluzione, divenendo sempre più estesa e pericolosa. In questo suo appassionato intervento mons. Mtanious Hadad, siriano di Yabroud (Damasco), archimandrita della Chiesa melchita in Roma, spiega la situazione in maniera diversa dal consueto.

La speranza suggerisce che un giorno i cristiani del Medio Oriente – dalla Siria all’Egitto – avranno la possibilità di vivere con dignità ognuno a casa propria. Per ora non è così. Tanto che siamo costretti a parlare di guerra, di missili (veri) e attacchi chimici (presunti). Lo scorso aprile il signor Trump, supportato dalla Gran Bretagna e dalla Francia, ha inviato sulla Siria, la mia amata patria, un centinaio di missili, che io ho soprannominato «caramelle della resurrezione».

Armi chimiche?

Io mi chiedo: se il governo siriano ha usato le armi chimiche a Douma facendo vittime, secondo quale moralità e quale legge nazionale o internazionale questi paesi possono bombardare i luoghi e le fabbriche di queste (presunte) armi chimiche? Non avevano timore che esse potessero fare altre vittime? Meglio sarebbe parlare di messa in scena. Mi spiace tornare a usare questa terminologia, ma era da mesi che si parlava di questo. Il nostro ministro degli affari esteri aveva avvertito il mondo intero: «State attenti, i ribelli stanno preparando un attacco chimico per dare la colpa a noi».

Un paio di anni fa si era detto che la Siria era stata ripulita dalle armi chimiche. Adesso invece si dice che ancora le ha e le usa. Qual è la verità?

Ogni volta che il governo fa un passo verso la pace e la riunificazione del popolo siriano, noi veniamo sorpresi da un nuovo attacco chimico. Prima a Shaykhun, poi a Douma e vedremo quale sarà il terzo, dato che ora ribelli e terroristi si sono diretti verso il Nord del paese. Dove sarà la prossima linea rossa fissata dai governi di Gran Bretagna e Francia?

Perché sono stati lanciati i missili? Alcuni pensano per intimidazione. Non credo che sia per questo. L’erede al trono in Arabia Saudita – Mohammed bin Salman – è andato in America, Gran Bretagna e in Francia (tra marzo e aprile 2018, ndr). Cosa ci è andato a fare? È andato in vacanza? No, è andato a pagare! Quei missili erano prepagati dall’Arabia Saudita e l’America doveva lanciarli e bombardare qualcosa. Hanno sparato 110 missili dei quali 10-20 sono andati a buon fine. Quale lo scopo? Quale il risultato per la conclamata libertà della Siria?

Perché aggiungere altra disperazione a un popolo che ha già sopportato sette anni di sofferenze? Non è forse giunto il tempo di ricostruire moralmente, socialmente e materialmente?

Russia e Iran

Mi viene spesso chiesto cosa ci facciano la Russia e l’Iran in Siria. Io non vorrei difendere o giustificare alcuno. Andiamo a vedere i fatti, nella consapevolezza che niente è gratis. La Russia è stata chiamata dal governo siriano e fino ad ora ha dato appoggio morale, economico ed anche militare. Senza l’aiuto dei russi, saremmo stati come l’Iraq o come la Libia, divisi in tante regioni e avremo altri milioni di sfollati e rifugiati, parcheggiati alle porte della Turchia o umiliati nei campi profughi del Libano e della Giordania. La Russia ha fatto bene a venire e la sua base di Hmeimim non è soltanto per uso militare ma è diventato un luogo di riconciliazione tra siriani. È un merito della Russia aver convinto le fazioni islamiste a lasciare la capitale, che – lo ricordo – è abitata da musulmani e cristiani. Gente bombardata che non ha visto tornare più da scuola i propri bambini. I nostri ospedali si sono riempiti di musulmani e cristiani. Qualcuno ne ha parlato?

Tutto il mondo ha accusato che l’esercito governativo ha bombardato o usato il gas a Douma. Questa è una vergogna. Il mondo condanna tutte le azioni del governo, ma non parla mai dei nostri bambini.

Si obietta: e l’Iran sciita? È vero l’Iran può anche avere i suoi interessi, ma non è soltanto una lotta tra sciiti e sunniti.

L’Iran viene per sostenere l’unità di uno stato sovrano al cui apice c’è un presidente alauita (un ramo dell’islam sciita, ndr), che però non governa per la sua confessione religiosa essendo stato eletto dal popolo siriano a grande maggioranza. Un popolo in cui i sunniti sono il 65% del totale.

Guardiamo ai cristiani. In Iraq erano un milione e mezzo al tempo del dittatore. Quando il dittatore è stato mandato via, i cristiani si sono ridotti a 200.000. Allora chiedo: è questo il modello di democrazia che vogliono imporci anche in Siria? I cristiani sono parte integrante del nostro paese: non sono uccelli migranti. La Siria è sempre stato un modello di modernità e di convivenza.

Le rovine di Douma alal periferia di Damasco il 16 aprile 2018 / AFP PHOTO / LOUAI BESHARA

Arabia Saudita e Israele

Detto del ruolo di Russia e Iran, dobbiamo fare luce sul ruolo di Israele e su quello dell’Arabia Saudita. Mai infatti dimenticare che questa sporca guerra siriana è una guerra per delega o procura.

Tutti sappiamo quanti miliardi ha speso l’Arabia Saudita per inviare armi in Siria e continuare la guerra. Quando Trump è andato a Riad (maggio 2017, ndr), ha venduto 200 miliardi di armi all’Arabia Saudita. Tutte necessarie per distruggere lo Yemen? Non credo. Quante di queste armi arrivano in Siria attraverso i corridoi della Turchia?

E veniamo ad Israele, uno dei grandi beneficiari di questa guerra. Ci siamo forse dimenticati che i jihadisti feriti sono stati curati in Israele? Ci siamo dimenticati le visite negli ospedali del premier Benjamin Netanyahu? Ebbene, una volta curati, questi uomini sono tornati a fare la guerra contro il governo siriano! Il sogno israeliano rimane quello di distruggere il mondo arabo per rimanere l’unico stato stabile, oltre che l’unico ad avere le bombe atomiche e chimiche.

La Turchia

Infine, c’è la Turchia. Si diceva che combatteva l’Isis, ma era una finta. Oggi sta bombardano i Kurdi, gli unici che veramente hanno combattuto l’Isis. Quelli che erano angeli, adesso sono diventati diavoli. Con questa scusa la Turchia sta occupando territori siriani per tornare a quello che un tempo era l’Impero ottomano. Il signor Erdogan era d’accordo con i bombardamenti sulla Siria perché il suo nemico numero uno è Assad.

Di Erdogan non ci si può fidare perché cambia idea in ogni momento. E si sta approfittando anche dell’Europa, chiedendo miliardi per far parcheggiare (questo è il verbo che voglio usare) sui suoi territori i rifugiati siriani e non solo. Quando gli conviene, apre le porte e li manda in Europa. Dobbiamo essere coerenti con i dittatori ed Erdogan lo è. Ha messo in prigione migliaia di giornalisti, professori e funzionari, in patria sta uccidendo i propri nemici. E un uomo siffatto va a parlare di democrazia in Siria? Del governo dittatoriale di Assad?

A tutti questi signori della guerra io vorrei dire: tornate a casa vostra e noi siriani in tre mesi – come ho sostenuto più volte – siamo capaci di tornare alla pace. La grazia di avere un po’ di petrolio e di essere territorio di passaggio dei possibili oleodotti (c’è una lotta senza esclusione di colpi attorno a questi, ndr) non debbono diventare una disgrazia per il popolo siriano.

Manifestazioni di siriani contro gli attacchi missilistici di Stati Uniti, Inghilterra e Franca ad Aleppo nella piazza  Saadallah al-Jabiri il 14 Aprile 2018 / AFP PHOTO / George OURFALIAN

I media e la Siria

Mi è stato detto che io sono molto critico verso i media che parlano di Siria. Io non sono critico: sono arrabbiato. Perché in Europa non si dice la verità. Perché io debbo ascoltare la Giovanna Botteri parlare della Siria dagli Stati Uniti? Ma che ne sa? Un’altra giornalista ci parla dalla Turchia. Un po’ di coerenza, cari giornalisti: per parlare di Siria andate in Siria, come alcuni fanno. Per indagare, per ascoltare, per chiedere.

A fare propaganda e molto di più ci pensano i Caschi bianchi. Durante il giorno fanno finta di aiutare la popolazione, mentre la notte fanno passare le armi per uccidere i siriani. Ma voi in Europa volevate dare loro il Premio Nobel per la pace. Un’altra commedia! Occorre aprire gli occhi altrimenti anche in Europa la pagheremo cara.

Si dice che noi cristiani siamo a favore del presidente Assad. Noi siamo a favore della nostra presenza in Siria e in Irak come cristiani. Un governo che difende i diritti di ogni uomo, di ogni minoranza è il garante della mia vita e del mio futuro in Siria. Io non difendo Assad in sé, io difendo il suo governo in cui i ministri sono un mosaico di religioni.

Perché quando sono in Italia i vescovi – maronita o caldeo o altro ancora – di Aleppo non vengono intervistati? Nessuno ha il coraggio di dare loro la parola, se non per una conferenza qui, un incontro là. Si preferisce dare spazio a quanto riferisce la Botteri. Per trovare la verità occorre avere un po’ di buonsenso ascoltando gli uni e gli altri. E poi occorre far tornare gli ambasciatori in Siria e parlare.

L’Italia

Mi spiace molto che il premier uscete Gentiloni abbia detto in parlamento (17 aprile) che rispetto alla guerra in Siria l’Italia non è un paese neutrale. Avrebbe dovuto sostenere proprio il contrario. Non si può appoggiare un attacco al popolo siriano senza sapere la realtà! E poi ci si lamenta dei profughi che arrivano sulle coste italiane! Anche i cosiddetti «corridoi umanitari» sono contro il popolo siriano. Dobbiamo smettere di portare i siriani in America o in Europa. Dobbiamo dare loro il coraggio di tornare. Chi vuole dare una mano alla Siria dovrebbe farlo in questo modo: aiutando i siriani scappati a tornare e a ricostruire il paese, dimenticando l’odio e la vendetta cresciuti in questi sette anni di guerra.

Abbiamo vissuto insieme per decenni. Dobbiamo tornare a farlo. Con questa speranza io ho fiducia nel futuro. Ho fiducia nell’unità della Siria e dei siriani.

Mtanious Hadad
(testimonianza raccolta da Paolo Moiola e Daniela d’Andrea)


Ancora missili sulla Siria

Belli, nuovi ed anche intelligenti

Governi, politici e quasi tutti i media non hanno dubbi sulla Siria: il presidente Assad è il macellaio per definizione e va punito. I ribelli jihadisti sono diventati vittime.
Sulla Siria c’è una narrazione dei fatti dominante. Ma non per questo va ritenuta vera.

«Nice, new and smart»: sono gli aggettivi con cui, in un tweet, Donald Trump aveva descritto i missili Usa. Missili poi lanciati – per fortuna senza fare vittime – sulla Siria nella notte del 14 aprile. Tre aggettivi il cui contrario descriverebbe perfettamente il presidente statunitense, probabilmente uno dei peggiori della storia americana (per l’ambiente, l’economia, la pace, a prescindere dai – presunti – meriti nella vicenda nordcoreana). Sicuramente il più pacchiano. Il loro lancio non è servito a nulla se non a mostrare i muscoli delle potenze occidentali (gli Stati Uniti affiancati dalla fida Gran Bretagna e dall’opportunistica Francia di Macron) e ad esasperare gli animi. La guerra siriana è ancora lì perché – come detto più volte anche da questa rivista – sul suo territorio si sta svolgendo una guerra per procura. Sulla pelle dei siriani e ora anche dei Kurdi.

In un mondo iperconnesso e sovraccarico di informazioni spesso false o non verificate non è facile districarsi per capire una situazione. Eppure, quasi a smentire questa condizione, per la guerra in?Siria, in Occidente vengono accreditate (e dunque diffuse dai media principali) quasi sempre soltanto due fonti informative: gli Elmetti bianchi (White Helmets) e l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Syrian Observatory for Human Rights), i primi sponsorizzati soprattutto dagli Stati Uniti, il secondo dalla Gran Bretagna, ovvero da due paesi coinvolti nella guerra e schierati contro il presidente Assad (fonti: Gli occhi della guerra, Alberto Negri, Fulvio Scaglione).

Consapevoli di questa distorsione informativa, per la Siria da tempo Missioni Consolata fa riferimento a mons. Mtanious Hadad e all’aggiornatissimo e prezioso sito di AsiaNews, che riceve le proprie informazioni da religiosi che nel paese vivono (e soffrono). Forse a causa di questa diversità di fonti la Siria che noi descriviamo è diversa da quella descritta da altri, siano essi i maggiori telegiornali o quotidiani come la Repubblica o il Corriere della Sera. Precisato che non è affatto certo che ci siano stati attacchi chimici (fonte: Robert Fisk, The Independent) e, qualora ci siano stati, da chi siano stati eventualmente commessi (l’esercito governativo aveva già vinto), vediamo di dare conto delle molte voci dissonanti che non trovano spazio sui media importanti.

Subito dopo l’attacco missilistico padre Bahjat Elia Karakach, francescano del convento di Damasco, ha parlato di pretesto delle potenze occidentali per attaccare la Siria come a suo tempo era avvenuto in Iraq. Per parte sua, mons. Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, ha affermato che le potenze avevano gettato la maschera (fonte: agenzia Sir). Sandra Awad, membro di Caritas Sira, ha diffuso (fonte: AsiaNews) una lettera aperta al presidente Trump raccontando la storia di Rabee, giovane che ha perso una gamba a causa dell’esplosione di un razzo lanciato dai ribelli della Ghouta orientale (oggi liberata). Il giovane oggi è riuscito ad avere una protesi e guarda al futuro. «Signor Trump – scrive Sandra -, la maggior parte delle famiglie siriane annovera tragedie analoghe. […] Rabee vuole partecipare alla ricostruzione della Siria, che lei invece vuole contribuire a distruggere con il suo denaro, i suoi missili intelligenti e il suo odio profondo».

È invece datata primi di marzo una durissima lettera (fonte: AsiaNews) delle religiose trappiste siriane. «Quando taceranno le armi? E quando tacerà tanto giornalismo di parte?», si domandano. Le sorelle raccontano della visita a una scuola bombardata dai ribelli. «Perché – si chiedono – l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo quando il governo siriano interviene […] ci si indigna per la ferocia della guerra?».

Viene ricordato che gli attacchi verso i civili sono stati iniziati dai ribelli jiadisti. «Oggi – proseguono le trappiste – dire alla Siria, al governo siriano di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia».

Le religiose rispondono anche all’accusa che tutte le Chiese d’Oriente siano «serve del potere», riverenti «verso il satrapo siriano»: «È un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravvedere l’altro lato della medaglia». La lettera si conclude con esplicite accuse ai mezzi d’informazione. «Chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente?».

Mentre dei Kurdi di Rojava e Afrin non si parla quasi più (abbandonati nelle mani omicide del furbissimo Erdogan), mentre i missili lanciati da Israele sono considerati un atto dovuto (Israel first) e Trump sfascia l’accordo nucleare con l’Iran (8 maggio), dobbiamo sperare che il conflitto non si allarghi ulteriormente e che l’Arabia Saudita – danarosa alleata di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e di molti altri paesi occidentali – non decida di intervenire in Siria come sta facendo nel devastato (e dimenticato) Yemen. Sarebbe molto imbarazzante dover dire che l’Italia «non è un paese neutrale», come dichiarato (17 aprile) in parlamento da Paolo Gentiloni, primo ministro uscente del nostro paese.

Paolo Moiola




L’Odissea di Lula


Lula, il primo presidente di sinistra (e democratico) del gigante sudamericano, confermato per un secondo mandato, è oggi agli arresti. Contro di lui intrighi legati al petrolio, alla Confindustria brasiliana e ai vicini Usa. Lui aveva tentato di rompere la logica di dominazione e aveva varato il piano «Fame zero».

Quale sarà la conclusione della vicenda umana e politica di Luiz Inácio da Silva detto Lula, due volte presidente del Brasile (dal 2003 al 2010), a gennaio 2018 condannato senza prove a 12 anni di prigione (vedi articolo pag. 22) per un presunto affaire con Petrobras, la compagnia petrolifera di stato? Non si può negare che questo intrigo abbia tutte le fattezze del golpe. Una trama orchestrata da pezzi della Confindustria brasiliana, con la collaborazione delle famigerate multinazionali nordamericane e con l’appoggio vitale di Rede Globo, il più poderoso network radiotelevisivo del continente.

Questi potentati economici sempre al limite dell’onestà non avevano gradito il fatto che l’ex presidente brasiliano, dopo che la Petrobras aveva scoperto e messo le mani nella propria costa atlantica, sul più grande giacimento sottomarino del mondo, il Pre-Salt, avesse rifiutato di condividere la scoperta con gli Stati Uniti. Uno spettacolo già visto e messo in atto molte volte specie dal governo di Washington che, quando si tratta di petrolio, mette in cantiere guerre insulse e feroci come quella attuale in Siria, che va avanti, tra stragi, equivoci e menzogne, da più di 7 anni (vedi articolo pag. 58). Lula ha provato a rompere questa logica ed è stato punito.

D’altronde quel mondo che si autodefinisce civile e democratico, il mondo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, aveva un conto da saldare con lui e Dilma Rousseff, che gli era succeduta nella presidenza.

(archio Gianni Minà)

Lula era stato il primo presidente progressista eletto, e anche confermato, dopo gli anni lugubri della dittatura militare, in quello che, con 207 milioni di abitanti, è lo stato più popoloso dell’America Latina.

Agli occhi del governo di Washington, Lula era stato il complice dell’ex presidente venezuelano Hugo Chávez nel ricambio progressista che il continente a Sud del Texas aveva avuto negli ultimi vent’anni. Anni in cui alcune nazioni si erano consociate in scelte libertarie arrivando a fondare, sull’esempio della Comunità europea, perfino una banca e una televisione continentale, la Telesur, per controbattere l’informazione scorretta della Cnn e di altri network privati normalmente proprietà di caciques abituati a dire sempre sì agli yankee.

Ho conosciuto Lula, prima che diventasse presidente, grazie ad Antonio Vermigli, un generoso ex postino di Quarrata (Pistornia) che tiene in mano la Rete Radié Resch (una rete della sinistra cattolica).

Lula veniva in Italia invitato dai vari sindacati e avevo imparato ad apprezzarlo proprio per essere riuscito nel miracolo di fondare il Pt (Partido dos Trabalhadores, partito dei lavoratori) che, insieme ai cattolici progressisti e al movimento dei Sem Terra (senza terra, ndr), lo avrebbe portato al governo del paese, smentendo chi aveva tentato di sostenere «che i comunisti stavano per prendere il potere in Brasile». Questo perché il Pt era diventato l’esempio del più efficiente movimento progressista in quella che all’epoca (dai primi anni 2000) è stata una vera e propria primavera dell’America Latina.

L’entusiasmo e la sincerità di questo ex operaio della Volkswagen, che al suo mestiere di tornitore aveva sacrificato perfino due dita, aveva permesso ai brasiliani di sognare anche per iniziative come il piano «Fame zero», messo in piedi dal teologo della liberazione Frei Betto che, su incarico di Lula, era riuscito nell’impresa di assicurare a 50 milioni di abitanti, i più poveri, tre pasti al giorno.

Era un nuovo mondo che si scrollava di dosso la dittatura militare e incominciava a diventare un esempio politico, mettendo in crisi perfino pezzi di socialismo occidentale.

Non potrò mai dimenticare una sera in cui, per presentare un libro di Rigoberta Menchù sulle stragi in Guatemala, alla festa dell’Unità di Modena, ero riuscito a riunire con Lula, lo scrittore guatemalteco Dante Liano, scampato ai massacri previsti dal Plan Condor benedetto da Nixon e Kissinger (piano Usa di destabilizzazione delle democrazie in America Latina, ndr), insieme a Frei Betto, frate domenicano e teologo della liberazione, carcerato e torturato dalla dittatura brasiliana, ed Eduardo Galeano, il più acuto saggista del continente latinoamericano.

Tutti avevano toccato le corde dell’emozione, ma il più appassionato era stato proprio Lula che, qualche anno dopo, sarebbe diventato per la prima volta presidente del Brasile. Ci avevano invitato i ragazzi della Fgc (Federazione giovani comunisti) felici di ricevere così tante figure profetiche del continente, oltretutto scampate all’estinzione. Non avevano però lo stesso entusiasmo i militanti più avanti nell’età e gli organizzatori della festa.

«Minà questa sera nella sala grande abbiamo il confronto tra Vitali e Guazzaloca, forse sarebbe meglio che con i suoi ospiti andasse in un ambiente più raccolto» (Giorgio Guazzaloca fu il primo sindaco di Bologna non di area centrosinistra nel dopoguerra e succedette a Walter Vitali nel 1999, ndr). Era il dibattito tra il sindaco della tradizione progressista della città e quello conservatore che gli sarebbe succeduto. Ricordo che mi scappò una frase sarcastica: «Non solo rischiate di far vincere ai vostri avversari le elezioni amministrative a Bologna, città rossa, ma gli preparate anche il terreno adatto». Quella sera rimanendo nel nostro spazio concerti, assegnatoci dai ragazzi della Fgc, spaccammo in due la festa. Un migliaio di spettatori per la sfida Vitali-Guazzaloca, e altrettanti per noi. Rigoberta firmò 500 libri in poco più di mezz’ora.

Qualche mese dopo Massimo D’Alema invitò a Firenze quasi tutti i leader socialisti delle nazioni più importanti. A sorpresa, però, per il Brasile, non si ricordò di invitare Lula Da Silva, il leader di 50 milioni di brasiliani che votavano a sinistra. Preferì trasmettere l’invito a Fernando Henrique Cardoso, leader della coalizione di centro destra che governava in quel momento. La giustificazione? Cardoso in gioventù era stato un sociologo progressista che D’Alema probabilmente aveva letto. Lula che con bonomia mi ha raccontato questa gaffe, ha ricordato che, quando era già succeduto a Cardoso, D’Alema era volato a Rio con Piero Fassino per il summit dell’Internazionale socialista e la prima cosa che aveva fatto era stato chiedere una mozione di censura per Cuba. È stato lo stesso Lula, che pure è un moderato, a ricordare alla delegazione italiana che «per la maggior parte dei latinoamericani la Revolución è un esempio indiscutibile».

Ora io non so perché, dopo il successo, il Pt si sia disfatto in un pugno di anni. So però che se Lula potesse, rispettando le regole, presentarsi come candidato per le prossime elezioni del paese (a ottobre, ndr), vincerebbe, secondo i sondaggi, senza discussione. Per equità ricordo anche che, l’ex vice di Dilma Rousseff, il presidente sostituto Michel Temer ha venduto l’anima ed è attualmente uno degli uomini più indagati e discussi della storia moderna del Brasile.

Basta leggere il suo curriculum dal quale, per esempio, apprendiamo che nell’inchiesta Operaçao Castelo de Areia, sulla corruzione all’interno dell’impresa di costruzioni Camargo Correa, il suo nome è citato ventuno volte nella lista desunta dalla contabilità parallela dell’impresa. È dunque grottesco che Dilma sia stata sospesa e invece Temer possa governare in sua vece.

Quello che più intristisce è che, ancora una volta, un qualunque Temer, pronto a qualsiasi intrigo, possa, con un colpo di stato moderno (rappresentato da compagnie subdole d’informazione di dubbia provenienza o da trame di servizi segreti o da logge massoniche) impedire a un popolo di vedere trionfare le proprie idee, le proprie scelte e i propri diritti e che tutto questo avvenga con la benedizione di istituti come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e le sette sorelle multinazionali del petrolio. Golpe che noi, farisei occidentali, spesso definiamo grottescamente come «atti di democrazia».

Gianni Minà

 




Togo. Il piccolo paese nell’era di Faure Gnassingbé

Testo e foto di Grevisse Musema |


Già super ministro di miniere e telecomunicazioni, Faure diventa presidente nel 2005, dopo 38 anni di regno indiscusso del padre, Eyadema Gnassingbé. Nonostante le difficili premesse, in Togo si apre una nuova epoca. Ma le cose da fare restano molte. A partire da una riconciliazione nazionale sognata e tuttora cercata.

A 39 anni, Faure Gnassingbé succede al padre al potere. Non è certo uno sconosciuto nel suo paese natale, il Togo: ex gran tesoriere e consigliere del presidente, salvaguardava gli interessi della famiglia in seno a diverse imprese privatizzate e installate nella zona franca di Lomé.

Nel 2005, eredita un paese nel quale tutto è paralizzato: c’è un’economia in ginocchio, indebolita da una crisi politica interminabile, la diffidenza dei partner internazionali, un tessuto sociale sfilacciato e senza speranza. Potere d’acquisto, educazione, sanità, nessun settore è risparmiato. Le sfide sono immense.

Ma Faure Gnassingbé è diverso da suo padre: il 20 agosto 2006, sigla con gli attori politici togolesi e la società civile un Accordo politico globale (Apg). La riconciliazione nazionale è il cantiere prioritario, con due obiettivi: mettere i togolesi seduti a uno stesso tavolo di dialogo e aprire spazi per l’opposizione e la società civile, affinché tutti siano coinvolti nel nuovo processo di ricostruzione del paese.

Riconciliazione nazionale e riforme di là da venire

Nel 2009, un decreto del Consiglio dei ministri crea la Commissione Verità, Giustizia e Riconciliazione (Cvjr), un organo voluto per sondare le cause profonde delle violenze politiche nella storia recente del paese, soprattutto nei periodi elettorali, fra il 1958 e il 2005. Tre anni di lavoro permettono alla Cvjr di consegnare a Faure Gnassingbé un rapporto finale nell’aprile 2012.

Dal marzo 2015, il Togo dispone anche di un Alto Commissariato alla riconciliazione e al rafforzamento dell’unità nazionale (Hcrrun), incaricato di mettere in opera le 68 raccomandazioni della Cvjr.

Nel luglio 2016 l’Hcrrun organizza un atelier nazionale le cui conclusioni, affidate a Faure Gnassingbé, devono condurre alla realizzazione di diverse riforme, le principali delle quali, però, a oggi, restano ancora da affrontare: che si tratti della limitazione di un mandato, delle modalità dello scrutinio, della questione del contenzioso attorno al codice elettorale, le formazioni politiche si rimpallano a vicenda la responsabilità dello status quo. In dieci anni, «siamo diventati una curiosità tra i paesi che ci attorniano e che, a differenza nostra, avanzano», si lamenta Dodji Apévon, presidente del Comitato d’azione per il rinnovamento (Car). «Il mio auspicio, in quanto africano, è che questo dibattito sia condotto dai nostri intellettuali, e che essi possano darci piste di riflessione», afferma invece il capo dello stato.

Le riforme che restano lettera morta inducono le opposizioni, nel settembre 2017, a invitare la popolazione a scendere in piazza. Le proteste di portata storica hanno al centro la richiesta di limitazione dei mandati presidenziali a due e la rinuncia al potere da parte di Faure Gnassingbé. Le riforme previste dal governo prevedono in effetti un massimo di due mandati, ma non prevedono la retroattività, cosa che permetterebbe la permanenza al potere del presidente in carica.

Sei mesi dopo l’inizio delle proteste, il 19 febbraio viene avviato il dialogo politico, ben presto interrotto senza esiti.

Grandi sfide: l’impunità

Il Togo ha conosciuto atti di violenza a carattere politico soprattutto in occasione del processo elettorale del 2005. Dalla firma dell’Apg nel 2006, alcune organizzazioni della società civile, in particolare quelle che si occupano di difesa dei diritti umani, fanno della questione dell’impunità un tema centrale della loro lotta. Esse offrono, ad esempio, un accompagnamento giuridico alle vittime perché possano trovare giustizia.

«Le vittime che accompagniamo hanno sporto denunce presso i tribunali e sono ancora in attesa. Purtroppo, gli autori degli atti che deploriamo se ne stanno tranquilli», confida un responsabile di un’organizzazione di difesa dei diritti umani. Le critiche restano severe verso il governo, accusato di non promuovere «l’integrità e lo spirito d’indipendenza dei tribunali, della polizia giudiziaria e delle altre istituzioni che concorrono alla lotta contro l’impunità».

La Cvjr aveva raccomandato, nelle sue conclusioni, l’assunzione da parte dello stato di misure concrete ed efficaci di lotta contro l’impunità. Anche se il governo ha avviato numerose iniziative per promuovere i diritti umani, secondo Koffi Bakpena, militante dell’opposizione, esistono ancora difficoltà per i cittadini comuni nel chiedere giustizia, specialmente per «atti commessi da persone che rivestono incarichi pubblici».

Nuovo posto per l’esercito

L’esercito è spesso intervenuto nelle questioni politiche del Togo, almeno fino al 2006. Oggi, le forze armate si consacrano alla loro vocazione di messa in sicurezza del territorio. «Paragonato agli anni precedenti, il nostro esercito oggi ha un carattere repubblicano. Come vuole la Costituzione, non si immischia più nella politica», afferma un ex membro delle Forze armate
togolesi.

Il dialogo politico?

La messa in opera di un organo permanente di dialogo era una delle condizioni dell’opposizione per la firma dell’Apg. Ma è solo nel 2009 che viene adottato un decreto per creare il Cadre permanent de dialogue et de concertation (Cpdc). Il Cpdc raggruppa partiti che siedono nel parlamento, formazioni extra parlamentari (ordinate secondo criteri precisi) e rappresentanti del governo. Esso lavora in particolare sulle questioni delle riforme, su temi di ordine sociale, si occupa delle condizioni di stabilità delle istituzioni dello stato e offre la possibilità ai partiti politici e alle persone fisiche o morali di fare segnalazioni.

Ma l’impatto reale dei lavori di quest’organo resta un tema di dibattito in seno all’opinione pubblica e anche alla classe politica. Undici anni dopo la sua firma, si può affermare che l’Apg ha contribuito a migliorare la qualità del dibattito politico in Togo. Il panorama si è evoluto: nel 2006, il partito al potere è il Rassemblement du peuple togolais (Rpt), a esso succede nel 2012 la formazione Union pour la république (Unir). L’Union des forces du changement di Gilchrist Olympio è il principale partito dell’opposizione. Oggi all’opposizione spicca l’Alliance nationale pour le changement di Jean-Pierre Fabre, creata nel 2010, che si è imposta nei ranghi degli avversari del regime. Questa formazione invita i suoi militanti a manifestare per «ricordare al potere gli impegni non mantenuti da dieci anni».

Economia in movimento

La crescita economica è stimata al 4,5% per il 2017 contro il 5% del 2016. Proiettata per il 2018, potrebbe raggiungere il 5,3% nel 2019, a condizione che le precipitazioni atmosferiche siano favorevoli. L’agricoltura resta il fondamento dell’economia togolese, con un contributo di 1,7 punti percentuali alla crescita nel 2017, secondo la Banca africana di sviluppo. Nel 2018-2019, il settore terziario dovrebbe beneficiare della capacità del porto di Lomé, esteso grazie all’istallazione di moderni macchinari di trasbordo. La recrudescenza delle proteste politiche, che rallentano l’attività economica dall’agosto 2017, potrebbe comportare una revisione al ribasso delle stime di crescita per il 2018 e 2019.

Il Togo ha fatto progressi in materia di sviluppo, ma la maggioranza della popolazione non ne ha ancora ottenuto benefici. Un togolese su due non ha accesso all’acqua potabile e all’elettricità, il 55,1% della popolazione vive in povertà e il paese non conta che un medico ogni 14.500 abitanti. La formazione offerta dall’insegnamento superiore pubblico non risponde né ai bisogni del mercato del lavoro, né ai problemi di sviluppo del paese, che si classifica 162mo nell’Indice di sviluppo umano del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, secondo il quale il 51% della popolazione vive in una povertà multidimensionale. In un contesto segnato dalla recrudescenza delle manifestazioni politiche, l’organizzazione di elezioni legislative e locali nel 2018 ed eventualmente di un referendum sulla Costituzione potrebbero rallentare l’attività economica.

Apertura al mondo

Il paese si è dotato di infrastrutture moderne. L’immagine della capitale si apre al mondo. Le riforme avviate dal nuovo regime hanno spinto il Togo alla costruzione di un terzo bacino al porto autonomo di Lomé, il solo in acque profonde del Golfo di Guinea. Questo dinamismo si è tradotto in una crescita sostenuta che si è assestata, da cinque anni, ad una media del 5,6%.

Pur continuando a privilegiare le sue materie di esportazione tradizionali (fosfati, cemento, cotone), il Togo ha nello stesso tempo sviluppato altre risorse, nei settori agricolo, minerario e marittimo.

Faure Gnassingbé guarda al partner francese, presente al porto di Lomé con il gruppo Bolloré e sempre influente. Tuttavia, a differenza di suo padre, l’attuale presidente non coltiva reti in Francia e vira in direzione del Commonwealth, aprendo largamente il mercato togolese anche alle imprese cinesi. Questo non per sfidare l’ex potenza coloniale, ma piuttosto per una volontà d’indipendenza. Faure è di una generazione che si vuole disinibita rispetto all’Europa, che conosce bene.

Una diplomazia verticale

Il Togo è un paese nel quale le relazioni storiche con la Francia restano stabili, intense e fiduciose. Oltre 12mila togolesi vivono in Francia e oltre 3.500 francesi sono residenti in Togo. La Francia, in questo paese di 7 milioni di abitanti, è uno dei principali fornitori e detentori di investimenti diretti stranieri.

Nel 2012, il Togo è stato eletto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per due anni consecutivi. Faure Gnassingbé conta su una diplomazia del profitto e questa posizione d’influenza spinge la sua agenda ad avanzare contro la criminalità transfrontaliera nel Sahel e contro la pirateria marittima. Acquisisce fiducia presso i suoi pari della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest) e dell’Unione economica e monetaria dell’Africa dell’Ovest (Uemoa). Nel 2014, è stato designato per supervisionare il coordinamento della risposta contro l’epidemia di ebola.

Disoccupazione dei giovani

Secondo l’ultimo rapporto congiunto della Banca africana di sviluppo e dell’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico, l’incidenza della povertà è diminuita del 5% in otto anni. Certo, la metà vuota della bottiglia è ancora ben visibile: «Tre giovani togolesi su dieci sono in situazione di disoccupazione o di sotto-impiego», la grande povertà continua nelle campagne. Malgrado la priorità accordata dal presidente Faure Gnassingbé agli strati più vulnerabili della società togolese il trittico tradizionale cotone-fosfati-porto sul quale si poggia l’economia togolese resta fragile.

D’altro canto, la crisi sociopolitica potrebbe ritardare il proseguimento della messa in opera dell’ambizioso programma di assestamento delle finanze pubbliche in Togo. Questa situazione, quindi, non fa presagire nulla di buono per l’economia togolese nei prossimi mesi.

La scuola

Nel 2008 Faure elimina le tasse scolastiche per le scuole primarie. È una decisione che favorisce l’apertura delle porte della scuola in particolare a migliaia di bambini provenienti dalle zone rurali.

Durante oltre due decenni il sistema educativo togolese ha affrontato enormi difficoltà generate dalle crisi sociopolitiche degli anni Novanta, che hanno provocato una sospensione della cooperazione internazionale. Questa sospensione dell’aiuto ha avuto come effetti quello di indebolire le capacità istituzionali dello stato, di ostacolare la fornitura di servizi di educazione e di erodere gravemente la qualità delle infrastrutture pubbliche di base. In città, se i genitori riescono bene o male a mandare i bambini a suola, la situazione è tutt’altra nelle zone rurali, dove la povertà dilaga. Malgrado la gratuità delle tasse scolastiche, altre condizioni spiegano la non scolarizzazione dei bambini. L’estrema povertà della maggior parte della popolazione, la mancanza di scuole in certi villaggi, la mancanza di personale qualificato in altre. A ciò va aggiunta la corruzione e la manipolazione delle coscienze da parte di certi insegnanti o capi d’istituto.

Alla fine dell’anno scolastico alcuni allievi passano alla classe successiva malgrado le loro insufficienze, cosa che causa preoccupazioni per i presidi e lacune perpetue per gli studenti.

Secondo un rapporto recente dell’Unicef, il Togo registra un tasso netto di scolarizzazione passato dal 75,7% al 90%, un netto miglioramento.

Un uomo poco comunicatore

Riguardo all’aspetto oscuro che il Togo offre sul piano politico in questi ultimi tempi, sull’esigenza di una alternanza politica ai vertici dello stato, Faure Gnassingbé non sviluppa la sua strategia di comunicazione. Secondo Jean-Pierre Fabre, l’oppositore radicale del regime, c’è una sola parola d’ordine: «Cinquant’anni bastano! L’alternanza, sola soluzione a tutti i mali del Togo».

Anche se messa sotto i riflettori della scena politica del suo paese, la personalità del presidente Faure Gnassingbé resta sempre difficile da comprendere.

Grevisse Musema




Iran: la situazione nella repubblica islamica sciita

Testi di Maria Chiara Parenzo |


Impegnato nella tragica guerra della?Siria e in quella dimenticata dello Yemen, il governo sciita di Teheran ha problemi anche al proprio interno. Con una lotta senza esclusione di colpi tra conservatori radicali (legati alla Guida suprema Khamenei) e conservatori riformisti (vicini al presidente Rouhani). Nel frattempo, la schiera dei nemici esterni si compatta: Israele, Arabia Saudita e il presidente statunitense Donald Trump non fanno nulla per favorire il dialogo. A pagare il conto di questa situazione è il popolo iraniano.

Teheran. Per giorni – è dicembre 2016 – il reporter della televisione iraniana al seguito dell’esercito siriano tiene i telespettatori con il fiato sospeso: si sta riconquistando la città di Aleppo con un combattimento casa per casa. Man mano che la città viene liberata si rivelano i crimini perpetrati dai terroristi: case saccheggiate, cadaveri abbandonati qua e là, o deposti in fosse comuni. I telespettatori inorridiscono. Quando l’ultimo bastione di resistenza cade, in città è festa grande. Nelle immagini vediamo la gioia delle persone rimaste intrappolate nei quartieri occupati che possono riabbracciare i propri famigliari, ma anche la disperazione di quelli che ritornano alle proprie case devastate, le testimonianze delle atrocità commesse dalle milizie a danno dei civili. Poi vediamo immagini di come, lentamente, la vita in città tenta di riprendere il suo corso normale.

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 Quale guerra?

Qualche giorno dopo mi trasferisco in Italia per il periodo natalizio e lì la musica cambia completamente. È quasi unanime il coro di denunce per gli orrori commessi dall’esercito di Bashar Assad durante la riconquista di Aleppo. Ci si rammarica che la comunità internazionale non abbia saputo fermare la strage. Non ho mai sentito i media iraniani parlare del governo siriano in termini negativi, ma mi è noto che il regime guidato da Assad si è macchiato di pesanti crimini di guerra. Poi si accusa l’aviazione russa di aver dato una mano ad Assad e di aver colpito indiscriminatamente obiettivi militari e civili. Anche questi fatti cui la Tv iraniana non ha mai fatto cenno, mi sembra del tutto plausibile. Basta ripensare a come l’esercito russo ha condotto la guerra nel Caucaso.

Scopro, in compenso, che il pubblico italiano non ha molta consapevolezza di un’altra guerra sanguinosa, quella in corso in Yemen dal 2015. Quando ne parlo con alcuni amici vedo il vuoto nei loro occhi: sì, forse qualcosa abbiamo sentito, non so. Invece, la Tv iraniana trasmette quasi quotidianamente immagini di persone che vagano tra le macerie delle loro case, di morti, di bambini feriti, o di madri disperate perché non hanno cibo per i loro figli. Causa di tante sofferenze sono i bombardamenti effettuati da una coalizione di stati guidata dall’Arabia Saudita, con l’appoggio logistico e tecnico di Usa e Regno Unito, e le bombe italiane. Anche in questo caso, non ho motivo di dubitare che le immagini descrivano una situazione reale.

È Iran contro Isis

Questa sensazione di vivere in una realtà doppia si ripete l’anno dopo. Questa volta si tratta della guerra all’Isis. Scopro che gli italiani ne hanno un’idea vaga. Sebbene tutti temano attacchi in casa propria, non s’interessano molto a ciò che succede su un terreno lontano. Chi ha combattuto l’Isis? I più nominano la Russia, l’America, i paesi arabi, qualcuno dei più informati parla di curdi, milizie sciite, Iran.

Se, invece, si fa la stessa domanda a un iraniano la risposta arriva rapida e sicura: l’Iran, innanzitutto. Da subito l’Iran ha sentito di vitale importanza difendersi da questa minaccia, sia per la vicinanza dello Stato islamico ai confini nazionali, sia per la particolare ferocia con cui il gruppo attaccava le comunità e i luoghi di pellegrinaggio sciiti. Dove arrivava l’Isis l’uccisione degli sciiti era sistematica, tanto da far parlare di genocidio, come per altre comunità non islamiche. Non penso che tutti gli italiani lo sappiano. Invece, tutti in Iran sanno che contro questa minaccia il loro paese si è impegnato in un confronto serrato sul terreno. Ci sono state campagne di reclutamento di uomini da inviare a difendere i luoghi santi in Iraq e in Siria (questa era la motivazione ufficiale). I volontari ricevevano lauti stipendi, agli afghani irregolari veniva, inoltre, assicurato il permesso di soggiorno al loro rientro. Hanno cominciato a riportare i «martiri» dalla Siria, dall’Iraq. Poster con le facce dei combattenti caduti sono comparsi nei quartieri dove abitavano i loro famigliari, come è usanza qui in Iran in segno di lutto. Quando dici a un iraniano che anche gli Stati Uniti hanno combattuto l’Isis ti guarda incredulo. La narrativa ufficiale in Iran è che l’Isis è stato creato dagli Usa e sui media nazionali non si fa certo menzione del contributo americano alla lotta.

Pubblici diversi hanno, dunque, percezioni diverse del reale. Non sappiamo quello che non vediamo e udiamo, e viceversa. Il reale che conosciamo attraverso i mass media è più o meno parziale e ci condiziona tutti.  Lo stesso vale per la questione del nucleare iraniano, che da noi ha tenuto banco a più riprese. Proviamo a vedere come l’hanno vissuta gli iraniani1 e come essi vivono la nuova crisi nei rapporti tra Iran e Usa.

(IRAN_Imam-Square-Isfahan-Iran_Ninara)

La questione del nucleare

Se la necessità di combattere l’Isis, in quanto massima espressione dell’odio dell’estremismo sunnita verso gli sciiti, era condivisa e sentita vitale, la questione del nucleare ha avuto e ha per gli iraniani un’importanza di gran lunga minore. Fin dal suo nascere è rimasta marginale, lontana dalle preoccupazioni quotidiane della gente. D’altra parte l’Iran non ha mai avuto i problemi energetici dell’Italia. Fino a circa dieci anni fa gas, elettricità, benzina godevano di sovvenzioni statali, poi eliminate e sostituite da un sussidio fisso versato mensilmente a ogni persona. Da allora il loro prezzo è rincarato, ma rimane ancora molto inferiore ai livelli europei, soprattutto quello di gas e benzina (venduta oggi a circa venticinque centesimi di euro). Né la gente sente la necessità di avere una bomba atomica. Le armi di distruzione di massa sono ritenute un abominio.

Partita in sordina negli anni Novanta, la questione del nucleare iraniano cominciò a salire di tono durante la presidenza di Mahmud Ahmadinajad (2005-2013), soprattutto per voce dello stesso presidente, che ne fece uno dei cavalli di battaglia nelle sue polemiche contro l’Occidente: il popolo iraniano, affermava, ha il diritto di produrre energia nucleare a scopi pacifici, come avviene in altri paesi del mondo. Il presidente batteva su questo tasto e la gente condivideva le sue argomentazioni. Con un senso di orgoglio nazionale si pensava: se gli altri sì, perché non noi. Inoltre, erano allettanti le promesse di avere un’energia elettrica quasi a costo zero grazie al nucleare. Tuttavia, quando cominciarono ad arrivare le sanzioni e a peggiorare i rapporti commerciali con l’estero, quando il prezzo del dollaro cominciò a salire e l’inflazione a galoppare, deprimendo pesantemente la loro già precaria economia domestica, gli iraniani capirono che il costo da pagare era troppo alto, tanto più per qualcosa di cui non si sentiva così bisogno.

Per questo motivo, quando la presidenza Rouhani nel 2013 inaugurò un nuovo corso, quello del dialogo, il sostegno popolare fu ampissimo. Un esito positivo dei negoziati avrebbe fatto ripartire l’economia e restituito un futuro a tante famiglie in difficoltà. Così, almeno, si credeva.

Questa grande speranza conviveva, però, con il grande timore che i negoziati finissero in nulla. Si sapeva, infatti, che incontravano una forte opposizione all’interno dell’apparato del regime, tanto che molti ne davano per scontato il fallimento. La Guida suprema Ali Khamenei aveva a più riprese messo in guardia contro l’inaffidabilità dei negoziatori occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, da cui niente di buono poteva arrivare. Del tutto contrarie ai negoziati erano le «Guardie (guardiani, pasdaran) della rivoluzione», qui comunemente dette Sepah2, alle cui tasche aveva fatto bene il regime sanzionatorio. Le sanzioni, infatti, non interrompono il commercio di una nazione con gli altri paesi, ma impediscono che si sviluppi in maniera naturale, coinvolgendo, cioè, tutto il corpo sociale, il settore privato, come quello pubblico, il piccolo imprenditore, come la grande impresa; quindi, ne alterano la natura, privandolo della sua parte «sana» e lasciandolo nelle mani di chi è così potente da aggirarle e operare nell’ombra. Le sanzioni nei confronti dell’Iran hanno impoverito le persone normali e arricchito le organizzazioni che appartengono allo «Stato profondo», innanzitutto i Sepah e i Basij (un corpo paramilitare formato da volontari), che da loro dipendono. I Sepah sono uno stato nello stato, rispondono solo alla Guida suprema e operano, quindi, al di fuori dei normali meccanismi di controllo dello stato, in una zona grigia, inarrivabile, intoccabile. In un mercato bloccato dalle sanzioni, essi hanno continuato a vendere e importare attraverso canali terzi, ottenendo una sorta di monopolio per i propri affari. Le sanzioni, dunque, non fanno che aumentare la poca trasparenza di un sistema economico già di per sé opaco per vizio d’origine3.

(© Frode Bjorshol)

L’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni

Considerata l’opposizione di forze così potenti, grandi furono la sorpresa e la soddisfazione della gente alla notizia che si era finalmente approdati a un accordo sul nucleare (14 luglio 2015): sembrava di avere vinto una battaglia, non tanto contro un nemico esterno, ma contro il regime interno. Ci furono manifestazioni pubbliche di tripudio. Negli anni l’accordo aveva finito per assumere un significato eccezionale, era considerato la panacea per le moribonde finanze del paese. Ci si aspettava una rapida ripresa dalla stagnazione.

In realtà non è stato così. La ripresa dei rapporti commerciali con i paesi occidentali è stata lenta e, se i dati dicono che l’interscambio è andato aumentando (quello tra Iran e Ue è cresciuto del 79% nel primo anno dall’entrata in vigore dell’accordo4), l’effetto ancora non si è visto granché sulla tavola degli iraniani, anche perché una vera normalizzazione non si è verificata. Altre sanzioni rimangono in essere e il sistema bancario per le transazioni con l’Iran non ha ripreso a funzionare correttamente. Dopo un breve momento di euforia iniziale, che lo aveva fatto risalire rispetto al dollaro, il rial, la valuta iraniana, ha ripreso a svalutarsi, toccando nuovi record alla fine dello scorso anno.

Quindi, per il momento, le tasche degli iraniani rimangono vuote. Tanto vuote che all’inaugurazione del nuovo anno iraniano, il 21 marzo 2017, quando si trattava di lanciare, com’è suo costume, lo slogan che intendeva ispirare l’operato del popolo nell’anno entrante, Khamenei ha pronunciato: «economia di resistenza». A sentire il nuovo motto, la gente si è preoccupata: ahi, la Guida invitava a stringere i denti e tirare la cinghia, ergo nell’anno ci sarebbero stati nuovi aumenti, nuove tasse. E, puntualmente, a dicembre, il governo ha annunciato aumenti di tasse e del prezzo di alcuni beni di prima necessità. La resistenza, però, non riguarda tutti, perché lo «Stato profondo», come si è detto, prospera e quando ha poca liquidità, come in questo periodo di prezzi petroliferi bassi e alti costi di una politica estera espansionistica, mette sotto torchio il comune cittadino, che è chiamato, appunto, a resistere.

Contro Donald Trump e l’Arabia Saudita

Forse anche perché non se ne sono sentiti i benefici, la reazione della gente alla bocciatura dell’accordo su nucleare da parte della presidenza Trump è stata blanda. In compenso la bocciatura ha fatto segnare un punto a favore di Khamenei, che aveva messo in guardia contro l’impossibilità di veri negoziati con gli Usa. Sì, perché l’Iran non è venuto meno agli impegni presi, come hanno confermato tutte le altre parti in causa.

Come spiegano gli iraniani l’ostilità del governo americano nei confronti del loro paese? Sull’argomento condividono quanto affermato dal loro ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, in occasione della visita di Trump in Arabia Saudita: «L’Iran, che ha appena tenuto delle vere elezioni, è attaccato dal presidente degli Stati Uniti in questo (riferendosi a Riyadh, nda) bastione della democrazia e della moderazione. Si tratta di politica estera o di succhiare 480 miliardi di dollari ai sauditi?»5.

Lasciando stare le «vere elezioni» (non tutti vi si possono candidare e il parlamento non è libero di decidere: comanda la Guida), ho spesso sentito esprimere la convinzione che lo spauracchio dell’Iran sia agitato ad arte per vendere più armi agli arabi.

Su un altro punto gli iraniani si trovano d’accordo col loro ministro degli Esteri: l’Arabia Saudita non può insegnare niente all’Iran in quanto a democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti, e il fatto che quest’ultimo continui a essere designato dagli Usa «stato sponsor del terrorismo», insieme a Siria e Sudan, è dettato da ragioni politiche, non certo ideali.

(© Frode Bjorshol)

Terrorista a chi?

Allora, chiedo io, l’Iran non pratica il terrorismo? Non esattamente, i Sepah appoggiano Hezbollah e Assad, mi rispondono (indicando così che percepiscono quell’organizzazione come un corpo estraneo, indipendente dallo Stato), ma che differenza c’è rispetto a quanto fanno altri paesi, tra cui l’Arabia Saudita? È difficile non concordare con loro, se si tiene presente che la maggior parte degli attacchi terroristici vengono dall’estremismo sunnita; che spesso colpiscono comunità sciite; che, sebbene la monarchia saudita non incoraggi esplicitamente il terrorismo, fa propria la dottrina wahhabita, nota per la sua interpretazione estremistica dell’Islam, che, tra l’altro, considera gli sciiti eretici e, quindi, anche passibili di morte. Gli stessi rapporti annuali sul terrorismo stilati dal governo americano denunciano l’utilizzo nelle scuole saudite di «libri di testo con insegnamenti che istigano all’intolleranza e alla violenza, in particolare verso chi è ritenuto politeista, apostata o ateo»6. Insomma, si fa fatica a capire perché quello iraniano debba essere ritenuto peggiore di altri regimi.

Tornando a quanto si diceva all’inizio, si può scegliere di illuminare solo una faccia della realtà e usare alcuni termini pro domo nostra. «Terrorismo» è uno di questi.

«È tutta politica», così reagiscono gli iraniani quando si parla di tali argomenti, intendendo con ciò i propri, come gli altrui politici. Sono stufi di sentire i loro rappresentanti e il clero fare predicozzi agli altri e propaganda a se stessi. La Repubblica islamica non farebbe che pensare al bene dei propri cittadini, migliorare i servizi, soccorrere nelle difficoltà, trasmettere buoni insegnamenti. Ma, se da quarant’anni si va di bene in meglio, perché la gente comune boccheggia nei lacci di una burocrazia pervasiva e arbitraria, vede prosperare una classe politica corrotta e crescere il divario tra poveri e ricchi, osserva lo «Stato profondo» utilizzare le risorse del paese per finanziare se stesso e i propri amici all’estero? Allo stesso tempo gli iraniani sono però anche stufi di vedere l’ipocrita interessamento di altri paesi ai fatti di casa loro. Non gradiscono che li si istruisca su che cosa devono fare.

Durante gli eventi del dicembre 2017 (approfondimento alla pagine 24-25, ndr), quando le proteste contro il carovita hanno portato nelle strade migliaia di persone, diverse voci si sono levate da fuori per incoraggiare gli iraniani alla ribellione. A sentire gli incitamenti di persone al sicuro nelle proprie case, chi ha vissuto la guerra contro l’Iraq si è ricordato di quando Khomeini gridava: «A Karbala! A Gerusalemme! Combattere fino alla vittoria!» e mandava migliaia di giovani a morire in Iraq, mentre lui, i suoi famigliari e gli altri membri del clero se ne stavano a casa tranquilli. Di nuovo bisogna constatare: che differenza c’è?

Subito dopo l’elezione di Trump in Iran è comparsa una serie di aneddoti che lo paragonavano ad Ahmadinejad. Gli iraniani hanno individuato negli atteggiamenti del nuovo capo della Casa bianca una grande somiglianza con quelli del loro ex presidente, uno dei politici che maggiormente solletica il loro senso dell’umorismo. Perché, fortunatamente, gli iraniani amano scherzare su se stessi. Attraverso la rete e gli sms girano decine di aneddoti, sfornati a velocità strabiliante a ogni nuova occasione, anche tragica. È un modo di esprimere critica e disappunto, tollerato (qualcuno dice addirittura utilizzato, facendo circolare aneddoti ad hoc) dal regime, forse perché vi vede una valvola per far sfogare una rabbia altrimenti troppo compressa. Ce n’è per tutto e per tutti. Solo della Guida suprema e delle organizzazioni a lui legate (Sepah, Basij) non si parla mai direttamente. La Guida è il vicario in terra dell’«Imam nascosto», offendere lui è blasfemia e merita la morte.

Maria Chiara Parenzo

Note

  • (1) Anche qui quando si parla di iraniani si dice, in realtà, una verità parziale. Le opinioni che trasmettiamo sono state raccolte nella fascia urbanizzata del nord dell’Iran. Sono trasversali per classe sociale (dal povero al ricco), ma non riflettono il pensiero di chi ha incarichi pubblici o appartiene al clero.
  • (2)  Il nome completo è «Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica». «Sepah» significa corpo.
  • (3)  Vedi anche Annalisa Perteghella, «Due anni dalla firma del Jcpoa: l’accordo funziona ma non è ancora al sicuro», 14 luglio 2017, in www.ispionline.it.
  • (4) Annalisa Perteghella, Tiziana Corda, «Usa e Iran: l’azzardo di Trump sul nucleare», 11 ottobre 2017, in http://www.ispionline.it.
  • (5) Zarif: Trump ‘succhia’ i soldi dell’Arabia saudita, 22/05/2017, in www.asianews.it.
  • (6) «…some textbooks continue to contain teachings that promote intolerance and violence, in particular towards those considered to be polytheists, apostates, or atheists». U.S. Department of State, «Arabia Saudita», in «Country Reports on Terrorism 2016», p. 222.

(RAN_Shazdeh-Hosein-Shrine-Qazvin_AndreaMoroni_2017)


I fatti del dicembre 2017

Dietro «la rivolta delle uova»

Quelli di dicembre sono stati eventi legati alla perenne lotta tra i conservatori moderati del presidente Hassan Rouhani e gli ultraconservatori vicini alla Guida suprema. Da qualsiasi parte si analizzi la situazione, un dato è certo: in Iran la gran parte dei religiosi e delle persone legate al regime vivono nella ricchezza più sfacciata. Alla faccia della Rivoluzione e del popolo.

L’hanno chiamata «la rivolta delle uova» perché proprio in quei giorni il loro prezzo era triplicato, non per motivi politici, ma per una malattia dei polli che le aveva fatte scomparire dal mercato. Un nome scherzoso per qualcosa di molto serio. La scintilla è scoccata il 28 dicembre 2017 a Mashhad, feudo di Ebrahim Raisii, religioso a capo della miliardaria fondazione benefica che custodisce il mausoleo dell’Imam Reza, nonché rivale politico del presidente Hassan Rouhani. Occasione: l’aumento del costo di alcuni generi di prima necessità, tagli di sussidi e altre misure di austerità annunciate dal governo Rouhani. Sembra ormai assodato che sia stata una mossa mal calcolata nella lotta tra Rouhani, espressione dei conservatori moderati che vorrebbero modificare il sistema per permettergli di sopravvivere, e gli ultraconservatori, concentrati tra il clero e le organizzazioni non elettive dello «Stato profondo», cui le riforme sottrarrebbero parte di privilegi e potere. La presidenza Rouhani sta cercando di rendere più efficiente e trasparente il sistema economico. Ciò vuol dire anche ridurre i privilegi di fondazioni e organizzazioni paramilitari religiose, cui la Repubblica islamica concede di vivere in un limbo dove non si pagano tasse e non si è obbligati a spiegare come si utilizzano le ingenti risorse a disposizione. Queste istituzioni, di cui non è possibile stimare con esattezza il giro d’affari, hanno una presenza pervasiva in tutti i settori economici. È, in sostanza, un sommerso autorizzato che, secondo calcoli approssimativi, controllerebbe due terzi della ricchezza del paese. Dai tempi di una Rivoluzione fatta anche nel nome degli ultimi, religiosi e personalità legate al regime hanno accumulato fortune personali notevoli, e ciò è davanti agli occhi di tutti.

Trasparenza e rabbia popolare

Lo scorso 10 dicembre i telespettatori hanno sentito per la prima volta il presidente elencare le voci di spesa contenute nella legge di bilancio. La novità, insieme all’inedita richiesta di rendicontare per il futuro l’utilizzo dei contributi governativi, è stata interpretata come un tentativo di ottenere una maggior trasparenza. Si è venuto, così, a sapere che, se da un lato si programmavano aumenti di tasse e prezzi, dall’altro si destinavano ingenti somme a fondazioni religiose e le spese militari crescevano del 20% (l’inflazione è ufficialmente intorno al 10%). I telespettatori hanno capito che, mentre avrebbero dovuto aspettarsi un peggioramento delle proprie condizioni di vita, il regime concedeva ulteriori risorse a già facoltose istituzioni parassitarie e faceva pagare loro i costi di una politica estera ambiziosa. Nei giorni di dicembre queste novità correvano su tutte le bocche, alimentando una rabbia che già covava. Così è bastato poco per portare la gente in strada. La protesta si è fatta sentire, più che a Teheran, nelle provincie, dove più basso è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. I manifestanti, soprattutto giovani, hanno gridato la propria frustrazione contro il sistema, ma non in nome di qualcosa o qualcuno. Per quanto si è capito, si è trattato di manifestazioni spontanee, organizzate grazie al passaparola e ai social network, non un movimento con chiari obiettivi e riferimenti politici. Ad esempio, a Izeh, nel Khuzestan, i manifestanti hanno occupato stazioni di polizia e uffici governativi, ma poi li hanno evacuati, non sapendo che farne.

Il discredito dei religiosi

C’è da chiedersi: chi ha dato inizio alle proteste per fare un dispetto al presidente non ha capito che avrebbe così anche dato la stura a sentimenti che già ribollivano nella gente, rischiando di trasformare una lotta di potere interna al sistema in una rivolta contro il sistema stesso? Chi è al potere, soprattutto se da lungo tempo, acquisisce una straordinaria incapacità di capire la realtà, perfino nelle sue forme più ovvie. Ed è ovvio che la gente comune è sempre più lontana dai discorsi ufficiali, sempre meno disposta a credere agli esponenti di una classe politica e religiosa, le cui parole anno dopo anno sono state sbugiardate dai fatti. Glielo si legge negli occhi, sempre più foschi di frustrazione e ansia per il futuro. A quegli occhi la classe al potere è caduta in totale discredito, riformisti o radicali che siano. E i più discreditati di tutti sono i religiosi, ai quali piace caricare sulle spalle della gente pesi che essi, invece, non sono disposti a portare. Per fare solo un esempio, consigliano ai malati di andare a impetrare guarigione al santuario dell’Imam Reza. Se loro hanno problemi di salute, invece, intraprendono costosi soggiorni all’estero per cure mediche.

Il predicatore del venerdì a Teheran, l’ayatollah Kazem Seddiqi, ha definito i protestatari «spazzatura». Altre personalità, tra cui la Guida suprema Ali Khamenei, hanno gettato la responsabilità della rivolta sui nemici esterni: Israele, gli Usa, i paesi del Golfo. È vero che da parte di Rouhani e dei moderati si è provato a dare una valutazione più realistica di ciò che è accaduto, ma quanto ciò corrisponda a sentimenti sinceri si capirà solo alla prova dei fatti.

I pericoli

C’è da augurarsi che i pallidi tentativi di cambiamento cui si è accennato si rafforzino e portino a una seppur graduale ristrutturazione del sistema, altrimenti c’è il rischio che tra qualche tempo ci si trovi ad affrontare altre rivolte. Non c’è da augurarsi che ciò si risolva in reazioni violente. Gli iraniani temono che il loro paese, in cui convivono etnie e confessioni diverse, possa diventare teatro di sanguinose lotte intestine, dove non sarebbe certo la gente comune a vincere.

Un cattivo governo è sempre preferibile alla guerra civile e chi ha incitato gli iraniani alla rivolta, o è un irresponsabile, o, molto più probabilmente, persegue un proprio interesse.

Maria Chiara Parenzo

 




Carta d’identità: taiwanesi

Testo Mirco Elena |


La grande maggioranza degli abitanti della «provincia ribelle» (come Pechino definisce l’isola) si sente taiwanese. E il dato è ancora maggiore tra i giovani. Tuttavia, sono una minoranza coloro che vorrebbero l’indipendenza dalla Cina, opzione giudicata troppo rischiosa, e pochissimi quelli che vorrebbero l’unificazione. Per il momento, a Taiwan pare meglio il mantenimento dello «status quo»: né unificazione, né indipendenza.

Un recente studio, pubblicato dal quotidiano United Daily News1, sostiene quanto segue: il 73% della popolazione dell’isola dichiara di sentirsi taiwanese, mentre cinese solo l’11%2. Un’analoga inchiesta effettuata vent’anni prima, trovava valori rispettivamente del 44% e del 31%. Se ne può quindi dedurre come un certo spirito indipendentista si sia molto rafforzato. Ancora più impressionante appare il cambiamento se si considera che, nella fascia d’età 20-29 anni, questo dato sale addirittura all’85%. Per completare il quadro, si noti che il 10% della popolazione si sente sia taiwanese che cinese, mentre il 6% delle persone si è rifiutato di rispondere alle domande dell’indagine. Una domanda più politica ha infine riguardato l’indipendenza del paese, con il 46% della popolazione che si è dichiarata in favore della prosecuzione indefinita dell’attuale situazione, mentre il 19% preferirebbe muovere velocemente verso l’indipendenza e solo il 4% vorrebbe invece una rapida unificazione con il continente. Il 17% è infine a favore dell’indipendenza, ma preceduta da un lungo status quo. Considerando tutti quelli in vario modo a favore dell’indipendenza, si nota infine che il loro numero è aumentato dell’8% rispetto all’anno precedente.

Essendo chiaro a tutti che il processo di distacco formale dall’idea di una Cina unificata potrebbe comportare gravi rischi, l’indagine ha anche esaminato il prezzo che i cittadini sarebbero disposti a pagare, pur di ottenere l’indipendenza formale. Ne è risultato che il 43% della popolazione complessiva taiwanese potrebbe accettare un drastico calo dei turisti provenienti dalla Cina; per un 20%, l’isola potrebbe sopportare la perdita della maggior parte dei suoi circa 20 alleati diplomatici all’Onu, e addirittura una guerra. Il 16% affronterebbe un blocco economico. Infine poco più del 20% della popolazione pensa invece che l’indipendenza dell’isola non meriti alcun sacrificio.

Tsai Ing-wen, prima donna presidente di Taiwan, osserva l’addestramento dell’esercito taiwanese (25 maggio 2017/ AFP PHOTO / SAM YEH

Più giapponesi che cinesi

Quando si arriva a Taipei, capitale di Taiwan, ci si potrebbe attendere di trovarsi in un ambiente tipicamente cinese. Certamente lo è, per gli ideogrammi presenti ovunque, per la simbologia religiosa, per le decorazioni, ma basta poco per rendersi conto che ci sono alcune notevoli differenze rispetto alla Cina continentale. Se la popolazione di quest’ultima è, per certi aspetti e modi di fare, molto simile a quella italiana3, i taiwanesi sono in un certo senso molto più «tedeschi» (ma, per ragioni geografiche e storiche, meglio sarebbe dire «giapponesi»). La capitale taiwanese è più pulita rispetto alla media cinese; la gente ha un maggior civismo e senso dell’ordine.

Da quanto detto in precedenza, risulterà facile capire come questa differenza si possa probabilmente far risalire all’effetto del mezzo secolo di colonizzazione giapponese, durata dal 1895 al 1945. Con tipica efficienza nipponica l’amministrazione isolana di quel periodo operò in modo da inculcare nella popolazione locale i modi ed i valori propri dell’arcipelago del sol levante: pulizia, ordine, efficienza, senso del dovere. Quando subentrarono i nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek, questi portarono con loro alcune tradizionali caratteristiche cinesi antitetiche a quelle giapponesi: burocrazia arrogante, familismo, corruzione diffusa, disorganizzazione, individualismo anarcoide ed egoistico. Non proprio quello cui erano stati abituati i taiwanesi. Aggiungiamoci l’esercizio della violenza per reprimere ogni protesta e dissenso ed ecco che l’origine dell’insoddisfazione di molti taiwanesi diventa comprensibile. Se ciò non bastasse, ricordiamo come un ruolo non trascurabile debba averlo giocato anche la notizia delle atrocità e delle distruzioni perpetrate dalle guardie rosse al tempo della rivoluzione culturale scatenata da Mao sulla terraferma.

Taipei, © Tsaiian

Piccoli esempi di quotidianità taiwanese

Quanto ancor oggi ci sia di «giapponese» nella società taiwanese lo possiamo dedurre da qualche episodio, successo direttamente all’autore di queste righe o riferitogli da fonti affidabili. Iniziamo da quel che capita un sabato quando alle quattro di mattina mi trovo a dover attraversare una strada cittadina a quattro corsie per prendere l’autobus che avrebbe dovuto poi portarmi all’aeroporto di Taipei. Traffico zero. Nessuno in giro. O quasi. Quando arrivo al semaforo che regola l’attraversamento pedonale c’è lì un signore che disciplinatamente attende che diventi verde. La tentazione di attraversare, pur col rosso, è forte. Mi pare illogico e inutile aspettare in quelle condizioni; oltre a noi due non c’è anima viva né traccia di autoveicoli nei dintorni. Lui, tranquillo, aspetta; io fremo. Mi dà però fastidio l’idea di mostrarmi un ospite cafone, che arriva in una nazione e ne viola le regole. Allora attendo anch’io. Il silenzioso e paziente signore, forse senza nemmeno volerlo, mi ha dato una lezione di civismo.

La disciplina dei taiwanesi appare chiara anche al momento di salire su un mezzo di trasporto pubblico, o di avvicinarsi ad uno sportello. Anziché gettarsi all’assalto, come tende ad avvenire sulla terraferma, i cittadini dell’isola si dispongono in fila e pazientemente attendono il loro turno. Come gentlemen inglesi.

Cyril, un francese stabilitosi sull’isola dopo aver sposato una ragazza locale, mi racconta che qui tantissime persone usano moto e motorini. Ma non era necessario che me lo dicesse lui; me ne ero già accorto, girando per la città. Quel che mi sorprende è invece la sua assicurazione che tutti usano lasciare il casco (che si deve obbligatoriamente indossare quando si è sul mezzo) semplicemente appoggiato sulla moto, quando questa viene parcheggiata; anche quando la si lascia per la notte a lato della strada. Nessuno lo fissa con un lucchetto, dato che non c’è chi pensi di rubarlo. O quasi. Cyril mi confessa che, in dodici anni di permanenza sull’isola, gliene hanno involato solo uno, nuovissimo e rosso brillante, proprio il giorno in cui lo aveva comperato. Il commento del filosofico Cyril è semplicemente «era troppo bello, avrebbe fatto gola a chiunque!». Ancora in fatto di furti, mi dice che, per la sua esperienza di insegnante di lingue, se uno scolaretto trova per terra una banconota da cento dollari, la prima cosa che fa è andare dalla polizia o da un vigile a consegnarla. Non proprio il tipo di comportamento che ci si aspetta di trovare in Cina continentale (ma nemmeno in Italia, a essere sinceri).

Da questi piccoli esempi non possiamo certo trarre nulla di più che qualche modesta indicazione sull’animo, la cultura, i modi di fare dei taiwanesi. Resta il fatto che, come si è visto un poco anche alle ultime elezioni, l’insofferenza per Pechino è forte in ampi settori sociali.

© Mirco Elena

Preservare lo «status quo» (per evitare il peggio)

Come si esce da una situazione in cui potrebbe bastare un errore di valutazione, una dichiarazione azzardata, un intervento esterno mal progettato e peggio eseguito per scatenare uno scontro militare di ampie e imprevedibili proporzioni? Abbiamo già detto che gli Usa sono da tempo impegnati a difendere Taiwan nel caso venisse attaccata dalla Cina. Data anche la loro tendenza storica ad usare la forza per risolvere intricati problemi politici, questo potrebbe facilmente portare ad uno scontro tra le due grandi potenze4, che potrebbe sfociare in uno scambio nucleare. Nonostante la disparità di forze in campo (la Cina ha circa 300 ordigni, mentre gli Usa oltre 5.000, di cui «solo» 1.500 operativi) gli esiti sarebbero certo pesanti per entrambe le nazioni e l’intero quadrante geopolitico Est asiatico (se non addirittura quello mondiale) potrebbe venirne stravolto.

© Mirco Elena

La modalità più sicura per evitare problemi così seri sarebbe certo quella di ridurre la tensione e la probabilità del ricorso ai mezzi militari. Potrebbe risultare decisiva una ribadita adesione taiwanese all’idea di una sola grande Cina, immaginata, almeno in prospettiva, riunificata. In subordine potrebbe bastare, almeno per il momento, il mantenimento dello status quo, in cui Taiwan non si esprime chiaramente né a favore né contro l’unificazione o l’indipendenza.

Un utile passo avanti si potrebbe poi avere se lo speciale regime autonomo vigente a Hong Kong5 continuasse ad avere successo nel garantire le libertà politiche, economiche e sociali. In tal modo assicurando i taiwanesi che, anche nell’ipotesi di una riunificazione con Pechino, le caratteristiche fondamentali della loro democrazia sarebbero preservate e protette.

Positiva sarebbe anche una maggior comprensione da parte americana delle sensibilità della Repubblica popolare, così da evitare mosse interpretate come provocatorie ed offensive. Purtroppo, specie in epoca Trump, questo appare niente più che un evanescente sogno.

Non si dimentichi tuttavia che proprio la Cina ha bisogno di una situazione di perdurante pace, per poter continuare il proprio ambizioso programma di ammodernamento e di miglioramento degli standard di vita di tutta la popolazione. Inoltre la sua attuale forte inferiorità militare può e deve indurre Pechino ad essere prudente, anche nel caso debba ingoiare qualche indigesto rospo a stelle e strisce.

Sulla base di queste considerazioni, e ricorrendo abbondantemente all’ottimismo, possiamo confidare che, nonostante le periodiche tensioni e le loro accentuazioni, non si giunga a scontri militari potenzialmente in grado di portare a una situazione catastrofica. Questo detto, forse è meglio che chi ha fede, preghi che davvero sia così. E chi non crede, incroci le dita.

Mirco Elena
(seconda parte – fine)

 

Note

(1) Giornale che si caratterizza per una posizione fondamentalmente a favore dell’unificazione con la Cina.

(2) Rilevazione compiuta tra il 15 e il 19 febbraio 2016, su un campione di 1.019 persone, con un margine di errore dichiarato del +/-3,1%.

(3) Si veda il libro «Cina e Italia allo specchio», di Mirco Elena e Yu Jin, pubblicato nel 2015 dal «Centro studi Martino Martini per le relazioni culturali Europa-Cina» di Trento.

(4) Certo si potrebbe pensare che la promessa americana costituisca nulla più che un bluff, dato che la Cina ha la capacita di lanciare missili con testata nucleare in grado di raggiungere il territorio statunitense, con ciò disponendo di un potente strumento di dissuasione nei confronti degli statunitensi.

(5) Riassunto nel motto «Un paese, due sistemi».

© Mirco Elena


La situazione religiosa

La libertà è un mosaico

Dalle religioni d’origine cinese al cristianesimo, a Taiwan il mosaico religioso è composto di molti tasselli.

Al contrario che nella Cina continentale a Taiwan la libertà religiosa è assicurata. Questo ha generato un mosaico di fedi assai variegato.

L’ultima inchiesta pubblica – condotta dalla sezione affari religiosi del ministero dell’Interno – sulla situazione a Taiwan risale al 2005. Secondo questo studio, il 35% della popolazione taiwanese si considera buddhista e un 33% taoista. Di rilievo sono anche alcune religioni sincretiche di origine cinese come il Yiguandao (I-Kuan Tao), che attinge da buddhismo, taoismo e confucianesimo, ma anche dal cristianesimo. Questa religione è illegale nella Cina continentale.

La ricerca del 2005 evidenzia anche la presenza di circa un milione di aderenti al Falun Gong, la disciplina spirituale che utilizza elementi della cultura tradizionale cinese (ma che in Cina è fuorilegge dal 1999).

Il cristianesimo arrivò a Taiwan (allora nota come Formosa, dal nome affibbiato all’isola dai marinai portoghesi) con gli spagnoli (1626-1642) e con gli olandesi (1624-1662), che alla fine prevalsero. I primi vi portarono il cattolicesimo, i secondi il protestantesimo. Oggi si contano più di 900mila cristiani, di cui 600mila protestanti e 300mila cattolici. I cristiani – pari a circa il 3,9 per cento della popolazione totale – sono soprattutto tra le popolazioni aborigene (appartenenti queste al gruppo austronesiano) e tra gli immigrati filippini. Anche l’islam è presente, ma quasi esclusivamente tra gli immigrati indonesiani.

Pa.Mo.

Comunita? filippina nella cattedrale di Hsinchu. © Ugo Pozzoli




Tunisia: di nuovo in strada (ma non è primavera)

Testo di Angela Lano |


Dopo le rivolte del 2011, a gennaio 2018 i tunisini sono tornati in piazza per una rivolta eminentemente economica. Il partito (laico) al potere sta deludendo le aspettative e tutti i problemi sono rimasti insoluti. Il partito islamico (Ennahda), accusato di essere filoterrorista dai suoi detrattori, rimane in attesa.

I tunisini sono scesi nuovamente per strada, a manifestare la loro rabbia contro le ingiustizie sociali ed economiche, e la mancanza di prospettive e di futuro. La «primavera» del 2011 sembra un lontano ricordo o forse, soprattutto, una grande delusione.

Il bilancio della sommossa popolare di gennaio 2018 è di oltre 800 persone arrestate, centinaia di altre ferite, e negozi saccheggiati, veicoli danneggiati, caserme di polizia incendiate.

Le misure finanziarie dettate al governo dal Fondo monetario internazionale per il prestito di 2,8 miliardi di dollari, hanno scatenato la rivolta: aumento del costo della vita, licenziamenti nel settore pubblico, tagli alle pensioni, inflazione che supera il 6%, disoccupazione giovanile al 30%. La corruzione è dilagante e investe ogni settore, sia pubblico sia privato. La «casta» Ben Ali non è stata estromessa con la rivoluzione del 2010-2011: sono state allontanate le figure più in vista, ma l’estesa rete di «famigli» e «clientes» è rimasta e continua a gestire, in pretto stile mafioso, gran parte degli affari politici ed economici del paese.

Da Ennahda a Nida’a Tunis

Attualmente alla guida del paese c’è un governo del movimento Nida’a Tunis1. Si tratta di un partito laico, ma composto da personaggi dubbi coinvolti nel regime di Ben Ali e riciclati in funzione anti Ennahda, che accusano di appoggio al terrorismo.

«Tuttavia – ci hanno spiegato Kais e Debora, le nostre due interlocutrici -, i dirigenti di Ennahda sono persone colte e con progetti intelligenti. Si sono occupati anche di questioni sociali ed economiche, di diritti individuali, che altri non hanno avuto il coraggio di affrontare: interruzione del digiuno in pubblico, omosessualità, diritti personali. È dalla fine del 2012 che l’opposizione, anche di sinistra, delegittima questo partito. In Tunisia, come era avvenuto anche in Egitto, la sinistra aveva chiesto, paradossalmente, l’intervento dell’esercito per destituire Ennahda. La situazione si era risolta grazie al “Quartetto per il Dialogo nazionale”2». Il sindacato Ugtt si era offerto come mediatore politico per far uscire il paese dalla crisi.

Era stato dunque nominato un nuovo governo provvisorio, con un rimpasto di ministri, e si era evitata la guerra civile, come invece era accaduto in Egitto e in Libia. Nel 2014 Ennahda ha perso le elezioni, e anche il consenso interno. Le decisioni successive sono andate contro «lo spirito rivoluzionario», di cambiamento, richiesto dal popolo, soprattutto dagli strati sociali più giovani: è stata messa in atto una strategia di auto conservazione dei vecchi partiti filo Ben Ali che si sono infiltrati nel processo di cambiamento in corso, dando vita a una contro rivoluzione. E gli effetti si sono visti: disoccupazione, crisi economica, disperazione, fino alle sommosse di gennaio 2018.

In realtà questa fase di «restaurazione» era scattata già subito dopo la fuga di Ben Ali: il vecchio establishment si era subito messo in moto per rimanere all’opera nonostante la rivoluzione.

Ora Ennahda è di nuovo il primo partito, dopo la spaccatura di Nida’a. Nonostante abbia apportato importanti cambiamenti politici e sociali, negli anni di governo, dal punto di vista economico rimane neoliberista, come il resto della Fratellanza musulmana da cui trae le proprie radici politico ideologiche. «Sul fronte del centrosinistra, invece – hanno aggiunto Kais e Debora -, c’è il vuoto: gli attivisti o sono andati all’estero o sono stati assorbiti dalle Ong internazionali. Una parte della popolazione giovanile rivoluzionaria, dopo il 2011, ha iniziato a dedicarsi ad altro, e non più alla politica, perché ne è stata delusa».

Un contadino vicino a Sejnane. (© Arne Hoel)

Tuttavia, ci hanno fatto notare gli attivisti incontrati, qualcosa di positivo è stato messo in atto, ed è la cosiddetta «Istanza della Giustizia di transizione»: un processo sociale, politico e giuridico per accertare le responsabilità del regime dittatoriale e dei suoi esponenti. La «riconciliazione nazionale» deve passare attraverso il riconoscimento dei crimini commessi durante la dittatura e l’ascolto delle storie delle vittime, per evitare che si ricreino le stesse dinamiche. Per questo motivo nel dicembre del 2013 è stata promulgata la legge sulla Giustizia di transizione che ha creato l’«Istanza Verità e Dignità», con mandato fino al 2019: vengono raccolte e valutate le denunce dei cittadini che hanno subito violazioni dei diritti umani dal 1956 in poi.

Sono 63.000 i dossier raccolti – hanno aggiunto Debora e Kais -, e sono relativi a vari tipi di violazione dei diritti – civili, economici, politici – e comprendono anche torture, stupri, sparizioni, decessi in carcere e altre morti sospette, impedimento dell’accesso all’istruzione, matrimoni forzati. I responsabili sono diversi: lo stato e i singoli individui. Nei casi di corruzione viene chiesto ai responsabili la restituzione delle somme rubate. Il processo serve più alle vittime: «è un flusso della coscienza», una rielaborazione della memoria. Le vittime hanno la libertà di nominare pubblicamente i torturatori, gli oppressori, di raccontare le loro storie, durante udienze mandate in onda anche in Tv e che durano diverse ore. Ci sono state anche le testimonianze di membri di Ennahda imprigionati per anni dal regime di Ben Ali.

La Tunisia ha dinamiche europee anche sul fronte della società civile c’è molto attivismo: radio comunitarie, organizzazioni femminili, alternative economiche e lavorative finanziate da Ong, cooperative e donatori internazionali. È molto attiva la cooperazione internazionale, che ha parecchia influenza sulla società: alcune Ong europee o statunitensi orientano determinate politiche, quindi, di fatto, rappresentano una forma di controllo esterno.

L’economia nazionale è improntata sugli investimenti esteri. L’establishment nazionale pone infatti molti ostacoli agli investimenti locali, in quanto, come accennato sopra, rimane dominato dalla corruzione. Se a tutto questo aggiungiamo anche il crollo del turismo, che costituiva una delle risorse economiche tunisine, a seguito degli attacchi terroristici, la situazione è tornata esplosiva, come dimostrano le proteste di gennaio. Le regioni interne del paese, dove la disoccupazione e la povertà sono più forti, sono in continua agitazione, con molte manifestazioni antigovernative.

Al museo del Bardo: da 500 a 10 visitatori giornalieri

Dal centro di Tunisi aspettiamo un taxi che ci porti al museo del Bardo, nell’omonimo quartiere periferico. Dopo più di mezz’ora di vana attesa, si ferma un’auto con due giovani donne a bordo, velate, e ci offrono un passaggio. Sono madre e figlia, ma sembrano due sorelle. La ragazza è una studentessa universitaria di Scienze tecnologiche. L’apparente contrasto è forte: abiti islamici, radio sintonizzata su sure del Corano, e l’aria di due donne indipendenti, aperte al prossimo e molto cordiali, a dimostrazione che esistono tanti e variegati modi di vivere l’islam. Ci lasciano davanti al museo, quasi stupite che vogliamo visitarlo. Le guardie all’ingresso perquisiscono le borse, e blocchi di cemento impediscono l’accesso ad auto e moto. Sono le misure di sicurezza adottate dopo l’attentato terroristico del 18 marzo del 2015, che costò la vita a 25 persone, straniere e locali. Quel giorno i terroristi ebbero facile accesso, sembra. Ora ci sono controlli, ma non ci sono più turisti. In piena estate siamo in tre in tutto il museo. Una tragedia sia per il Bardo sia per lo stato tunisino.

Al-Mat?af al-wa?an? bi-l-B?rd? è l’ampio, modernissimo, organizzato e famoso museo archeologico, situato nella residenza (secolo XIX) del bey (re), che raccoglie reperti di età preistorica, punica, romana, cristiana e arabo-islamica. Si possono ammirare opere come «Ulisse e le Sirene», «Il poeta Virgilio con le muse Calliope e Polimnia», «Il Trionfo di Nettuno» e altre meraviglie. Le sale di arte arabo-islamica sono altrettanto affascinanti.

Prima dell’attentato, i turisti erano almeno 500 al giorno, secondo quanto ci hanno raccontato gli operatori del museo. Dal 2015 in poi, se va bene, ne arrivano 10. Fuori dal complesso, i venditori di souvenir, disperati, svendono per pochi spiccioli le loro mercanzie. Nell’ingresso, una lapide accoglie i visitatori con i nomi delle vittime. Il piano terra è dedicato all’archeologia preislamica: cartaginese, pagano-berbera, ebraica e cristiana. Dal primo piano si accede alle belle sale dell’ex residenza del bey e poi all’ala che ne ospitava il fratello e l’harem.

Ala’ Eddine Hamdi, giovane guida del Bardo e studente di lingua e letteratura russa, ci accompagna nelle sale dove avevano cercato riparo, invano, un gruppo di turisti inseguiti dai terroristi. Quel luogo è carico di contrasti, tra la magnifica estetica degli intarsi, degli azulejos e delle ambientazioni, e la morte di cui sono stati palcoscenico. Ne rimaniamo profondamente colpiti: alcune colonne e pareti portano ancora i segni dei fori, degli sfregi e dei vetri rotti provocati dai proiettili. Due «islam», qui, sono a confronto: quello portatore di civiltà, arte, cultura, scienza, e quello dell’estremismo politico-religioso-ideologico seminatore di morte. Ma questo paradosso è retaggio di tutte le religioni, purtroppo.

Ala’ Eddine ci dice che la presenza del Daesh in Tunisia è iniziata con Ennahda al potere, nel 2011. «Non intendo dire che siano loro i terroristi, ma che hanno fatto entrare predicatori, reclutatori di combattenti, e hanno permesso a molte ragazze di diventare delle prostitute dei jihadisti. Migliaia di giovani si sono uniti al Daesh per andare ad addestrarsi in Libia e poi a combattere in Siria, passando dalla Turchia. C’era una rete ben organizzata, quella della Fratellanza musulmana, che ha funzionato come “distributore di terroristi”. Da qui sono partiti 3.000 combattenti, dai 18 ai 30 anni». Dichiarazioni forti, che noi non possiamo verificare, ma che fanno parte di una diffusa vulgata.

Per questo e altri giovani, la rivoluzione tunisina è stata un disastro, in quanto ha eliminato un tiranno corrotto per sostituirlo con tanti altri. È uno dei tanti delusi che ha perso la speranza di vedere cambiamenti politico-sociali del paese, e come altri, è un forte oppositore dei gruppi islamisti, che vengono percepiti, nella secolare Tunisia, come portatori di arretratezza sociale, in particolare verso le donne.

Piazza del 14 gennaio 2011, a Tunisi. (© Arne Hoel)

Attentati e terrorismo

Dalla rivoluzione del 2011, la Tunisia è stata oggetto di attentati da parte del Daesh: oltre al già citato attacco al Bardo, ricordiamo quello dentro a un resort turistico a Marsa al-Qantawi, nei pressi di Sousse, il 26 giugno del 2015, e rivendicato sempre dal Daesh, nel quale 39 persone vennero uccise a colpi di kalashnikov e altre 39 ferite; quello del 24 novembre 2015, contro un autobus con a bordo guardie presidenziali, che percorreva una strada di Tunisi, sempre rivendicato dal Daesh. A seguito di quella strage, il governo tunisino impose un severo controllo sulle moschee, chiudendo quelle che non risultavano rispettare una normativa che impone agli imam di essere autorizzati dal ministero per il Culto. L’11 maggio 2016, alcuni sospetti terroristi furono uccisi e altri arrestati durante scontri armati con le forze di sicurezza tunisine nel distretto di Mnihla, nella grande Tunisi. Quattro guardie nazionali furono uccise in un attacco suicida durante un’operazione di sicurezza a Tataouine, nel Sud del paese. Infine, quella nota come la «Battaglia di Ben Guerdane», al confine con la Libia, il 7 marzo 2016: forze del Daesh tentarono di mettere sotto assedio la cittadina tunisina, ma furono respinti dai militari. Gli scontri proseguirono anche nei giorni successivi. L’attacco jihadista causò la morte di 52 persone, tra cui 35 aggressori che erano entrati dalla Libia, quattro dei quali erano cittadini tunisini.

La principale minaccia terroristica in Tunisia è rappresentata da «al-Qa’ida nel Maghreb Islamico» (Aqmi) e da estremisti libici collegati allo Stato islamico (Daesh).

La Tunisia ha un confine «aperto» con la Libia, dove permane una situazione instabile e densa di conflitti, e con una forte presenza di bande armate e gruppi terroristici.

Le forze di sicurezza tunisine sono state ripetutamente oggetto di attacchi da parte dei terroristi, soprattutto nelle zone di confine.

Va ricordato che i tunisini costituiscono il gruppo più numeroso del multietnico e globalizzato Daesh: dalla Tunisia, negli ultimi anni, si sono arruolati nelle fila dello Stato islamico migliaia di giovani. Secondo dati ufficiali rilasciati dal governo tunisino nel 2013, circa 3.000 giovani si sono uniti ai gruppi takfiri dello Stato islamico, mentre i rapporti delle Nazioni Unite e altre organizzazioni parlano di 5.000 – 7.000 combattenti.

Inoltre, è balzata tristemente alle cronache la vicenda del Jihad al-Nikah, il «jihad sessuale» chiesto dal Daesh alle giovani donne arabe. Dalla Tunisia ne sono partite diverse decine, destinate alla prostituzione tra i combattenti in Siria. A sostenere l’esistenza di questa tratta ci sono anche le dichiarazioni di politici tunisini, tra cui il ministro dell’Interno Lofti Bin Jeddo.

Il ritorno dei jihadisti tunisini

A settembre 2017, secondo quanto riportato da vari giornali arabi, il governo di Tunisi ha avviato un piano di deradicalizzazione delle diverse migliaia di «jihadisti di ritorno», cioè giovani tunisini che hanno combattuto a fianco di formazioni del Daesh in Libia, Siria, Iraq e in altri paesi. Si tratterebbe di un progetto che prevede la «riabilitazione» dei foreign fighters, o combattenti stranieri. In Tunisia, come in Marocco, la gente non vuole che questi soggetti radicalizzati ritornino a casa, poiché sono un pericolo, una fonte di destabilizzazione e di potenziale terrorismo. Infatti, in occasione degli attacchi sopracitati sono state organizzate diverse marce di protesta. La Tunisia, diversamente dalla Libia postregime di Gheddafi, e dall’Egitto (con una storia notevole di islamismo politico, dal quietista al violento, e formazioni attualmente molto attive nel Sinai), non permette lo sviluppo interno del jihadismo. Dunque, chi si sente attratto da questa visione politica violenta sceglie di andare a combattere fuori dal paese. Ecco perché i jihadisti tunisini del Daesh sono il gruppo nazionale più numeroso, seguito da libici e algerini.

Come abbiamo spiegato su questa rivista in precedenti articoli , a spingere verso la radicalizzazione è, in genere, un insieme di cause. Nel contesto tunisino agiscono l’emarginazione sociale, politica ed economica, la mancanza di prospettive; la delusione provocata in certi strati sociali dalla decisione di Ennahda di limitare i propri riferimenti all’ambito politico: questo ha portato alcuni a rifugiarsi in altre realtà dell’islamismo ideologico per trovare punti di riferimento e motivazioni. Inoltre, non va dimenticato che molti islamici radicali tunisini arrivano dalle aree di confine con Algeria e Libia.

Angela Lano
(sesta puntata – continua)

Note

(1) ?araka Nid?? T?nus, Movimento dell’appello della Tunisia, è stato fondato nel 2012 dal premier di allora, Beji Caid Essebsi. Alle elezioni presidenziali del 2014 diede vita a una coalizione elettorale con il Partito repubblicano: l’Unione per la Tunisia. Le elezioni parlamentari del 2014 furono vinte da Nid?? T?nus (85 seggi su 217). Ennahda ne ottenne 69.

(2) Al-?iw?r al-Wa?an? al-T?nus? è composto da quattro organizzazioni della società tunisina: l’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt); la Confederazione tunisina dell’industria (Utica); la Lega tunisina per la difesa dei diritti dell’uomo (Ltdh); l’Ordine nazionale degli avvocati (Onat). Nel 2015 ha ricevuto il premio Nobel per la pace «per il suo contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralistica in Tunisia, sulla scia della Rivoluzione del Gelsomino del 2011».

La signora Bargua Mechergui, artista vasaia di Senjane. (© Arne Hoel)




Gambia: Piccolo paese, grandi speranze


Testi di ANDREA DE GEORGIO, foto di LUCA PISTONE |


È passato un anno da quando il dittatore Yahya Jammeh è stato costretto a lasciare il paese, il Gambia. Una democrazia quanto mai voluta dal popolo che, per una volta, ha vinto. Ma le sfide di oggi sono tante, tra disoccupazione e ricerca di un futuro, vissute anche dai migranti «politici» che stanno rientrando a casa. Reportage da uno dei paesi più sconosciuti d’Africa.

Banjul, Gambia. Questa è la storia della più giovane democrazia africana. È il 21 gennaio 2017. Le immagini dell’ex presidente Yahya Jammeh che, a testa bassa, sale su un aereo per lasciare il paese fanno il giro del mondo e il Gambia, piccolo stato dell’Africa occidentale rimasto finora anonimo, riempie i titoli dei media internazionali. Il giorno in cui il dittatore viene costretto a lasciare il potere dopo 22 anni di sanguinario regime totalitario è rimasto impresso nella memoria collettiva del Gambia, paese che oggi, a un anno da tale storico evento, cerca a fatica di rinsaldare il patto sociale fra politici e cittadini e rilanciare un’economia disastrata da troppi anni di corruzione e nepotismo.

Il più piccolo stato dell’Africa continentale (vedi box), geograficamente circondato dal Senegal – con cui, dal 1982 al 1989, ha formato il Senegambia – è stato creato da un accordo tra Francia e Inghilterra nel 1889 prima di diventare, cinque anni più tardi, un protettorato inglese a tutti gli effetti. Ottenuta l’indipendenza nel 1965 dalla madrepatria coloniale, il Gambia ha successivamente vissuto decenni di relativa libertà, incarnando per lungo tempo un raro esempio di stabilità nella regione. Nel 1994, però, Yahya Jammeh sale al potere con un colpo di stato militare e sul paese cala una grigia coltre di repressione e terrore. Nel 2013, poi, il satrapo esce dal Commonwealth e due anni più tardi dichiara la nascita della Repubblica islamica per «affrancarsi dal giogo neocoloniale».

Tempi duri per la stampa

Banjul, capitale del Gambia, è oggi una città divisa in due. Da una parte il centro amministrativo del paese, con parlamento, ministeri, tribunali, prigioni e caserme. Dall’altra, collegata da un ponte e una strada, costellata di posti di blocco, che corre lungo l’Oceano, abitazioni, hotel, ristoranti, mercati e negozi. Mentre il cuore politico della capitale si riempie e si svuota di uomini in giacca e cravatta al ritmo degli orari d’ufficio, i quartieri residenziali sono costantemente brulicanti di vita, musica, luci, bambini e traffico.

«Uno dei lasciti tangibili dello stato di polizia è la separazione fra classe politica e persone comuni». Va dritto al sodo Buabacar Ceesay. Questo giornalista sulla quarantina è la miglior guida della città: cappellino da pescatore con visiera alzata, sorriso conciliante e telecamerina sempre in mano. «Più di venti fra i migliori giornalisti gambiani, quelli con maggiore esperienza e spirito critico, sono stati costretti all’esilio in Senegal, Olanda, Germania… io e altri invece, nonostante le minacce e le incarcerazioni subite, abbiamo deciso di restare per cercare di colmare il vuoto di libertà di stampa nel paese». In passato eletto vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti gambiani, oggi Ceesay è freelance per scelta. Ha molte collaborazioni nazionali e internazionali. Negli ultimi anni ha scritto anche per Foroyaa, «l’occhio pubblico», giornale più volte chiuso da Yahya Jammeh insieme a molti altri media indipendenti. «Durante il vecchio regime, peggio della censura era l’autocensura che i giornalisti esercitavano su se stessi per evitare problemi», racconta Buabacar mostrando fiero la sua piccola scrivania e il computer nella redazione del quotidiano «sovversivo». «Prima usavamo media stranieri, blog, siti web e social network per aggirare i controlli degli uomini di Jammeh». A quei tempi gli informatori del potere erano dappertutto e bastava una critica per essere arrestati o sparire per sempre.

Social media per la rivolta

Le nuove tecnologie e i social media giocano un ruolo cruciale durante le manifestazioni di aprile 2016 quando il malcontento generale straripa in vista delle elezioni presidenziali. Per la prima volta, infatti, immagini di arresti e torture dei manifestanti vengono mostrate al paese e al mondo intero, creando un inarrestabile effetto domino che porterà, mesi dopo, alla caduta del sovrano. L’uccisione di Solo Sandeng, attivista brutalmente trucidato dagli uomini della National Intelligence Agency (Nia, la polizia segreta) rappresenta il punto di non ritorno. Repressi i moti popolari nel sangue e riempite le carceri, Yahya Jammeh si presenta alle elezioni del dicembre 2016 per il quinto mandato consecutivo, come sempre sicuro di vincere. Le urne invece indicano il 43.33% delle preferenze per il Partito democratico unito (Udp, sigla in inglese), coalizione delle forze socialdemocratiche d’opposizione guidato da Adama Barrow, e solo il 39.6% per l’Alleanza Patriottica per il Riorientamento e la Costruzione (Aprc), partito di Jammeh, per anni unica formazione politica ammessa alle elezioni. Un risultato storico e inaspettato che il padre-padrone del Gambia non accetta. Minacciando di scatenare gli oltre tremila ribelli della Casamance, regione indipendentista del Sud del Senegal con cui il Gambia mantiene da anni relazioni pericolose, il dittatore «fiero di esserlo» – come dichiarò pochi mesi prima delle elezioni in un’intervista alla rivista Jeune Afrique – si rifiuta di lasciare il potere e costringe all’esilio il rivale Adama Barrow. Questo uomo d’affari scelto come capofila della coalizione d’opposizione, si rifugia a Dakar aspettando di poter rientrare nel paese da nuovo legittimo presidente.

Il popolo ha deciso

Il Senegal, potenza regionale che da anni aspettava il pretesto per sconfinare in Gambia, chiede e ottiene dalla Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao) la guida di una missione africana per evitare la degenerazione in una violenta guerra civile. In quei concitati giorni la popolazione di Banjul non smette di protestare, sfidando pacificamente la disperata e spietata repressione di un regime dai giorni contati.

Finalmente il dittatore cede alle pressioni internazionali e lascia il potere e il paese (21 gennaio). Il legittimo presidente Barrow può insediarsi il 26 gennaio.

Simbolo del sollevamento gambiano è l’hashtag #GambiaHasDecided, «Il Gambia ha deciso», frase pronunciata da Adama Barrow e ripresa sulle magliette di migliaia di manifestanti. Quelle magliette, che oggi si vedono persino sulle statue cittadine, sono state stampate clandestinamente da Tidjane Barrow, artista poco conosciuto in Gambia (finora) che porta lo stesso cognome del primo presidente democraticamente eletto. «Erano i primi di gennaio quando, un pomeriggio, degli uomini armati hanno fatto irruzione nel mio laboratorio. Ero solo, per fortuna. I miei amici erano in piazza a regalare le magliette alla gente». Dopo averlo picchiato e arrestato, gli uomini della Nia danno fuoco alla sua piccola stamperia fai-da-te. «Eravamo stanchi di vivere nella paura, così ci siamo ribellati cambiando le cose pacificamente, con mezzi democratici. Questo significa il messaggio sulle magliette: per la prima volta abbiamo deciso liberamente da chi vogliamo essere governati». Mentre parla, questo ragazzo non smette un attimo di montare telai di legno, attaccare scotch, ritagliare carta e spennellare colori su lembi di cotone. Nell’abitazione dei suoi genitori, nido di fortuna della sua arte, risuona musica reggae, il viavai di amici è senza sosta. I nuovi slogan stampati oggi dal giovane Barrow sono segno che i tempi cambiano velocemente: «A new Gambia is possible» (un nuovo Gambia è possibile). Dopo aver scelto, infatti, il Gambia oggi si confronta con i problemi socioeconomici propri di uno stato appena liberato da una cappa totalitaria lunga decenni.

Le sfide di Barrow

Usciti dalla casa dell’artista, Buabacar ha lo sguardo interdetto. «Nonostante molti cittadini gambiani auto-esiliati negli ultimi anni stiano tornando nel paese e nonostante l’impegno infaticabile della nostra gioventù, viviamo ancora molti timori e incertezze». La preoccupazione maggiore dei gambiani resta senza dubbio l’alto tasso di disoccupazione che, attestato al 29%, per i più giovani sfiora oggi il 40%. Il governo Barrow è consapevole del fossato da riempire e dell’urgenza percepita dai suoi elettori, ma stenta a trovare una via d’uscita dal baratro di un debito pubblico schizzato a oltre il 120% del Pil. Riconfermata la fiducia della propria base politica alle elezioni parlamentari del 6 aprile 2017 – 31 seggi all’Udp e 5 alla formazione di Jammeh – il nuovo esecutivo ha partecipato a novembre a importanti forum economici a Londra, Parigi e Dubai in cui ha invocato l’aiuto degli investimenti privati per salvare il Gambia dalla recessione. Accusando l’ex sovrano di aver svuotato le casse pubbliche appena prima di abbandonare il paese (un’inchiesta nazionale è in corso), Adama Barrow appare troppo isolato per poter incidere sul futuro del Gambia. E a Banjul le immagini del nuovo presidente che sui muri accompagnavano le scritte anti Jammeh durante i mesi delle sommosse popolari, cominciano a sbiadire o, peggio, ad essere deturpate dalle stesse mani che le avevano dipinte.

Nella sede centrale del partito di Barrow, una palazzina di due piani in un quartiere residenziale della capitale, le riunioni si susseguono concitate. La nomina dei nuovi parlamentari dell’aprile scorso ha rafforzato la maggioranza al potere, ma fratture interne e litigi restano all’ordine del giorno. Non ne fa mistero Fatoumata Jawara, giovane attivista dell’Udp passata nel giro di pochi mesi dal carcere al Parlamento. «Dobbiamo dare ascolto e risposte concrete ai nostri cittadini e smetterla una volta per tutte con i proclama e la mera teoria politica». Il suo discorso non è cambiato da quando urlava slogan contro il sovrano e, durante i tumulti di aprile 2016, è stata arrestata insieme all’amico Solo Sandeng, martire delle sollevazioni, e a una trentina di altri manifestanti. Violentata e picchiata dietro le sbarre, Fatoumata mantiene intatta la voglia di denunciare. «Non avrei mai accettato incarichi politici durante il vecchio regime, ma da quando Jammeh è partito ho cominciato a credere nel valore della buona politica al servizio delle persone. Per questo ho deciso di presentarmi alle prime elezioni parlamentari libere del nostro paese». Nel nuovo esecutivo di Barrow diverse donne ricoprono incarichi importanti. La vice presidenza, ad esempio, è stata affidata a Fatoumata Jallow Tambajang. «La gente ha scelto facce nuove come la mia per dare un segnale forte alla classe politica. Dobbiamo lottare per i diritti di tutti, compresi quelli delle donne gambiane che ancora piangono in silenzio, dentro e fuori i confini nazionali», chiosa Fatoumata Jawara prima di correre a un’altra riunione del partito. 

Opposizione e nostalgici

Il perdurare di tale malcontento verso la lentezza del nuovo governo è terreno fertile per le forze reazionarie dell’Aprc, ex partito unico che Barrow, per evitare una pericolosa radicalizzazione del conflitto interno, ha deciso di non mettere al bando. Nostalgici sostenitori di Jammeh e ricchi uomini d’affari periodicamente organizzano ritrovi elettorali nei quartieri periferici della capitale. Centinaia di persone vestite di verde – il colore dell’Islam, religione a cui Jammeh si è sempre richiamato – ballano musica sparata da grandi altoparlanti, agitano immagini dell’ex dittatore e ne invocano a gran voce il ritorno dalla Guinea Equatoriale, sede del suo esilio forzato. Persino il suo ex ministro della comunicazione, un giovane diventato a gennaio il portavoce ufficiale di Jammeh nel paese, prende la parola e aizza la folla denunciando «il malgoverno degli amici di Barrow».

Migranti di ritorno

Ceesay sdegnato ferma un taxi per rientrare in città. Nell’abitacolo si abbandona a un pensiero solenne: «Il valore più importante che abbiamo imparato l’anno scorso è che i politici sono al nostro servizio, non il contrario. Si presentano alle elezioni e vengono legittimati dal voto della gente comune, che affida loro il compito di governare lo stato nel proprio interesse. Se questo principio basilare verrà assorbito da tutti gli strati della società, allora in Gambia avremo una vera democrazia che proteggerà la giustizia sociale e non potrà più essere rovesciata da nessun potere autoritario». Il tassista, rimasto finora silente, annuisce dal retrovisore. È un ex migrante rientrato a seguito della fuga del dittatore. «Sono stato dieci anni in Italia. Facevo molti lavoretti, persino illegali, per sopravvivere», confessa. Negli anni del regime, migliaia di giovani come lui hanno tentato la «back way». Così viene chiamata in Gambia l’avventura migratoria verso il «sogno europeo». Solo nel 2016 sono entrati illegalmente in Italia 11.929 migranti provenienti da questo paese che, nonostante una popolazione totale di appena 1.8 milioni di abitanti, da diversi anni occupa i primi posti negli arrivi di subsahariani in Europa. Stando ai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) del settembre scorso, a fronte di 1.979 gambiani registrati in Libia, 1.119 fra loro sono stati ricondotti a casa. Accordi con l’Unione europea (parte del cosiddetto Fondo Fiduciario) prevedono 13 milioni di euro di aiuti allo sviluppo a patto che il Gambia firmi accordi per il rimpatrio, sempre ufficialmente smentiti dal nuovo governo locale. Proprio come questo tassista, però, sono in molti ad avere volontariamente deciso di tornare a casa nella speranza di un nuovo inizio. «Dopo aver visto quello che stava succedendo nel mio paese ho deciso di rientrare, ma non è facile» taglia corto il giovane.

Guardatevi da lui

Prima di lasciarci, Buabacar Ceesay vuole presentarci un’ultima persona. «Vi farà capire una volta per tutte quanto brutale è stata la repressione di Jammeh». Incontriamo Landing Sanneh sulle imponenti gradinate del centro amministrativo di Banjul costruite per le parate militari del vecchio regime. Appena accesa la telecamera questo discreto signore oltre la cinquantina comincia a raccontare la sua assurda vicenda. Cugino di secondo grado di Jammeh, Sanneh ha ricoperto incarichi di rilievo nella sicurezza, diventando capo della guardia presidenziale. Ma essere troppo vicini a un dittatore schizofrenico può diventare pericoloso. «Un giorno i militari hanno circondato la mia casa. Sono uscito con le mani in alto e mi hanno sparato», dice mostrando il segno della pallottola che gli ha attraversato il braccio destro. Sospettato di un tentato colpo di stato e mai processato, Landing Sanneh passa 15 anni e mezzo nel «Mile 2», blocco speciale della Nia tristemente famoso all’interno del carcere di Banjul. «Mi avevano condannato a 16 anni. Poi “lui” mi ha graziato, risparmiandomi gli ultimi sei mesi di reclusione». Non nomina quasi mai Jammeh e quando lo fa si guarda istintivamente le spalle. È uno dei testimoni chiave della Corte penale internazionale (Cpi) che sta indagando sui crimini dell’ex presidente del Gambia e, per paura di ritorsioni, non aveva mai raccontato la propria storia a dei giornalisti prima d’ora. «Le persone che ancora lo sostengono stanno difendendo un mostro, una persona davvero malvagia», s’indigna alzando la voce. Racconta delle torture: «Mi hanno fatto il waterboarding per diversi giorni consecutivi», mostrandone i segni indelebili su corpo e anima. All’improvviso scoppia a piangere e chiede una pausa. «Anche se credo che Dio mi abbia lasciato in vita per raccontare quello che mi è successo, mi fa male parlarne. Mi tornano alla mente gli incubi del carcere». Poi fissa il vuoto e comincia a recitare una lunga lista di nomi. Sono prigionieri politici, suoi compagni di detenzione scomparsi durante gli ultimi anni, i più violenti della dittatura. Sono i «desaparecidos» del Gambia, secondo lui «decine di persone uccise e fatte sparire, dati in pasto ai coccodrilli per occultare le prove». Le sue parole rompono l’assordante silenzio circostante: «Chi ancora mette in dubbio la natura sanguinaria dello stato di polizia che vigeva in Gambia, parli con le famiglie che non hanno ancora potuto seppellire il corpo dei propri cari». Conclude dicendo: «Il nuovo governo ora deve garantire benessere, giustizia e libertà alla sua gente. Per questo è stato eletto. A noi gambiani non resta che gioire della fine della dittatura e pregare Dio che atrocità come quelle che abbiamo vissuto non si ripetano mai più, né qui né altrove». Quello storico giorno dell’anno scorso, che forse appare già dissolto dalle difficoltà odierne, Landing Sanneh ha alzato gli occhi al cielo del Gambia e, osservando insieme a una folla di cittadini festanti l’aereo che portava lontano Yahya Jammeh, si è sentito finalmente libero.

Andrea De Georgio




Una matrigna (troppo) possessiva


Testo di MIRCO ELENA; foto di MIRCO ELENA e AfMC |


Nel 1949 le truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek furono sconfitte da quelle comuniste di Mao Ze Dong. I nazionalisti si rifugiarono sull’isola di Taiwan, da poco liberata dal dominio giapponese. Da allora Taiwan e Cina popolare non hanno mai firmato una tregua. Pechino considera l’isola una «provincia ribelle». Nel frattempo lo stato taiwanese, pur riconosciuto da pochi paesi, ha raggiunto un notevole livello di sviluppo.

Tra i tanti luoghi del nostro pianeta ove le tensioni politiche potrebbero portare a uno scontro militare su grande scala, spicca sicuramente Taiwan per la sua storia drammatica.

Con la fine della seconda guerra mondiale, si ebbe in Cina la ripresa del conflitto civile che divideva da tempo i nazionalisti del Kuomintang (Kmt) e i comunisti di Mao Ze Dong. Lo scontro fratricida era stato momentaneamente sospeso per fare fronte comune all’invasione giapponese, ma riprese nel 1946, poco dopo la sconfitta dell’esercito nipponico. Temprati da molti anni di lotta, i comunisti ebbero la meglio e, nel 1949, costrinsero gli avversari del Kmt a ritirarsi dal continente e a rifugiarsi, assieme a due milioni di profughi politici, sulla piccola isola che si trovava poco al largo delle coste della provincia del Fujian. Qui giunta, l’armata in rotta impose la legge marziale1, applicata con il pugno di ferro dal suo leader, il «generalissimo» Jiang Jieshi (da noi meglio noto come Chiang Kai-shek). Egli rimase al potere fino al 1975, anno della sua morte. A tutt’oggi non è mai stata firmata ufficialmente una tregua tra i due contendenti, né tanto meno la pace.

Un governo autoritario e anticomunista

Nel 1945, la gran parte della popolazione taiwanese parlava correntemente il giapponese2. Nell’ottobre di quell’anno, dopo la resa dei Giapponesi, il territorio dell’isola fu affidato dall’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) al governo della «Repubblica di Cina» che era in lotta con la «Repubblica popolare» che aveva la propria capitale a Pechino. Fu inevitabile qualche problema comunicativo, dato che a Taiwan il giapponese era stato per decenni la lingua ufficiale, mentre la popolazione parlava dialetti hoklo, hakka o idiomi aborigeni. Da parte loro, i nuovi occupanti, arrivati dal continente, parlavano prevalentemente dialetti di Pechino e di Shanghai. Dopo il «massacro 228»3 del febbraio ‘47, il cinese mandarino divenne la lingua ufficiale dell’amministrazione statale e l’unica impiegata nell’insegnamento, mentre l’uso pubblico di altre lingue fu pesantemente sanzionato.

La politica fortemente anticomunista di Chiang Kai-shek gli procurò per molti anni l’appoggio politico incondizionato e gli aiuti economici degli Stati Uniti e di tutte le potenze occidentali, che vedevano in lui il governo legittimo di tutta la Cina. Solo nel 1979 gli Usa instaurarono relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare. Nel frattempo (1971) Taiwan aveva perso il proprio seggio all’Onu e nel Consiglio di sicurezza, seggi che vennero ambedue trasferiti al governo di Pechino.

Per quasi quarant’anni Taiwan fu governata in modo autoritario da leader tutti nati sul continente, in una realtà sociopolitica piuttosto differente da quella isolana. Ogni protesta venne repressa con la violenza. Poi, lentamente, a partire dal 1987 si verificò un processo di liberalizzazione che nel 2000 portò per la prima volta alla vittoria elettorale di un partito diverso dal Kmt: quello Progressista democratico. Ma se il Kmt aveva sempre sostenuto l’unità di tutta la Cina, includendo quindi il grande territorio continentale, il nuovo governo sembrava invece intenzionato a dichiarare l’indipendenza completa dell’isola. Ciò causò forti tensioni con Pechino, che minacciò di attaccare militarmente l’isola, considerata una provincia ribelle. Non era la prima volta che Pechino mostrava i muscoli. A queste minacce gli Stati Uniti, alleati di Taiwan per la comune ideologia anticomunista, avevano sempre risposto ribadendo il loro impegno a difesa dell’isola, arrivando anche a far passare le loro possenti portaerei nello stretto di Formosa che separa i due rivali. Nel 2000 la situazione si risolse fortunatamente in modo pacifico, ma fu chiaro che la questione dell’indipendenza dell’isola poteva costituire un casus belli capace di provocare un conflitto su grande scala. Notiamo anche come nel 2005 il parlamento cinese abbia approvato la cosiddetta legge antisecessione, che autorizza il governo ad usare la forza militare nel caso l’isola ribelle dichiari l’indipendenza.

La complessa situazione sino-taiwanese si può riassumere, almeno nei suoi aspetti essenziali, in alcuni punti che proviamo a descrivere.

Il peso della storia

Negli scorsi due secoli l’interazione della Cina con il mondo esterno, in particolare occidentale e giapponese, non è certo stata felice. Ha subito aggressioni e invasioni militari, perdite territoriali e trattati iniqui, obbligo di legalizzare l’importazione di oppio x riequilibrare la bilancia dei pagamenti altrui4. La proverbiale lunga memoria cinese fa sì che il ricordo di queste vicissitudini sia ancora vivo. Questo aiuta, almeno in parte, a spiegare il difficile rapporto odierno che intercorre tra Pechino e Washington e di cui accenniamo nel seguito.

Due regimi autoritari

Cina e Taiwan hanno entrambe avuto regimi autoritari che, se da una parte hanno represso violentemente qualunque richiesta democratica, negli ultimi decenni hanno anche garantito un progresso economico impressionante.

Se a tutt’oggi la Cina è ancora caratterizzata da un regime totalitario, Taiwan si è incamminata su un positivo percorso di democratizzazione che ne ha ormai fatto un esempio per tutto il mondo. Le elezioni si svolgono regolarmente e hanno garantito una salutare alternanza dei partiti al potere.

Grande famiglia

La Cina vanta una civiltà antichissima e prestigiosa, che ha esportato filosofia e scrittura (in una parola sola: «cultura») in tutto l’estremo oriente. Come tale si ritiene un po’ «l’ombelico del mondo», almeno di quello dell’Asia dell’Est. Per i suoi governanti e anche per i normali cittadini, quindi, può risultare difficile capire ed accettare che una piccola popolazione come quella di Taiwan5 possa non desiderare di far parte della grande famiglia, specie in un momento come quello attuale, nel quale la Cina è diventata una grande potenza, rispettata dal mondo intero.

No all’indipendenza

Si può pertanto capire come la pretesa ideologica di avere una Cina unificata, comprendente la parte continentale e l’isola, sia ancora saldissima a Pechino (mentre è passata del tutto in secondo piano a Taiwan). L’unificazione di tutte le popolazioni parlanti i vari dialetti cinesi e la completezza territoriale vengono viste come il passo finale del recupero di dignità nazionale, dopo i tristi eventi del passato che avevano fatto «perdere la faccia» a questo paese (e per la cultura cinese non c’è cosa peggiore). Il partito comunista cinese (che ormai di comunista ha ben poco, ma questo è un altro discorso) e quasi tutta la popolazione sinica del continente (martellata per decenni dalla propaganda ufficiale) sono convinti che una ipotetica dichiarazione di indipendenza taiwanese sia del tutto inaccettabile e che essa debba essere impedita a qualunque costo, anche arrivando a scatenare una guerra.

Qualche anno fa, parlando con giovani universitari cinesi, a cui avevo chiesto cosa avrebbero fatto nel caso in cui Taiwan avesse dichiarato l’indipendenza da Pechino, mi colpì molto sentirmi dire all’unisono «ci arruoliamo come volontari per andare a combattere per l’unita della patria». Non ci fu modo di farli recedere da questa posizione, nemmeno facendo notare loro che, stante l’ancora enorme vantaggio militare che gli Stati Uniti possiedono sulla Cina, ciò avrebbe comportato pesantissime distruzioni per il loro paese, e un probabile blocco del suo sviluppo economico. Ma niente e nessuno poteva scalfire il sentimento patriottico di costoro. E questi giovani rappresentavano l’elite colta e preparata del paese, non il popolino, così facile a farsi influenzare dalla propaganda governativa.

Pechino: integrità territoriale e sviluppo economico

La Cina, governata quasi sempre durante la sua plurimillenaria storia da regimi totalitari, è riuscita a modernizzarsi nel giro di pochi decenni e a trarre dalla miseria più nera centinaia di milioni di cittadini. Nel corso degli ultimi secoli, molto raramente ha intrapreso azioni aggressive nei confronti degli stati vicini e non ha mai avuto particolari tendenze espansioniste, mirando invece a mantenere la propria integrità territoriale, spesso minacciata dalle potenze occidentali e dal Giappone, e concentrandosi su un accelerato sviluppo economico.

Il ruolo degli Stati Uniti

Dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti, temendo l’espansione del comunismo, appoggiarono senza esitazioni il regime del Kmt, a prescindere dalla natura dittatoriale, violenta e repressiva che lo stesso ha mantenuto fino al 1987. Questo comportamento non era propriamente consono al propagandato impegno americano per la democrazia e i diritti umani (valori che oltretutto si incolpava la Repubblica popolare di non possedere).

Gli Stati Uniti hanno esercitato una fortissima influenza politica, economica e culturale su Taiwan. Molti taiwanesi hanno studiato o lavorato negli Usa e non sono poche le persone appartenenti all’elite governativa, militare ed economica in possesso della doppia cittadinanza. È forse per questo che taluni di questi sono visceralmente anti-Pechino, e sono favorevoli ad opporsi con ogni mezzo militare alle pressioni cinesi, disposti anche ad una guerra totale pur di mantenere l’indipendenza dell’isola, che sarebbe però presumibilmente ridotta ad un cumulo di macerie. Viene da sospettare che persone di questo tipo abbiano posizioni così estreme in quanto, in tale sfortunato caso, loro potrebbero comunque sempre tornare a vivere in America.

Aggiungo un piccolo aneddoto: nel corso di un convegno, un tecnico che lavora nel settore armiero sostenne il concetto che i taiwanesi avrebbero un «diritto umano» a dotarsi di ogni genere di armamenti, anche dei più distruttivi.

Nell’ottica di Pechino è indubbio che gli Usa abbiano ripetutamente interferito nelle loro questioni interne: Pechino considera che il rapporto con Taiwan rientri in quell’ambito. L’ingerenza americana non sarebbe che l’ultima in ordine di tempo, dopo quelle avvenute nel passato da parte di molte potenze europee (Italia inclusa) e del Giappone. Anche per questo motivo, gli interventi americani rivestono particolare importanza, riaprendo la piaga delle antiche umiliazioni e dei tanti soprusi subiti. Dall’altro lato l’utilità per gli Usa di disporre di un fidatissimo alleato a poche centinaia di chilometri dalle coste cinesi è evidente, specie dal punto di vista militare. Per gli Usa, Taiwan è come un’inaffondabile portaerei da cui poter influenzare, spiare, attaccare il territorio estremo asiatico e chiaramente hanno tutto l’interesse a che questa situazione si prolunghi il più possibile.

Differenze e timori

II tre decenni trascorsi dall’inizio del processo di liberalizzazione a Taiwan hanno fatto sì che, specialmente le nuove generazioni, si siano abituate a vivere in democrazia e ad apprezzarne i vantaggi, in termini soprattutto di libertà di parola, espressione e movimento.

Notevole è la differenza con la situazione politica della Cina continentale, ove il regime è totalitario, non accetta nessun dissenso, limita la libertà di stampa, incarcera chi vuole. Sulla base di queste grandi differenze, è facilmente comprensibile come quella parte di popolazione taiwanese più affezionata all’ideale democratico veda con grande preoccupazione la possibilità di un’annessione da parte di Pechino.

Mirco Elena
(prima parte- continua)