Due paesi abbracciati. Due paesi strettamente legati. Due stati che non si riconoscono. Ma c’è chi crede nella pace e così nasce un movimento di donne attiviste. Mentre un gruppo di suore lavora con bambini audiolesi. Reportage tra Israele e Palestina. Dalle due parti del muro.
Testo e foto di Valentina Tamborra
Il tassista guida veloce verso la frontiera con la Giordania. Qui a Eilat, sulla punta più estrema di Israele, al confine con l’Egitto, la guerra è un concetto lontano. Spiaggia, barriera corallina, locali alla moda: qui la vita, almeno all’apparenza, scorre tranquilla. Non fosse per l’avviso trovato nella camera dell’hotel dove ho dormito: «Il rifugio antiaereo si trova nell’interrato, piano -1».
Ma Israele è così: da Tel Aviv a Eilat, a un primo sguardo superficiale, non ci sono motivi di tensione. Eppure il 10 agosto, solo due giorni prima del mio arrivo, c’è stato l’ennesimo scambio di missili fra Israele e Gaza.
Il tassista sostiene che il problema di Israele siamo noi giornalisti e media: raccontiamo una guerra che non c’è.
Se fosse il mio primo incontro di questo tipo mi stupirei, ma dal primo giorno in Israele ho avuto la netta percezione che ci sia una ferrea volontà di rimozione. Forse è, in parte, una difesa: vivere in un costante stato di allarme porta a un fatalismo estremo che sfocia nel tentativo di trovare la normalità lì dove di normale c’è ben poco.
Di tutt’altro avviso è invece Hamutal Gouri, fondatrice, insieme ad altre quaranta donne, del movimento «Women wage peace» (Le donne muovono la pace).
Sedersi accanto
Il movimento nasce nell’estate del 2014, racconta Hamutal, per creare uno spazio dove sedersi l’uno accanto all’altro, pur essendo in disaccordo, e avere così la possibilità di creare un dialogo.
Il movimento ogni anno elegge un gruppo di quattro donne che formano la squadra al comando per dodici mesi. Non si basa su una figura carismatica, ma sulla partecipazione popolare.
Women wage peace è una realtà controcorrente non solo perché professa la pace. Hamutal mi spiega, infatti, che in Israele vige ancora una mentalità fortemente maschilista. Il regno della donna è la casa: lì è la regina, ma dalla vita pubblica viene tenuta fuori.
Women wage peace sfida questa realtà: le donne combattono perché la loro voce venga ascoltata.
Dunque è un doppio obiettivo quello che si prefiggono: da un lato l’accesso alla vita pubblica, la libertà di opinione, e dall’altro, ovviamente, un accordo di pace.
Hamutal mi spiega che sono ispirate dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu 13-25 che stabiliva che, siccome le donne sono le più colpite nei conflitti, devono anche divenire parti attive nella trasformazione e nella risoluzione degli stessi.
«È molto più facile per me credere che ci possa essere una pace o una collaborazione tra Ebrei e Palestinesi, credere nel potere delle persone e specialmente delle donne di portare la pace. È molto più facile per me pensare questo, piuttosto che accettare il fatto che non ci sarà mai pace». È lo spirito che ha mosso donne coraggiose a dare il via a quello che ad oggi è diventato un movimento con 40mila persone iscritte.
Una varia umanità
Women wage peace raccoglie iscritti da tutto il mondo: decine di migliaia di membri appartenenti alle frange politiche di destra, centro e sinistra, arabi, ebrei, laici, religiosi, dai paesi alle periferie, donne dai kibbutz e dagli insediamenti. Tutti uniti per la richiesta di un mutuo accordo nonviolento condiviso da entrambe le parti.
Moltissime le iniziative organizzate: a partire dalle tremila donne che nel 2015 hanno circondato la Knesset – il parlamento monocamerale di Israele – per chiedere un’iniziativa di pace, e dalla celebre Marcia della speranza, nel 2016, quando trentamila persone, donne e uomini, ebrei e arabi, israeliani e palestinesi hanno marciato per due settimane dal Nord del paese sino a Gerusalemme.
Le immagini di quella marcia hanno fatto il giro del mondo: migliaia di donne piene di speranza, di commozione e di gioia unite in un tentativo pacifico ed estremo allo stesso tempo.
In un mondo dominato, almeno di questi tempi, dalla ferocia, è sconvolgente trovare tanto accanimento nel ricercare una pace che molti ritengono impossibile.
Sì, perché Hamutal crede fermamente nella pace, pur essendo lei nata e cresciuta a Gerusalemme, fra conflitti e confini delimitati da mura e filo spinato. Lei, costretta a prestare servizio militare, giacché in Israele la leva è obbligatoria per tutti, eccezion fatta per gli ebrei ultraortodossi. Le donne devono prestare servizio per due anni, gli uomini per tre.
Un mondo senza check point
Quando nacque il suo primo figlio, Daniel, Hamutal gli promise che non sarebbe dovuto entrare nell’esercito. Sognava un mondo come quello che aveva solo sfiorato quando, da ragazza, aveva lavorato per una compagnia aerea. Mi racconta che un giorno le dissero di avere passato il confine del Belgio e che lei si stupì di non aver visto neppure un check point, militari, armi. Fu in quell’occasione che iniziò a immaginare un mondo senza reti, senza delimitazioni.
Ma la promessa fatta a Daniel fu, suo malgrado, una bugia. La cosa certa è che nessuna madre mette al mondo un figlio per mandarlo in guerra. Questo è il pensiero che sta alla base del movimento Women wage peace. Donne come madri, in senso universale. Unite a dispetto dei confini: che tuo figlio sia israeliano, palestinese, ebreo, musulmano, cristiano, la speranza è una sola: che possa vivere in pace. Che non debba conoscere l’orrore della guerra.
Per Hamutal fu un brutto momento quello nel quale accompagnò Damiel al bus che l’avrebbe portato al centro di addestramento. E ancora peggiore il giorno della cerimonia quando dovette sentirlo pronunciare il giuramento: «Giuro di difendere il mio paese anche se dovessi sacrificare la mia vita per esso». Ad Hamutal si riempiono gli occhi di lacrime nel raccontarlo: «Stavo li seduta e pensavo solo: questo è mio figlio, il mio unico figlio maschio, il mio primogenito, lo amo più di ogni altra cosa al mondo e devo sentirgli dire che morirebbe pur di difendere il proprio paese?».
Preghiera per le madri
Questo dolore e questa speranza stanno alla base anche della bellissima canzone che fa da inno del Movimento, Prayer of the mothers, di Yael Deckelbaum, che recita così: «Tra il cielo e la terra ci sono persone che vogliono vivere in pace, non arrenderti, continua a sognare di pace e prosperità. Ascolta la preghiera delle madri, porta loro la pace, porta loro la pace».
Una sorta di «stabat mater» moderno. Un grido di speranza che dice la volontà di non vedere più i propri figli ammazzati in una guerra che ormai ha violato ogni luogo, persino il deserto.
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E pensando al deserto tornano alla mente le parole di Emil Cioran, filosofo e saggista rumeno: «Gli asceti cristiani pensavano che solo il deserto sia senza peccato, e lo paragonavano agli angeli. In altre parole, non c’è purezza se non là dove non nasce nulla».
Israele e Palestina smentiscono il suo pensiero: qui pure il deserto non è esente dal peccato.
Un’altra cosa che sconvolge, infatti, viaggiando lungo le strade che conducono alla Valle del Giordano, a luoghi considerati sacri non solo dai cristiani ma anche da ebrei e musulmani, è la presenza costante di filo spinato, mura, carri armati, aree di tiro, cartelli che segnalano pericolo.
L’ultima cosa che mi dice Hamutal, prima di salutarmi, è che non si capacita di come il suo popolo che ha tanto sofferto, che è stato martoriato, vessato, privato di una terra, possa ripetere tali atrocità su un altro popolo.
La memoria storica che qui viene continuamente celebrata (basti pensare al monumentale complesso museale dello Yad Vashem, costruito per documentare e tramandare la storia del popolo ebraico durante la Shoah preservando la memoria dei sei milioni di vittime dell’Olocausto), pare cadere nell’oblio non appena si pensa a ciò che accade in Palestina e in particolare sulla striscia di Gaza.
Gaza 2014
In Palestina, a Betlemme, trovo il corrispettivo, in versione molto più semplice e non monumentale, dello Yad Vashem: un muro dipinto di nero, con i nomi di tutti i bambini morti sulla striscia di Gaza nel 2014 scritti a mano.
Proprio nell’estate di quell’anno Israele lanciò nella striscia di Gaza l’operazione «Margine protettivo» con l’obiettivo di fermare il lancio di missili verso il proprio territorio ed eliminare i tunnel di Hamas. Esplose così uno tra i più sanguinosi conflitti israelo-palestinesi della storia recente. A farne le spese, moltissimi civili. Una vittima su cinque, in quei giorni di violenza, era un bambino.
Betlemme è un altro luogo sacro violato dalla guerra. Nel 2002, durante la seconda intifada, duecento palestinesi si rifugiarono nella Chiesa della Natività, protetti da quaranta frati e quattro suore. L’assedio durò trentanove giorni. I frati francescani, custodi dei luoghi santi, misero al primo posto l’aspetto umanitario, accogliendo i fuggitivi. Oggi, di quei momenti di paura e disperazione non si ricorda granché. La Basilica accoglie ogni giorno centinaia di pellegrini che molto spesso non sanno dei tragici eventi che hanno segnato questo luogo.
La storia scomoda viene costantemente e metodicamente rimossa. Infatti, se di una situazione si smette di parlare, presto la si dimentica.
Donne (suore) coraggio
A Betlemme, esiste un altro gruppo di donne coraggiose: le suore di Effetà. Ad oggi si prendono cura, all’interno dell’istituto da loro fondato nel 1971, di 150 bambini.
La scuola è specializzata nella rieducazione audio fonetica dei bambini audiolesi residenti nei Territori palestinesi. Suore coraggiose, da sempre attive sui luoghi di confine, di conflitto, hanno di recente perso una sorella in Siria. Nonostante questo, stanno progettando di muoversi verso il confine giordano per aiutare i profughi siriani, che oggi sono quasi 20.000.
Il nome Effetà si rifà a un passo del Vangelo secondo Marco: «E gli condussero [a Gesù] un sordomuto, pregandolo di imporgli una mano. E portandolo in disparte gli pose le dita negli orecchi (…) e disse “Effetà” – Apriti».
Gli allievi provengono da diverse zone della Palestina: Betlemme, Beit Jala, Sahour e zone limitrofe come Ramallah e Hebron, dove le condizioni di vita sono molto dure. Purtroppo dalla scuola restano esclusi i bambini della regione di Gerusalemme e del Nord per via dei problemi di trasporto e soprattutto di passaggio, perché il muro di sicurezza che separa Israele dalla Palestina circonda e chiude quasi interamente la città di Betlemme.
Queste suore si trovano ogni giorno a operare in un territorio ostile. Eppure, non perdono mai il sorriso.
Suor Laura, direttrice dell’istituto, e suor Bruna, educatrice, mi raccontano che il loro sogno è di poter ampliare la struttura, accogliere più bambini e soprattutto far sì che si radichi il pensiero che la sordità non preclude una vita sociale attiva e partecipativa. In Palestina, infatti, questa problematica viene trattata con vergogna da parte delle famiglie. Eppure riguarda una percentuale del 3% della popolazione, e in alcuni villaggi particolarmente isolati, si arriva sino al 15%, classificandosi così fra le più alte del mondo. Questo avviene principalmente a causa dell’eredità genetica in quanto circa il 40% dei matrimoni in Palestina è endogamico, ovvero combinato all’interno della famiglia allargata.
Le suore di Effetà, lavorano perché questi bambini abbiano il diritto a una vita quanto più possibile serena e integrata pur vivendo ogni giorno in un contesto difficile.
La presenza del muro di sicurezza, il filo spinato, le telecamere, i militari armati e i check point certo non sono la premessa ideale a un’infanzia serena.
Camera con «svista»
Proprio a Betlemme è nato il «The walled off hotel», l’hotel provocazione di Banksy, artista e writer inglese, considerato uno dei maggiori esponenti della steeet art e molto noto anche per il suo attivismo politico. Costruito proprio a ridosso del muro che separa Israele dalla Palestina (Betlemme dista poco più di 20 minuti in bus da Gerusalemme), si fregia del titolo di «Hotel con la peggiore vista del mondo».
Dalle camere si può vedere il muro, le torrette di controllo, e, subito oltre, i territori israeliani.
Una vista da incubo sulla continua violazione della libertà, anche solo di quella dello sguardo, operata in quei territori. L’hotel oggi è diventato un vero e proprio polo di attrazione turistica: in molti vengono qui a lasciare la propria firma, la propria frase sul muro di separazione. Senza nulla obiettare al messaggio di Banksy, resta da capire quanto questa spettacolarizzazione del dolore possa portare reale beneficio.
All’interno dell’hotel è stato creato anche un museo e una galleria che raccontano la storia della Palestina e dell’occupazione da parte degli israeliani. Ci sono guide che portano in giro i turisti per far vedere loro le condizioni di vita attorno al muro e all’interno dell’Aida Camp, il campo profughi fondato nel 1948, il cuore della lotta all’occupazione israeliana.
La volontà è certamente quella di far conoscere la situazione del popolo palestinese: George, un ragazzo che lavora per l’hotel di Banksy, mi racconta, per esempio che l’acqua viene razionata. Distribuita ogni due settimane e nel giorno prefissato ogni quartiere dovrà raccoglierne quanta più possibile.
In effetti, guardando i tetti delle case palestinesi, si possono osservare su ciascuna serbatorni d’acqua. Qualora una famiglia dovesse terminare la propria scorta, dovrà andare a procurarsela direttamente alla compagnia che controlla l’erogazione, pagando circa 70-80 dollari per riempire il serbatornio.
George mi racconta anche delle restrizioni che il governo israeliano impone per lasciare il paese: l’unico aeroporto vicino, infatti, è quello di Ben Gurion (Tel Aviv), in territorio israeliano e, dunque, interdetto ai palestinesi. Questo significa che è necessario recarsi in Giordania. Per passare il confine ci possono però volere dalle 7 alle 10 ore e una volta giunti all’aeroporto si devono affrontare code lunghissime, 4, 8, 10 ore di attesa perché questo è l’unico punto dal quale si può partire verso altre destinazioni.
Gaza blindata
La situazione a Gaza risulta ancora diversa. Qui non si può entrare e da qui non si può uscire. Alcune volte viene dato un permesso per recarsi in Egitto attraverso il Sinai o per raggiungere la West Bank (Cisgiordania) in occasione di feste particolari. Qualora però dovesse scadere il permesso, anche per un semplice ritardo di poche ore, non si potrà più lasciare Gaza.
Il muro continua a progredire: i lavori non si sono fermati e anzi attraversano anche i territori beduini.
George mi chiede di scattare foto: alle case, al muro, ai bambini, alle persone. Dice che in Europa deve arrivare il messaggio che i palestinesi non sono pronti a farsi saltare in aria, non ci tengono a morire, né a lanciare pietre. Vogliono solo quei diritti fondamentali che ad oggi vengono loro negati.
Mi guardo intorno: case semplici, di pietra, spazzatura ammassata contro il muro e per le vie, bambini che scorrazzano su vecchie biciclette sgangherate e un centro ricreativo per l’infanzia che è praticamente da demolire.
Eppure, a neanche venti minuti di distanza, c’è Gerusalemme: città sacra, città meravigliosa. Un mondo altro, quasi impossibile da immaginare. È la duplicità, la coesistenza di due realtà così diverse fra loro che lascia interdetti.
Mi chiedo se un turista, lasciato il messaggio sul muro, riesca a comprendere cosa significa vivere, crescere, condurre un’esistenza normale laddove ogni mossa è controllata, verificata, limitata.
C’è un solo luogo a Betlemme che lascia un po’ di spazio a occhi e cuore: è il deserto che si estende poco oltre la città. Vi è un santuario e poi chilometri di roccia e sabbia. È territorio palestinese, ma zona C, ovvero sotto il controllo israeliano. Qui, forse, finalmente, si riesce a lasciar vagare lo sguardo senza che venga bloccato da muri e filo spinato, senza che, costantemente, ci si senta chiusi in gabbia. Questa parte del deserto è il luogo dove George viene a sedere di tanto in tanto per immaginare una vita diversa.
Valentina Tamborra