Uruguay, una parentesi tranquilla

Indice

 

L’Uruguay, un «cuscinetto» tra Brasile e Argentina

Una scelta di laicità

Si dice che gli uruguaiani discendano dai migranti, soprattutto gli spagnoli e gli italiani, che arrivarono nell’Ottocento. È un dato di fatto, però parziale. I Guaraní e gli altri popoli indigeni sono scomparsi da tempo, ma hanno lasciato la loro impronta. Reportage dal paese più laico dell’America Latina.

Montevideo. L’Uruguay è la parentesi tranquilla tra i giganti Brasile e Argentina. È il paese più ricco (assieme al Cile) e più laico dell’America Latina, con i partiti politici più vecchi del mondo, il Partido blanco e il Partido colorado. Rinomata la sua stabilità in una regione caratterizzata da grandi passioni e grandi delusioni, «siamo argentini col valium», sentenziò Eduardo Galeano, scrittore uruguaiano di fama internazionale. Nel Novecento, era la «Svizzera d’America Latina», «un paese piccolo e felice, con istituzioni sociali esemplari» secondo Albert Einstein che lo visitò nel 1925, quando era già presente il divorzio, il divieto del lavoro minorile, i permessi di maternità e le pensioni di invalidità.

È curiosa la storia di questo paesito, come lo chiamano affettuosamente i suoi abitanti, esteso come mezza Italia, ma con meno degli abitanti della Toscana (3,5 milioni contro 3,7), metà dei quali concentrati nella capitale, Montevideo.

«Il nostro padre fondatore, José Artigas, a inizio Ottocento non lottava per l’Uruguay indipendente, ma sognava una federazione delle province del Rio de La Plata, una patria grande. Anche culturalmente non c’erano ragioni perché nascesse uno stato qui, siamo molto simili agli argentini. La storia andò diversamente: la diplomazia inglese sostenne la nascita di uno stato cuscinetto tra l’impero spagnolo e quello portoghese, tra Argentina e Brasile, in una zona chiave per la navigazione dei fiumi che portano al cuore dell’America Latina», spiega a MC Luis Bertola, storico economico presso la Universidad de la República dell’Uruguay.

Rodeo di cavalli alla festa della «Patria Gaucha» nel dipartimento di Tacuarembó. Foto Mauricio Zina.
20190316 – Ruedo de doma de caballos durante la fiesta de la “Patria Gaucha” en el departamento de Tacuarembó, Uruguay.

Un paese di soli immigrati?

«I messicani discendono dai Maya, i peruviani dagli Incas, gli uruguaiani discendono dalle navi», recita un detto nazionale. Nel 1860, un terzo della popolazione era composto da migranti. E sono loro, soprattutto spagnoli e italiani, arrivati a fine Ottocento, che hanno fatto il paese. Letteralmente hanno costruito l’Uruguay, e soprattutto la sua capitale cosmopolita, Montevideo: i suoi palazzi liberty, il porto, i sindacati, le squadre di calcio, le imprese. E hanno cambiato i gusti e affermato le mode: a inizio Novecento circolano automobili Fiat, si beve vino spagnolo e Fernet di Milano. E ancora oggi, nella cucina si riconosce quell’impronta: si può mangiare una torta pascualina, torta salata di bieta secondo la ricetta ligure, o una milanesa napolitana, un incontro tra una cotoletta e una pizza.

Bertola però avverte «la storia dei migranti che arrivano con le navi a fondare l’Uruguay è un po’ un mito. Com’è un mito che tutta la popolazione indigena, i Guaraní, sia stata sterminata dagli spagnoli, che serve a rafforzare l’idea che siamo purosangue “europei”. Gli studi genetici dicono che il 30% della popolazione attuale è di discendenza indigena. Pensate al calciatore Edison Cavani, che ha giocato in Italia, a Palermo e Napoli: i tratti del suo viso sono indigeni. Esiste ancora oggi una segregazione, un’esclusione per origine, che passa anche dal discorso storico prevalente», afferma Bertola, che ha dedicato parte dei suoi studi alle origini della popolazione per spiegare la storia economica dei paesi latinoamericani.

Panoramica del porto di Montevideo, capitale dell’Uruguay. Foto Leandro Ubilla.

Garibaldi e i colorados

È certo però che la relazione tra migrazione e Uruguay è inscindibile, come mostra la storia di un italiano: Giuseppe Garibaldi. Il quale visse circa un decennio, negli anni ’40 dell’Ottocento, a Montevideo, a stretto contatto con la grande comunità italiana. Per sostenere la famiglia si impegnò nei lavori più disparati, fu anche insegnante di matematica. Fondò la Legione italiana, impegnata nell’attività rivoluzionaria e militare a favore del giovane stato uruguaiano. La Legione, oltre che per il coraggio in battaglia, si caratterizzava per un particolare: le camicie rosse. L’origine dell’indumento simbolo delle cause patriottiche, sembra si debba più che altro alla necessità: una spedizione di stoffa rossa destinata agli operai di Montevideo che il generale italiano acquistò a basso costo per vestire i suoi soldati. È in Sud America, tra Brasile e Uruguay, che Garibaldi maturò il polso di comandante carismatico e affinò la tattica della guerriglia poi utilizzata nel Risorgimento italiano. Ed è lì che «l’eroe dei due mondi» crebbe nel suo amore per la libertà: nelle sue memorie racconta come lo affascinassero le immense praterie della Pampa e il modo di vivere libero e indipendente dei suoi abitanti, i gauchos.

Un biglietto di 10 pesos del 1887 con il ritratto di Giuseppe (José) Garibaldi, che in Uruguay visse per quasi dieci anni. Foto Museo Histórico Nacional-Casa de José Garibaldi.

La storia del paese si è sviluppata nella relazione, spesso conflittuale, tra Montevideo e l’interior, tra la metropoli e la campagna. È un paese «macrocefalo», afferma Bertola, «con una capitale sproporzionata, per dimensioni e rilevanza, rispetto al resto. Già nell’Ottocento, l’urbanizzazione cresceva rapidamente, poca gente era impiegata nell’agricoltura e nell’allevamento, la maggior parte lavorava nei servizi e nel settore terziario. Abbiamo avuto grandi classi medie prima di avere una grande classe operaia», così Bertola spiega la nascita di una società liberale e moderna per l’epoca. L’espressione politica di queste classi medie, in particolare della borghesia commerciale, era il Partido colorado, mentre il Partido blanco, più conservatore, era il riferimento degli interessi rurali dell’interior. Si tratta di due partiti dell’establishment, ma sono formazioni pigliatutto, alternatesi al potere ininterrottamente dal 1828 fino al 2004, con la parentesi della dittatura militare 1973-1988. Il conflitto tra i due partiti ha diviso a lungo la società. Ne è un esempio proprio Garibaldi, considerato un eroe dai colorados, per le sue vittorie nella Guerra grande (1839-1851), una guerra civile e internazionale, che ha visto blancos e colorados schierati sui fronti opposti. Garibaldi era schierato con i colorados, che ancora oggi espongono un suo ritratto nella loro sede e gli hanno dedicato una statua sulla rambla del porto della capitale.

Molto dell’Uruguay odierno lo si capisce attraverso la figura del colorado José Batlle y Ordóñez, presidente della Repubblica nel 1903-1907 e nel 1911-1915, che ha lasciato un’impronta ben più profonda di quella dei suoi due governi. A lui si deve la modernizzazione dello stato, i diritti dei lavoratori, dei minori, delle donne, la divisione tra stato e chiesa. La sua eredità, il «battlsimo» (ci si riferisce così all’ala sinistra dei colorados, e ad una tendenza socialdemocratica o anche di sinistra anticlericale) ha marcato a fondo cultura e politica del paesito per tutto il Novecento. Ed è da questa tendenza che sorge il Frente amplio, una coalizione di partiti che, nel 2004, romperà il secolare monopolio blancos-colorados.

I cinquant’anni del Frente amplio

Il Frente amplio (Fa), di cui quest’anno si celebrano i cinquant’anni di storia, è un pezzo del mosaico delle stranezze del paesito. Un movimento di partiti di sinistra di ogni tendenza, dai democristiani agli ex guerriglieri tupamaro, è anche un modo di essere, un’identità per gli uruguaiani. In una società altamente politicizzata, dove il voto è obbligatorio, è comune che le persone dichiarino la loro adesione politica. E oggi, passeggiando per le strade della capitale, è frequente vedere le bandiere tricolore del Fa ai balconi dei condomini o i murales con slogan e i volti dei suoi leader. «È un piccolo mistero l’esistenza di un soggetto politico così variegato, che unisce culture così diverse. Un po’ si deve al pragmatismo e alla maturità dei dirigenti politici, che hanno sempre messo a valore ciò che li univa, anziché ciò che li divideva. Il Fa, ad esempio, non si è mai definito socialista, benché al suo interno vi siano molti gruppi di tale tendenza. I leader politici hanno fatto concessioni ideologiche a favore dell’unità. L’altra ragione dell’unità è l’origine: il Fa è nato come unione dei militanti di base, con i comitati di quartiere, movimenti cattolici, studenti e operai. C’è una mistica dell’origine, le radici popolari e i movimenti di base, che spinge molti a sentirsi frenteamplisti, prima che a identificarsi con uno dei suoi molti partiti. Gli elettori cambiano il loro voto tra i partiti del Fa, ma restano leali al Fa. I partiti lo sanno e restano leali al patto di unità», spiega Bertola. Il Frente amplio è stato al governo per quindici anni, dal 2005 al 2020, cambiando profondamente il paese. Nel quindicennio, si sono alternate due figure, fondamentali nella storia del paese: José «Pepe» Mujica e Tabaré Vázquez.

L’allora presidente Pepe Mujica, ex tupamaro, con Michelle Bachelet, all’epoca presidente del Cile. Foto: Gobierno de Chile.

Pepe Mujica, la semplicità al potere

José Mujica, «el Pepe» come lo chiamano nel Rio de La Plata, è un leader affascinante e sobrio, sopravvissuto alle torture della dittatura, che lo chiuse in un pozzo per dodici anni, come racconta il film La noche de 12 años. Mujica, che di recente ha abbandonato la politica attiva, è uno degli esponenti tupamaro, il movimento di sinistra rivoluzionaria che ha dato vita ad azioni di guerriglia urbana tra metà anni ’60 e inizio anni ’70. I tupamaro si fecero conoscere con iniziative contro la corruzione e per la giustizia sociale, come il furto di un carico di alimenti di proprietà di una grande impresa poi distribuito agli abitanti di un quartiere povero. I «Robin Hood della guerriglia», come li definì il New York Times, godevano dell’appoggio di una parte importante della popolazione. È grazie a questo appoggio, ad esempio, che nel 1971, centoundici tupamaro, tra cui lo stesso Mujica, scapparono dal carcere di Punta Carretas, realizzando l’evasione di detenuti politici più grande della storia. Nei primi due anni di dittatura l’organizzazione fu sostanzialmente smantellata, i leader arrestati, uccisi o in esilio. La dittatura nel paese fu una notte lunga dodici anni, durante i quali, scrive Galeano, «Libertà è stato solo il nome di una piazza e di un carcere. In quel carcere, tutti erano prigionieri, eccetto i secondini e gli esuli. C’erano tre milioni di detenuti, benché sembrasse fossero solo qualche migliaio. Capucci invisibili coprirono gli uruguaiani, condannati all’isolamento e al silenzio, benché non vivessero la tortura. Paura e silenzio furono le regole della vita quotidiana. La dittatura, nemica di tutto ciò che cresce e si muove, ricoprì di cemento i prati delle piazze e tagliò tutti gli alberi che poté».

Con il ritorno alla democrazia, gli ex tupamaro, deposte le armi, hanno accettato la sfida elettorale e si sono riuniti in quello che oggi è il primo partito del Fa per consensi: il Movimiento de participación popular (Mpp).

Nella politica del Mpp ai tempi della democrazia, c’è un elemento di fondo che fa rumore: una relazione di vicinanza e rispetto con i militari. Proprio con gli esponenti dell’armata responsabile delle torture e della repressione nei tempi della dittatura, Mujica e i suoi tengono aperto un dialogo. Le interpretazioni di questa relazione – apparentemente una «sindrome di Stoccolma» per la quale i torturati si innamorano dei torturatori – sono le più disparate, da quella cospirativa (un accordo siglato ai tempi della dittatura, benché non vi siano prove né evidenze), alla vicinanza di idee, «la comunione del ferro», tra ex combattenti. Quel che è certo è che, una volta arrivati al governo, gli ex guerriglieri hanno optato per il ministero della Difesa, con Fernández Huidobro, «el Ñato», anche lui sopravvissuto a un decennio di carcere in isolamento. Mujica ha raccontato di un pranzo con «i pezzi grossi dell’armata, generali, colonnelli, militari fascisti, c’era di tutto» finalizzato a creare un clima di cordialità. E ancora oggi Mujica tiene aperto il dialogo con Guido Manini, ex generale, ora leader di Cabildo Abierto, partito di estrema destra attualmente al governo. Qualunque sia l’origine e la natura di questa curiosa relazione, è una delle tante stranezze di un paesito solo apparentemente tranquillo.

Il successo elettorale del Mpp si deve «soprattutto alla figura di Mujica», afferma Bertola, che da studente fu un attivista tupamaro.

Eletto presidente nel 2009, Mujica promuove politiche sociali ed economiche di successo, con la riduzione di disoccupazione e povertà, e legalizza l’aborto e il consumo della cannabis. Ma il consenso popolare è probabilmente più legato al suo modo di essere, di interpretare il suo ruolo pubblico, lontano dagli schemi tradizionali, anche per gli standard della sinistra latinoamericana. Nel 2014, a un giornalista spagnolo stupito nello scoprire come il presidente dell’Uruguay viva in una casa di due stanze, Mujica semplicemente risponde: «Il vantaggio di avere una casa così piccola è che tra me e mia moglie spazziamo e riordiniamo tutto in un lampo».

L’oncologo Tabaré Vázquez, morto a dicembre 2020, è stato presidente dell’Uruguay per due mandati. Foto: Presidencia de la República Mexicana.

Tabaré Vazquez, il medico riformatore

Prima e dopo Mujica, presidente è un uomo la cui storia racconta molto dell’anima dell’Uruguay: Tabaré Vazquez. Il Frente vince le elezioni del 2004 e arriva per la prima volta al governo nazionale con quest’uomo, un medico socialista figlio dell’Uruguay popolare, nato nel 1940 nel quartiere operaio La Teja. Tabaré Vazquez cresce in una casa con le pietre sul tetto per non farlo volare via quando c’è vento forte, gioca come portiere nei campetti di terra battuta. All’università sceglie medicina e, nel frattempo, si innamora di Maria Auxiliadora Delgado, con la quale resterà unito tutta la vita. Siamo a metà degli anni ’70. L’Uruguay, come tutto il Cono Sur, vive la dittatura militare, i morti e gli scomparsi caduti nella rete di repressione della polizia politica.

La vita di Tabaré si divide tra la famiglia, l’impegno sociale e il mestiere di medico. Si specializza in oncologia, perché «ho perso i miei genitori e mia sorella per il cancro. Ho un nemico e lo voglio combattere», e diventa uno degli specialisti più importanti della regione.

Nel 1979 diviene presidente del Club Progresso, la piccola squadra di calcio de La Teja. Tabaré usa il calcio per promuovere attività sociali nel quartiere e porta la squadra alla consacrazione. Nel 1989, il Progresso vince lo scudetto e gioca la Coppa libertadores, la Champions league latino-americana.

In quell’anno ci sono le elezioni a sindaco di Montevideo e il Frente amplio cerca una figura fuori dagli schemi. Scelgono lui. Tabaré presenta un programma di proposte concrete e lo slogan è «consideralo fatto». Va in giro a piedi. Nelle assemblee è lui che passa il microfono per ascoltare più che per parlare. La politica, dice, è come la medicina: «Bisogna ascoltare chi vive un problema poiché spesso ne conosce la soluzione, come il malato conosce la sua malattia». Vince e diventa il primo sindaco di sinistra della capitale, è la prima vittoria nella storia del Frente amplio. Mantiene le promesse e raggiunge livelli di consenso altissimi, smentisce la leggenda nera per cui il ruolo di sindaco di Montevideo è una tomba per la carriera politica. E la sua carriera fa un balzo: nel 1994 è candidato del Frente amplio a presidente della Repubblica. Perde, ma il Fa diventa un attore politico alla pari dei partiti storici. Tabaré comincia a modellare la coalizione sulla sua idea di riformismo pragmatico.

Il suo riferimento era Salvador Allende, anche lui medico, socialista e massone. «Da lui, possiamo apprendere molto. Anche gli errori da non ripetere», diceva riferendosi al presidente cileno eletto democraticamente e poi rovesciato da un golpe sostenuto dagli Stati Uniti.

Quando si va alle elezioni presidenziali del 2004, il paese non si è ancora rialzato dalla crisi bancaria del 2002, trasformatasi nella peggiore crisi economica della sua storia, spingendo due persone su cinque in povertà. Tabaré come candidato del Fa deve scontrarsi con la propaganda della destra: «Con la sinistra arriveranno povertà e conflitti sociali, le istituzioni saranno distrutte, finiremo come Cuba». Lui non è certo un estremista, ma questa retorica ha sempre funzionato in Uruguay.

Stavolta però l’aria è diversa, lo si capisce nella chiusura della campagna elettorale a Montevideo, un immenso fiume di persone riempie l’Avenida del Libertador, mentre suona «Todo cambia» di Mercedes Sosa. Il Frente amplio vince e finisce il bipolarismo che durava dal 1828.

L’attuale presidente Luis Alberto Lacalle Pou del Partido blanco, storico partito conservatore tornato al potere nel marzo 2020, dopo 15 anni di Frente amplio. Foto Presidencia de la Republica.

Dopo 15 anni, tornano i conservatori

Comincia un’azione di governo su due assi. Primo: verità e giustizia per i crimini della dittatura militare. E poi le riforme: immediato sostegno ai poveri. Tabaré risponde alle critiche: «C’è chi dice che i poveri useranno il denaro del piano di Emergenza per comprarsi il vino. E io chiedo: perché i poveri non possono bersi un vino?». La gestione dell’economia è sapiente, viene approvata una riforma fiscale in senso progressivo, i conti tornano in ordine e il paese riparte. Nasce poi il Sistema di salute universale, la legge sul lavoro domestico, l’Agenzia per l’innovazione e la ricerca, gli investimenti sulla digitalizzazione. Ma la riforma che tutti ricordano è il Plan Ceibal: un computer per tutti i bambini. Molti, durante la pandemia di Coronavirus e la quarantena, hanno ricordato il primo governo del Fa, la salute pubblica e l’educazione digitale grazie alle quali il paese ha reagito bene al Covid-19. La critica principale al suo primo governo è il veto presidenziale posto alla legge pro-aborto, già votata dal Parlamento, che lo porterà a dimettersi dal Partito socialista (componente del Frente).

Con il secondo governo Tabaré, tra il 2015 e il 2020, viene estesa la copertura pubblica per le cure ad anziani, bambini, disabili; si decreta l’educazione come bene essenziale; col Plan Ceibal arriva un tablet a tutti gli anziani. Secondo la Confederazione sindacale internazionale, l’Uruguay diventa il paese più avanzato nelle Americhe, da Nord a Sud, per rispetto dei «diritti del lavoro, della libertà di associazione, della contrattazione collettiva e dello sciopero».

Nel 2019 muore la moglie e quello stesso giorno Tabaré annuncia che sta lottando contro un cancro al polmone. Una beffa: l’uomo colpito dal male che ha studiato da medico e combattuto da presidente, con le sue leggi antifumo. A fine anno, il Partido blanco – grazie a una vittoria risicata – torna al governo. Cala il sipario sul lungo quindicennio del Fa, senza una polemica né un ricorso da parte degli sconfitti. La transizione è esemplare: un altro dei falsi miti sulla sinistra rotti da Tabaré.

Tabaré muore il 6 dicembre 2020, a ottant’anni. Il governo dichiara tre giorni di lutto nazionale, le strade si riempiono di persone emozionate, fiori e messaggi. Uno dice: «Una maestra, grata di aver vissuto mentre eri presidente». La sua figura è la personificazione della saga della sinistra uruguaiana, una storia di molte sconfitte ma che alla fine trova la strada per la vittoria, assicurando stabilità democratica, crescita con uguaglianza e redistribuzione del potere. Un ciclo lungo 15 anni, conclusosi con la morte di Tabaré e il ritiro dalla vita pubblica di Pepe Mujica. Oggi il Frente amplio cerca nuove strade.

 Federico Nastasi

Mappa dell’Uruguay, paese stretto tra l’Argentina e il Brasile. Illustrazione Treccani.

Uruguay

  • Forma di governo: Repubblica presidenziale.
  • Presidente: dal 1 marzo 2020, Luis Alberto Lacalle Pou (Partido blanco, di centro destra).
  • Superficie: 176mila km² (circa metà dell’Italia).
  • Abitanti: 3,4 milioni (circa 40% sono di origine italiana).
  • Popoli indigeni: sono quasi estinti come popoli autonomi.
  • Città principali: Montevideo (capitale con 1,9 milioni di abitanti), Salto, Punta del Este (principale centro turistico), Colonia del Sacramento (città storica).
  • Religioni principali: 58% cristiani (42% cattolici, 16% protestanti); 17% credenti senza affiliazione; 16% atei; 5% agnostici; 5% altre religioni.
  • Economia: agricoltura (soia) e allevamento (bovino e ovino); Pil pro capite 22.400 Usd (secondo paese dell’America Latina dopo il Cile).
  • Vaccino anti-Covid principale: Sinovac.

L’arcivescovo cardinale Daniel Sturla durante una messa nella parrocchia della Annunciazione, nel quartiere Cerrito de la Victoria, a Montevideo. Foto Mauricio Zina.

La Chiesa cattolica

Piccola (eppure presente)

Meno della metà della popolazione si dichiara cattolica. Eppure, il cattolicesimo è componente essenziale della cultura nazionale. I cattolici sono tra i conservatori, ma anche nel Fronte ampio. E c’erano tra i tupamaros.

Il 25 dicembre in Uruguay si festeggia il giorno della famiglia, la Settimana santa è la settimana del turismo. «La chiesa cattolica è piccola e povera. E un prete che cammina per strada attira l’attenzione», spiega Eduardo Murias, ex seminarista, funzionario pubblico e «fervente cattolico». Nel paesito, meno della metà della popolazione si dichiara cattolica, un unicum in un’America Latina dove il cattolicesimo è sempre stato molto diffuso.

«La nascita dell’Uruguay non è frutto dell’evangelizzazione dei popoli indigeni, come in altri paesi della regione. I migranti arrivati dall’Europa erano liberali, socialisti e anarchici, riuniti in logge massoniche anticlericali. E inoltre, con la separazione chiesa-stato iniziata a metà Ottocento, presto la religione divenne un fatto privato e i poteri pubblici pienamente laici. Il presidente José Batlle y Ordóñez canalizzò il liberalismo radicale delle classi medie urbane e accelerò la laicizzazione dello stato», spiega a MC Juan Pablo Martí, professore di storia economica della Universidad de la Republica, e «cattolico poco praticante, aderente alla Comunidad de Vida Cristiana dei gesuiti». «Qui, essere sacerdote non eleva a nessuno status particolare. Ricordo quando dissi alla mia famiglia e agli amici che volevo essere sacerdote: “Che peccato, che spreco”, mi dissero. Nessuno mi incoraggiò, sembrava una scelta senza senso», racconta Murias, che ha abbandonato il seminario, ma non la fede.

All’opposizione della dittatura

Nonostante queste premesse, il cattolicesimo è una delle principali componenti della cultura nazionale. «L’azione pubblica tra fine ‘800 e inizio ‘900 nasceva dall’impulso dei cattolici: si pensi alle società di mutuo soccorso; alle cooperative di risparmio, alle casse popolari, ai sindacati di lavoratori cristiani», spiega Martí. «E anche se l’educazione del mio paese è assolutamente laica, storicamente, le scuole delle congregazioni gesuite e domenicane sono state fondamentali, molti presidenti passarono da quelle aule», afferma lo storico.

Politicamente, non vi è un partito cattolico di riferimento, vi sono settori cattolici nei partiti tradizionali, nel partito conservatore blanco soprattutto. Ma anche tra i colorados e il Frente amplio, nato nel 1971 grazie al contributo della Democrazia cristiana e della gioventù cattolica di sinistra. E anche tra i guerriglieri tupamaro c’erano cattolici.

Durante la dittatura, la Chiesa divenne uno spazio di militanza e mobilitazione sociale contro il regime, grazie all’impegno del clero e dei fedeli. A differenza dell’Argentina, qui le gerarchie non supportarono i militari: l’arcivescovo Carlos Parteli di Montevideo fu – discreto ma inarrestabile – una spina nel fianco della dittatura. Marcelo Mendiharat, vescovo della diocesi di Salto, fu perseguitato e se ne andò in Argentina, altri sacerdoti furono perseguitati come oppositori alla dittatura. Le parrocchie aprirono le porte agli incontri politici, in un’epoca in cui sindacati e partiti erano vietati. Fu in quei saloni che crebbe una parte della classe dirigente del Frente amplio. «Un quarto dei deputati del Fa sono cristiani, alcuni cattolici altri evangelici. Si riconoscono come militanti cristiani. Javier Miranda, presidente del Fa, figlio di un comunista desaparecido, è cresciuto in un collegio gesuita e spesso afferma che la sua militanza si deve alla sua formazione religiosa», spiega Martí.

«Durante i cacerolazos contro la dittatura, le chiese facevano suonare le campane a sostegno della protesta. Nel 1983, nel salone della chiesa Los Capuchinos San Antonio y Santa Clara, nel centro di Montevideo, si tenne uno sciopero della fame per la scarcerazione di Adolfo Wassen, dirigente tupamaro affetto da un cancro mortale, perché potesse passare in casa gli ultimi giorni della battaglia contro la malattia», mi racconta Martin, maestro di yoga e cattolico.

Offerta durante una cerimonia dell’Umbanda celebrata sulla spiaggia Ramírez, a Montevideo. Foto Mauricio Zina.
20200202 – Mae Susana de Oxum realiza una ofrenda a la diosa de Umbanda Iemanjá en la Playa Ramírez de Montevideo, Uruguay

Pro o contro Francesco

Il rinnovamento della Chiesa con il Concilio Vaticano II (1962-1965) trovò terreno fertile in Uruguay, dove già da inizio Novecento si anticipavano alcune delle conclusioni del Concilio, in particolare l’idea di una «Chiesa vicina ai bisognosi e lontana dal potere». Spiega Martì: «Negli anni Sessanta, la gioventù cattolica, l’Azione Cattolica in particolare, era molto attiva nel sociale ed era molto progressista, il Concilio formalizzò questo impegno». E, all’epoca, non mancavano i preti operai «come il mio, nel quartiere la Blanqueda, che lavorava in fabbrica perché non voleva essere mantenuto dalla Chiesa», ricorda Martin.

Quella che si conosce come teologia della liberazione, in Uruguay ha diversi esponenti, tutt’ora in gran forza. E genera diffidenza verso chi, come Eduardo Murias, vive la fede in maniera diversa. Un punto di dissidio tra i fedeli è la figura di Francesco. Il papa argentino qui divide: «A volte lo chiamo Bergoglio, non Francesco, mi viene difficile riconoscerlo come papa. Non lo critico, ma le sue posizioni teologiche mi generano confusione, non danno certezze a noi fedeli. E la Chiesa dev’essere di tutti, la sua figura ha diviso più che unire. In Argentina lo accusano di essere peronista, a me non interessa la politica, mi chiedo però perché stia cambiando le nostre tradizioni liturgiche», si anima Eduardo e aggiunge: «La Chiesa è di tutti. Io vengo dalla tradizionale spiritualista, ma ho fatto molte azioni per i più deboli. Non voglio vivere in una Chiesa di soli seguaci della teologia della liberazione. Per me la fede è azione e preghiera insieme».

A Murias piacerebbe una Chiesa meno legata al prete e con più attivismo dei fedeli, «come dice Francesco», afferma, dopo aver chiarito le sue critiche al papa. «Durante la pandemia, ho fatto molto volontariato e la gente l’ha apprezzato, adesso alcuni vengono in chiesa con me. Per superare la diffidenza verso il cattolicesimo, bisognerà sviluppare di più l’impegno dei fedeli e non aspettare le iniziative del prete. Ci sono pochi movimenti di base, bisognerebbe rafforzarli». E bisognerebbe «sanzionare con forza i preti che commettono violenze sessuali, non solo cambiarli di parrocchia», continua Eduardo, riferendosi ai recenti scandali che hanno riguardato abusi sui minori nella chiesa di Minas. «Siamo una iglesia chica e molte cose si sanno prima che scoppino gli scandali, la vox populi corre più della giustizia ordinaria. La nostra è una Chiesa apatica che non ha preso le dovute misure in tempo», critica Eduardo. Bisognerebbe «dare ai preti la formazione adatta sul voto del celibato. Ricordo che quando ero in seminario, un prete spagnolo ci disse che quando incrociavamo una bella ragazza per strada, dovevamo cambiare marciapiede. Ma non si può scappare tutta la vita», conclude Eduardo.

Federico Nastasi

Daniel Manuelian, a Casa Armenia, nel quartiere Prado, a Montevideo. Foto Mauricio Zina.
20210304 – El Presidente de la Colectividad Armenia Daniel Manuelian, posa para un retrato en la Casa Armenia del barrio Prado en Montevideo, Uruguay

La comunità armena

Uruguay, un paese accogliente

«Sono armena», mi dice con il suo spagnolo rioplatense Silvana, una libraia della Ciudad Vieja di Montevideo. Silvana, benché sia nata in Uruguay, non parli armeno e non abbia mai messo piede in Armenia, ci tiene alla sua identità. E come lei ci sono circa quindicimila armeni nel paesito, grati all’Uruguay per essere stato il primo paese al mondo ad avere riconosciuto il «Medz Yeghern», il genocidio armeno, con una legge nel 1965.

Tra il 1915 e il 1916, l’Impero ottomano, guidato dal governo dei «Giovani Turchi», pianificò e realizzò la deportazione della popolazione armena dal proprio territorio, autorizzata con la legge Tehcir del 29 maggio 1915, provocando la morte di un milione e mezzo di armeni. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 a Costantinopoli, con un’operazione che decapitò l’intellighenzia armena, più di mille tra giornalisti, scrittori, poeti, delegati al parlamento, furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada. Nelle marce della morte, che coinvolsero 1,2 milioni di persone, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento. I maschi delle famiglie, adulti e bambini, vennero trucidati, e le donne trascinate attraverso atroci marce forzate e campi di prigionia.

Malgrado l’esodo e le prove fotografiche che testimoniano l’accaduto, la Turchia non riconosce quello che molti storici definiscono il primo genocidio moderno, basato sulla programmazione «scientifica» dello sterminio.

Nel 2016, in occasione del centenario del genocidio, papa Francesco ha visitato l’Armenia, condannando il genocidio e ha pregato per evitare che questa tragedia possa ripetersi. Durante la visita a Erevan, ha sottolineato come la memoria possa essere «fonte di pace» per portare i due paesi sulla strada della riconciliazione.

Il paese che chiedeva migranti

«Negli anni ‘20 e ‘30, l’Uruguay faceva propaganda pro immigrazione: arrivarono italiani, spagnoli, e anche sette-ottomila armeni. Partivano dal Libano, dalla Francia o dalla Siria. Erano cresciuti negli orfanotrofi, poiché il genocidio si era già perpetrato. «Erano smarriti, non avevano idea di dove fossero arrivati, non avevano niente in mano», spiega a MC Diego Karamanukian, intellettuale della comunità armena di Montevideo, che parla un perfetto armeno e dirige Radio Arax, programma radiofonico di cultura armena.

Com’è possibile che dopo un secolo dal genocidio, quattro generazioni e 13mila chilometri di distanza dal luogo degli avvenimenti, l’identità armena sia ancora così forte sulla sponda nord del Rio de La Plata? «Sono cresciuto con i racconti di terrore di mia nonna, che è stata serva di una famiglia turca. Arrivò qui non per cercare lavoro, ma per non farsi ammazzare. Curare questa identità è una reazione al genocidio e al negazionismo che dura tutt’ora», spiega Daniel Manuelian. Lui e Diego sono dirigenti di Hnchakian, il partito socialdemocratico armeno presente in molti paesi, tra cui Libano, Usa e anche Uruguay. Per questa intervista, ci ricevono a Casa Armenia, un bell’edificio con giardino nel quartiere residenziale del Prado, nella parte Ovest di Montevideo. È sede del partito, luogo di cultura, sport e feste.

«È incredibile pensare come un gruppo di persone, arrivate coperte solo di stracci, in poco tempo non solo trovò lavoro e mise su famiglia, ma organizzò la comunità, fondò scuole, chiese, associazioni, giornali, radio, cori, festival musicali. Così curarono l’identità perseguitata dall’Impero ottomano, la misero in salvo dall’oblio», ragiona con orgoglio Diego, descrivendo l’attività dei primi armeni di Uruguay. «Sono arrivati sapendo che non c’era un biglietto di ritorno, hanno costruito qui la patria che avevano perso. Si sono riuniti attorno al centro di Montevideo, dove c’erano le industrie. E forse c’è anche una ragione geografica e nostalgica: andarono lì perché cercavano le montagne del loro paese», continua Diego. I primi arrivati, all’inizio, lavoravano come operai, in attività che non richiedevano la conoscenza dello spagnolo. Poi, si dedicarono ai piccoli commerci e alle botteghe, agli almacenes. Nei vecchi edifici nella parte occidentale della città, ci sono ancora insegne in spagnolo e armeno. L’ex presidente Tabaré Vazquez raccontava che nel suo quartiere, La Teja, la sua famiglia, in un periodo di ristrettezze, aveva ricevuto aiuto e cibo da un commerciante armeno.

«Qui gli armeni si sono fatti volere bene e hanno contribuito alla costruzione del paese. Non ci siamo ghettizzati, al contrario. Prima di tutto siamo armeni, ma siamo uruguaiani: tifiamo Nacional e Peñarol (i due club di calcio più seguiti del paese, ndr), abbiamo visto l’Uruguay due volte campione del mondo. La nostra cucina si è mescolata con quella uruguaiana: qui puoi mangiare un buonissimo lehmeyun (una specie di pizza armena, ndr) con aggiunta di mozzarella locale. Abbiamo ricevuto accoglienza e riconoscimento: a Montevideo si può passeggiare su Rambla Armenia, ci sono monumenti e targhe che ricordano il genocidio, e il 24 aprile è il Giorno della Memoria. Se in Armenia dici che sei uruguaiano, ti si aprono le porte», spiega Diego.

Difendere l’identità armena

«È il negazionismo che mi fa rabbia. Io sono la prova viva del genocidio. Se non ci fosse stato, semplicemente non sarei qui. Me lo ha spiegato uno psicologo: ci teniamo così tanto alla nostra identità perché il nostro è un trauma non riconosciuto», racconta Daniel. Ma oggi l’identità della comunità in Uruguay è a rischio: «Mio figlio non parla l’armeno, non si interessa molto alla storia, non vive il mio stesso trauma. Ma se per strada gli gridano “armeno” si gira. È la quarta generazione, l’identità col tempo si perde», confessa un po’ sconsolato Daniel.

«In Libano, Turchia, Siria, l’identità armena si mantiene attraverso la religione cristiana ortodossa: essere armeni è un modo per non essere musulmani. Qui in Uruguay, un paese così laico, il tema religioso non è conflittuale. Quindi, è più difficile curare l’identità», ragiona Diego. Che prosegue un po’ sconfortato: «La lingua è un problema, è difficile, pochi la parlano e pochissimi la insegnano, non si parla più in famiglia». Ma poi ha un guizzo: «A volte la curiosità risorge. C’è chi segue corsi online di armeno, adesso c’è anche un corso universitario. E poi, con internet, molti seguono le notizie dell’Armenia, come adesso con il conflitto del Nagorno Karabakh. Si sta affievolendo l’identità, ma non scomparirà. L’identità è volontà», conclude con un po’ di speranza.

Federico Nastasi

L’entusiasmo di un gruppo di tifosi della nazionale. Foto Jimmy Baikovicius.

Il calcio, una religione laica

È celeste il colore della passione

In Uruguay, il calcio è una vera religione laica. Lo gioca chiunque, ovunque, con qualunque clima, a qualunque ora. Anche per questo un paese tanto piccolo ha mietuto successi.

Viaggiando per l’Uruguay, un giorno sono arrivato a Mercedes, un paese sulla riva del Rio Negro, il fiume che fa da frontiera con l’Argentina. Pochi giorni prima, il fiume aveva esondato e rimaneva fango e acqua stagnante sulla sponda, attrezzata con panchine, altalene e (naturalmente) griglie per la carne. Quella volta mi sono incantato a fissare una partita di pallone, zaini per terra a indicare le porte, undici contro undici con l’acqua fino alle caviglie.

Il calcio è la vera religione dell’Uruguay, lo gioca chiunque, ovunque, con qualunque clima, a qualunque ora. Così si spiega come un paese così piccolo abbia vinto due Coppe del mondo (1930 e 1950) e due medaglie dei Giochi Olimpici (1924 e 1928), quattro trofei come le stelle che la Celeste, la nazionale uruguaiana, espone sulla maglia. Dal paesito provengono campioni in ogni epoca, da Juan Alberto Schiaffino – campione del mondo nel 1950 con l’Uruguay e titolare anche della nazionale italiana – a Luis Suarez, centravanti dell’Atletico Madrid e massimo realizzatore con la nazionale. È la Celeste che accende la passione degli uruguaiani, quando finalmente possono vedere tutti insieme i loro campioni, normalmente impegnati nei club europei. Da quindici anni, alla guida della nazionale c’è Óscar Tabárez, detto il Maestro, ex insegnante di scuola e filosofo del pallone. Lui ha costruito un modello di selezione di giovani campioni (El proceso) che ha permesso la crescita costante degli atleti, dalle giovanili, fino all’affermazione in nazionale. Il suo motto, «il cammino è la ricompensa», esemplifica la dedizione e la passione grazie alla quale è diventato l’allenatore di nazionale più longevo del mondo.

Ed è nel paesito che si è giocata la prima edizione della Coppa del mondo, al Estadio Centenario, nel 1930. Oggi lo stadio ospita il Museo del calcio che, insieme ai cimeli delle imprese della Celeste, mostra i numeri della passione: 598 club di calcio per bambini con 60mila aderenti, si giocano duemila partite a settimana, recita un tabellone con malcelato orgoglio.

Di recente, la passione si è diffusa anche tra le donne. Jessica, trentenne funzionaria del ministero della Cultura, mi racconta che da bambina le piaceva giocare a calcio, ma negli anni ’90 non era ben vista una bimba con gli scarpini e dovette rinunciare. Oggi finalmente si possono osservare partite di calcio femminile sulla rambla e l’Uruguay ha ospitato il mondiale under-17 di calcio femminile nel 2018.

Un’immagine storica del «Maracanazo» quando l’Uruguay sconfisse per 2 a 1 i padroni di casa del Brasile nella finale della Coppa del mondo, a Rio de Janeiro (16 luglio 1950).

Il calcio e la dittatura

Le vicende calcistiche si legano anche alla storia politica del paese. Nel 1980, l’Uruguay ospitò il Mundialito, un torneo a inviti per le sei nazionali vincitrici della Coppa del Mondo. Ad un mese dall’inizio del torneo, il 30 novembre, si svolse un referendum costituzionale, che nelle intenzioni dei militari avrebbe dovuto legittimare il governo dittatoriale di Aparicio Méndez. Il risultato fu sorprendente: la giunta al potere fu sconfitta. La dittatura cercò di evitare che il torneo si trasformasse in un megafono per l’opposizione, provando a strumentalizzarlo a proprio favore, secondo l’esempio di due anni prima offerto dalla giunta militare di Videla con i mondiali argentini. Al Mundialito, l’Uruguay giocò alla grande, superò l’Italia di Bearzot per 2-0, e in finale incontrò il Brasile. Si ripeteva una sfida epica, con lo storico precedente del campionato del mondo 1950, il Maracanazo, che vide la Celeste festeggiare la sua seconda Coppa del mondo, e la Seleção vivere una delle sue peggiori tragedie sportive. Anche al Mundialito, la Celeste uscirà vincitrice per 2-1 contro un Brasile di campioni, guidato da Santana. E la dittatura militare, perso il referendum e fallito il tentativo di strumentalizzazione del torneo, si avviò sul viale del tramonto, sancito con il ritorno della democrazia quattro anni dopo.

Panoramica sullo stadio del Centenario, a Montevideo. Foto Rodrigo Soldon.

Una passione interclassista

Al calcio è dedicato Splendori e miserie del gioco del calcio, uno dei libri più famosi di Eduardo Galeano, nel quale si chiede: «In cosa il calcio rassomiglia a Dio? Nella devozione dei suoi fedeli, nello scetticismo di molti intellettuali».

Nel paesito, a dire il vero, la passione per il pallone è interclassista e negli stadi si mescolano persone di ogni origine. «L’Uruguay è uno di quei paesi dove dovrebbero mettere delle porte di calcio alle frontiere. Al visitatore sarebbe chiaro che quel paese altro non è che un gran campo di football con l’aggiunta di alcune presenze accidentali: alberi, mucche, strade, edifici», ha scritto l’argentino Jorge Valdano. Ripensando alla partita vista sul lungofiume di Mercedes, con la palla che neanche rimbalzava nel prato zuppo d’acqua, credo che Valdano avesse proprio ragione.

Federico Nastasi

Un momento di Uruguay-Messico, Coppa America 2011. Foto Sam Kelly.

Archivio MC

Hanno firmato questo dossier:

Federico Nastasi – dottorando in economia, ricercatore presso il Cepal (Comisión económica para América Latina), giornalista indipendente. Vive in America Latina, tra Montevideo e Santiago del Cile, collaborando con radio, riviste, quotidiani in italiano e spagnolo. Ha raccontato il referendum cileno con la newsletter «Plaza Dignidad – Lettere dal Cile». È alla sua seconda collaborazione con MC dopo il dossier Cile dello scorso marzo.

A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.

Due bambine a cavallo alla «Rural del Prado», a Montevideo. Foto Mauricio Zina.
20190420 – Niñas montan un caballo durante la Rural del Prado en Montevideo, Uruguay




I Perdenti 26. Anita Garibaldi


Anita nacque in Brasile, a Morrinhos nello stato di Santa Catarina, il 20 agosto 1821. Il suo nome completo era: Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, figlia del gaucho (mandriano) Bento Ribeiro da Silva e di Maria Antonia de Jesus Antunes che ebbero tre figlie e tre figli. Battezzata Ana, era chiamata in famiglia Aninha, diminutivo di Ana in portoghese. Sarà in seguito Garibaldi ad attribuirle il diminutivo spagnolo di Anita, con il quale noi la conosciamo. Negli splendidi panorami della sua terra e nelle ampie distese della pampa imparò presto a cavalcare e sin dalla sua adolescenza dimostrò di avere un carattere forte e deciso. Nel 1834 la sua famiglia si trasferì nella cittadina di Laguna, sempre nello stato di Santa Catarina, dove purtroppo pochi anni dopo trovarono la morte il padre e i tre fratellini a causa di una epidemia di tifo. Un suo zio, al quale dopo la morte del padre si era molto affezionata, la iniziò agli ideali di giustizia sociale, in un paese governato con il pugno di ferro dai governatori dell’impero luso-brasiliano.

Nel 1835 scoppiò la rivolta dei farroupilha, ossia la rivolta degli straccioni. La sommossa popolare segnò profondamente l’animo di Anita, che guardava con ammirazione i ribelli, sognando di poter un giorno compiere le loro stesse gesta. Il 22 luglio 1839, i rivoltosi conquistarono la città, e gran parte degli abitanti di Laguna si recarono in chiesa per intonare un Te Deum di ringraziamento al Signore, tra loro c’era Anita. Fu in quell’occasione che vide per la prima volta Giuseppe Garibaldi, presente insieme agli altri protagonisti della rivoluzione. Il giorno seguente i due si incontrarono di nuovo, lui la fissò intensamente e le disse: «Tu devi essere mia». Da quel momento Anita sarebbe diventata la compagna fidata di tutte le battaglie di Garibaldi e la madre dei suoi figli.

Anita, sembra quasi che sin dalla più tenera età tu fossi destinata ad avere un ruolo da protagonista sia nella storia del Brasile e dell’Uruguay come nella storia del Risorgimento italiano…

Il merito va tutto a mio zio Antonio, che dopo la morte del mio povero babbo mi prese sotto la sua protezione, insegnandomi fin da bambina ideali di libertà e giustizia. Egli seppe trasmettermi il suo atteggiamento responsabile di fronte ai problemi sociali che andavano delineandosi, facendomi capire che non si poteva rimanere neutrali di fronte ai soprusi che venivano compiuti dai prepotenti di turno.

Ma il tuo non fu un atteggiamento di semplice simpatia e di sostegno solo teorico verso i più deboli…

Una volta assunta la causa degli oppressi, passai subito nelle truppe degli insorti e insieme ad altre donne del popolo combattemmo al fianco dei nostri uomini. Il compito a cui più spesso ero assegnata era quello di difendere le casse di munizioni, sia durante gli attacchi navali che negli scontri a fuoco che si susseguivano a terra.

Ma il 12 di gennaio del 1840, nella battaglia di Curitibanos, fosti fatta prigioniera dalle truppe imperiali luso-brasiliane…

Già, ma il comandante commise un errore fatale, in quanto mi concesse di dare sepoltura ai cadaveri dei miei compagni rimasti sul campo di battaglia. Io, approfittando di un momento di distrazione delle guardie, afferrai un cavallo e riuscii a fuggire.

Quell’anno fu particolarmente importante per te e per il tuo Giuseppe, che voi chiamavate Josè.

Direi proprio di sì. Il 16 settembre 1840 nacque il nostro primo figlio al quale demmo il nome di Domenico. Sarebbe stato chiamato Menotti per tutta la sua vita, in onore del patriota modenese Ciro Menotti.

Poche settimane dopo il parto, tu Anita riuscisti a sfuggire avventurosamente a una nuova cattura.

I soldati imperiali avevano circondato la nostra casa e ucciso gli uomini lasciati da Garibaldi per la difesa, cercando di farmi prigioniera, ma io, con mio figlio in braccio, saltai da una finestra, montai a cavallo e fuggii nel bosco. Rimasi nascosta nel fitto della boscaglia per quattro giorni, con il neonato al petto, finché Garibaldi e i suoi mi ritrovarono. Dovevi vedere con che tenerezza il mio Josè portava il piccolo Menotti in un foulard a tracolla riscaldandolo con il calore del suo corpo durante la ritirata nella sierra.

Però gli avvenimenti si susseguivano implacabili: nel 1841, essendo divenuta ormai insostenibile la situazione militare della rivoluzione brasiliana, tu e Garibaldi prendeste congedo da quella guerra e vi trasferiste a Montevideo, capitale dell’Uruguay.

Quella che doveva essere una tappa passeggera della nostra vita si trasformò in un’avventura che segnò non poco le nostre esistenze. In Uruguay restammo sette anni, durante i quali Garibaldi si guadagnò da vivere per mantenere la nostra famiglia impartendo lezioni di francese e di matematica.

A Montevideo coronaste anche religiosamente il vostro legame di vita.

È vero, il 26 marzo 1842 ci sposammo nella parrocchia di San Francesco d’Assisi. Nel 1843 nacque Rosita, che purtroppo morì a soli 2 anni, nel 1845 Teresita e nel 1847 Ricciotti quarto e ultimo figlio.

Al di là delle vostre vicissitudini familiari, pensi che l’esperienza latinoamericana, vissuta in modo così intenso da Garibaldi, vi abbia preparato a vivere il Risorgimento italiano?

Penso proprio di sì. Le vicende vissute dal mio Josè in Sud America hanno dell’incredibile. La sua epopea latinoamericana durò una dozzina d’anni di cui sette in Uruguay e cinque in Brasile. In Uruguay erano gli anni della guerra civile (1840-1852), che vide il Blancos (sostenuti dall’Argentina) e Colorados (sostenuti da francesi e inglesi) combattere sanguinose battaglie. Garibaldì formò e comandò la legione italiana schierata con i Colorados. Tutto questo senza mai rinunciare alla tenerezza reciproca, all’affetto della famiglia e alla nostra love story.

È per l’impegno profuso in quegli anni che poi Garibaldi si guadagnò la nomea di «Eroe dei due mondi».

Sì, si può dire che Garibaldi, in Brasile prima e in Uruguay poi, fu un condottiero muy valiente. Le sue vittorie militari si realizzarono per terra (tra scontri campali e ardite azioni di guerriglia) e per mare (fu ufficiale della marina uruguaiana sul Rio de la Plata e nei fiumi che lo generano). Era ai nostri occhi un vero libertador di stampo sudamericano, casualmente nato a Nizza.

Però nel 1848, alla notizia delle prime rivoluzioni europee, il tuo Josè nonostante le lusinghe che gli facevano i governanti uruguayani affinché rimanesse, ti imbarcò con i figli su una nave diretta a Genova con destinazione finale Nizza dove fosti ospitata da sua mamma, mentre lui si fermò per sistemare le ultime cose e vi raggiunse con un altro bastimento qualche mese più tardi.

L’accoglienza che ci riservò la mamma di Josè fu straordinaria, l’abbraccio che diede a me e ai suoi nipoti era carico di amore e tenerezza. Ospitati nella sua casa attendemmo di settimana in settimana l’arrivo di Garibaldi, ma quando lui giunse, accompagnato da un sessantina dei suoi legionari, si fermò poco tempo. Infatti avevano portato la notizia che il 9 febbraio 1849 a Roma era stata proclamata la Repubblica Romana, ed egli voleva raggiungere la città eterna con un corpo di volontari che erano subito accorsi per mettersi ai suoi ordini.

E tu lo seguisti?

Qualche tempo dopo decisi di raggiungerlo. Arrivai a Roma in tempo per assistere alla sconfitta che i volontari romani guidati da Garibaldi fecero subire ai francesi. Purtroppo in quella battaglia restarono sul terreno centinaia di morti. A seguito di quello scontro venne stabilita dalle due parti una tregua con scadenza il 3 giugno. In realtà i francesi stavano preparando una trappola per guadagnare tempo e fare arrivare altri rinforzi.

Quindi che successe dopo?

Quando ripresero i combattimenti, la superiorità francese era evidente a tutti e, nonostante la strenua resistenza dei volontari italiani sul Gianicolo, a poco a poco le forze della Repubblica Romana persero terreno, finché il 4 luglio 1849, venne decisa la resa.

Garibaldi però non si arrende e decide di andare con tutti coloro che intendevano seguirlo a Venezia che ancora resiste agli austriaci. Sebbene inseguito dai corpi di spedizione di quattro eserciti inviati dalla Francia, dalla Spagna, dall’Austria e dal Regno delle due Sicilie, Garibaldi riesce a condurre in salvo i suoi uomini nel territorio straniero di San Marino dove scioglie la sua brigata di volontari. Anita in quei giorni è febbricitante e, sebbene incinta, segue il marito a cavallo. Lo segue anche nella cavalcata verso Cesenatico. Quando vi giunge è letteralmente consumata dalla febbre. Garibaldi con duecento seguaci cerca di raggiungere Venezia con delle imbarcazioni da pesca. Ma le navi austriache che controllano il litorale adriatico impediscono di proseguire. Alcune barche si arrendono, altre si avvicinano a terra. Tra queste quella di Garibaldi e Anita, che cercano di sfuggire agli austriaci che li cercano. I garibaldini si sparpagliano su strade diverse per sfuggire alla caccia dei soldati austriaci e dei gendarmi pontifici.

Garibaldi rimane solo con Anita e con il fedelissimo Capitano Leggero. Nelle valli di Comacchio i fatti precipitano. La donna perde conoscenza. Pur braccati dai nemici, Garibaldi e Leggero con l’aiuto di amici fidati caricano Anita su una piccola barca e poi, su un vecchio materasso, la trasportano nella fattoria Guiccioli in località Mandriole di Ravenna, dove cercano disperatamente di rintracciare un medico, il quale accorre immediatamente ma può solo constatare che Anita è spirata: è il 4 agosto 1849. Anita non ha ancora ventotto anni. La sua avventura umana, storica e sentimentale accanto a Giuseppe Garibaldi è durata appena undici anni.

Don Mario Bandera


Errata-corrige: la foto a pagina 72 MC non rappresenta Garibaldi e Anita, ma Garibaldi con la seconda moglie, Francesca Armosino, che gli diede tre figli.