Dall’assassinio del presidente Jovenel Moise la crisi «multidimensionale» non ha fatto che aggravarsi. Oggi il Paese è in mano alle bande armate. La comunità internazionale cerca soluzioni improbabili, senza interpellare i diretti interessati. Come sempre.
«La situazione è molto complicata e ancora più preoccupante. Ci sono i banditi un po’ ovunque, e sparano. In effetti è come una situazione di guerra». Chi parla è Nicolas Pierre Louis, leader contadino dell’organizzazione Tèt kole ti paysan (Tktp) che abbiamo raggiunto telefonicamente. Si trova nella cittadina Pétite Rivière dell’Artibonite, importante snodo nella valle omonima, la più grande area pianeggiante di Haiti, nota per la produzione di riso, alimento base della popolazione.
«È una situazione catastrofica – prosegue -. I contadini della valle non sono più in grado di produrre, perché i banditi hanno occupato le loro terre, inoltre hanno rubato loro gli animali (vacche, capre, maiali che le famiglie usano come salvadanaio, da vendere in caso di bisogno, ndr). E se avevano un mulino, sovente è stato smontato e rubato. I contadini delle montagne hanno difficoltà simili e di approvvigionamento di qualsiasi cosa». Ma rilancia: «La popolazione rurale c’è, resiste, ma la situazione è estremamente critica».
Nicolas ci conferma che in alcuni importanti comuni della valle, come Pétite Rivière, L’Estère, Liancourt, le gang controllano il 100% del territorio.
«Se si ha del prodotto da vendere, è molto difficile raggiungere i mercati o le città, perché tutte le strade sono controllate dai banditi che, come minimo, chiedono un pedaggio. Sovente si utilizzano le moto per arrivare a destinazione attraverso strade secondarie. Ma è più complicato».
In senso inverso, le merci di ogni tipo che arrivavano dalla capitale Port-au-Prince, prima fra tutte la benzina, incontrano la stessa difficoltà per giungere nelle città di provincia, «così si è creata una iperinflazione, ovvero un forte aumento dei prezzi di tutti i beni per il consumatore finale».
Trenta mesi disastrosi
Negli ultimi trenta mesi il paese dei Caraibi ha visto la situazione sociopolitica ed economica degradarsi progressivamente.
Il 7 luglio 2021 il presidente Jovenel Moise è stato assassinato nel suo letto da un commando di mercenari, molti dei quali ex militari colombiani. I paesi «amici» (il virgolettato è d’obbligo), ovvero Usa e Canada, hanno subito appoggiato la presa di potere da parte di Ariel Henry, primo ministro designato da Moise pochi giorni prima dell’assassinio, ma mai investito, il quale ha costituito il suo governo «de facto». Henry è dello stesso partito di Moise, Partito haitiano tèt kale (Phtk), e ha scartato l’opzione di una coalizione proposta da altri partiti e organizzazioni sociali (nota come il Consenso di Montana, dal nome dell’hotel dove è stato firmato), che chiedeva una transizione consensuale tra tutte le parti in causa (partiti politici, organizzazioni sociali, ecc.).
Occorre ricordare che Moise aveva accuratamente evitato ogni tipo di elezione (le ultime nel novembre 2016 lo avevano portato alla presidenza), da quelle amministrative locali a quelle parlamentari, portando a scadenza ogni carica elettiva e concentrando su di sé gran parte del potere. Stava pure tentando di modificare la Costituzione.
Dopo la sua morte, le gang, gruppi di banditi organizzati e ben armati, hanno preso il sopravvento su un Governo debole e inconcludente.
Rapimenti, assassinii e violenze di ogni genere contro la popolazione sono aumentati in modo vertiginoso (secondo l’Onu nel 2023 ci sono stati 5mila omicidi, 2.490 rapimenti, centinaia di feriti). Le gang, forti di armamenti moderni e continui rifornimenti di munizioni, sono cresciute fino a controllare gran parte della capitale (compreso il centro e i quartieri popolari) e le principali vie di accesso ad essa.
La polizia nazionale (Pnh) non riusciva a contrastarli, così nell’ottobre del 2022 il premier Henry ha chiesto in aiuto una forza internazionale.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 2 ottobre 2023, tramite una risoluzione, ha dato il via libera alla creazione di una Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas). Stati Uniti e Canada non volevano però invischiarsi nell’operazione, visto il contesto mondiale complesso e le elezioni Usa in avvicinamento, oltre a un passato di esperienze fallimentari. Per questo motivo hanno fatto pressioni sul Kenya affinché guidasse tale missione, che sarà finanziata dagli Usa con oltre 120 milioni di dollari. Altri paesi, come il Benin e alcuni Stati caraibici sarebbero disponibili, per un totale di circa 4mila effettivi.
Accelerazione
Nel costante deterioramento della situazione della sicurezza, a inizio 2024 il Governo non aveva fatto alcun progresso, e Ariel Henry, il cui mandato avrebbe dovuto scadere il 7 febbraio (secondo un accordo tra alcuni attori politici e sociali, il Consenso nazionale di transizione, raggiunto il 21 dicembre 2022) non voleva affatto dimettersi.
La popolazione, allora, è scesa in piazza nel mese di gennaio per chiedere le sue dimissioni bloccando le attività del Paese fino a inizio febbraio.
Intanto le gang – una costellazione di gruppi, ognuno con il suo capo carismatico, un territorio di riferimento e spesso in lotta tra loro – sono riuscite a creare una grossa federazione, intorno a un portavoce, l’ex poliziotto Jimmy Cherizier, detto Barbecue.
Questo è stato un passaggio fondamentale, perché la coalizione delle gang, chiamata Viv ansamm (vivere insieme, in creolo), il 29 febbraio ha lanciato un attacco senza precedenti ai palazzi delle istituzioni pubbliche e alle infrastrutture strategiche (porti, aeroporti, posti di polizia e due carceri, facendo fuggire migliaia di detenuti), ma anche a strutture della Chiesa e della sanità.
In quel momento il premier Henry era in Kenya per firmare un accordo quadro che avrebbe consentito al Paese africano di guidare la Mmas.
Ma sono proprio i poliziotti stranieri che le gang non vogliono, e Barbecue in un’uscita di grande impatto mediatico, durante un’intervista, ha minacciato: «Se Henry non si dimetterà e se la comunità internazionale continuerà a sostenerlo, andremo dritti verso una guerra civile e un genocidio». Affermazione che segna un cambio di livello: le gang da esecutori, si traformano in attore politico attivo. Gli Stati Uniti, infatti, voltano le spalle al «loro» premier e il 5 marzo gli chiedono di dimettersi. Henry, trattenuto a Porto Rico (protettorato Usa), infine accetta e fa un passo indietro l’11 marzo.
Intanto c’è una riunione d’urgenza del Caricom (Organizzazione dei paesi dei Caraibi) su Haiti, in Giamaica, a cui partecipano anche Usa (con Antony Blinken), Canada, Francia e Unione europea. Ma senza la presenza di Henry (trattenuto a Porto Rico) né di una delegazione haitiana. Il gruppo decide che il Paese sarà guidato da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto da sette membri e due osservatori, e dovrà essere espressione dei diversi settori politici e sociali del paese. Il Cpt, dopo lunghe trattative tra settori haitiani, si insedia il 25 aprile, con gli ambiziosi obiettivi di riportare la sicurezza e organizzare le elezioni. Il suo mandato non può andare oltre il 7 febbraio 2026.
Chi tira le fila
Allo stato attuale delle cose, chi ha il controllo reale del Paese, sono le gang grazie alle armi. In un quadro nel quale le istituzioni sono assenti e quelle provvisorie sono deboli e non legittimate.
Le gang sono presenti ad Haiti da fine anni Ottanta, ma – come detto – sono oggi diventate un attore imprescindibile nel quadro haitiano.
Abbiamo chiesto il parere a un militante sindacale, che ci ha chiesto l’anonimato per motivi di sicurezza: «Sono le grandi famiglie dell’oligarchia haitiana che hanno armato le gang e le riforniscono di munizioni. Ma anche i politici che chiamiamo granmanje (corrotti), i grandi senatori, deputati, sindaci. Hanno creato le gang per difendersi e difendere le proprietà dell’oligarchia (qui si intendono poche grandi famiglie haitiane, ndr) e dei grandi latifondisti. Si noti, infatti, che questi non vengono mai attaccati. Le gang, di fatto, combattono contro la popolazione, sono presenti per impedire la mobilitazione popolare contro il Governo».
I banditi controllano i quartieri popolari impedendo che la gente vada a manifestare. Negli ultimi mesi sono oltre 340mila gli haitiani sfollati a causa delle violenze e degli scontri tra bande criminali, mentre sono cresciuti gli omicidi, i rapimenti e gli stupri. Le sparatorie nei quartieri sono quotidiane.
«Ci sono deviazioni e contraddizioni interne – continua -. Ad esempio, alcune fazioni delle classi dominanti foraggiano le gang, mentre il Cpt (espressione sempre delle classi ricche, ndr) si oppone alle stesse gang, perché deve riportare la sicurezza. Ma è la popolazione che deve lottare contro questi banditi, in modo organizzato».
Quando gli chiediamo se si potrebbe negoziare con i supposti leader, è chiaro: «No, occorre combatterli e deve essere il popolo a farlo».
L’ultima speranza
Abbiamo fatto la stessa domanda a padre William Smarth che raggiungiamo telefonicamente a Port-au-Prince. Sacerdote haitiano diocesano, associato con i padri dello Spirito Santo (Spiritani), è stato molto attivo nel movimento della società civile che portò Jean-Bertrand Aristide a vincere le elezioni del dicembre 1990, le prime democratiche dopo la cacciata di Jean-Claude Duvalier il 7 febbraio 1986.
«Non ci sono negoziazioni possibili con questi banditi. Se interviene una forza seria (si riferisce a una forza internazionale di polizia, ndr), la gente stessa aiuterà, perché la popolazione ha bisogno di liberarsi: è quella che subisce di più, anche se ci sono delle zone nelle quali i banditi distribuiscono del cibo».
Padre William si sfoga: «Non va per niente bene ad Haiti. I banditi imperversano. Il Cpt funzionerà? Speriamo di sì, se i partiti politici lo faranno funzionare, e se darà vita a un Governo di transizione. A livello della sicurezza la polizia da sola non può affrontare i banditi. Ma se ci fosse una forza multinazionale la potrebbe aiutare. Che non sia però una forza di occupazione, come quella Usa del 1915». E prosegue: «I banditi si sono sviluppati ulteriormente e continuano a ricevere munizioni dall’estero in grandi quantità. Io credo che negli Usa molti pensano che il Governo sarebbe capace di controllare questo commercio di armi verso Haiti. Ma è un grosso giro di soldi. E anche di droga (vedi box). La crisi profonda è anche economica. Mentre le scuole sono chiuse da settimane a Port-au-Prince».
L’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu (Ocha) ha dichiarato che 5,5 milioni di haitiani (su 11,7) sono in emergenza umanitaria e ha chiesto una raccolta di 674 milioni di dollari per intervenire. Ma questi basterebbero solo per 3,6 milioni di persone. Massima urgenza, quindi, per la sicurezza alimentare di due milioni di persone a rischio fame.
Marco Bello
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Un rapporto Onu spiega come si alimenta la crisi haitiana
Il «pane» della guerra
Un interessante rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite su droghe e crimine (Unodc), «Haiti’s criminal markets: mapping trends in firearms and drug trafficking», uscito nel 2023 aiuta a decifrare alcune cause della crisi haitiana.
Attualmente nel Paese ci sarebbero tra le 150 e le 200 gang, bande criminali, profondamente legate alle élite politiche ed economiche. Da fine anni Ottanta Haiti è un punto di snodo fondamentale del traffico di droga dai paesi produttori (Colombia per la cocaina e Giamaica per la cannabis) ai mercati di Usa e Canada, ma anche Europa. Negli ultimi anni si è intensificato il commercio illegale di armi da fuoco e munizioni, prevalentemente dagli Stati Uniti verso Haiti.
I due traffici incrociati spiegano lo sviluppo di uno «Stato criminale» ad Haiti.
I fattori ambientali
Secondo il rapporto Unodc, alcuni fattori hanno favorito i due traffici.
Una frontiera vasta e poco controllata: 1.771 km di coste e 392 km di frontiera terrestre con la Repubblica Dominicana. Un grande numero di porti e moli privati, strade e piste di atterraggio clandestine rendono il paese estremamente accessibile al contrabbando di ogni genere di merce.
La dipendenza del Paese dall’import implica un grande flusso di merci in arrivo. Per fare un esempio, nel campo alimentare Haiti potrebbe produrre tutto il riso necessario, ma a causa di politiche economiche e doganali che hanno sfavorito i produttori haitiani, oggi circa l’80% del riso è importato. Merci (legali) che sono prima smistate in altri porti nelle vicinanze (Bahamas, Giamaica, Panama) e poi sono portate ad Haiti su battelli più piccoli.
In aggiunta l’elevato grado di corruzione, a tutti i livelli, fa di Haiti uno dei paesi più corrotti al mondo.
Inoltre, le principali strade del Paese, da Nord a Sud, dalla Repubblica dominicana verso Port-au-Prince, sono oggi controllate dalle gang, che hanno in mano tutti i punti di accesso alla capitale.
Secondo il rapporto Unodc, a causa della scarsità dei controlli e la frammentazione, è facile inserire grossi volumi di droga e di armi e munizioni nel normale flusso di merci.
Armi e munizioni
Una stima del 2020 della Commissione nazionale per il disarmo, smobilitazione e reintegrazione parlava di 500mila armi leggere presenti nel Paese, di cui solo una piccola parte sarebbe detenuta legalmente (10-15%).
La maggioranza di queste armi sono importate illegalmente, tramite reti della diaspora haitiana e intermediari, in container che giungono via mare, via aerea o via terra, nascoste in camion e auto individuali attraverso la frontiera terrestre. Sono spesso mischiate a cibo, come fagioli, farina o riso. Le armi partono dalla Florida, passano da altri porti caraibici come Kingston (Giamaica) e ovviamente dalla Repubblica dominicana. Altre sono le armi e munizioni importate legalmente (come quelle fornite da Usa e Canada a supporto della polizia haitiana) ma poi deviate e immesse in circolazione sul mercato clandestino, grazie alla mancanza di controllo e alla corruzione.
Clamoroso è l’aumento del prezzo di un’arma che raggiunge il suolo haitiano: una pistola da 500 dollari può essere rivenduta ad Haiti a 10mila (venti volte il costo negli Usa). Fucili mitragliatori da guerra, molto richiesti dalle gang, raggiungono prezzi maggiori.
Questo ci fa capire quanto sia redditizio il traffico di armi e munizioni verso Haiti, e immaginare la vastità della rete di intermediari che può alimentare. Secondo il rapporto Unodc, in Florida esistono veri punti di concentrazione di armi recuperate sul territorio statunitense, che poi sono nascoste tra altra mercanzia e dirette verso Haiti.
Le autorità della Florida hanno osservato un incremento dal 2021 al 2022 del numero di armi che transitano illegalmente per raggiungere Haiti ma anche un aumento del loro livello di sofisticazione.
Un altro aspetto fondamentale è quello delle munizioni, che garantiscono l’utilizzo delle armi, dalle pistole ai fucili d’assalto, e quindi alimento al potere alla gang. Il rapporto Unodc cita alcuni sequestri: nel luglio del 2022, di 120mila cartuccere in un caso singolo e di 25mila caricatori in un altro.
Droga
Mentre per le armi e munizioni Haiti è un paese di destinazione, per la droga, in particolare cocaina e cannabis, si tratto di un paese di transito. In alcuni casi la droga diventa merce di scambio tra gruppi criminali e per acquistare armi.
La storia di Haiti è stata influenzata da questo traffico fino dalla cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, e l’avvento di governi militari. Da allora influenti politici e uomini d’affari, membri delle oligarchie haitiane, sono stati coinvolti nel traffico.
La cocaina prodotta in Colombia, arriva direttamente o attraverso altri paesi, come il Venezuela. Viene mischiata ad altre merci nei container o lanciata in mare nei pressi della costa in pacchi localizzabili con Gps, che sono poi raccolti da piccole imbarcazioni e portate a riva. Da qui passano via terra in Repubblica dominicana, oppure su altri mezzi per la Florida, le Bahamas o verso altre isole come Turks and Caicos.
L’assenza di un effettivo controllo delle coste (il corpo di guardacoste ha un solo battello funzionante, così anche il gruppo haitiano antidroga) e la mancanza di equipaggiamento tecnico, come gli scanner, da parte degli uffici della dogana, favoriscono il traffico. L’aumento di produzione di cocaina in Colombia e il maggiore controllo del territorio da parte delle gang sono altri fattori che hanno incrementato il transito attraverso Haiti.
L’anello debole
La Polizia nazionale haitiana (Pnh) è il punto debole della catena, nonostante abbia beneficiato di programmi di rinforzo da almeno tre decenni. Una valutazione della Binuh (Ufficio delle Nazioni Unite ad Haiti), ha recensito 13mila effettivi, di cui circa 9mila in servizio (fine 2022). Da confrontare con il personale delle compagnie di sicurezza private (circa un centinaio), stimato tra le 75 e le 90mila unità.
È dunque chiaro che occorre rinforzare l’apparato della polizia haitiana, il controllo delle frontiere, il personale di guardacoste e della dogana, oltre che fornire loro mezzi adeguati e moderni per lavorare.
Un intervento necessario per riportare sicurezza e stabilità ad Haiti, continua il rapporto Unodc, è il controllo del traffico di armi e di quello della droga. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oltre ad avere espresso preoccupazione per questi aspetti, ha evidenziato l’importanza di smantellare i collegamenti tra gli attori politici ed economici del Paese e le gang. Per questo motivo ha emanato alcune sanzioni a individui (noti uomini politici e membri dell’oligarchia haitiana), come il congelamento dei beni e il divieto di viaggio (risoluzione 2653/2022), e una risoluzione di embrago su armi e munizioni (2645/2022). Ma non sembrano avere dato frutti.
Ma.Bel.
Giamaica: «Non abbiamo altra scelta»
testo e foto di Luca Salvatore Pistone
È un piccolo paese caraibico, con un posto particolare nell’immaginario collettivo. Ma cosa succede nella sua capitale e come vive la gente? L’autore esplora i suoi quartieri più complicati e ascolta le storie di chi ci vive. Dandoci qualche elemento di comprensione, oltre gli stereotipi.
«Baby, bum bum?». Questa è l’unica frase che Roger pronuncia in presenza di ragazze. Da queste parti la galanteria non è certo di moda, ma in oltre il 50% dei suoi approcci, Roger ottiene il risultato sperato. Mentre salva sul cellulare il numero della fanciulla di turno, mi fa segno di guardarle il fondoschiena ed esclama a voce alta: «Oh my God!».
Roger, 36 anni, è muscoloso e porta dread curatissimi (tipiche trecce rasta, ndr). Ha un numero imprecisato di figli sparsi tra la Giamaica e gli Stati Uniti. Ci siamo conosciuti una decina di giorni fa in un bar e da allora non ci siamo quasi più separati. Sono ammaliato dai suoi racconti. In alcuni casi occorre fare una cernita di quanto sia vero e quanto gonfiato, ma tutto sommato sento di potermi fidare di lui. La casa che ho preso in affitto si trova a pochi metri da quella di Roger, così ogni mattina sono io a dargli la sveglia. Ci divide Mountain View, un interminabile vialone che unisce Old Hope Road e Windward Road, due delle principali arterie dell’area sudorientale di Kingston. Mountain View, che dà il nome all’intero quartiere, è uno dei ghetti più malfamati del paese.
Dentro il ghetto
Quando il dongiovanni giamaicano finisce le sue pratiche con la prosperosa signorina, raggiungiamo alcuni ragazzi del ghetto. Ci hanno dato appuntamento in una villetta in costruzione poco distante dalla bettola dove vive Roger. Sono una decina in tutto. Saliamo al secondo piano dal quale si domina tutta Mountain View. «Sei mafioso, vero?», mi chiede uno. «Ya man! (intercalare giamaicano che significa: sì amico!). Tutti gli italiani sono mafiosi», gli fa eco un altro.
Per più di un’ora si parla solo di mafia. Sono affascinati dall’argomento. E, soprattutto, sono convinti che il sottoscritto, in quanto italiano, sia un mafioso. Recitano a memoria interi spezzoni dei tre capitoli de «Il Padrino» e di «Quei bravi ragazzi». Uno fa una breve ricerca su Google e mi mostra sul display dello smartphone le facce di Riina e Provenzano. «Sei in Giamaica per fare affari? Noi siamo disponibili ad aiutarti». Più cerco di convincerli della mia estraneità alla malavita siciliana, più quelli immaginano di avere davanti a loro un pezzo da novanta del crimine organizzato.
A soccorrermi è Roger. «Dai ragazzi, diamo all’italiano un assaggio di cosa i soldati di Mountain View 99 sono in grado di fare!». Il più giovane estrae, da dietro un’impalcatura, una sacca nera. È lo stesso Roger ad aprirla e a distribuire agli amici il contenuto: un paio di pistole Beretta, tre kalashnikov e vecchi fucili d’assalto.
Metto mano alla macchina fotografica. Indossano chi un passamontagna, chi il cappuccio della felpa e chi una maglietta messa a mo’ di turbante. Si atteggiano in classiche pose da gangster e poi si siedono in cerchio su dei mattoni all’ombra di un muretto. A turno tutti prendono la parola.
«Noi della 99 dobbiamo difendere la nostra gente dai nostri nemici: la polizia e le altre gang».
«Siamo sicari. Il General (il capo mafioso) ci dice chi dobbiamo accoppare e noi lo facciamo».
«Per 200 o 300 dollari americani facciamo un lavoro rapido e pulito».
«Quando c’è da combattere con le bande rivali chiudiamo con delle transenne gli accessi a Mountain View e avvisiamo i civili di starsene tranquilli in casa».
«Cocaina e prostituzione sono in mano nostra. Alle elezioni possiamo pure muovere voti».
«Siamo costantemente in guerra. Non ci piace questa vita ma non abbiamo altra scelta».
Un mondo di gang
La 99, la 121, la 136… Quasi ogni traversa di Mountain View ha la propria gang. È un continuo gioco di alleanze, tradimenti e regolamenti di conti. A fronte di una popolazione che sfiora i tre milioni di persone, la Giamaica presenta uno dei tassi di omicidio più alti al mondo. Condizioni di forte povertà spingono larghe fette di popolazione a entrare nelle fila dei gruppi criminali. Non molti anni fa, il parlamento votò addirittura per il mantenimento della pena di morte (tramite impiccagione) – non applicata da decenni – come deterrente per arginare le violenze. E intanto, indisturbata, la Jamaican Posse, la mafia locale, detta legge nei ghetti.
Ci congediamo dagli amici sicari tra un «bless» (in Giamaica quando per salutarsi ci si benedice a vicenda) e un «respect», con la promessa, quando farò ritorno in Italia, di mettere una buona parola per loro con Cosa Nostra. Roger mi prega di seguirlo in una baracca a un paio di isolati. Resto sull’uscio. Lo sento salutare gli abitanti della casa in patwah, la lingua creola-inglese che si parla in Giamaica. E, come sempre, parte un fiume di «Ya man!».
Dopo pochi minuti, esce con uno zainetto in spalla stracolmo di marijuana. In Giamaica l’uso della cannabis è legale dal 2015 ed è possibile detenerne fino a un’oncia, cioè 28,35 grammi. Il prezzo al grammo varia in base alla qualità. Si va dai 20 centesimi di euro ai 20 euro. Per coltivarla è necessaria una licenza statale dal costo annuo pari a quasi 900 euro, cifra che in pochissimi si possono permettere. Così, gran parte delle coltivazioni sono illegali. Roger cerca di arrotondare vendendo marijuana ai turisti e non mi resta altro da fare che accompagnarlo nella sua caccia ai clienti. «I migliori sono i tedeschi», sentenzia. Torniamo a casa dopo diverse ore.
Festa di… funerale
Di sottofondo, come a ogni ora del giorno e della notte, si sentono degli spari. Mentre mi chiedo dalla mano di chi provengano, suona il campanello. È Roger. «Rapido! Ti porto a un nine night qui vicino». Senza neanche sapere di cosa stia parlando, salto sull’attenti. Finora le sue proposte non sono mai state deludenti.
In pochi minuti arriviamo nel cortile di una coloratissima villetta. C’è un baccano infernale e a fatica riusciamo a comunicare. Urla, schiamazzi, ubriachi, grigliate con bistecche di maiale e cosce di pollo, tavolini pieghevoli su cui si gioca a domino. È stato allestito anche un sound system, un impianto formato da più casse, che emette a tutto volume. Partono le danze. Siamo a un nine night, una veglia funebre. In Giamaica, come in molti altri paesi dei Caraibi, il morto viene celebrato con una festa sfrenata che parte la sera e termina alle prime luci dell’alba. Può durare anche più giorni, fino a nove, a seconda della disponibilità economica della famiglia del defunto.
«Si chiamava Paul – dice Roger – e non aveva neanche trent’anni. Io non lo conoscevo bene ma era di Mountain View. Era un soldato come me e i miei amici. L’hanno trovato morto stecchito con una pallottola alla tempia in riva al mare. L’hanno giustiziato, capito? Chissà in che giro era finito. So che il suo General ha sguinzagliato i suoi per capire cosa sia accaduto». Roger indica cautamente il General di Paul, un energumeno sulla cinquantina. Circondato da sei uomini con armi a vista, sta abbracciando la madre del morto. «Non fissarlo, qui basta uno sguardo di troppo per finire nei guai».
La nottata prosegue tra fiumi di birra calda, rum di pessima qualità, spinelli e cocaina.
Tra qualche ora si terrà il funerale di Paul. Il General fa cenno al dj di fermare la musica per pronunciare un brevissimo discorso: «Noi tutti abbiamo perso un fratello. Era poco più di un ragazzo, una persona per bene che amava la sua famiglia. Mountain View non lo dimenticherà. Paul avrà la sua vendetta». Il nine night finisce con una promessa di sangue e spari di accompagnamento.
Gli squatter di Harbour View
Il pomeriggio successivo vengo svegliato da un ragazzino. È stato Roger a mandarlo con un messaggio: «Fatti trovare pronto. Tra poco andiamo dai miei amici di Harbour View». Giungiamo a destinazione solo al tramonto. Fino a non molti anni fa Harbour View era un bel quartiere residenziale all’estremità sudorientale di Kingston. Ville a schiera sul mare abitate dalla borghesia della capitale. Poi, nel 2012, l’uragano Sandy ne rase al suolo un gran numero e danneggiò gravemente le poche rimaste in piedi. Poco dopo il passaggio di Sandy, gli abitanti delle colline circostanti, le cui baracche erano andate distrutte, scesero verso il mare e occuparono le rovine dei ricchi. Da allora non ci fu modo di mandarli via.
«Ya man! Guardate un po’ chi c’è?». Roger viene accolto quasi fosse una celebrità. Intorno a noi si crea un capannello di curiosi. Impennando, ci viene incontro una motocicletta di bassa cilindrata. I lunghi dread del provetto pilota svolazzano indisturbati. Inchioda. «Bless! Respect! Quello che vedo è mio fratello Roger?».
È Ziggy (in lingua patwah significa spinello, come Bob Marley soprannominò il suo primogenito David), uno dei capi del ghetto di Harbour View. È sulla trentina, supera non di molto il metro e mezzo, è magro come un chiodo e ha tatuaggi ovunque, anche in viso. Comincia a esibirsi in una serie di impennate su entrambe le ruote e derapate di tutto rispetto considerando il catorcio cinese che guida.
Parcheggiata la moto, Ziggy ci fa da cicerone per il quartiere. Per prima cosa vuole farci conoscere la sua compagna e la figlioletta di tre anni. Ci fa visitare la sua casa, una grande e malconcia villa a un piano. I muri sono pieni di crepe. Le stanze sono tutte spoglie e senza infissi. In una di esse ci sono una sedia, una brandina con un materasso lurido e una valigetta aperta con dentro una macchinetta da tatuatore, aghi, colori e altri attrezzi del mestiere. «Questo – illustra Ziggy – è il mio studio. Nel ghetto chi si vuole tatuare viene da me. È così che mantengo la mia famiglia. E con altri piccoli business… Vuoi della cocaina?».
Harbour View viene chiamato scherzosamente «Gaza» dai suoi abitanti. L’uragano qui e Israele nel territorio palestinese, producono il medesimo risultato: macerie. Di sera, per godere della brezza marina, Ziggy e gli altri ragazzi vanno in spiaggia e prendono posto sulle rovine di una palazzina a due piani. Tra uno spinello e un altro, si godono il panorama delle luci di Kingston. È lì che ci portano.
«Polizia, funzionari del comune, altre bande: tutti hanno provato a cacciarci via da qui», racconta un tizio con in faccia una bella collezione di cicatrici. Accarezza la canna di una pistola a tamburo. «E noi con questa li abbiamo sempre respinti. Harbour View è casa nostra. Ci abbiamo portato le nostre famiglie, abbiamo fatto dei lavori. Vogliono che ce ne andiamo? Ci devono pagare profumatamente!». Raccoglie l’approvazione dei suoi compagni.
Sono tutti armati di pistole che nascondono sotto la maglietta. Gli adolescenti li vedono come esempi da seguire e pendono dalle loro labbra. «Vedi quello in pantaloncini? – indica con la canna Ziggy -. È mio cugino. Ha tredici anni ma ha le palle per essere uno dei nostri. E vedete quel muro crivellato di colpi? È contro quel muro che lo faccio esercitare a sparare».
A Ziggy e compagnia è venuta sete. Propongono di spostarci al bar del ghetto, una casupola di legno con un piccolo cortile antistante dove delle ragazzine stanno giocando a dadi su delle casse capovolte. Ordinano tutti delle bottigliette di Magnum, la bevanda che va per la maggiore. Sull’etichetta c’è scritto Tonic Wine, un modo elegante per dire Red Bull con alcol al 16.5%. «Due di queste e fai bum bum tutta la notte», grida Roger guadagnandosi una serie di pacche sulla spalla.
Ziggy prende sottobraccio due delle ragazzine impegnate nella partita a dadi. Avranno meno di sedici anni. I tre si voltano verso di noi per qualche istante e tornano a confabulare. Poco dopo il gracile boss di Harbour View ci viene incontro. «Sono le mie cuginette. Belle, vero?». Annuiamo. Sono davvero belle. «Loro sono un altro dei miei business. Vuoi farti un giro con loro? Potresti andare a casa mia. Sono pulite, non hanno l’Aids. Che faccio, organizzo? Sono venti dollari americani, è un regalo».
Per il quarto d’ora successivo prova a convincermi in tutti i modi. Guarda le sue protette scuotendo la testa. Le due non sembrano troppo dispiaciute. Fa un ultimo tentativo disperato. «Troppo giovani? Volendo c’è mia sorella, ha quasi ventotto anni».
Luca Salvatore Pistone
Centroamerica la violenza fatta famiglia
Il fenomeno delle bande di strada in Centroamerica
Quasi una guerra
L’America Latina è la regione del mondo con più omicidi di bambini e adolescenti: una media di 12 ogni 100mila abitanti nel 2012. El Salvador è il paese in cima alla classifica: 27 ragazzi assassinati ogni 100mila persone (circa 1.600 ogni anno). Nel solo 2015, nel paese del beato Oscar Romero, il numero di omicidi assoluto (non dei soli minori di 20 anni) è impressionante: 6.657, su una popolazione di circa sei milioni (111 persone ogni 100mila). Una delle principali cause di tanta violenza sono le pandillas callejeras: bande di strada composte da giovani delle zone più povere del paese, che hanno progressivamente assunto – anche a causa delle politiche criminalizzanti e repressive – i connotati di vere e proprie organizzazioni criminali transnazionali, con decine di migliaia di membri, principalmente in Centroamerica e negli Stati Uniti.
El Salvador è un piccolissimo stato dell’America centrale, affacciato sull’Oceano Pacifico. Le spiagge dorate, i fiori coloratissimi, il paesaggio punteggiato di vulcani. Non è un paese in guerra. Eppure, ogni giorno decine di madri seppelliscono i propri figli, spesso appena adolescenti, ammazzati da altri giovani. Se guardiamo al dato generale delle morti violente, il 2015 è andato oltre le peggiori previsioni: 6.657 corpi di ogni età riconsegnati alla terra, più del doppio di quanti ne ha inghiottiti il Mediterraneo a seguito dei naufragi di migranti, il 70% in più rispetto all’anno precedente.
Secondo il rapporto dell’Unicef del 2014, con dati riferiti al 2012, intitolato Hidden in plainsight. A statistical analysis of violence against children («Nascosto in bella vista. Un’analisi statistica sulla violenza contro i bambini»), l’America Latina e i Caraibi sono la macro-regione con il più alto tasso di vittime di omicidio, sia rispetto alla popolazione generale che ai minori di 20 anni. In vetta alla classifica troviamo proprio il paese del beato Oscar Romero. In quel territorio più piccolo della regione Lombardia, e con 4 milioni di abitanti in meno, la violenza sembra aumentare di anno in anno: nel solo mese di gennaio 2016, infatti, si sono registrate già 738 uccisioni.
Migliaia di membri in Centroamerica
La guerra tra bande di strada, le cosiddette pandillas, o maras, è probabilmente la causa principale di un numero così alto di morti e di una presenza tanto intensa della violenza. Per quanto il fatto che non vengano quasi mai compiute indagini approfondite, e che raramente queste sfocino in un processo, fa sì che non vi siano dati certi per distinguere gli omicidi attribuibili alle pandillas da quelli che derivano da altre forme di criminalità, senz’altro presenti e non trascurabili, le bande costituiscono certamente il più importante problema criminale e sociale del paese.
Sono due le organizzazioni più estese: la Pandilla Barrio 18 (conosciuta anche come Mara 18th street, M-18) e la Mara Salvatrucha (MS-13). Entrambe nate negli Usa, ora sono presenti soprattutto in El Salvador, Honduras e Guatemala. In questi tre paesi dell’America centrale, i membri delle due gang sono stati stimati nel 2012 dall’Unodc complessivamente in 54mila1. Ottomila membri del Barrio 18 e 12mila della MS-13 nel solo El Salvador, cioè 323 mareros ogni 100mila abitanti. Se una città come Torino fosse in El Salvador ne conterebbe circa 2.800. Lo stesso Unodc, nel 2007, stimava i membri delle due maras nel Salvador in 10.500 unità: nel 2012 erano quindi raddoppiati rispetto a soli cinque anni prima.
Attività criminali
Le attività criminali principali delle maras, oltre agli atti di violenza che spesso sfociano nell’omicidio di mareros avversari, sono l’estorsione ai danni di imprenditori locali, di compagnie di autobus, di semplici cittadini, spaccio di droga, furti, rapine, omicidi su commissione.
Benché siano state scoperte collaborazioni tra pandilleros e organizzazioni del narcotraffico latinoamericano, esse non sembrano essere determinanti, e in ogni caso, in quelle circostanze, i membri delle gang svolgono generalmente il ruolo di «semplice» manovalanza.
Il fenomeno è divenuto talmente preoccupante da indurre il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti a definire per la prima volta, nell’ottobre 2012, la Mara Salvatrucha un’organizzazione criminale transnazionale, inserendola in una lista nella quale compaiono anche Camorra, Yakuza (la mafia giapponese), Brothers’ Circle (organizzazione con base in paesi dell’ex Unione Sovietica, coinvolta nel traffico di droga), Zetas (uno dei maggiori cartelli messicani della droga): «MS-13 è composta da almeno 30mila membri in una serie di paesi, tra cui El Salvador, Guatemala, Honduras e Messico – si legge nel documento dell’US Treasury Department -, ed è oggi uno dei gruppi criminali più pericolosi e in rapida espansione nel mondo. MS-13 è attiva negli Stati Uniti, con almeno 8.000 membri […]. La natura criminale di MS-13 si può riscontrare in uno dei suoi motti, “Mata, roba, viola, controla” (“uccidi, ruba, stupra, controlla”). Sul fronte interno, il gruppo è impegnato in molteplici reati, tra cui omicidio, estorsioni, traffico di droga, traffico di esseri umani, prostituzione. […] Le cliquas (gruppi) locali della MS-13 prendono direttive da leader residenti all’estero […]. Il denaro generato dai gruppi locali negli Stati Uniti viene mandato alla leadership del gruppo in El Salvador».
Allo stato attuale è difficile trovare dati attendibili circa il numero di mareros nel mondo e la loro diffusione nei diversi continenti, sembra certo, tuttavia, che il fenomeno non si sia espanso al di fuori di quello americano. Nonostante si senta parlare di tanto in tanto di bande di latinos presenti anche in alcune città europee e italiane – è noto il caso del gruppo di giovani che nel giugno 2015 hanno assalito con un machete il controllore di un treno in Lombardia -, non è stato trovato alcun loro legame diretto con le organizzazioni del Centroamerica. Le gang del nostro continente non sono affiliazioni della MS-13 o della M-18. I gruppi presenti in Italia che assumono il nome delle bande salvadoregne si ispirano a esse, ne assumono certamente alcuni caratteri, ma non sono cliquas e non ricevono ordini da El Salvador.
Annalisa Zamburlini
Dalle strade di Los Angeles al Centro America
Vivere e morire per la banda
Le due più grandi e pericolose pandillas si chiamano Barrio 18 e Mara Salvatrucha. In guerra tra loro e con le istituzioni dei paesi in cui sono diffuse, sono responsabili di molti crimini, tra cui migliaia di omicidi. Gli Usa, paese in cui sono nate e da cui sono state esportate in Centro america negli anni ‘90, le considerano delle vere e proprie organizzazioni criminali transnazionali.
Nate dal disagio di fasce di popolazione emarginate, crescono grazie all’ingiustizia strutturale presente in quei paesi. I loro membri, spesso volontari, a volte reclutati con la forza, sempre sono costretti a rimanere: pena la morte.
La loro diffusione pare inarrestabile, tanto più quando la si vuole fermare con la repressione.
C’è stato un tempo in cui «pandilla» e «mara» significavano semplicemente gruppo o combriccola. Da qualche decennio, nel cosiddetto «triangolo Nord centroamericano» (El Salvador, Guatemala, Honduras), questi termini si sono trasformati nel nome proprio di un fenomeno sociale di proporzioni e drammaticità inaudite. Le celebri Pandilla Barrio 18 (il cui nome è dovuto al luogo di origine, la 18^ strada di Los Angeles) e Mara Salvatrucha MS-13 (probabilmente da mara – gruppo -, salva – salvadoregni -, e trucha – astuti -, seguito dal numero con cui si era denominata l’alleanza delle pandillas latinoamericane del Sud della Califoia), sono le due gang più grandi e pericolose, a cui se ne aggiungono altre: Barrio 18 Revolucionarios e Barrio 18 Sureños, la Pandilla Mao Mao e la Mara Mirada Loca.
Origini statunitensi
Fin dagli inizi del ‘900 gli Usa furono meta di immigrazione per molti messicani, a cui seguirono, nella seconda metà del secolo, migliaia di centroamericani in fuga da povertà, repressione politica e guerre. Nelle città di destinazione (in particolare Los Angeles), i migranti vivevano in quartieri marginali e sovraffollati ed erano vittime di discriminazione sociale e lavorativa. Spesso gli adulti, costretti a lavorare molte ore al giorno, trascuravano la cura dei figli, che passavano tutto il loro tempo in strada. Questi giovani, gravati dalla povertà e dall’esclusione sociale all’interno di una società materialista e relativamente benestante, erano molto meno inclini dei loro genitori ad accontentarsi della sopravvivenza. Tra le «risposte» che essi svilupparono per far fronte alla condizione di emarginazione, vi furono i gruppi di strada, in spagnolo chiamati pandillas o maras.
Erano semplici gang composte da giovani latinos che si riconoscevano in un’identità comune (la nazionalità o la lingua, il modo di vestire, la musica ascoltata, ecc.). Negli anni ’80 due grandi bande assunsero il predominio sulle altre: erano la Pandilla Barrio 18 (in origine composta prevalentemente da messicani) e la Mara Salvatrucha (MS-13), formata da salvadoregni.
La rivalità tra le due bande nacque, per ragioni difficili da rintracciare, nei primi anni ’90, quando iniziò una feroce guerra che ha provocato fino a oggi decine di migliaia di vittime.
Deportazioni in massa
Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 gli Stati Uniti decisero di fronteggiare la violenza e la delinquenza causate dalle gang giovanili rimpatriandone in massa i componenti. In particolare, dopo che El Salvador pose fine alla guerra civile con la firma degli accordi di pace del gennaio 1992, il Servizio per l’immigrazione e la cittadinanza (The United States Immigration and Naturalization Service), attraverso la Violent Gang Task Force, intensificò l’attività di identificazione e rimpatrio degli immigrati con precedenti penali. Nel 1996 il Congresso approvò una nuova e più restrittiva legge sull’immigrazione, che portò al rimpatrio di decine di migliaia di centroamericani. Le conseguenze di quella legge si registrano tutt’oggi: secondo il Dipartimento della sicurezza intea degli Stati Uniti, le persone con precedenti penali arrestate all’interno degli Usa ed espulse verso altri paesi, in particolare El Salvador, Honduras, Guatemala e Messico nel 2013 è stato di 110.115 unità.
Il fenomeno delle espulsioni negli anni ‘90 riguardò persone che spesso avevano vissuto gran parte o tutta la loro vita negli States. Queste, arrivate nei loro paesi d’origine, si trovarono di fronte a un mondo estraneo, che tentava faticosamente di rialzarsi dopo decenni di violenze politiche, militari e sociali, con istituzioni fragili e altissimi livelli di povertà e disoccupazione. Privati della possibilità di inserirsi positivamente nel nuovo contesto sociale, i pandilleros nordamericani portarono in El Salvador, Honduras e Guatemala il loro stile da gangster di strada e, con esso, la rivalità tra le due grandi maras, la MS-13 e la M-18. Nel tempo, le due bande si sono trasformate in reti transnazionali (che collegano i tre paesi centroamericani e gli Usa), alle quali appartengono migliaia di piccole cellule locali chiamate cliquas.
Vita da pandilleros
Le due grandi pandillas si assomigliano per organizzazione e regole di condotta. Entrambe infatti prevedono un violento rito d’ingresso (i ragazzi in genere subiscono un pestaggio da parte dei membri della gang, le ragazze invece possono scegliere se subire un pestaggio o uno stupro di gruppo), in entrambe viene attribuito ai nuovi membri un nome nuovo, entrambe hanno un rigido codice comportamentale, basato sull’obbedienza, il rispetto per il gruppo e la solidarietà tra i membri. Le due maras si contrappongono l’una all’altra e la fedeltà al gruppo esige che i propri membri attacchino e, se possibile, uccidano gli avversari.
Abbiamo chiesto a Jorge González Méndez, cornordinatore dell’area Studio e ricerca dell’Unità di Giustizia minorile della Corte Suprema di Giustizia di El Salvador, quale sia il codice di comportamento vigente all’interno delle pandillas. La sua risposta non ammette mezze misure: «Semplicemente vivere e morire per la banda. Una volta che la persona è accettata all’interno della pandilla, uscie è estremamente difficile, se non impossibile. L’adesione e la fedeltà al gruppo devono essere totali. Non bisogna inoltre dimenticare che la pandilla, per molti ragazzi, sostituisce la famiglia: è l’unico ambiente in cui trovano solidarietà, mutuo aiuto, protezione, senso di appartenenza e legame con un territorio». Valentina Valfré, project manager di Soleterre Onlus, con l’amarezza di chi ha visto le bande inghiottire alcuni ragazzini inseriti nei progetti dell’Ong commenta: «È facile reclutare adolescenti che non hanno famiglia o che vivono una situazione di grave marginalità […]. Abbandonare la banda significa condannarsi a morte: se non ti uccidono i tuoi compagni lo faranno quelli della banda avversaria».
La banda come famiglia
Quali sono le ragioni che spingono verso la pandilla? In El Salvador, Honduras e Guatemala l’ingiustizia strutturale, che fu tra le principali cause delle guerre civili, è ancora lontana dall’essere sanata. Periferie urbane fatte di baracche, flagellate dalle calamità naturali e prive dei servizi indispensabili, e campagne poverissime e arretrate, con strade impraticabili, fanno da contraltare a quartieri lussuosi, centri commerciali luccicanti, auto di grossa cilindrata e resort esclusivi. La povertà, l’elevato tasso di disoccupazione, le difficoltà nell’accesso all’istruzione superiore (basti pensare che in El Salvador vi è una sola università pubblica, con tre sedi, a fronte di decine di università private, troppo costose per i figli dei campesinos), gli elevatissimi livelli di violenza intrafamiliare, l’ingente numero di gravidanze precoci e di madri che crescono i figli da sole, senza un compagno (situazioni dovute anche alla perdurante cultura machista), costituiscono l’incubatrice sociale del fenomeno delle bande e della loro escalation violenta. La cliqua, cioè il sottogruppo locale che fa capo alla grande pandilla, diventa la nuova famiglia, capace di rispondere al profondo bisogno di appartenenza, identità e protezione proprio di ogni persona, soprattutto se adolescente.
Reclutamento forzato
Non tutti i pandilleros però si avvicinano spontaneamente alle bande, spinti dal fascino della vida loca e dai bisogni materiali e sociali. Uno degli aspetti più drammatici del fenomeno riguarda il reclutamento forzato di bambini e adolescenti, che costringe interi nuclei familiari a spostamenti all’interno del paese o a migrare all’estero, nel tentativo di proteggere i propri figli.
Un elemento estremamente interessante della vida pandilleril riguarda i tatuaggi: fin dall’epoca statunitense, le pandillas ricorrono ai disegni sulla pelle per suggellare l’appartenenza alla banda. Jorge González spiega: «I tatuaggi indicano l’appartenenza alla pandilla, e solo coloro che hanno superato il rito di iniziazione della banda possono utilizzarli. Ogni banda ha i suoi simboli e i suoi disegni. In passato, il viso e il petto tatuati indicavano che la persona aveva conseguito particolari meriti all’interno del gruppo. Oggi – spiega González – la pratica dei tatuaggi sta diminuendo, in quanto i pandilleros hanno un maggiore bisogno di passare inosservati». Infatti, da quando l’appartenenza stessa a una banda può portare all’arresto, i poliziotti e i militari sono soliti fermare i giovani per strada, immobilizzarli e sollevare loro le magliette per verificare l’eventuale presenza dei disegni incriminanti.
Convivere con le pandillas
Terrore, rassegnazione, rabbia. Sono questi i termini che descrivono la situazione di chi vive nei territori controllati dalle pandillas, di quelli che i mareros chiamano «civili», mutuando il linguaggio bellico. Nella maggior parte dei casi la gente non riesce a opporsi al potere della banda, che impone le proprie regole per esercitare le sue attività criminali. Solo raramente la popolazione di un quartiere o di un villaggio riesce a resistere all’infiltrazione delle bande o a contenee le pretese di dominio.
Lo strapotere delle maras, la loro guerra aperta con le autorità, il clima di insicurezza, spingono ogni anno migliaia di persone ad abbandonare il proprio luogo di residenza. Accanto a coloro che cercano rifugio in altre zone del paese o all’interno del Centroamerica, vi sono migliaia di altre persone che intraprendono il pericoloso percorso migratorio verso gli Stati Uniti e il Canada, pur sapendo che l’attraversamento del Messico e l’ingresso illegale negli Usa li esporrà alla violenza dei trafficanti, agli interessi di organizzazioni criminali tra le più pericolose al mondo, e di autorità pubbliche corrotte, e al rischio del rimpatrio.
Responsabili, ma non di tutto
Secondo Jorge González Méndez, le stime dell’Unodc sul numero di pandilleros presenti in El Salvador sono troppo ottimistiche, e ci dice che altre parlano di circa 60mila membri (su una popolazione di poco superiore ai sei milioni di abitanti: un pandillero ogni 100). Quali che siano le stime più attendibili, si tratta comunque di numeri impressionanti. Essi tuttavia non possono in alcun modo giustificare la criminalizzazione e stigmatizzazione dell’intera popolazione adolescente e giovane, di fatto portata avanti dai mezzi di comunicazione e da gran parte delle forze politiche. Allo stesso modo, è semplicistico ed errato attribuire l’intera responsabilità della violenza in El Salvador alle maras, facendone un capro espiatorio per tutti i problemi del paese.
Gli effetti delle politiche di «mano dura»
A partire dal 2003, in El Salvador, il fenomeno delle pandillas è stato affrontato attraverso le cosiddette politiche «di mano dura», e provvedimenti legislativi repressivi, che prevedevano l’inasprimento delle pene e permettevano arresti di massa di giovani delle aree urbane marginali.
Tali provvedimenti non accompagnati da alcuna politica sociale, insieme alle massicce campagne mediatiche criminalizzanti, non hanno raggiunto l’obiettivo desiderato, e hanno anzi favorito un processo di cambiamento e aggravamento del fenomeno. Gli arresti di massa costrinsero i mareros a nascondersi, isolando ulteriormente le cliquas dal resto della società. Il forte clima di sospetto nei confronti di chiunque fosse vicino, anche solo in apparenza, a una mara, rese ancora più difficile l’integrazione sociale dei giovani provenienti dalle comunità marginali, e pressoché impossibile il reinserimento degli ex pandilleros. L’incarceramento di molti compagni e capi rafforzò la coesione e l’organizzazione delle pandillas, sia all’interno delle carceri, sia all’esterno. Anche la solidarietà nella cliqua divenne più forte: i pandilleros in libertà si organizzarono per aiutare i compagni detenuti, foendo loro beni e denaro, e ostacolando le indagini e i processi attraverso le minacce ai testimoni. Aumentarono quindi le necessità economiche e la strutturazione dei gruppi, spingendo le pandillas a «professionalizzare» la loro attività criminale, soprattutto nell’ambito delle estorsioni. Inserendosi nel commercio della droga e prestando la propria manovalanza come sicari, le bande hanno decisamente superato – ma non annullato – l’aspetto simbolico della violenza (affermare il proprio dominio sulla pandilla rivale e sul territorio), acquisendo i tratti tipici dei gruppi criminali organizzati. L’inserimento della MS-13 nell’elenco delle organizzazioni criminali transnazionali da parte del Dipartimento del Tesoro degli Usa ne è in qualche modo la certificazione.
Dalla tregua all’escalation
I due governi di sinistra, guidati da Mauricio Funes (dal 2009 al 2014), e da Salvador Sanchéz Cerén (dal 2014 a oggi), nonostante le promesse, non hanno saputo prendere le distanze dalle politiche repressive e persecutorie attuate dai governi del precedente ventennio, guidati dal partito della destra nazionalista Arena. In prossimità della fine del suo mandato, il presidente Funes tentò di arginare la violenza crescente stipulando un accordo segreto (la cosiddetta «tregua») con le pandillas. Tale patto, raggiunto con la mediazione di un militare, di un parlamentare ex-guerrigliero e di un vescovo castrense, impegnava la MS-13 e la Barrio 18 a smettere i reciproci ammazzamenti in cambio di alcuni benefici, tra cui il trasferimento di trenta capi mareros da un carcere di massima sicurezza a un istituto con un regime meno severo, dove sono consentite le visite dall’esterno, e una minore persecuzione da parte delle autorità nei territori controllati dalle bande. L’accordo non comprendeva alcun impegno, da parte delle maras, in merito all’abbandono di tutte le altre attività criminali che, grazie alla riduzione della repressione, sono quindi aumentate.
Funes, di fronte alle polemiche sollevatesi nel momento in cui l’accordo è venuto alla luce, ha più volte confermato e poi smentito il fatto, contribuendo all’inasprimento di un clima politico già aggressivo, creando sfiducia e disorientamento nei cittadini. La tregua, che ha portato a un significativo – per quanto temporaneo – calo degli omicidi e ad alcuni altri piccoli successi (ad esempio la proclamazione dei «santuari di pace», cioè di centri abitati in cui le maras s’impegnavano a non commettere crimini), si è progressivamente dissolta fino all’avvio di una recente escalation di violenza che ha fatto sprofondare El Salvador in una situazione peggiore di quella precedente.
Una situazione fuori controllo
Sempre più frequentemente le organizzazioni per i diritti umani e i media indipendenti denunciano abusi di potere di poliziotti e militari, che sarebbero responsabili dell’uccisione di decine di pandilleros o sospetti tali. Inoltre, il ritrovamento di cadaveri di affiliati alle bande, freddati nottetempo con un colpo alla nuca da distanza ravvicinata e le mani legate dietro alla schiena, ha riattivato l’allarme nei confronti dei gruppi di sterminio: formazioni criminali, eredi degli squadroni della morte attivi durante la guerra civile, composte da militari e poliziotti che agiscono al di fuori del controllo dello stato, con l’obiettivo di «ripulire» il paese dalle maras.
L’esperienza della tregua ha mostrato che non vi sono scorciatornie per la risoluzione del problema delle bande di strada. In assenza di politiche di prevenzione e reinserimento sociale capaci di offrire alternative concrete ai giovani, qualunque accordo con i leader di questi gruppi è destinato a fallire e a far aumentare il loro potere di ricatto nei confronti dello stato.
Strategie efficaci cercasi
Con la sensibilità di chi da decenni si batte per i diritti dei minori, specie se segnati dalla violenza agita o subita, Jorge González lamenta la mancanza di una politica nazionale specifica per l’infanzia e l’adolescenza, che consideri il contesto familiare e sociale in cui il ragazzo autore di reato è cresciuto, e che investa realmente e con convinzione nella prevenzione e nel recupero.
Lo studioso esperto di giustizia minorile prova a ipotizzare quali potrebbero essere le strategie politiche, sociali ed economiche utili a migliorare la situazione. Innanzitutto ci parla dei salari: «La maggior parte delle offerte di lavoro prevede il salario minimo, che non raggiunge i 300 dollari mensili. Inoltre, il “settore” che tira di più è quello del lavoro irregolare, dove non vi è nemmeno un contratto a sancire i diritti minimi e la protezione sociale. In questo scenario, le economie criminali esercitano un fascino irresistibile sui giovani privi di prospettive. Abbiamo urgente bisogno di politiche sociali che tutelino i giovani e le famiglie, aumentando significativamente i posti di lavoro regolari che diano accesso a salari rapportati al costo della vita». Un secondo ambito di intervento per Jorge González Méndez dovrebbe riguardare le forze dell’ordine: «Anche i poliziotti vanno salariati meglio, affinché siano più motivati e non si facciano facilmente corrompere. L’esercito, che in questi tempi difficili è chiamato a collaborare con la polizia in compiti di sicurezza pubblica, necessita di formazione specifica».
Urge inoltre contrastare il reclutamento dei bambini da parte delle bande: «Le scuole devono essere difese e bisogna proteggere i bambini nel percorso casa-scuola-casa». Altra priorità riguarda le carceri: quelle salvadoregne (e centroamericane in generale) assomigliano più a gironi infeali che a luoghi di risocializzazione. Non si può mettere una persona in una cloaca e pensare di tirarla fuori pulita. Il livello di degrado, violenza e sovraffollamento dei centri di reclusione per adulti e minori rende difficoltoso anche il lavoro delle organizzazioni umanitarie più combattive.
Annalisa Zamburlini
I casi di gang di giovani latinos in Italia
Le pandillas a Milano
Nel giugno 2015, alla periferia del capoluogo lombardo, un gruppo di latinos ha aggredito un capotreno ferendolo gravemente. I media hanno lanciato l’allarme delle gang giovanili nelle nostre periferie. Ma, pur essendo un fenomeno da monitorare con attenzione, i gruppi in Italia sono pochi, poco organizzati e, soprattutto, non sono legati alle maras salvadoregne.
L’11 giugno 2015, un gruppetto di giovani latinoamericani che viaggiava abusivamente su un treno alla periferia di Milano ha aggredito a colpi di machete il controllore, ferendolo gravemente. Secondo le indagini, gli assalitori appartengono alla Mara Salvatrucha. Questo triste episodio ha fatto riaccendere i riflettori sulla radicazione delle bande latinoamericane in alcune città europee, in particolare Milano, Genova, Roma, Napoli, Barcellona e Madrid. Si tratta di un arcipelago di raggruppamenti (Latin Kings, Latin Forever, Trinitarios, Netas, MS-13, Barrio 18, Comando, e altri), spesso organizzati sulla base del paese di provenienza (Ecuador, Perù, Bolivia, Repubblica Dominicana, El Salvador), eterogenei per livello di strutturazione e coesione intea, con una prevalente funzione di aggregazione identitaria e sociale, che in alcuni casi si sono resi responsabili di fatti criminosi, di diversa gravità.
Ricongiungimenti famigliari
Come spesso capita, la sovraesposizione mediatica di alcuni gruppi devianti (cioè che vengono socialmente percepiti come non rispondenti alle regole sociali condivise dalla maggioranza in un certo contesto storico-sociale) causa una percezione amplificata e distorta nell’opinione pubblica, generando uno sproporzionato allarme sociale. È quanto è capitato lo scorso giugno, ed è per questo che riteniamo importante sottolineare un primo dato, per quanto ovvio sia: il fenomeno delle bande non riguarda tutti i giovani latinoamericani presenti nel territorio italiano. Tra le migliaia di latinos che vivono nella città di Milano, solo poche centinaia, forse 150 o 200, hanno in qualche modo a che fare con esso.
Dai dati raccolti attraverso il progetto «Latinos. Interventi per l’integrazione sociale di giovani latinoamericani» – che negli anni 2010-11 ha portato alla costituzione di un tavolo di rete tra diverse realtà del milanese2 interessate dal fenomeno delle pandillas -, e dalle testimonianze di diversi ragazzi, emerge che molti membri di bande hanno alle spalle una storia di ricongiungimento familiare: l’esperienza di una migrazione difficile e molte volte non voluta.
Le vicende raccontate spesso si assomigliano: una famiglia di provenienza segnata dalle difficoltà economiche e da una figura patea assente o, comunque, marginale (come accade di frequente nelle società latinoamericane). Una madre che migra affidando alle cure dei nonni o di altri familiari i figli ancora piccoli, i quali sperimentano il loro primo grande trauma. La possibilità del ricongiungimento familiare che arriva dopo diversi anni, quando la madre si è regolarizzata. Il minore, ormai adolescente, che intraprende il viaggio per raggiungerla, a volte senza sapere che si tratta di un viaggio «di sola andata», e che viene quindi esposto al nuovo trauma del distacco dagli adulti che lo hanno cresciuto e dagli eventuali fratelli, nel caso in cui il progetto di ricongiungimento riguardi un figlio per volta.
Giunto in Italia il ragazzo si trova spesso a vivere con una madre pressoché sconosciuta, che sovente ha costituito, a volte a sua insaputa, una nuova famiglia e ha avuto altri figli. Quella madre e il padre (quando c’è) sovente sono impegnati diverse ore al giorno in lavori socialmente poco riconosciuti, vivono in piccoli appartamenti e non godono del benessere che il figlio si aspettava di trovare, illuso dal potenziale d’acquisto che nel suo paese avevano le rimesse provenienti dall’Europa.
In molti casi il ricongiungimento avviene ad anno scolastico avviato (cioè a gennaio, poiché in diversi paesi latinoamericani il calendario scolastico coincide con l’anno solare), circostanza che fa aumentare le difficoltà di inserimento del giovane, già disorientato per il fatto di trovarsi in un paese freddo, profondamente diverso dal suo, di cui non parla la lingua, in un periodo della vita, l’adolescenza, di per sé difficile.
Il vissuto di esclusione, il risentimento verso la famiglia, il bisogno di ritrovare elementi della propria «vita precedente», spingono il nuovo arrivato a cercare la vicinanza e l’affetto di coetanei che abbiano condiviso la stessa esperienza.
Fuga dal reclutamento
Una delle organizzazioni partner del Progetto Latinos è stata la Ong Soleterre Strategie di Pace, che, operando sia in El Salvador (con attività di prevenzione rivolte ai ragazzi dei quartieri più violenti, e con un difficile lavoro di sensibilizzazione e coinvolgimento delle istituzioni) che a Milano (attraverso il Centro per cittadini e famiglie migranti), ha un osservatorio privilegiato sul problema delle bande, principalmente su quelle di derivazione salvadoregna (la MS-13 e la 18). «I giovani migranti salvadoregni faticano a integrarsi anche tra i loro connazionali adulti», ci spiegano Valentina Valfrè e Chiara Lainati, rappresentanti di Soleterre, «dal momento che si sono verificati anche qui episodi di minacce e di estorsioni, la comunità salvadoregna ha timore che i nuovi arrivati siano già coinvolti con le pandillas. Inoltre, negli ultimi tempi, con l’aumentare della violenza nella madrepatria, stanno diventando più numerosi i casi di ragazzini che arrivano in Italia per fuggire al reclutamento. Seguono la strada del ricongiungimento o si appoggiano a familiari e conoscenti già emigrati, grazie anche al fatto che un cittadino salvadoregno non necessita di visto per entrare in Italia». Il Centro per famiglie migranti della Ong intercetta molti di questi giovani e, insieme ad altre realtà del territorio, li supporta anche nel lungo iter per la richiesta dello status di rifugiato, che però non sempre viene concesso.
Andrea De Liberto, giudice onorario del Tribunale per i minori di Milano, ci racconta di aver seguito anche casi di padri che, per sottrarre i figli alla violenza e al rischio di reclutamento, abbandonano il proprio lavoro e interrompono il percorso scolastico dei figli, portandoli dalla madre in Italia e chiedendo poi il permesso di soggiorno temporaneo sulla base dell’art. 31 del d.lgs. n. 286/98, che consente al genitore di restare sul suolo nazionale per assistere i figli minori.
La banda come famiglia
Trauma da migrazione, marginalità sociale, solitudine, disagio adolescenziale sono quindi tra gli elementi che spingono alcuni giovani latinos (e non solo) verso l’arcipelago delle bande. Laddove lo stato, la famiglia, la scuola, le Chiese e le altre agenzie di socializzazione non riescono ad arrivare, rischiano di svilupparsi forme di socializzazione alternativa, che possono assumere i caratteri della devianza o della delinquenza.
Eleonora Riva, psicologa transculturale e psicoterapeuta, responsabile scientifico del Centro Clinico Transculturale e Direttore del corso di specializzazione in psicoterapia Transculturale della Fondazione Cecchini-Pace di Milano, ci spiega: «Le bande rispondono a esigenze sociali, culturali, valoriali e bisogni pratici non colmati da altri enti. Il problema è che ci dimentichiamo che esse costituiscono un sistema normativo e di valori che è anche positivo. Lo stare insieme di un gruppo di spacciatori si esaurisce nell’attività criminale, le bande, invece, si costituiscono come una “famiglia”, come un gruppo sociale, rispondendo di fatto a una serie di esigenze anche formative. Se, nei confronti di un ragazzino che frequenta le bande, agiamo come se appartenesse a un qualsiasi gruppo delinquenziale, otterremo scarsissimi risultati. Uscire dalle bande è solitamente molto più difficile, per una serie di vincoli e di rischi (c’è un dazio da pagare: ad esempio, sei destinato a prendere un sacco di botte quando incontri per strada qualcuno del tuo gruppo o dei gruppi avversari), e soprattutto perché nessuno sostituisce i benefici dell’appartenenza alla banda, che risponde al bisogno di una famiglia, di valori, di riconoscimento sociale». Se è paradossale che le bande siano spesso il luogo in cui questi minori imparano per la prima volta a rispettare delle regole, il problema chiaramente è che queste non sempre coincidono con quelle della società che le circonda.
Le bande non sono tutte uguali e la maggior parte sono inoffensive
Cappellino calcato in testa, auricolari incollati alle orecchie, rosario indossato come un amuleto, pantaloni larghissimi sotto i quali nascondono un macete, felpa con cappuccio. Slang spagnolo. È questo l’identikit dei latinos che i media sono soliti presentarci ogni qualvolta si verifichi un episodio di violenza che ne vede qualcuno protagonista.
Il dott. De Liberto si oppone a questo processo di stigmatizzazione: «Come sempre, bisogna fare delle distinzioni. La maggior parte di questi giovani sono dei “disadattati” che vivono nell’eco della banda, ne riproducono certi canoni, ma non sono affatto pericolosi. Stiamo parlando di ragazzini che si fanno bevute al parco, vanno in discoteca – a Sud di Milano, in zona Corvetto, un locale molto in voga tra i latinos è il Matinè -, passano il tempo lì, soprattutto alla domenica, ma alle 10 di sera vanno a casa».
Più che di bande, in questo caso potremmo parlare di gruppi di strada, così poco strutturati – a differenza delle pandillas salvadoregne – da raccogliere anche adolescenti non originari dell’America Latina, marocchini, tunisini, ragazze slave, che sono quindi del tutto estranei alla retorica dei giovani latinos, ma dei quali condividono il malessere e il disadattamento dovuto alla condizione di adolescenti e di immigrati.
Il pericoloso «salto di qualità»
Solo in alcuni casi l’identificazione con il gruppo e lo stigma sociale portano all’assunzione di un’identità deviante che sfocia nella criminalità. «Il salto di qualità – prosegue De Liberto – si ha quando assumono un soprannome e iniziano a tatuarsi, anche in posti molto visibili come la faccia e le mani. Il tatuaggio è il segno di un’appartenenza al gruppo che si vuole esibire, che fa sentire forti ed è più importante di tutto il resto. È a questo livello che diventano pericolosi, soprattutto tra di loro: dal momento che molti di questi ragazzi non sanno nemmeno perché stanno insieme, devono eleggere un nemico, che può essere un nemico immaginario o realissimo, come la banda concorrente, verso cui canalizzare l’energia e la violenza, e dare così un senso al loro stare insieme». Questi ragazzi sono solitamente i «capi», quelli cui gli altri più giovani e meno organizzati cedono il posto in discoteca alla sera.
La dipendenza emotiva dal gruppo e l’assunzione di sostanze (marijuana, cocaina, alcol), sono fattori che favoriscono i comportamenti contrari alla legge. «La trasgressione è vissuta come una scelta di gruppo, con la tipica frammentazione delle responsabilità. In sede penale è difficile far capire loro che se in gruppo hanno rubato un cellulare, tutti hanno responsabilità, non solo chi ha materialmente afferrato l’oggetto. Nei percorsi di recupero si punta molto a potenziare la capacità di scelta indipendente, anche per aiutare il soggetto ad assumere una sua identità, che lo porti a prendere le distanze dal gruppo e, di conseguenza, ad assumere consapevolezza rispetto al reato. Spesso in quella fase riescono a mettersi dalla parte della vittima e a comprenderne il vissuto».
Niente a che fare con le bande del Salvador
L’assalto al capotreno del giugno scorso costituisce un fatto drammatico e inusuale. È infatti raro che i membri delle gang latine di Milano, anche di quelle più strutturate e con connotati più violenti, esercitino una tale violenza nei confronti di persone estranee all’arcipelago delle bande. I reati di cui solitamente si rendono responsabili verso «gli estei» sono rapine, scippi e piccoli furti, finalizzati a ottenere i soldi necessari per le feste, la birra e le sostanze stupefacenti.
Tutte le testimonianze e gli studi consultati concordano sul fatto che, diversamente da quanto avviene in El Salvador e in altri paesi latinoamericani, le bande presenti nel milanese non controllano il territorio. Le nostre città non sono spazi «vuoti», dove qualche decina di adolescenti e giovani può imporre il proprio predominio. «Agli occhi della criminalità organizzata autoctona e internazionale – commenta De Liberto -, i leader più pericolosi delle “nostre” bande sono degli strani elementi folkloristici, a cui magari vendere alcol o sostanze, ma di un livello criminale così basso che mai affiderebbero loro attività illegali o il controllo del territorio. Oltretutto, a partire dal 2012, le azioni cornordinate della Procura minorile e di quella degli adulti, basate sulle indagini e soprattutto sulle intercettazioni delle comunicazioni che i membri delle gang si scambiavano tramite messaggi, telefonate e Facebook, hanno portato a numerosi arresti, favorendo la trasformazione e il processo di involuzione delle bande». D’altra parte, non si può nemmeno affermare che questi gruppi si costituiscano sulla base di un’appartenenza territoriale: a differenza delle pandillas latinoamericane, dove la dimensione del barrio (quartiere) è molto forte, le aggregazioni latine milanesi sono formate da giovani che abitano in parti diverse della città e che si riuniscono sulla base di una condivisione simbolica e valoriale.
La connessione tra le bande made in Milan e quelle radicate nei paesi latinoamericani e negli Stati Uniti è molto labile: «Si tratta di un involucro esterno – ci spiega ancora De Liberto -. Non sussistono legami criminali, anche perché da noi il controllo criminale del territorio c’è già. Le bande assumono la parvenza delle pandillas, legata alla ritualità, ai tatuaggi, al bere, ai codici di comportamento (ad esempio il pestaggio, la punizione per chi vuole andarsene, ecc.), ma non si può certo pensare che gli ordini arrivino da oltreoceano».
Offrire percorsi alternativi
Partiamo da un dato di fatto: le bande a Milano sono in declino, soprattutto nell’ambito minorile. In una società in rapida trasformazione, anche le forme del disadattamento e della marginalità sociale sono destinate al mutamento.
Dal fenomeno delle bande però possiamo trarre alcune indicazioni, certo non inutili di fronte all’attuale emergenza migratoria che sta portando nelle nostre città giovani ancora più traumatizzati, spaesati e soli dei figli dei lavoratori provenienti dall’America Latina.
Eleonora Riva, ripensando ai giovani dei gruppi di strada che ha seguito, insiste su un punto che ci pare cruciale, quello delle alternative che la nostra società è in grado di offrire loro. «La famiglia non c’è o è molto problematica; la scuola, che fa fatica ad accogliere i bambini stranieri nati in Italia, spesso non è in grado di farsi carico delle esigenze dei ragazzi immigrati già grandicelli. Entrare a far parte di una banda significa acquisire una famiglia su cui poter contare, permette un’appartenenza che la biologia e la migrazione non hanno concesso. I nostri servizi falliscono quando mettono il minore davanti a questa opzione: o esci dalla banda e sei solo, o rimani nella banda e finirai in carcere. Molti scelgono la banda perché sanno che questa, a differenza dei servizi sociali, non li abbandonerà, provvederà ai loro figli mentre loro sono in carcere, e all’uscita offrirà loro un posto dove andare. Lavorare con le bande è più difficile che affrontare altri tipi di delinquenza, nei quali se esci dal giro, o se vieni arrestato, ti ritrovi senza amici. Le bande non ti abbandonano, se le lasci sei tu il traditore.
La prevenzione e il recupero avranno possibilità di successo quando offriranno opportunità concrete e accessibili, che tengano conto della situazione di svantaggio di questi ragazzi e della loro cultura, che non perpetuino quella che noi psicologi chiamiamo violenza strutturale, cioè il fatto che gli “ultimi” hanno meno possibilità di accedere alle risorse, di determinare il proprio percorso di vita, di raggiungere gli standard di prestazione richiesti per ottenere i benefici che la scuola, il mondo del lavoro, i servizi sociali, che sono basati su un sistema premiale, offrono».
Il richiamo all’accessibilità dei contesti che offrono forme di socialità alternativa alle bande è molto forte anche nelle parole del giudice De Liberto: «Una politica sociale preventiva deve passare dalle scuole (soprattutto quelle dell’obbligo), dagli oratori, dai centri di aggregazione giovanile, dove devono esserci persone capaci di ascoltare il disagio di questi ragazzi e di proporre attività di bassa soglia, dove sia facile entrare e partecipare, e che non richiedano grandi competenze, soprattutto linguistiche. Bisogna impegnarsi per prevenire la ghettizzazione dei nuovi arrivati, evitare che incorrano subito nello stigma e quindi si rivolgano al leader latinoamericano che è qui da più tempo e si è costruito un’autorità. Di formule educative di questo tipo, di cui si contano già esperienze positive, non possono che beneficiare anche molti ragazzi italiani, che con alcuni loro coetanei stranieri condividono la solitudine, il vuoto e la noia…».
Annalisa Zamburlini
NOTE
1) U.N. Office on Drugs and Crime, Transnational organized crime in Central America and the Caribbean: a threat assessment, 2012.
2) Il Progetto Latinos è stato cofinanziato dall’Unione europea e dal ministero degli Intei nell’ambito dei «fondi per l’integrazione di cittadini di paesi terzi». Ha visto come partner l’Associazione Comunità nuova Onlus, la Cooperativa sociale Codici, l’Associazione Soleterre Strategie di pace Ong, l’Associazione Suonisonori Onlus. Al tavolo di rete hanno aderito il Comune di Milano, il Tribunale ordinario, il Tribunale per i minorenni, il Centro per la Giustizia minorile della Lombardia, la Procura della Repubblica, la Questura, il Provveditorato regionale lombardo dell’Amministrazione penitenziaria, la sezione milanese dell’Associazione nazionale Magistrati per i Minorenni e la Famiglia, i Consolati generali di El Salvador e dell’Ecuador, l’Ufficio scolastico regionale a Milano, l’Asl, il Centro per l’Etnopsichiatria dell’A.o. Niguarda, la Cooperativa Arimo, la Cooperativa Il Minotauro.