Chi governa il Brasile?

Il «marco temporal» (limite temporale) è la tesi giuridica secondo la quale i popoli indigeni avrebbero diritto soltanto sulle terre occupate (o contese) alla data limite del 5 ottobre 1988, giorno di promulgazione della nuova Costituzione brasiliana. Il 20 ottobre di quest’anno Lula aveva posto il veto, totale o parziale, su 24 dei 33 articoli del progetto legislativo 2903/2023 che lo prevedeva, bocciando gran parte dei punti più gravi.

Ebbene, giovedì 14 dicembre 2023, il Congresso nazionale ha annullato la maggior parte dei veti di Lula sul quel disegno di legge 2903/2023. In totale, 41 dei 47 punti analizzati in plenaria sono stati respinti da senatori (53 contro 19) e deputati (312 contro 137). In pratica, solo sei dei punti posti dal veto di Lula sono stati mantenuti. Ora, le decisioni su cui era stato posto il veto verranno incorporate nella legge 14.701/23, che ristabilisce il «marco temporal» in materia di diritti dei popoli indigeni.

Alla luce di quanto accaduto la domanda è: chi governa il Brasile? Purtroppo, Lula ha molto successo all’estero, piace per i suoi discorsi progressisti, ma in patria ha molta difficoltà a mettere in pratica i suoi propositi. Insomma, deve fare i conti con un Congresso in cui prevalgono impresari, latifondisti, conservatori, reazionari. Il presidente vorrebbe, finalmente, trattare i popoli indigeni con rispetto, ma gli interessi dei parlamentari sono contrastanti e finiscono per prevalere. Addirittura sulle decisioni della Corte suprema che aveva dichiarato incostituzionale la tesi (assurda) del «marco temporal».

Senatori e deputati federali si sono dati da fare e hanno approvato un’altra volta la stessa tesi. Di fronte al rifiuto di accettarla da parte del presidente Lula, non hanno esitato a ribadirla, aggravando la situazione con varie altre questioni che dimostrano – per l’ennesima volta – quanto costoro disprezzino gli indigeni e li trattino come ostacoli da abbattere.

Joenia Wapichana (al centro) e Sonia Guajajara (a destra) a Dubai, per la Cop28. (foto Estevam Rafael/Audiovisual/PR)

A cosa serve un ministero dei Popoli indigeni (quello retto da Sonia Guajajara), se non riesce ad ottenere i mezzi necessari per funzionare? La stessa cosa avviene per la Funai guidata da Joenia Wapichana. Un esempio: la mortalità tra gli Yanomami è oggi maggiore che negli anni di Bolsonaro anche se i piccoli ambulatori nella foresta – occupati, distrutti o abbandonati durante il governo precedente – sono stati riaperti. Quanto alla Polizia federale, dopo un inizio promettente, ha quasi abbandonato il compito di scacciare gli invasori dalla Terra indigena Yanomami. Pare che i militari non vogliano far parte di questa operazione, soprattutto a Roraima dove i politici locali – legati a doppio filo con i garimpeiros (cercatori d’oro) – sono contrari a queste operazioni.

La maggioranza degli elettori brasiliani si sono dati da fare per togliere di mezzo Bolsonaro, ma i restanti – spesso ingannati da una propaganda menzognera – hanno eletto uno stuolo di congressisti con la sua faccia.

Teoricamente, la Corte suprema potrebbe sentenziare che anche la nuova legge è incostituzionale, ma è improbabile che essa proceda contro tutto quello che i parlamentari hanno approvato. Per ora, la sola certezza è che essi hanno dichiarato apertamente guerra ai popoli indigeni. E pare non provino neppure vergogna.

Carlo Zacquini da Boa Vista (Roraima, Brasile)




Amazzonia (Catrimani). «Niente foto, per favore»

testo e foto di Paolo Moiola


Trascorso oltre mezzo secolo dalla sua fondazione, la Missione Catrimani prosegue la sua esperienza nella terra degli Yanomami. Una terra assediata dai garimpeiros che avanzano e fanno disastri nella più totale impunità. La malaria è sempre presente e le «attrazioni» dei Bianchi catturano una parte degli indigeni. Eppure, nonostante tutti questi problemi, la Missione Catrimani rimane un posto unico. Che merita una lunga vita.

Sono ancora a Manaus quando mi raggiunge una email di padre Corrado Dalmonego, responsabile della Missione Catrimani nella Tiy, la Terra indigena yanomami. Dice di essere di passaggio a Boa Vista e che tra pochi giorni tornerà in foresta. «Ti interesserebbe venire con me?», domanda. Se mi interessa? È da anni che ho a che fare con gli Yanomami, ma li ho sempre incontrati a Boa Vista. In vari luoghi: alla sede della loro associazione Hutukara, come nella filiale del Banco do Brasil, però sempre fuori dal loro contesto territoriale.

«Certo che accetto», rispondo. «Per farti spazio sull’aereo io rinuncerò a caricare un sacco di pane secco», spiega il missionario. Mi ha paragonato a un sacco di pane e neppure fresco, penso tra me e me. Vabbè se questo è il prezzo da pagare, lo pago. Purtroppo però non è il solo. «Niente foto agli Yanomami, per favore», aggiunge padre Corrado. Anche se la mania dei selfie ha svilito il ruolo delle foto, per un giornalista non poter fotografare è un divieto pesante. Tuttavia, non discuto. «Va bene – rispondo -. Accetto le tue condizioni».

Dopo una notte in bus, al mattino raggiungo Boa Vista, capitale dello stato di Roraima.

Per raggiungere Catrimani

A Boa Vista operano alcune compagnie di piccoli aerei (quasi sempre Cessna) che monopolizzano il mercato: il business è grosso. Non certo per merito dei pochi missionari, però. A parte qualche eccezione, non sono loro a volare nella Terra indigena Yanomami. Sono (purtroppo) i garimpeiros e coloro che stanno dietro il malaffare minerario. Va ricordato che, in linea teorica, chiunque voglia entrare in terra indigena dovrebbe chiedere il permesso alla Funai1.

Negli anni Ottanta-Novanta, durante le invasioni del territorio yanomami e ye’kwana, vennero identificate 82 piste d’atterraggio clandestine2. Quante siano oggi è difficile dirlo anche perché le operazioni di contrasto sono molto più blande che nel recente passato.

Perché – viene da chiedersi – andare alla Missione Catrimani con un aereo? Perché raggiungerla via fiume è pericoloso a causa della presenza delle rapide. Raggiungerla via terra è invece lungo e difficile: sono 5 giorni di cammino con esperte guide indigene. Tuttavia – occorre sottolinearlo con forza -, è un bene che vie semplici da percorrere non ce ne siano: una strada sarebbe la fine di tutto, come ha dimostrato la devastante esperienza della Perimetral norte, la via oggi abbandonata che portò morti e distruzione a metà degli anni Settanta.

Dalla savana alla foresta

Il decollo è tranquillo, favorito da una giornata relativamente limpida. Schiacciato sullo stretto sedile posteriore, alla mia sinistra una pila di scatole di cartone contenenti non so cosa e un paio di sacchi di yuta con alimenti, i piedi posti sopra le nuove batterie solari per la missione, accompagnato dal pigolio continuo delle decine di pulcini che, chiusi all’interno di uno scatolone bucherellato, viaggiano nel vano bagagli sulla coda del Cessna, in tutto questo ammiro (e filmo) il panorama sotto di noi.

I primi 15 minuti di volo mostrano un paesaggio dominato dal lavrado, la savana amazzonica. Poi, l’ecosistema cambia: inizia la foresta e qualche rilievo, che può superare i 1.000 metri d’altezza.  Sono le propaggini della Serra da Mocidade, dai missionari chiamata Serra dos Opikɨtheri per ricordare i loro veri abitanti. Da qui in avanti inizia la Terra indigena yanomami (Tiy).

Ecco il fiume Catrimani, che – lo raccontò negli anni Sessanta padre Silvano Sabatini nei suoi appassionati reportage3 – sarebbe un punto di riferimento se non fosse che il giovane pilota del Cessna ha un Gps portatile (posato sulle sue ginocchia).

Ecco alcune maloche (yano) ed ecco la Missione Catrimani. Il Cessna fa alcune virate per mettersi in condizione di atterrare sulla pista in terra battuta.

La pista della Missione Catrimani, costruita dai padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri, venne ufficialmente inaugurata il 7 marzo 1966, quando vi atterrò il primo aereo4. All’epoca era una striscia di terra ed erba lunga circa 400 metri e larga 30, con tutt’attorno una fitta foresta. Oggi, essa è lontana dalla pista varie decine di metri, lasciando spazio a una radura (e ciò – a dire il vero – non è un buon segno dal punto di vista ambientale).

Il piccolo aereo tocca terra con qualche scossone dovuto al terreno sconnesso ma senza difficoltà.

La pista è a circa duecento metri dalle costruzioni della missione, dalla quale qualcuno ci fa cenni di saluto. Uno Yanomami dall’età imprecisabile (ma non giovane) ci viene incontro e saluta padre Corrado. Strano – penso tra me e me – che non ci siano più persone. Saprò più tardi che, proprio in questi giorni, quasi tutti gli Yanomami di Catrimani sono ospiti in altre maloche per una festa.

Iniziamo subito a scaricare i numerosi bagagli stipati sul velivolo, che si fermerà soltanto poche ore. Nel frattempo, l’anfitrione indigeno è tornato con una carriola, che però non è utile per trasportare le pesanti batterie solari. Così, lui ed io assieme, parlando a gesti e sorrisi, uno da una parte e uno dall’altra, le solleviamo e le portiamo verso la missione.

Per la salute, per l’istruzione

Ci sono alcune donne con neonati in braccio e vari bambini, subito attratti dallo scatolone con i pulcini, anch’essi atterrati sani e salvi come gli umani. E ci sono due suore della Consolata, che mi accolgono con calore.

Sono l’italiana Giovanna Geronimo e Noemi del Valle Mamani, argentina di etnia kolla. È invece in trasferta la suora che da più tempo vive a Catrimani, la keniana di etnia kikuyu Mary Agnes Njeri Mwangi5.

La missione è un piccolo complesso composto da casette di legno a un piano, la maggior parte di un color verde foresta che s’intona perfettamente con l’ambiente amazzonico. Le suore m’invitano a dissetarmi in quella che ospita la cucina e il refettorio, luogo giusto per scambiare qualche parola. Suor Giovanna, nativa di Martina Franca, è l’ultima arrivata essendo qui dal settembre 2018, ma opera in Brasile da oltre 30 anni. Suor Noemi è a Catrimani dall’agosto del 2009, pur con una pausa di alcuni anni. «Mi occupo degli insegnanti – spiega -. Una sorta di accompagnamento pedagogico». L’insegnamento – e questa è una conquista fondamentale – avviene sia nella lingua indigena che in portoghese. «Il primo anno è in yanomae, gli altri due in portoghese», precisa la suora.

Usciamo per una visita alla missione, che si conferma molto curata: erba tagliata, piante da frutto, fiori, nulla fuori posto.

Ci dirigiamo verso la casetta che ospita l’ambulatorio gestito dalla Sesai (Secretaria especial de atenção à saúde Indígena), organizzazione pubblica per la salute indigena che il presidente Bolsonaro vuole eliminare o almeno ridimensionare.

L’ambulatorio è una stanza essenziale alle cui pareti interne sono appesi manifesti informativi. Ci sono i farmaci e poi, poggiato su un bancone, lo strumento forse più importante: il microscopio per l’individuazione del parassita della malaria. «In questo momento – racconta suor Noemi -, c’è un aumento dei casi di malaria per varie cause, non ultima la rottura della macchina che serve per spargere lo spray anti zanzare».

Nel frattempo, arriva anche l’infermiere di turno in questo periodo. Si chiama João Lima Dias, 47 anni. «La difficoltà principale – mi spiega – nasce dal fatto che dobbiamo seguire 22 comunità. Dato che siamo pochi, è difficile curare tutte le persone nelle varie maloche disperse sul territorio».

Saluto João, perché padre Corrado vuole mostrarmi la maloca (yano) di una delle comunità più vicine.

La maloca e il suo mondo

Camminiamo veloci all’ombra di un bosco non fitto. All’improvviso questo lascia il posto a una piccola radura occupata da una maloca a cielo aperto, casa della comunità Maamatheri (dove il suffisso – theri indica gruppo, comunità, e maama significa pietra). Passiamo da un’entrata che è poco più di un pertugio, ma che dà accesso a un mondo.

La yano ha una intelaiatura di base fatta di sottili pali di legno ai quali vengono applicate foglie di una palma (nota come ubim, nome scientifico geonoma) e liane per formare le pareti e il tetto. La grande tettoia forma una sorta di anello al cui centro rimane una piazza utilizzata per feste e danze, distribuzione di alimenti, cerimonie con gli sciamani, accoglienza degli ospiti.

La maloca è una casa comunitaria, cioè polifamiliare o, per meglio dire, a famiglia estesa (- theri). «Qui vivono 30 persone – spiega padre Corrado dal centro della piazzetta -. Nella maloca ciascuna famiglia occupa uno spicchio delimitato dalle amache stese attorno a un fuoco». Non ci sono dei contenitori tipo armadi: tutto è in vista. Gli unici oggetti che riesco a vedere sono alcune pentole di varie dimensioni. Ci sono anche un tavolone, delle panche e una lavagna: è il piccolo spazio destinato alla scuola.

Oggi, sotto la grande tettoia circolare, razzolano le galline e giocano alcuni bambini. L’unico adulto è una donna che, seduta sul pavimento in terra battuta, è intenta a grattugiare i tuberi della manioca con la cui farina gli Yanomami preparano delle focacce chiamate naxihi (beijù, in portoghese). Dal tetto scende una grata in legno su cui ci sono un paio di pesci arrostiti. Mi spiegano che sono noti come aracu.

Nella maloca le amache sono poche, segno che la maggior parte degli abitanti è in trasferta. «Sì – mi spiega padre Corrado -, come ti ho detto gli abitanti sono andati a una festa». Visto che la yano è quasi disabitata, il missionario mi concede di scattare qualche foto. Quello di padre Corrado è un atteggiamento di difesa verso gli Yanomami sotto due punti di vista: uno culturale per rispettare o preservare la concezione dell’ũtupë, l’immagine spirituale della persona6; uno antropologico volto a frenare la reazione di una parte degli indigeni che ai fotografi hanno iniziato a chiedere un compenso per lasciarsi fotografare. Chissà cosa avrebbe fatto padre Corrado se fosse stato presente quando, nel marzo 2014, accompagnata da una troupe della Bbc, passò dalla missione una celebrità internazionale come l’ex calciatore David Beckhamp7.

Il Rio Catrimani

Lasciata Maamatheri, c’è il tempo per una visita alla sponda del Catrimani, il fiume che bagna la missione e che le dà il nome. L’acqua pare normale, ma non c’è certezza che i detriti – in primis, il pericolosissimo mercurio – prodotti dai garimpeiros installatisi a monte non siano giunti fin qui. La sponda opposta dista vari metri e dal letto del fiume spuntano rocce e sassi.

La pesca è praticata dagli Yanomami ma non ha mai avuto il rilievo della caccia ed è sempre stata un’attività (praticata con la tecnica del veleno sparso in acqua) prevalentemente femminile.

Sulla riva, all’ombra degli alberi, è legata una piccola barca. Risalendo il Catrimani con piccole imbarcazioni a motore in 4-5 ore si raggiungono le ultime comunità; scendendo si può arrivare, dopo 3-4 giorni, fino al Rio Branco, il fiume che attraversa Roraima da Nord a Sud. Padre Corrado chiosa: «Queste sono le nostre strade. Perché qui i fiumi non ci dividono, ma al contrario ci uniscono.

Unica

Non c’è più tempo: il pilota vuole ripartire. Debbo risalire sul Cessna. Sul sedile posteriore si accomoda un anziano Yanomami che ha chiesto di essere portato a Boa Vista. Io mi sistemo accanto al pilota.

Alla Missione Catrimani ho trascorso soltanto mezza giornata, la grande maggioranza degli Yanomami era in trasferta e praticamente non ho potuto scattare foto. Eppure, a dispetto di tutto questo, è stata un’esperienza unica perché unica è la Missione Catrimani.

Paolo Moiola

Note:

(1) Sulle modalità di entrata in terra indigena si veda quanto scritto nel sito: http://www.funai.gov.br.

(2) Isa, Mineria Ilegal en los Territorios Yanomami y Ye’kuana (Brasil-Venezuela), 2017.

(3) Silvano Sabatini, Le prodezze del vostro aereo, in «Missioni Consolata», n. 9, maggio 1968.

(4) Bindo Meldolesi, Il campo è pronto!, in «Missioni Consolata», n. 7-8, luglio-agosto 1966.

(5) Una sua intervista è stata pubblicata sul numero di marzo.

(6) Su questo concetto proprio degli Yanomami si rimanda a Corrado Dalmonego, «Il corpo e l’immagine», in Nohimayu – L’incontro, Editrice Emi, Verona, settembre 2019. (Qui sopra la copertina del libro.)

(7) Da quella visita è stato ricavato un documentario: David Beckhamp – Into The Unknown.

In precedenza:

(1) Suor Mary Agnes (marzo);

(2) Davi Kopenawa (aprile);

(3) Enock Taurepang (maggio);

(4) dom Sergio Castriani (giugno);

(5) dom Mário Antônio da Silva (luglio);

(6) Convegno Yanomami; lettura dell’Instrumentum laboris del Sinodo panamazzonico (agosto-settembre).




Gli Yanomami e le decisioni condivise

Testo e foto di Paolo Moiola


Dal 2015 associazioni e leader degli Yanomami si riuniscono per elaborare un «Piano di gestione territoriale e ambientale» (Pgta) della loro terra. Un sistema che, usando parole del mondo bianco, si potrebbe definire di «democrazia partecipativa». L’ultima assemblea si è tenuta sul lago Caracaranã, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, a circa 200 chilometri da Boa Vista, capitale di Roraima. Vi raccontiamo come si è svolta.

La Br-401 conduce in Guiana. È asfaltata, liscia, dritta e poco trafficata: motivo d’orgoglio per i politici locali che si autocelebrano con alcuni cartelloni pubblicitari posti lungo la strada.

Siamo in Amazzonia, ma il paesaggio sembra suggerire altro. Al posto della foresta c’è il cosiddetto lavrado, un ecosistema molto simile alla savana. Anche qui l’agrobusiness, l’industria agricola, sta facendo danni con la diffusione dell’allevamento estensivo e delle monocolture. «Riso, soia e Acacia mangium», mi spiega Carlo Zacquini che guida l’auto.

L’Acacia mangium è una pianta di origine asiatica, caratterizzata da una rapida crescita. Certamente più consone all’ambiente originale del lavrado sono le piante di burití (Mauritia flexuosa), una palma che dà frutti commestibili usati in svariati modi, tra cui sotto forma d’olio.

Passiamo accanto a varie fattorie: fazenda Arizona, fazenda Nova Altamira, fazenda Rio das Pedras e molte altre di cui non riesco ad annotare il nome perché fratel Carlo non toglie mai il piede dall’acceleratore.

Percorsi poco più di cento chilometri, lasciamo la 401 per girare a sinistra su una strada sterrata rossa. Direzione municipio di Normandia. Di lì a poco, superato il fiume Tacutu, un cartellone ci avverte che stiamo entrando nella terra indigena Raposa Serra do Sol, abitata in prevalenza da Macuxi ma anche da Taurepang, Ingarikó, Patamona e Wapichana.

Una nuova deviazione prima di arrivare alla cittadina di Normandia ci conduce in breve alla nostra meta: il lago Caracaranã sulle cui sponde i Macuxi gestiscono una piccola struttura, spesso adibita a luogo d’incontri.

L’ingresso è un cancello di legno tipo fazenda o ranch. Con accanto un cartello sbilenco ma leggibile: «Proibido entrada com bebidas alcoólicas» (Proibita l’entrata con bevande alcoliche).

Ci vengono ad aprire e posteggiamo accanto alle uniche due automobili presenti. Un’ottima cosa in ottica ambientalista.

Gli Yanomami e gli altri

Il posto è bello. Alberi (quasi tutti di caju, Anacardium occidentale), prati, una spiaggetta di sabbia bianca che delimita un lato del lago, piccolo ma delizioso.

La struttura ricettiva che è stata costruita è semplicissima e poco impattante. Ci sono alcune piccole costruzioni in muratura a un solo piano e poi varie capanne senza pareti sotto le quali gli ospiti appendono le loro amache. Al centro c’è un capannone, anch’esso senza pareti, dove si svolgono gli incontri plenari.

In questi giorni (ben sette in totale) la struttura sul lago Caracaranã ospita una riunione delle organizzazioni e dei leader Yanomami arrivati, spesso dopo viaggi lunghi e complicati, da varie comunità sparse sul loro vastissimo territorio.

Uno striscione dai colori vivaci, steso davanti al capannone delle riunioni, presenta l’evento: «Plano de Gestão territorial e ambiental Terra indígena Yanomami». In basso sono riportati nomi e loghi dei partecipanti.

Gli organizzatori sono due: Hutukara, la principale tra le associazioni degli Yanomami (quella guidata da Davi Kopenawa) e Isa, l’Istituto socioambientale brasiliano cui vanno ascritti molti meriti. Tra i collaboratori, le altre organizzazioni Yanomami e la Missione Catrimani. Tra i finanziatori (indispensabili) figurano la Norvegia, il Fondo Amazzonia, l’Unione europea.

Gli indigeni presenti sono oltre ottanta, in maggioranza uomini, ma ci sono anche donne e alcuni bambini. Portare alle assemblee persone che abitano in comunità distanti e spesso isolate richiede sempre uno sforzo organizzativo e finanziario importante.

All’assemblea partecipano anche due organizzazioni governative: la Fundação Nacional do Índio (Funai) e l’Instituto Chico Mendes de Conservação da Biodiversidade (IcmBio), che dipende dal ministero dell’Ambiente. Si tratta di due organizzazioni controverse (soprattutto la Funai), ma qui i loro rappresentanti – tutti giovani – sembrano molto bendisposti e coinvolti.

Come gestire la terra indigena?

Cosa sia il «Piano di gestione territoriale e ambientale» viene spiegato nel materiale conoscitivo distribuito al banco dell’organizzazione: «È un documento che contiene le proposte di come gli Yanomami e gli Ye’kuana debbono prendersi cura della loro terra e di come il governo e le istituzioni partner debbono lavorare per migliorare la protezione territoriale, l’assistenza sanitaria e l’educazione, la gestione dei redditi e la valorizzazione delle conoscenze tradizionali».

La gestione territoriale e ambientale della Terra indigena yanomami è una tematica complessa. In primis, perché riguarda un territorio che si estende su 96.650 chilometri quadrati (più o meno la grandezza del Nord Italia meno l’Emilia) di Amazzonia, uno spazio che genera enormi appetiti tra i non indigeni.

Detto questo, la prima impressione sull’assemblea indigena del lago Caracaranã è molto positiva: l’organizzazione è ineccepibile. Un cartello appeso nel capannone centrale riporta l’elenco dei gruppi tematici: protezione e controllo, governo, redditi, conoscenze tradizionali, risorse naturali, salute, educazione. Ogni gruppo discuterà una serie di proposte sul tema prescelto, dovendo rispondere a due domande fondamentali: come attuare le varie proposte e con chi, distinguendo tra indigeni e non-indigeni.

Una volta formati, i sette gruppi si distribuiscono negli spazi della struttura: chi attorno a un albero, chi sotto una tettoia. Per agevolare e coordinare le discussioni ci sono dei facilitatori (moderatori), ruolo assunto dai non indigeni.

Fratel Carlo Zacquini, dopo aver salutato a destra e a manca, si aggrega come partecipante a un gruppo. Io, unico estraneo, sono libero di passare da un gruppo all’altro per scattare foto e fare qualche filmato (dopo il permesso ottenuto da Davi Kopenawa).

La lingua utilizzata è il portoghese ma, non essendo compresa da tutti i partecipanti, in ogni gruppo c’è una persona che fa da traduttore. Davi Kopenawa è sotto il capannone centrale nel gruppo in cui si parla di governança (governo). Qui ci sono anche alcune donne che, pur avendo neonati tra le braccia, non rinunciano alla partecipazione. Nel gruppo su proteção e fiscalização (protezione e controllo) due ragazze dell’Istituto Chico Mendes (IcmBio) conducono i lavori, sotto lo sguardo attento degli indigeni e di tre rappresentanti della Funai. Qui la presenza dei non indigeni è forte perché si discute di uno dei problemi più gravi: l’invasione della Terra indigena yanomami da parte dei garimpeiros, i cercatori d’oro illegali. Le proposte per affrontare il problema sono scritte con un pennarello su un cartoncino bianco posto in terra, in mezzo al gruppo. Più tardi saranno votate o respinte da ogni partecipante.

Sotto alcuni alberi, a pochi metri dalla spiaggia e dal lago, un altro gruppo sta discutendo con grande partecipazione (ma senza animosità). In quanto bianco, la mia attenzione è verso due Yanomami, provenienti dallo stato di Amazonas, che hanno viso e petto dipinti di nero. La grande maggioranza dei partecipanti al convegno indossa vestiti da «bianco» (nelle comunità, i vestiti sono invece ridotti al minimo sufficiente per coprire i genitali), ma nessuno ha rinunciato alle pitture corporali o ad alcuni oggetti simbolici (copricapi di piume, collane, pendagli per collo e orecchie, cinture di perline).

È invece sotto una tettoia con i partecipanti seduti sulle loro amache il gruppo che si occupa di salute. L’unico in piedi è un giovane relatore bianco che parla con scioltezza la lingua indigena. Le uniche parole che riesco a intendere sono i nomi di alcuni farmaci che non arrivano nelle aldeias (comunità) indigene.

Il gruppo sulle conoscenze tradizionali è sotto un albero, vicino alla cucina. È moderato da padre Corrado Dalmonego, responsabile della Missione Catrimani. Con lui un altro missionario della Consolata, padre Izaias Melo Nascimento, che sta preparandosi per aggregarsi a Catrimani.

Con Mauricio Ye’kuana

È ora del pranzo. La fila che porta davanti ai pentoloni dove alcune signore distribuiscono il cibo è lunga ma ordinata. Oggi servono carne di maiale con riso e fagioli.

È qui che conosco Mauricio del popolo Ye’kuana. Gli Ye’kuana condividono con gli Yanomami la terra indigena e rappresentano circa il 3 per cento della popolazione totale che è di circa 24.800 persone.

Mauricio ha soltanto 32 anni, ma già dal 2008 fa parte del consiglio di Hutukara. Vive in una comunità della regione di Auaris, al confine con il Venezuela e per questo parla anche un po’ di spagnolo, oltre al portoghese e alla lingua madre del suo popolo.

Il giovane Ye’kuana spiega: «In questi giorni siamo riuniti per decidere come difendere la nostra terra. Dobbiamo arrivare a un manifesto da presentare allo stato perché capisca come noi vogliamo gestire il territorio».

Poi conferma quanto è di dominio pubblico: «Il grande problema di oggi è l’attività mineraria dentro la terra indigena. I garimpeiros inquinano i boschi in cui noi viviamo con tranquillità e armonia. I nostri bambini e i vecchi hanno problemi di salute perché i minatori usano grandi quantità di mercurio che poi finisce nel pesce che noi mangiamo. Noi chiediamo allo stato di agire perché faccia ritirare questi invasori. Vogliamo evitare che accadano fatti come il massacro di Haximu del 1993 (quando un gruppo di garimpeiros uccise 16 Yanomami, comprese donne e bambini, ndr)».

Mauricio parla di 5mila invasori, ma altri, tra cui lo stesso Davi Kopenawa, sostengono che siano più di 20mila.

La lotta continua

È un peccato dover tornare a Boa Vista, mentre qui, al lago Caracaranã, si discuterà ancora per alcuni giorni. Il risultato finale sarà il «Piano di gestione territoriale e ambientale della Terra indigena Yanomani».

Un sistema decisionale che nel mondo dei Bianchi potrebbe essere chiamato di «democrazia partecipativa». Un successo importante per le comunità indigene, pur nella consapevolezza che la lotta per difendere i loro diritti e la terra faticosamente conquistati è lungi dall’essere conclusa.

Paolo Moiola


L’«Instrumentum Laboris»

Ascoltare le grida amazzoniche

A metà giugno è stato reso pubblico lo «strumento di lavoro» su cui verterà la discussione dei partecipanti al Sinodo Panamazzonico del prossimo ottobre. Si tratta di 147 punti ricchissimi di osservazioni, critiche e proposte per il presente e il futuro dell’Amazzonia e dei suoi abitanti.

Nato da un lungo processo d’ascolto iniziato da papa Francesco a Puerto Maldonado (19 gennaio 2018), l’Instrumentum Laboris è la base teorica su cui lavorerà il Sinodo panamazzonico. Con il titolo di Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale, esso si compone di tre parti: «La voce dell’Amazzonia», «Ecologia integrale» e «Chiesa profetica in Amazzonia: sfide e speranze». La sua divisione in parti e capitoli trova la propria unità in una numerazione progressiva che si conclude con il punto 147.

La voce dell’Amazzonia

Si parte dall’affermazione che l’Amazzonia è la seconda area più vulnerabile del pianeta, dopo l’Artico, in relazione ai cambiamenti climatici di origine antropica (punto 9). Qui la vita è minacciata dalla distruzione e dallo sfruttamento ambientale, dalla sistematica violazione dei diritti umani fondamentali dei popoli originari (diritto al proprio territorio, all’autodeterminazione, alla consultazione e al consenso previi) (14). I cambiamenti climatici e l’aumento degli interventi umani (deforestazione, incendi e cambiamenti nell’uso del suolo) stanno portando l’Amazzonia a un punto di non ritorno (16). Oggi essa è diventato luogo di una bellezza ferita e deformata, di dolore e violenza. La molteplice distruzione della vita umana e ambientale, le malattie e l’inquinamento di fiumi e terre, l’abbattimento e l’incendio di alberi, la massiccia perdita della biodiversità, la scomparsa delle specie (più di un milione degli otto milioni di animali e piante a rischio), costituiscono una cruda realtà che chiama in causa tutti. La violenza, il caos e la corruzione dilagano. Il territorio è diventato uno spazio di scontri e di sterminio di popoli, culture e generazioni (23).  A dispetto di tutto questo, l’Amazzonia è il luogo della proposta del «buon vivere», della promessa e della speranza di nuovi cammini di vita. La vita in Amazzonia è integrata e unita al territorio, non c’è separazione o divisione tra le parti. Questa unità comprende tutta l’esistenza: il lavoro, il riposo, le relazioni umane, i riti e le celebrazioni. Tutto è condiviso, mentre gli spazi privati – tipici della modernità – sono minimi. La vita è un cammino comunitario dove i compiti e le responsabilità sono divisi e condivisi in funzione del bene comune. Non c’è posto per l’idea di un individuo distaccato dalla comunità o dal suo territorio (24).  I popoli amazzonici originari hanno molto da insegnarci. Dobbiamo riconoscere che, per migliaia di anni, essi si sono presi cura della loro terra, dell’acqua e della foresta, e sono riusciti a preservarli fino ad oggi (29). Lo sfruttamento della natura e dei popoli amazzonici (indigeni, meticci, lavoratori della gomma, coloro che vivono sulle rive dei fiumi e persino quelli che vivono nelle città) provoca una crisi di speranza (31).

L’attuale crisi socio-ambientale può condurre all’autodistruzione. Secondo papa Francesco occorre realizzare un dialogo interculturale in cui i popoli indigeni siano i principali interlocutori (35), avendo sempre presente che l’Amazzonia è un mondo plurietnico, pluriculturale e plurireligioso (36).

Il dialogo incontra però pesanti resistenze. Gli interessi economici e un paradigma tecnocratico respingono ogni tentativo di cambiamento. I suoi sostenitori sono disposti a imporsi con la forza, trasgredendo i diritti fondamentali delle popolazioni presenti nel territorio e le norme per la sostenibilità e la conservazione dell’Amazzonia (41).

Intessuta di acqua, territorio, identità e spiritualità dei suoi popoli, la vita in Amazzonia invita al dialogo e all’apprendimento della sua diversità biologica e culturale (43).

Ecologia integrale

La seconda parte dell’Instrumentum Laboris tratta i gravi problemi causati dagli attentati alla vita nel territorio amazzonico (44). L’Amazzonia è oggetto di contesa su più fronti. Uno risponde ai grandi interessi economici, avidi di petrolio, gas, legno, oro, monocolture agro-industriali, ecc. Un altro è quello di un conservatorismo ecologico che si preoccupa del bioma ma ignora i popoli amazzonici (45).

Per prendersi cura dell’Amazzonia, le comunità aborigene sono interlocutrici indispensabili, poiché – lo abbiamo già evidenziato – sono proprio loro che normalmente si prendono meglio cura dei territori (49). L’abbattimento massivo degli alberi, la distruzione della foresta tropicale per mezzo di incendi boschivi intenzionali, l’espansione della frontiera agricola e delle monocolture sono la causa degli attuali squilibri climatici regionali e globali, con grandi siccità e inondazioni sempre più frequenti (54).

La cultura amazzonica, che integra gli esseri umani alla natura, diventa un punto di riferimento per la costruzione di un nuovo paradigma di ecologia integrale. La Chiesa dovrebbe assumere nella sua missione la cura della Casa comune con azioni per il rispetto dell’ambiente, programmi di formazione, denunce dei casi di violazione dei diritti umani e di distruzione estrattivista (56).

La popolazione originaria dell’Amazzonia è stata vittima del colonialismo nel passato e di un neocolonialismo nel presente. L’imposizione di un modello culturale occidentale ha inculcato un certo disprezzo per il popolo e i costumi del territorio amazzonico, definendoli addirittura «selvaggi» o «primitivi». Oggi, l’imposizione di un modello economico estrattivista occidentale colpisce ancora una volta le comunità amazzoniche invadendo e distruggendo le loro terre, le loro culture, le loro vite (76).

L’educazione implica un incontro e uno scambio (93). In Amazzonia, essa non deve significare imporre ai popoli amazzonici le proprie cosmovisioni: parametri culturali, filosofie, teologie, liturgie e costumi estranei (94). La cosmovisione dei popoli indigeni amazzonici è diversa perché comprende la chiamata a liberarsi da una visione frammentata della realtà, incapace di percepire le molteplici connessioni, interrelazioni e interdipendenze.

Da qui deve nascere l’educazione per un’ecologia integrale. Per comprendere questa visione, vale la pena di applicare lo stesso principio della salute: l’obiettivo è quello di osservare tutto il corpo e le cause della malattia e non solo i sintomi (95). Tale educazione «deve tradursi in nuove abitudini» tenendo conto dei valori culturali. L’educazione, in una prospettiva ecologica e in chiave amazzonica, promuove il «buon vivere», il «buon convivere» e il «fare bene», che deve essere persistente e percepibile per avere un impatto significativo sulla Casa comune (97).

Passare dall’educazione ecologica alla conversione ecologica implica riconoscere la complicità personale e sociale nelle strutture di peccato, smascherando le ideologie che giustificano uno stile di vita che aggredisce la creazione (101).

Chiesa profetica in Amazzonia: sfide e speranze

La terza e ultima parte dell’Instrumentum parla del volto amazzonico della Chiesa, che deve trovare la sua espressione nella pluralità dei suoi popoli, culture ed ecosistemi (107). È una Chiesa che si lascia alle spalle una tradizione coloniale monoculturale, clericale e impositiva e sa discernere e assumere senza timori le diverse espressioni culturali dei popoli (110). Costruire una Chiesa dal volto amazzonico significa abbandonare la tendenza a imporre una cultura estranea all’Amazzonia che impedisce di comprendere i suoi popoli e di apprezzare le loro cosmovisioni (111).

Essere Chiesa in Amazzonia in modo realistico significa porre profeticamente il problema del potere, perché in questa regione le persone non hanno la possibilità di far valere i loro diritti contro le grandi imprese economiche e le istituzioni politiche. Oggi, mettere in discussione il potere nella difesa del territorio e dei diritti umani significa mettere a rischio la propria vita. La Chiesa non può rimanere indifferente a tutto questo (145).

Nel lungo percorso per la stesura dell’Instrumentum Laboris, sono state ascoltate le voci dell’Amazzonia. Voci che chiedono di dare una nuova risposta alle diverse situazioni e di cercare nuovi cammini che rendano possibile un kairós per la Chiesa e per il mondo (147).

a cura di Paolo Moiola