Noi e voi, lettori e missionari in dialogo

 


Taiwan 10 anni di presenza

Il 21 settembre 2024 è stata celebrata la festa per i dieci anni di presenza dei Missionari della Consolata a Taiwan. Le celebrazioni si sono svolte con una messa nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù, a Hsinchu, gestita dai missionari dal 2017.

L’inizio

Era il 12 settembre del 2014, quando tre missionari atterravano all’aeroporto Taoyuan di Taipei. Iniziava così l’avventura dell’istituto fondato da Giuseppe Allamano a Taiwan. I tre erano i padri Eugenio Boatella (Spagna), Mathews Owuor Odhiambo (Kenya) e Piero Demaria (Italia).

Oggi i missionari sono sette. Alcuni sono partiti e altri sono arrivati. Padre Jasper Kirimi, keniano, arrivato nel 2016, è l’attuale coordinatore dei missionari della Consolata a Taiwan. Con lui a Hsinchu, lavora padre Caius Moindi, anch’esso keniano.

I padri Bernado Kim (Corea) e Antony Chomba (Kenya) hanno preso in carico la parrocchia san Joseph di Xinpu, una città vicina a Hsinchu, mentre il padre Emanuel Temu (Tanzania) segue da alcuni mesi la parrocchia di Xinfong, la terza gestita dai missionari della Consolata a Taiwan. I padri Thiago Jacinto da Silva (Brasile) e Pablo Soza Martin (Argentina) stanno attualmente studiando la lingua cinese.

La voce del vescovo

La celebrazione dei dieci anni ha visto la partecipazione del vescovo di Hsinchu, monsignor John Baptist Lee e del pro-chargé d’affaires della Nuziatura apostolica di Cina, Taipei, monsignor Stefano Mazzotti.

Nella lunga omelia, il vescovo Lee ha esordito dicendo: «Oggi è un giorno di gioia nel quale celebriamo dieci anni di contributi e sacrifici dei Missionari della Consolata nella diocesi di Hsinchu. Non si tratta di un periodo lungo nella storia della Chiesa di Taiwan, ma una volta arrivati in questa terra ci si scontra con grandi sfide e difficoltà e la Consolata, affrontandole, ci ha manifestato la grazia di Dio. Carente di vocazioni, la diocesi di Hsinchu è molto grata alla generosità della Consolata nell’aiuto al lavoro pastorale».

Il vescovo ha poi sottolineato come sia cambiata l’origine dei missionari: «Il Dicastero per l’evangelizzazione in Vaticano ha visto un grande numero di missionari africani lavorare in Europa, invertendo la regola per cui i missionari arrivati dal vecchio continente andavano a predicare in Africa. Adesso la buona notizia è che li vediamo arrivare in direzione di Taiwan, nella diocesi di Hsinchu».

Monsignor Lee ha chiesto ai cristiani locali di «lavorare con i missionari, supportarli e aiutarli nei bisogni della missione». Perché, ha detto rivolgendosi a loro: «Dopotutto, ognuno di voi è un missionario ed è vostro dovere partecipare all’evangelizzazione, vivendo a pieno la sinodalità».

La Consolata a Taiwan

Padre Jasper Kirimi dopo la celebrazione e la festa di condivisione ci dice: «È stato emozionante. In primo luogo, perché ho visto questi video con le testimonianze dei missionari che hanno lavorato qui (video di saluto e augurio sono stati mostrati dopo la messa, nda). Ho lavorato con tutti loro ed è passato un bel po’ di tempo. Quando io sono arrivato, non pensavo di stare tanto così, perché era davvero dura. Imparare questa lingua e la cultura così diversa. Invece sono ancora qui. In secondo luogo, la partecipazione oggi è stata davvero importante. Io penso che la gente sia venuta anche per la Consolata. Questo vuol dire che c’è un nuovo riferimento che aggrega i cristiani di Taiwan ed è proprio la Consolata. Giuseppe Allamano, che sta per diventare santo, penso che non abbia mai immaginato di arrivare fino a questa terra».

Padre Jasper conclude: «Taiwan è molto diversa da Africa e America Latina. Noi siamo qui per imparare un nuovo modo di fare missione».

Dall’Asia

Una delegazione dei missionari della Consolata dalla Mongolia, con padre Dieudonné Mukadi Mukadi (congolese), e dalla Corea del Sud, con i padri Pedro Han Kyeong Ho (coreano) e Clement Kinyua Gachoka, superiore della Regione Asia, è venuta a Taiwan per l’occasione.

Secondo padre Clement: «Siamo la presenza più recente nella diocesi. Dal 2014 a Taiwan sono passati undici missionari della Consolata, che voglio ringraziare per l’apporto che hanno dato.  È una presenza giovane, che ha affrontato tante sfide: la lingua, la cultura, la fatica di adattarsi. Dall’altra parte c’è stata la perseveranza che hanno avuto e la collaborazione con la Chiesa di Hsinchu, a tutti i livelli. La celebrazione dei primi dieci anni ci dà la speranza, che nonostante le sfide, le difficoltà e le paure, il cammino andrà avanti e la presenza sarà significativa».

Pensando al santo Giuseppe Allamano, Clement ci dice: «Siamo a un mese dalla canonizzazione e poco più di un anno dai cento anni della sua scomparsa. Penso che sia contento e ci guardi con orgoglio e stima, perché vede che stiamo camminando nella via dei sogni che lui aveva per la missione. Questo ci incoraggia a dare delle risposte alle sfide attuali della chiesa di Hsinchu».

Dopo la celebrazione la festa è continuata ed erano presenti anche i parrocchiani di Xinpu e Xinfong, oltre che diversi amici e membri di congregazioni venute anche dalla capitale Taipei.

 Marco Bello, da Hsinchu
(Taiwan) con l’aiuto di Lucia Ku (per le traduzioni), 21/09/2024 da consolata.org


E vissero felici al contrario

Alla redazione MC,
vorrei sottoporre alla vostra attenzione un fatto di cronaca accadutomi pochi giorni fa. Forse può essere di interesse generale, soprattutto in questo periodo di forti contrasti xenofobi.

Cronaca di un contropiede con gol da fuori area

Arrivo, di fretta, alla stazione alle 7:45 am, giusto il tempo di comprare il biglietto dal distributore automatico e prendere il treno per Lecce delle 8:00. Ma, disgraziatamente, per piccoli importi (2,5 euro) il distributore riceve solo monete o banconote da 5 e da 10 e io ne avevo solo una da 20. Cavolo, che fare? Piano A, cercare un bar vicino, ma, ahimè, nessuno aperto in zona. Piano B: salire sul treno senza biglietto. «No dai, prima piano C, se non va in porto torno al piano B»: chiedere se qualcuno mi cambia la banconota.

Tra gli astanti, una decina in tutto, molti bianchi e qualche africano. Chiedo a un africano, il quale, in un discreto italiano, mi risponde che non ha da cambiare e, senza aspettare ulteriori domande, mi chiede se devo andare a Lecce. Annuisco. Allora mi fa segno di avvicinarci al distributore e, senza dire nulla, digita la destinazione, tira fuori il suo portafogli e mette le monete necessarie alla compera. Mi ha pagato il biglietto! Sinceramente io sono rimasto di stucco, sorpreso, meravigliato. Ovviamente contento, ma allo stesso tempo pensavo, «Chi lo avrebbe mai detto, chi lo avrebbe pensato? Cosa sta succedendo in questo momento?». L’ho ringraziato ampiamente, ci siamo stretti la mano forte, gli ho detto che a Lecce avrei cambiato la banconota per restituirgli i soldi. E lui, pacatamente, sguardo gentile, sorriso sereno, ha detto educatamente di no, che non ce n’era bisogno.

Un africano semplice, sui 35 anni, vestito in forma decorosa, chissà se stava andando a Lecce per vendere ciò che aveva in un mini-trolley bianco un po’ malandato.

Il treno è arrivato. È arrivato anche un suo connazionale e si sono messi a chiacchierare mentre tutti salivamo sul treno. L’ho perso di vista.

Arrivati a Lecce lo ritrovo sulla banchina, gli dico «andiamo al bar a prendere un caffè», e lui, sempre molto decorosamente, declina l’invito. Insisto, lui pure. Mi dice «non c’è bisogno», con occhi gentili e direi felici.

Felice perché? Ha fatto la sua buona azione quotidiana? Ha messo il suo positivo granello di arena nel calderone dell’integrazione? Ci ha insegnato che nero non è uguale a male? (Tanto di moda ultimamente…).

Chissà se qualcuno dei miei compaesani avrebbe avuto lo stesso atteggiamento alla mia richiesta; chissà se, a parti invertite, io mi sarei comportato allo stesso modo. Sta di fatto che lui ha segnato un piccolo grande spartiacque nella nostra ideologia contemporanea.

La gentilezza, l’educazione, la generosità non hanno colore. Se le coltivi, puoi avere la faccia nera, bianca o gialla ed è la stessa cosa. Se non le coltivi, puoi essere bianco, giallo, nero o meticcio e comunque non averle quelle qualità.

Anche perché per coltivare tutte quelle qualità che ci rendono veramente umani, basta avere il cuore e il cuore, si sa, è rosso per tutti.

Carmine Masciullo
Galatina, 01/09/2024

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Un gigante della Missione

Gent.mo padre Gigi,
grazie per il ricordo di padre Oscar Goapper nel recente articolo (del sito rivistamissioniconsolata.it in occasione del 25° del suo passaggio al Cielo). Ricordo ancora quel pomeriggio del 1999 in cui mio papà, dispiaciuto e triste, mi comunicò la notizia, arrivata per telefono, della sua morte. Sapere che non c’era più, dopo così poco tempo da quella laurea con quegli anni di sacrifici e gioie che con amicizia avevo accompagnato come altri, era stato devastante.

Padre Oscar si era laureato in Medicina e chirurgia a Milano, Università degli studi, il 7 marzo 1994, con 110 e lode. Ricordo la commozione, non solo dei confratelli e amici presenti, ma anche dei professori che hanno ascoltato la sua tesi che parlava di Neisu.

Il 7 Luglio 1994 raccontava così il suo ritorno in Africa da medico e missionario: «Carissimi, alla fine sono tornato al punto di partenza, dopo viaggi con peripezie e qualche avventura che in Africa non mancano mai.

Il viaggio fino alla capitale Kinshasa, tutto regolare, il problema è l’aeroporto sommerso sempre nel caos, ma tutto è andato bene perché ci aspettava padre Celestino (Marandu) che ci ha accompagnato per fare tutte le pratiche, anche il visto d’ingresso dopo un’ora e mezza di attesa.

Dopo una settimana in capitale abbiamo preso il volo interno, in un altro piccolo aeroporto, dove tutto è calmo e tranquillo, un aereo a elica che ci ha portati attraverso il cielo africano fino a Isiro, dopo cinque ore di volo. Sull’aereo non si contano i 25 posti, ma i chili, così che più ne stanno e meglio è, la gente viaggia in piedi, accatastati uno sull’altro, tra le borse. Siamo in Africa e tutto è possibile.

Arrivati all’aeroporto nessuno ci aspettava, perché l’aereo era arrivato parecchie ore prima del previsto, poi il superiore ci ha dato l’auto e dopo qualche ponte avventuroso, dopo esserci fermati una ventina di volte lungo la strada per salutare la gente che accorreva dappertutto, siamo arrivati a 300 metri dalla missione. Qui la gente ha bloccato l’auto e sono sceso a piedi tra canti, urli di donne, lacrime, saluti, abbracci, spinte varie. Ho avuto paura e molta emozione allo stesso tempo. Vi confesso che in dieci anni non avevo mai visto i Mangbetu così, mi ha ripagato tanto delle pene, preoccupazioni, fatiche. Tutto, in un momento è stato cancellato».

Padre Oscar ha continuato ad operare e visitare fino all’ultimo giorno. Ha curato un orto di piante medicinali per sopperire ai medicinali che mancavano, ha dato tutto se stesso per la gente che passava per l’ospedale di Neisu, ha fatto crescere medici, infermieri che oggi continuano a dare aiuto, pace e speranza in quell’angolo di Africa dove è rimasto il suo cuore. Un grande grazie (come direbbe padre Oscar) a loro e a tutti coloro che permettono la continuazione di questa opera.
Grazie padre Oscar.  Grazie padri della Consolata per fare memoria e ricordare a tanti questo gigante della Missione.

Carlo
15/05/2024

 

Grazie del bel ricordo di un missionario che ha davvero dato tutto, anche la sua vita (1951-1999). È stato mio compagno di studi a Torino, l’ho visitato nell’83 a Neisu dove esisteva solo un centro di salute molto spartano (vedi le foto), che ha poi trasformato in un centro di eccellenza a servizio dei più poveri, nel cuore dell’Africa. Ricordarlo il 18 maggio è stato un momento bello anche per me mentre, con la memoria, visualizzavo quel posto così remoto trasformato da area di lazzaretti a centro che difende e promuove la vita.


A proposito di Beniamino

Ho letto con molto interesse l’articolo di Angelo Fracchia titolato: «Tamar, una palma nel deserto» (MC 04/2023). Se può avere un valore la mia opinione, condivido in toto il contenuto: bravo Angelo.

Mi permetto solo di suggerire una correzione descrittiva poiché, confrontando il testo biblico, risulta che Beniamino è nato durante il viaggio di ritorno di Giacobbe, nell’ultimo tratto prima di arrivare ad Efrata; il parto è stato drammatico per mamma Rachele perché lei morì subito dopo (Gen 35,16-20).

Questa precisazione mi permette di rilevare l’inesattezza della frase del testo di Angelo Fracchia dove scrive: «A questo punto del libro, Giacobbe ha undici figli (Beniamino non è ancora nato)». In verità la testimonianza di Tamar è descritta sì al cap. 38, ma precedentemente Giacobbe con tutto il suo clan ha trovato residenza al di là di Migdal-Eder (Gen 35, 21) e subito dopo il narratore descrive tutta la famiglia di Giacobbe precisando che ha avuto 12 figli, compreso Beniamino (Gen 35, 22-26).

Il cap. 36 è tutto dedicato alla discendenza di Esaù e il 37 inizia con la storia di Giuseppe e i suoi fratelli tra i quali già vive Beniamino.

Storia che però viene interrotta, come scrive giustamente Angelo, col cap. 38 per fare spazio alla drammatica esperienza di Tamar e di Giuda, alla quale Angelo fa un commento che, a mio avviso, non fa una piega.

So che l’imprecisione descrittiva che mi sono permesso di sottolineare, non toglie nulla al bel commento di Angelo. Potrebbe anche essere che, non essendo io un biblista, mi sia lasciato sfuggire dei particolari che invece confermano che Beniamino non fosse ancora nato; casomai chiedo venia.

Comunque sia, il commento di Angelo è molto bello. Scusate il mio essermi intromesso. Buon lavoro.

Luigi Guarisco
13/05/2024

Bravo a Luigi Guarisco, e non solo in riconoscenza per i troppo generosi complimenti. Disattenzione mia abbastanza rilevante di cui chiedo scusa, ma che è anche l’occasione per ringraziare commosso per tanta delicata attenzione. Mi resta da capire come abbia potuto incorrere in una simile scivolata, ma sono veramente grato per la doverosa correzione.

Angelo Fracchia,
13/05/2024


Da semplice chiesa a cattedrale

Egregio direttore,
un saluto a lei, ai suoi lettori e un augurio di pace a tutti.

Mi chiamo Bertillo Possamai. Sono abbonato a MC da moltissimi anni. Inoltre, sono un ex allievo dei Missionari della Consolata, avendo frequentato la scuola media a Biadene (Treviso).

Dei missionari, miei educatori e professori, conservo un costante e riconoscente ricordo. I padri Tullio Bosello, Adolfo De Col, Domenico Pizzuti e altri, me li porto ancora nel cuore. Il loro esempio di dedizione mi accompagna ancora oggi, anziano di 84 anni.

Un detto latino recita: «Non scholae sed vitae discimus» (non si studia per la scuola, ma per la vita). È anche il mio caso. Questo grazie ai miei maestri missionari.

Porto nel cuore, in modo speciale, anche padre Angelo Pizzaia, mio compagno di scuola a Biadene. Dopo diversi anni ci siamo ritrovati, lui missionario in Tanzania ed io geometra a Vidor (Treviso). Un giorno padre Angelo mi disse:

– Bertillo, perché non manifesti il tuo spirito missionario con qualcosa di concreto.

– Che cosa intendi dire, Angelo?

– Tu sei un geometra. Perché non disegni una chiesa per il Tanzania?

Disegnai una chiesa da costruirsi nella modestissima missione di Mafinga, diocesi di Iringa. Sempre a contatto con i missionari della Consolata. Per diverso tempo ho fatto la spola tra il mio studio di geometra a Vidor e la chiesa in costruzione a Mafinga (vedi foto sotto). E non mancavo di incontrare il mio compagno di scuola, padre Angelo. Il nostro incontro era sempre una festa, dove non mancava una bottiglia di Prosecco, che mettevo in valigia per l’occasione. Ma, se io edificavo una chiesa, padre Angelo «edificava la mia persona» (insieme alla mia famiglia) con la sua generosità e la sua fede cristallina.

Quando nel 2018 padre Angelo Pizzaia morì, dopo aver annunciato per tanti anni il Vangelo nelle diocesi di Iringa e Dar es Salaam, il suo funerale a Onigo (Tv), suo paese natale, lasciò un segno profondo.

Sto scrivendo questa lettera a Dar es Salaam, mentre mi appresto a ritornare in Italia. Lo credereste? Quella stessa chiesa, che io terminai nel 2003, oggi è una cattedrale con un nuovo vescovo, Vincent Mwagala, la cui consacrazione è avvenuta il 19 marzo 2024. Ed io c’ero con mia figlia Simona, il genero Gianni e l’amica Ivana. Una celebrazione che dire solennissima è poco. Al termine il nuovo vescovo mi disse: «Geometra Possamai, grazie. Se non ci fosse stato lei, non ci sarebbe neppure questa cattedrale ed io non sarei vescovo».

Bertillo Possamai
25/03/2024, Dar es Salaam


Che possiamo fare?

Da quindici mesi sono nonna di un cucciolo, Jonatan, che è la gioia e l’interessamento di tutta la famiglia. La dedizione della sua mamma è totale e a volte a rischio della sua stessa salute.

Sarà forse per questo che i fatti di Alessia Pifferi e la sua condanna all’ergastolo mi hanno colpito in modo spropositato. E il mio cuore non trova pace: Alessia ha lasciato morire la sua bimba di 18 mesi, abbandonandola sola in casa, senza assistenza alcuna.

I neonati sopravvivono solo se attorniati dall’interessamento affettuoso di quelli che stanno loro intorno. La mamma e la sorella di Alessia hanno esultato per la sua condanna all’ergastolo. Non sta a me giudicare se sia una condanna esemplare, oppure no. Ma questi fatti chiamano in causa tutta la società. Possibile che nessuno si sia reso conto che questa mamma così insussistente rispetto ai propri doveri, avrebbe dovuto essere supportata? Poteva essere segnalata ai servizi sociali! C’è una dimensione di corresponsabilità che riguarda ognuno di noi!

Le nostre città nascondono persone fragili che possono far male a se stesse o agli altri. Sappiamo essere attenti a quelli che ci stanno attorno? A volte non conosciamo neanche il nostro vicino di pianerottolo. Passiamo indifferenti davanti al mendicante che porge il cappello per l’elemosina.

Siamo ancora cristiani? Siamo ancora umani? Chissà quanti altri casi simili nascondono le nostre anonime città: non è sufficiente scandalizzarsi quando diventano fatti di cronaca nera.

È necessario prevenire. Cosa possiamo fare nel nostro piccolo?

Mira Mondo,
maggio 2024

Cara Mira,
come lei sono anch’io pieno di domande e faccio fatica a trovare risposte. Nonno anch’io – almeno per età – vengo da un mondo dove la privacy non si sapeva cos’era, le case avevano le porte aperte, tutti sapevano tutto di tutti e i bambini giravano in libertà. Mi rendo conto che, invece, oggi abbiamo un sistema di vita che ci vuole isolare e tagliar fuori dalle relazioni di vicinato per trasformarci in un branco di consumatori anomini che riempiono i centri commerciali, gli stadi, le spiagge e le piste da sci.

Sono ammucchiate per poterci spremere, senza darci però il tempo di relazioni umane profonde, di interessarci gli uni degli altri o farci carico delle gioie e dolori reciproci. E così succedono fatti come quello di Alessia, ma anche come quelli di anziani che vengono trovati morti nella loro casa dopo giorni se non mesi. Che fare?

Come cristiani abbiamo un «luogo» che può aiutarci a guarire le nostre relazioni: la parrocchia, nel suo significato originale di «vicinato». Lì, celebrando davvero la «domenica» come famiglia di Dio, nell’ascolto della sua Parola e facendo festa insieme come fratelli e sorelle, possiamo trovare l’energia per rinnovare le nostre relazioni in una logica di amore e di cura reciproca.




Fratelli di guerra


Un libro sul conflitto e sul dialogo, prendendo spunto dagli incontri di Gesù descritti dai Vangeli. Un secondo libro sulla fraternità, partendo dalle storie di fratelli raccontate nella Bibbia. Con l’auspicio di fare diversamente. Un terzo libro sulla città di Kiev dove sia il dialogo che la fraternità si sono interrotti con la violenza.

Dialoghi e Vangelo

Mentre scriviamo sono trascorse già diverse settimane dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina e anche il mondo dell’editoria, com’è normale, fa i conti con la guerra in Europa, con l’indicibile che bussa alle nostre porte.

Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica, promuovendo l’uscita dell’ultimo libro di Johnny Dotti e Mario
Aldegani, imprenditore sociale il primo, sacerdote murialdino il secondo, lo presenta così: «Mandiamo in stampa il volume in quest’alba in chiaroscuro del nuovo millennio, quando bagliori e furori di guerra incredibilmente insanguinano di nuovo l’Europa e minacciano il mondo. Ancora una volta il conflitto, dimensione naturale di ogni relazione umana e sociale, diventa automaticamente violenza e guerra a dimostrazione dell’incapacità di dialogare anche dell’umanità del XXI secolo».

Il libro s’intitola Che cosa cercate? Dialoghi e Vangelo, e passa in rassegna i dialoghi di Gesù, o con Gesù, da cui nascono spunti di orientamento di natura politica, spirituale ed economica.

Il libro, uscito alla vigilia di Pasqua del 2022, si è trovato immerso nella contemporaneità.

Scrivono gli autori: «Il dialogo è una scienza e un’arte. Una scienza perché coinvolge la possibilità di approfondire con un altro o con altri i nostri pensieri e le nostre convinzioni, come anche di condividere le nostre incertezze; la scienza del conversare, nell’Occidente, è diventata principalmente dialettica, a partire dal mondo greco sino ai nostri giorni. Il dialogo, però, è anche un’arte. Non è solo l’incontro di due pensieri, ma di due persone. Non è solo lo scambio tra due intelligenze, ma tra due anime, tra due cuori».

Il percorso di analisi prosegue e focalizza bene il vulnus che stiamo vivendo: in nome della dignità umana, agiamo fino alle estreme conseguenze, avendo come unico risultato la negazione di quella dignità alla quale diciamo di voler finalizzare le nostre azioni.

«Noi, esseri viventi che siamo “mancanza d’essere”, esistiamo perché coesistiamo, perché dialoghiamo. Il dialogo, quindi, ci pare l’orizzonte più concreto per dare forma all’affermazione tanto sbandierata sulla centralità della dignità umana, perché impegna, cioè dà in pegno la nostra parola e ingaggia la nostra presenza; ci riconosce e ci fa riconoscere nel tu per tu come nella manifestazione più alta della nostra dignità e della nostra gioia di vivere».

C’è di che riflettere, e molto, in un momento nel quale la parola e il pensiero sono negati dal rumore dei cingoli dei carri armati e dallo strazio dei civili travolti dalla tragedia della guerra.

Prove di fraternità

Altri spunti di riflessione ce li offre don Luigi Maria Epicoco, il giovane sacerdote brindisino che si è ritagliato con merito un ruolo nell’empireo degli «influencer» del mondo ecclesiale.

In marzo è uscito il suo ultimo libro In principio erano fratelli con Tau editrice.

Il punto di partenza dell’analisi di don Epicoco è il conflitto che alberga in ciascuno di noi, letto partendo dalla Bibbia.

Caino e Abele, i figli di Noè: Sem, Cam e Jafet. Poi Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i fratelli.

Scrive l’editore umbro presentando il volume: «Tutto il racconto della Genesi è abbracciato da una grande parentesi di fraternità fallite. La Bibbia mette queste vicende proprio all’inizio perché nella parte più profonda dell’uomo è sedimentata una ferita, un fallimento, un anello debole, non la capacità ideale di essere in relazione e in comunione. C’è una parte di noi che va presa in considerazione, offerta a Dio e redenta, affinché non diventi famelica e omicida. Soltanto questo farà di noi persone libere e capaci di amarsi. Figli (quindi fratelli) e non servi».

Pensando a quanta difficoltà ha la chiesa ortodossa russa nel denunciare la follia dell’uso delle armi, queste parole risuonano fortissime.

E lo stesso Epicoco aggiunge: «Viviamo in un tempo in cui si sente spesso parlare di fraternità, e questo può risultare davvero controcorrente in un’epoca come la nostra, dominata da un potente individualismo alimentato dalla cultura contemporanea. Nel mondo degli individualisti non esistono fratelli, ma solo figli unici».

Un mondo di figli unici: un’immagine forte, che rende bene il contesto che stiamo vivendo.

Kiev

Il contesto della guerra, quella attuale, lo ha descritto bene l’inviato speciale di «Avvenire», Nello Scavo, che per Garzanti ha scritto Kiev, un vero e proprio diario dei primissimi giorni di guerra.

Nello Scavo, esperto inviato di guerra, raggiunge la capitale ucraina a metà febbraio 2022, quando la minaccia di un attacco russo si fa sempre più insistente, ma ancora in pochi credono possibile l’invasione.

Da quel momento, il giornalista registra senza censure il rapido tracollo di una situazione che si fa sempre più pericolosa: la dichiarazione dello stato di emergenza, il trasferimento delle ambasciate, e poi le esplosioni, le colonne di carri armati, il disperato esodo dalle città.

Giorno dopo giorno Nello Scavo descrive i movimenti delle truppe russe e la resistenza degli ucraini; approfondisce le conseguenze politiche ed economiche dei combattimenti; svela le ragioni ideologiche alla base delle decisioni dei leader.

Allo stesso tempo non dimentica la dimensione umana del dramma in corso, raccogliendo le testimonianze dirette di chi da un momento all’altro ha dovuto abbandonare la casa, ha perso la famiglia, ha scelto di imbracciare un fucile.

«Kiev» è un diario personale dal conflitto nel cuore dell’Europa, scritto sul campo da un giornalista chiaro nello spiegare le ragioni di quanti la guerra la decidono, ma soprattutto capace di dare voce a coloro che questa tragedia sono costretti a subirla.

Il suo scritto è prezioso.

«Non esistono parole giuste per raccontare la guerra – sostiene -. Ma di certo esiste il modo migliore: in presa diretta».

Questa guerra è la prima che vede i social network e l’hackeraggio informatico schierati sui due fronti e usati come arma.

Se l’informazione ufficiale è poco attendibile, e lo è, non rimane che ascoltare la voce dei testimoni. Sono loro gli unici in grado di restituirci la realtà del momento, a raccontare il qui e ora senza possibilità di fraintendimenti.

Sante Altizio


Libro Emi del mese: