Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Siamo tutti fratel Argese

Si è concluso il 25 marzo 2024, con la premiazione il concorso dal titolo «Siamo tutti fratel Argese – la cura del creato» organizzato dalla onlus Nostra Africa, dagli amici dei Missionari della Consolata e con il patrocinio del comune di Martina Franca. Vi hanno partecipato le scuole di ogni ordine e grado del territorio cittadino. Il concorso è giunto aIla terza edizione.

Fratel Giuseppe Argese (1932-2018), nativo di Martina Franca e missionario della Consolata, è una celebrità in città dove è iscritto tra le persone «patriae decor» (cioè decoro della patria) sulla lapide all’entrata del palazzo ducale sede del municipio.

Ogni anno, dalla sua morte, l’onlus Nostra Africa in collaborazione con i Missionari della Consolata ne mantiene viva la memoria. Particolarmente attivo è padre Pio Callegari, che per diversi anni è stato nella stessa missione con fratel Argese ed è quindi la persona più adatta a divulgare l’opera meravigliosa di Mukiri (il silenzioso, come lo chiamavano i suoi amici africani) sia a Martina Franca che in diverse parrocchie di Taranto. Fin da subito fu presa in considerazione l’idea di una attività regolare per far conoscere, specie ai giovani a Martina, l’ideale e l’opera di fratel Argese, sia per il suo grande amore per gli africani che per il profondo rispetto e cura che aveva dell’ambiente, del creato (che si rispecchiava anche nella ricchezza e varietà del suo orto – vedi foto -, curato come un giardino, ndr).

È nata così l’idea di un concorso tra le varie scuole di Martina.

Queste le tematiche affrontate negli ultimi tre anni scolastici.

  • 2021- 2022: «Siamo tutti fratel Argese: l’acqua».
  • 2022 – 2023: «Siamo tutti fratel Argese: la siccità».
  • 2023 – 2024: «Siamo tutti fratel Argese: la cura del creato».

Ogni anno padre Pio, visita le scuole della città per presentare agli studenti di vario ordine la persona, gli ideali e il lavoro di Mukiri. La Nostra Africa, con il patrocinio del comune e associazioni/privati, ha finanziato tre premi di 1.000 € ciascuno.

Ecco i premiati di quest’anno (nelle foto qui di fianco):

1 C – Amedeo di Savoia

Perché gli elaborati grafici e multimediali degli alunni rappresentano coerentemente le problematiche ambientali e sociali del tema del concorso. Dai lavori emerge la consapevolezza delle sfide ambientali e sociali della società in cui viviamo e del suo futuro, l’individuazione del proprio ruolo di cittadinanza attiva per una nuova vivibilità della terra e della società.

1 C – Giovanni XXIII

Perché gli alunni, attraverso un e-book, lavori di animazione e un testo poetico hanno espresso con racconti fantastici, descrizione di esperienze e simulazioni, una conoscenza dei temi dell’ambiente originale e creativa auspicando la salvaguardia e la bellezza del creato.

Premio Siamo tutti fratel Argese 2024 (foto non in ordine preciso)

Istituto Maria Ausiliatrice – scuola primaria S. Teresa

Perché gli alunni hanno evidenziato nei lavori grafici e multimediali con consapevolezza l’importanza delle risorse naturali della terra ponendosi positivamente per un impegno responsabile e diretto nella cura dell’ambiente e delle sue specie viventi.

I premi verranno spesi per migliorie dell’ambiente scolastico.

La manifestazione è stata definita «interessante e lodevole» dal pubblico che ha letteralmente gremito la sala consigliare. La vicesindaca e gli assessori presenti si sono compiaciuti con gli ideatori e organizzatori del concorso per aver scelto una tematica attualissima che ha consentito a oltre trecento ragazzi e ai loro docenti di riflettere sull’attuale condizione del pianeta terra.

Margherita Martucci
Martina Franca, 13/05/2024

Giubileo di 75 anni

«La vergine mi inspira a fondare l’Istituto dei fratelli». Così affermava mons. Attilio Beltramino, missionario della Consolata, fondatore dell’Istituto dei Servi Cordis Immaculati Mariae (Scim). È un istituto di diritto diocesano, fondato dal primo vescovo della diocesi di Iringa in Tanzania nel lontano 31 maggio 1949.

Da allora sono passati esattamente 75 anni. È giubileo!

L’8 giugno 2024, festa del Sacro Cuore di Maria, si sono svolte le celebrazioni a Tosamaganga, dove sorge la casa madre dell’istituto. Quel giorno ha visto numerosissime persone, da diverse parti del Tanzania, radunarsi per ringraziare il Signore per le cose grandi che ha operato in questi 75 anni. Erano presenti il presidente della Conferenza episcopale del Tanzania mons. Gervas Nyaisonga, il nunzio apostolico mons. Angelo Accattino, l’arcivescovo di Songea mons. Damian Dallu, il vescovo di Iringa mons. Tarcisius Ngalalekumtwa, il vescovo di Mpanda mons Eusebius Nzigilwa e i nuovi vescovi di Njombe e Mafinga, Monsignori Kyando e Mwagalla (foto qui sotto).

«Il giubileo è un momento di grazia, ma anche un momento per chiedere perdono per non essere stati coerenti alla propria vocazione religiosa e alla vita cristiana. È soprattutto un momento per rinnovarsi, in modo tale che, celebrando il prossimo giubileo del centenario, possiamo essere cresciuti in numero e qualità», ha sottolineato il superiore generale dell’istituto fratello Christopher Chavala.

Mons. Nyaisonga nella sua omelia ha sottolineato l’importanza di avere Maria come modello, lei che ha avuto un cuore immacolato. «Colpisce, ha detto, notare che il fondatore ha voluto che i fratelli rispecchino Maria, cioè abbiano un cuore immacolato. Solo chi ha un cuore pulito, immacolato, può servire efficacemente la Chiesa e l’umanità».

Nell’occasione si è celebrato pure il cinquantesimo della vita religiosa del fratello Gaspar Chongolo.

L’istituto ha il carisma di servire l’umanità in modo olistico, cioè il corpo e l’anima in modo profondo e costante nella catechesi, formazione, educazione, edilizia, e sanità.

In questi 75 anni l’istituto ha contato 143 membri. Al momento presente ci sono 98 fratelli con voti perpetui, 45 professi, 12 novizi e 5 postulanti e 25 aspiranti. Svolgono il loro apostolato nelle diocesi di Iringa, Mbeya, Sumbawanga, Mpanda, Mwanza, Geita, Moshi, Mbulu e Dar es Salaam. Il beato Giuseppe Allamano, che sarà canonizzato prossimamente, in questa occasione avrebbe detto: «Carissimi fratelli Scim, il Signore vi benedica e dia coraggio, e avanti in Domino». Il bello deve ancora venire.

Baba Godfrey Msumange
13/06/2024 – Mafinga

Matteo, ciao

«Nessuno è ancora riuscito a spiegarmi come mai, durante la stagione dell’harmattan (un vento molto forte e polveroso, ndr), quando ti trovi polvere rossa anche fra i denti, i mucchi di cotone nei campi rimangono bianchi immacolati».

È questa frase la prima cosa che mi viene in mente quando penso a padre Matteo Pettinari.

Questa, e l’immagine di un cartone di uova appoggiato sulle gambe, sue e mie, mentre eravamo seduti nel doppio sedile per il passeggero tipico di molti 4×4, con padre Ramón Lázaro Esnaola (nella foto sotto) alla nostra sinistra che guidava da Dianra a Dianra Village, dove stavamo andando per visitare il centro di salute che Matteo accompagnava.

la mano di Chiara che tiene le uovo e quelle di padre Matteo che maneggia il tablet per pregare il breviario

Era mattina presto, saranno state le sei. Il cartone di uova serviva per il programma nutrizionale del centro e io tentavo di proteggerlo dai sobbalzi del 4×4 tenendolo fermo con le mani. Matteo lo bloccava invece con i gomiti, perché con le mani reggeva un tablet, dal quale leggeva le lodi mattutine: «Abbiamo giusto quaranta minuti di strada», aveva detto poco prima con un gran sorriso, quasi a infondermi un po’ di forza dopo aver constatato la mia aria non proprio vispa per via della levataccia, «è perfetto per iniziare con una preghiera questa bella giornata di sole».

Ho conosciuto Matteo lavorando all’ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus, mi piace pensare che siamo cresciuti professionalmente insieme nel corso di oltre un decennio. Il rapporto di stima e di simpatia si era creato all’inizio via mail e via whatsapp, ma poi nel 2017 sono andata in Costa d’Avorio e lì ho avuto la possibilità di passare più tempo con lui visitando la missione, il dispensario e le sue casette della salute, la chiesa allora non ancora completata e la piccola ma vivace comunità di Sononzo.

Da quel momento, dopo averlo visto al lavoro e dopo le lunghe chiacchierate sulla Costa d’Avorio, sulla missione, sulla cooperazione, essere in contatto con Matteo non è più stato soltanto come seguire un bravo collega che presentava opportunità e problemi di lavoro, ma come ascoltare un amico con cui condividere, benché da lontano, difficoltà, soddisfazioni, timori, sogni.

Il suo modo di lavorare mi era piaciuto da subito: Matteo era preparato, studiava, si informava, sapeva con esattezza che cos’era un progetto, in tutto quello che faceva ci metteva cura, precisione, attenzione. Parlava un francese e uno spagnolo eccellenti, modulandone anche la pronuncia per avvicinarsi a quella dell’interlocutore e risultare sempre chiaro ed efficace.

Ma col tempo ho capito che c’era uno strato più profondo, che andava oltre la padronanza della lingua, o l’aver appreso e l’applicare una tecnica, o la semplice volontà di fare le cose bene: Matteo ci metteva quella cura perché sapeva che dietro ogni progetto, ricevuta, dato statistico, rapporto sulle attività, dall’altro capo di ogni connessione internet, c’era una persona. Un paziente, o un lavoratore del centro di salute, un collega, un confratello o un membro di un’associazione amica, un donatore, un benefattore, un parrocchiano.

Fare e dire le cose bene era il suo modo di dirti: io ho a cuore te e la relazione che creo con te, perché questa è la cosa più importante. Le relazioni e la loro capacità di costruire una comunità in cui nessuno sia più solo, in cui ognuno abbia dignità e si senta responsabile dell’altro. È per questo che lavorare con lui sfuggiva alla logica del semplice aiutare e assistere e diventava un condividere, un immergersi, un capire ogni volta un pezzetto in più: della Costa d’Avorio, di Dianra, del mondo e anche di noi stessi.

Quanto ho imparato da te, Matteo. Mi mancheranno molto i tuoi vocali: «Chiara, ciao, ho sentito i tuoi messaggi, ti rispondo al volo, che sto andando [al centro di salute, a un incontro, in chiesa, alla sottoprefettura, …], scusa, poi ci sentiamo con calma, però intanto dimmi: come stai?».

Mi mancheranno il tuo modo di prenderti cura, la tua ironia bonaria, fatta per sdrammatizzare, alleggerire. Mi mancherà la tua curiosità, la tua voglia di capire, il tuo costante sforzo di concentrarti su ogni persona e sul presente senza perdere la visione d’insieme e senza smettere di immaginare il futuro. Mi mancherà la tua intelligenza limpida e generosa.

Ciao Matteo, grazie davvero.

Il mio modo di portarti con me sarà fare del mio meglio perché non si rompa neanche un uovo, affinché tutti arrivino a destinazione.

Chiara Giovetti
14/06/2024 – Senigallia




Per attrazione

testo di Luca Lorusso |


Ventisette anni in Kenya, cinque in Italia, due in Liberia, undici in Tanzania. Si possono riassumere i 45 anni di missione di fratel Sandro in cinque pagine? Ci proviamo, attraverso aneddoti, date e nomi di luoghi pieni d’incontri.

Settant’anni compiuti poco meno di un anno fa. Un’energia invidiabile. Una parlantina che parte lentamente, ma che, una volta avviata, va decisa. Una lunga esperienza missionaria: ventisette anni in Kenya, cinque in Italia, due in Liberia, undici in Tanzania.

Fratel Alessandro Bonfanti, nato a Robbiate, Como, il 9 maggio 1949, chiamato da tutti Sandro, si siede di fronte a noi e ci guarda con occhi schietti che sembrano scrutarci.

Quando iniziamo a registrare la sua voce, sembra imbarazzato, ma l’imbarazzo, se c’è, è solo temporaneo, e inizia a raccontare la sua vita partendo da Neema, una ragazza che oggi ha tredici anni e che lui ha conosciuto poco dopo il suo arrivo nel 2009 in Tanzania.

Neema (cioè Grazia)

«Quando sono arrivato in Tanzania, sono stato mandato alla procura di Dar es Salaam dove passano molti missionari e missionarie, sia della Consolata che di altre congregazioni o fidei donum.

Un giorno, una suora italiana di Vingunguti, slum alla periferia della città, mi ha chiesto se conoscessi un posto che potesse accogliere una bimba con un handicap grave. Io ero appena arrivato, e non sapevo.

Poco tempo dopo sono passato dalla suora per avere notizie, e lei mi ha portato in una baracca. Dentro c’era una mamma con un neonato al petto. In un angolo scuro c’era una bimba di due anni che non parlava, non stava in piedi e nemmeno seduta. La mamma era stata abbandonata dal marito perché considerata incapace di fargli una creatura normale. Ora aveva una relazione con un altro uomo da cui era nato il piccolo che stava allattando, ma quell’uomo non voleva tenere la bambina».

Fratel Sandro si è preso a cuore la situazione, e ha iniziato a cercare: «Nessuna istituzione era in grado di occuparsi di una bimba che avrebbe trascorso tutta la vita in modo non autonomo».

Negli anni trascorsi alla procura, fratel Sandro ha incontrato molte persone: «Un giorno è venuto padre Filippo Mammano, un fidei donum siciliano, per delle spese, e mi ha raccontato che nella sua missione di Ilula aveva un orfanotrofio. Allora io gli ho parlato della bambina e, dato che lui sarebbe rimasto da noi fino all’indomani e aveva il pomeriggio libero, mi ha detto: “Andiamo”.

Quando siamo arrivati lì non ci siamo detti niente, ma ho visto che anche lui è rimasto colpito. Siamo tornati in procura, abbiamo cenato assieme, e dopo cena ci siamo seduti fuori. Mi ha detto: “Portamela a Ilula. Ho già del personale che segue gli orfani. Una in più una in meno…”».

Ilula, dove padre Filippo è parroco da 30 anni, si trova a 450 km da Dar es Salaam. Fratel Sandro si è accordato con lui e gliel’ha portata, «naturalmente insieme alla mamma che è rimasta lì due giorni, e poi è tornata».

Fausta la biologa

Fratel Sandro è felice di parlare di Neema e di padre Filippo: muove le sue grandi mani in gesti ampi e accompagna la narrazione con tutto il corpo, sottolineando i passaggi importanti con piccole pause e puntando i suoi occhi nei nostri.

Prosegue: «Una delle prime bambine che padre Filippo ha aiutato è stata una certa Fausta, cresciuta in missione. Dato che era brava a scuola, l’ha mandata a studiare biologia a Catania. Quando si è laureata ed è rientrata in Tanzania, ha detto a padre Filippo: “Tu mi hai aiutata, e io per un anno lavoro gratis per l’orfanotrofio”. Fausta aveva già ricevuto due richieste di lavoro da due università, tra cui quella di Iringa, a 45 km da Ilula.

Nel frattempo, è arrivata Neema, e Fausta le si è affezionata. In più, poco tempo dopo, Fausta ha saputo che lì a Ilula era morta una mamma durante il parto. Aveva partorito una bambina e il papà non si era fatto vivo. Nessun parente. Allora Fausta l’ha presa con sé e l’ha adottata.

Oggi Fausta è l’incaricata dell’orfanotrofio. Intanto, avendo già Neema, hanno iniziato a prendere altri bambini con handicap vari, e ora, su 120 ospiti, la metà ha bisogni speciali, alcuni anche con problemi mentali».

Neema, nel tempo ha iniziato a mangiare da sola e a parlare. Stando con gli altri, impara molte cose. «Poi ha la sua carrozzina – prosegue fratel Sandro -. Adesso sta dritta e non cade più. E comincia anche a scrivere.

Padre Filippo prende gli scarti degli altri. Quando c’è qualcuno che non trova posto da nessuna parte, come Neema, da padre Filippo trova accoglienza».

«Vieni e vedi»

Fratel Sandro è arrivato in Africa nel 1973, a 23 anni. La professione perpetua l’ha fatta a fine ‘74, ma la prima professione temporanea l’aveva fatta nel ‘68, appena diciannovenne.

Gli chiediamo quando ha sentito la chiamata a diventare fratello missionario.

«Io non ho sentito nessuna chiamata – ci dice lui, forse un po’ divertito dall’idea di darci una risposta poco convenzionale -. Quando ero piccolo, il parroco mi ha chiesto più di una volta di fare il chierichetto, e io mi sono sempre rifiutato. I miei erano molto religiosi, mio papà era presidente dell’Azione cattolica del mio paese e durante l’estate mi mandava all’oratorio feriale. Il prete addetto all’oratorio chiamava tutti gli anni un missionario della Consolata dalla casa di Bevera (Lecco). L’estate prima di iniziare le medie è venuto padre Ugo Benozzo, che ci raccontava storie di missione e ci faceva vedere film. Un giorno mi ha chiesto: “Ti piacerebbe essere missionario?”. Io non ci avevo mai pensato, ma in quel momento dovevo dire sì o no. Mi sembrava che se gli avessi detto di no l’avrei offeso, allora ho detto di sì. Ho pensato: “Tanto questo non lo vedo più…”. Solo che dopo un mese è tornato in paese e mi ha cercato. Allora io ho cominciato a oppormi: “Ma no, io missionario!”. Lui mi ha detto: “Guarda, vieni e vedi…”, io alla fine sono andato, e sono ancora qui».

Agosto 1965, Olimpiadi estive. La squadra della IV ginnasio nel seminario di Bevera di Castello Brianza. Fratel Sandro è il portiere.

In Kenya

Entrato in seminario minore a 11 anni, dopo tre anni Sandro aveva già le idee chiare: voleva diventare fratello. «Dalla quarta ginnasio mi sono detto: “Io non voglio annoiare la gente con le prediche”. Sono stato sempre restio a presentarmi in prima persona».

Allora si è dedicato allo studio della meccanica e, finite le superiori, nell’ottobre 1968, ha fatto la prima professione temporanea. Destinato alla procura di Alpignano (To), vi è rimasto per quattro anni facendo anche un corso di edilizia per corrispondenza.

«Nel 1972 ero ad Alpignano quando padre Guido Motter, vice superiore generale, è arrivato e mi ha chiesto di partire per il Kenya. Quindi sono stato nove mesi in Inghilterra per imparare l’inglese, e in Kenya sono arrivato nel ‘73, destinato a Kaheti, a 140 km a Nord di Nairobi, in una scuola di edilizia e falegnameria. Lì c’era fratel Vincenzo Quaglia. Per tre anni ho gestito la scuola».

Nel frattempo, nella scuola tecnica di Sagana, 30 km più a Sud, volevano aprire la sezione di edilizia. «Il preside padre Giuseppe Bertaina, un giorno mi ha parlato del progetto. Io pensavo che volesse solo una consulenza, invece dopo quindici giorni è arrivato il superiore dicendomi: “Ti sei già messo d’accordo per andare a Sagana? Mi hanno detto che saresti disposto ad aprire la sezione di edilizia”, insomma – ride fratel Sandro -: mi sono trovato incastrato».

A Sagana fratel Sandro è rimasto quattro anni, fino a quando, nel 1980, è stato mandato a Nanyuki per dare una mano nella procura della diocesi di Marsabit. «Lì ho fatto due anni: raccoglievamo e spedivamo materiali di tutti i tipi.

Poi mi hanno chiesto di aiutare padre Ottavio Santoro, amministratore regionale del Kenya, e mi sono trasferito nella capitale».

Qualche gara di rally

Quando fratel Sandro è andato a Nairobi, ha incontrato un suo ex studente che nel frattempo si era sposato, trasferito nella capitale e aveva iniziato a fare i rally.

«A Sagana insegnavo disegno per le costruzioni e disegno meccanico. Quando sono finito a Nairobi e ho incontrato questo mio studente, lui mi ha chiesto se volevo andare nel suo team. Io gli ho detto: “Guarda che non sono un meccanico”. E lui: “Ma come? A scuola mi hai insegnato disegno!”. Comunque, per curiosità, sono andato, e, alla fine, una corsa tira l’altra, mi ha coinvolto nell’organizzare il lavoro dei meccanici, e così sono stato nel mondo dei rally per cinque anni. Ero giovane. Avevo molta voglia di girare. In Kenya ci sono deserti, montagne, pianure, e con i rally ho avuto occasione di girarlo in lungo e in largo. In ogni caso – conclude -, andavo solo qualche domenica all’anno».

A Sagana con Fr Marino De Cesari e fratel Achille Gasparini.

A Morijo tra i Samburu

A Nairobi nell’amministrazione, fratel Sandro è rimasto dal 1982 al 1986. «Un giorno il superiore mi ha detto: “Vai in seminario”. Allora ho fatto l’amministratore in seminario per quattro anni. Poi ho detto al superiore che sentivo di non essere mai stato in missione, nonostante fossi in Africa dal ‘73. Un giorno mi ha chiamato e mi ha chiesto se volevo andare nel Samburu, a Morijo, con padre Aldo Vettori. Sono stati quattro anni magnifici. Lì mi sono sentito missionario.

Morijo si trova in cima a un cucuzzolo. Per fare una casa, e la chiesa, prendevamo dei pali di legno, poi mandavo gente a raccogliere sassi piatti e li inchiodavo con chiodi di sei pollici. Da fuori sembrava una casa di sassi. Dentro invece mettevo una rete e intonacavo creando una camera d’aria per tenere il fresco.

Poi c’era il problema dell’acqua. In cima al cucuzzolo ho fatto un muretto. Quando pioveva, l’acqua veniva raccolta in due cisterne, e da lì veniva giù e si usava per lavarsi. Per bere veniva bollita e filtrata. Quando pioveva, si formava una specie di torrente. L’acqua veniva fuori da una pietra. Allora ho iniziato a scavare e quando siamo arrivati alla profondità di un metro abbiamo trovato l’acqua. In seguito, abbiamo fatto fare un pozzo».

La ragazza posseduta

«Nel territorio della missione di Morijo c’erano i Samburu e i Turkana. Un giorno mi hanno chiamato per una donna Turkana che dicevano indemoniata. Lì c’era anche l’infermiere che mi ha detto: “No, è epilettica”. Allora abbiamo preso la ragazza, che avrà avuto 18 anni, e l’abbiamo portata all’ospedale di Wamba dove una suora mi ha detto: “Queste sono le medicine da darle, se le prenderà, starà bene”. Allora l’ho riportata al suo villaggio e ho chiesto al catechista di dare tutti i giorni la pastiglia alla ragazza. Dopo un anno, non aveva più crisi epilettiche. La gente del suo villaggio però mi ha detto: “Questa ragazza che hai portato via e guarito, non troverà un marito. Nessuno ha il coraggio di avere una relazione con lei, chissà che non ci sia un rimasuglio del demonio”. E mi hanno detto: “Fai come se fosse tua”. Per gli anziani era diventata mia responsabilità. Allora io l’ho mandata al catechismo nel villaggio, e dopo un po’ è stata battezzata».

L’italia

Dopo l’esperienza nel Samburu, fratel Sandro, nel 1994 è tornato a Nairobi nell’amministrazione. Dopo sei anni, nel 2000, ha ricevuto la notizia che sua mamma stava male, ed era grave: «Nel 1989 era morto mio papà. Lui era paralizzato, e i miei fratelli avevano fatto a turno per assisterlo. Quando si è ammalata mia mamma, una mia sorella mi ha detto. “Ci sono missionari che vengono a casa per assistere i genitori ammalati. Vieni anche tu. Mamma è grave”. Allora ho chiesto di venire in Italia, ma quando sono arrivato, mia mamma è morta dopo due settimane. Era il 2001. Quindi sono andato a Roma per chiedere di tornare in Kenya, ma il vice superiore mi ha detto: “Ti abbiamo destinato in Italia, e adesso rimani in Italia”. Ha chiamato padre Franco Gioda, superiore in Italia in quel momento, e mi hanno mandato ad Alpignano a servizio dei missionari anziani.

Gioda mi ha detto: “Se accetti, io in un anno ti rimando in Africa”.

Passato l’anno mi sono fatto avanti per chiedere di ripartire, ma Gioda mi ha chiesto: “Perché? Non ti trovi bene?”. Poi ha tirato fuori gli Atti degli apostoli… sai com’è Gioda… Alla fine sono stato cinque anni. Fino al 2006».

Liberia

Quando finalmente fratel Sandro è tornato in Africa, non è tornato in Kenya, ma è andato in Liberia, paese appena uscito da 14 anni di guerra civile. «Padre Stefano Camerlengo mi ha proposto di andare nel lebbrosario di Ganta, sul confine con la Guinea Conakry, per aiutare le suore della Consolata.

Se dovessi dire dove mi sono trovato meglio in missione, risponderei a Morijo tra i Samburu e a Ganta tra i lebbrosi. Tra i due, comunque, sceglierei la Liberia. Mi occupavo della manutenzione del lebbrosario, ma tutti i giorni facevo il giro dei malati. Con loro mi sono trovato bene. Subito dopo la guerra erano una quarantina, dopo un po’ sono arrivati a 250. In Liberia quell’ospedale era un punto di riferimento. Venivano anche dalla capitale.

Tra i lebbrosi mi sentivo voluto bene. Quando ho detto che sarei andato via, volevano costruirmi una casetta per quando sarei tornato a trovarli».

In Tanzania

In Liberia, fratel Sandro si era abituato a stare da solo. «Quando sono venuti a dirmi che dovevo tornare in comunità, ho detto: “Guardate che ho 60 anni, mio fratello, che è più giovane di me, è andato in pensione quest’anno, non pensate che possa fare chissà che cosa”. Mi hanno risposto: “Va bene, per la tua pensione vai in Tanzania”».

Arrivato nel 2009, fratel Sandro ha fatto due anni e mezzo in procura a Dar es Salaam, dove ha conosciuto Neema e padre Filippo, e poi quattro anni nella casa regionale di Iringa, come segretario del consiglio regionale.

«Durante la conferenza regionale del 2015, padre Sandro Nava ha parlato di una farmacia a Iringa iniziata da padre Salvador Del Molino, e ha chiesto a me di occuparmene. L’idea era questa: fare una farmacia per vendere i medicinali alle missioni, ai dispensari e alla gente a prezzi accessibili. Si trattava di fare un magazzino per vendere all’ingrosso. Ho iniziato, e ora vendo medicine per un raggio di 200 km».

Fratel Sandro Bonfanti e papa Francesco

Quando diventi prete?

Se c’è una cosa su cui fratel Sandro torna volentieri nelle due ore che stiamo insieme, è la specificità della sua vocazione.

«Io non sono un sacerdote. Sono missionario della Consolata, ma sono un fratello.

Da quando sono diventato fratello, tutti mi chiedono: “Quando diventi prete? Perché non diventi prete?”. Io però non mi sono mai visto come un sacerdote. Desideravo andare in missione e aiutare le missioni e la gente.

Anche quando sono diventato fratello mi facevano domande: “Sai quello che fai? Sei sicuro?”.

Ecco, sulla parola sicuro, direi che uno non è mai sicuro, uno ci prova. Avevo 23 anni quando sono partito per il Kenya. Ho detto: “Io ci provo”, e ci sto ancora provando.

Io vedo la vocazione del fratello nella vita di Gesù. Lui infatti ha vissuto come una persona normale, come un laico. Non si è presentato come sacerdote, non era un levita, non era un fariseo. Quando la gente lo vedeva, diceva: “È figlio del falegname”.

Poi guariva, insegnava, s’interessava della gente.

Il fratello trova un esempio per sé nella vita di Gesù. Il fratello è quello che si mette al servizio degli altri. L’evangelizzazione non si realizza con il proselitismo, ma avviene per attrazione: vedono che tu ti comporti in un certo modo e si sentono di fare altrettanto.

Anche noi fratelli, pur non predicando, con il nostro esempio siamo evangelizzatori.

Noi padri e fratelli della Consolata abbiamo gli stessi voti, lo stesso nome, viviamo in comunità, però per gli uni la professione è quella del sacerdote, noi fratelli invece possiamo fare qualsiasi mestiere e ci esprimiamo con quello. Oggi il fratello può essere un avvocato, uno che tiene i conti, un medico, un infermiere, un tecnico.

Questo per dire che la missione non è fatta solo da sacerdoti annunciatori, ma anche da tanti professionisti di qualsiasi campo.

E se ci sono dei laici che desiderano avere il nostro spirito, ben vengano. Perché non è necessario essere dei fratelli, come lo sono io. La missione è aperta a tutti. La missione è aprire il cuore della gente. Tu devi avere un cuore aperto al mondo».

Luca Lorusso




Con Puat Subyz nella Raposa Serra do Sol

testo e foto di Dan Romeowww.iviaggididan.it


Incontro fratel Francesco Bruno, detto Cico, classe 1946 di Pinerolo (Torino), a Boa Vista, in Roraima, Brasile. Arrivato là nel ‘76, è un uomo d’altri tempi, con un umorismo contagioso e una manualità in grado di passare dalla riparazione di un carburatore alla realizzazione di chilometri di acquedotti. Lo definisco un eroe, capace di amore, dedizione, passione, tenacia e coraggio. Trascorro con lui pochi giorni alla scoperta delle missioni tra i popoli indigeni e dei progetti realizzati.

A bordo del suo camioncino Chevrolet raggiungiamo le missioni di Maturuca e Camarà. Le lunghe ore trascorse insieme mi aiutano a comprendere, attraverso i suoi racconti, le questioni che lo preoccupano maggiormente e che affliggono i territori indigeni minacciati da fazendeiros e garimpeiros (allevatori di bestiame e cercatori d’oro).

Questi ultimi stanno sfruttato da tempo le terre ancestrali occupandole abusivamente e attentando con ogni mezzo alla stessa esistenza delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingarikó e Patamona.

Per i popoli indigeni la terra è tutto, è la vita stessa. Soddisfa tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Fornisce cibo e riparo ed è il fondamento della loro identità e del loro senso di appartenenza.

Le invasioni e la situazione dei territori indigeni

L’invasione dei territori indigeni si protrae da oltre 500 anni ed è stata da sempre attuata attraverso la violenza sulle popolazioni, la distruzione degli ecosistemi, il furto delle conoscenze e la schiavitù fisica e spirituale. Una guerra che sembra non avere fine.

Il decennio che volge al termine rivela quanto il colonialismo rimanga vivo e operativo. Un’offensiva orchestrata da potenti interessi finanziari, corporazioni neo-estrattive e megaprogetti di sviluppo, continua a minacciare vite, culture e territori.

L’avanzare dei governi di destra e autoritari in Brasile rafforza la strategia di colonizzazione che va contro i diritti delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol, attraverso meccanismi istituzionali che favoriscono quelli che alcuni definiscono etnocidio ed ecocidio.

Nonostante le violenze subite, le popolazioni indigene resistono e vogliono essere soggetti del proprio destino. La causa indigena appartiene a tutti, indigeni e non. I processi come la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico rappresentano, infatti, una minaccia crescente per il mondo intero.

L’intervista

Dopo il nostro primo incontro a Raposa Serra do Sol, ho occasione di incontrare Puat Subyz, questo il nome indigeno di fratel Cico (sarebbe Chico, pronunciato scico in brasiliano, ndr), varie volte. Puat Subyz significa scimmia urlatrice, ma, come precisa lui stesso, l’origine del soprannome deriva dalla barba che all’inizio portava bella folta e fluente.

Mi racconti l’origine della tua vita da missionario in Roraima?

«Tutto è nato quando ho saputo che i missionari in Brasile avevano bisogno di un meccanico riparatore.

Quando sono arrivato a Boa Vista, nel 1976 e, più precisamente, a Calungà, dopo soli tre giorni, un missionario mi ha invitato ad andare con lui in moto in un villaggio indigeno. Un viaggio sotto la pioggia e segnato da numerose cadute nei profondi banchi di sabbia fine. Arrivati nella chiesetta del villaggio, il missionario, in abito talare bianco, durante la sua predica ha puntato il dito verso l’esterno della chiesa dicendo ai fedeli, cinque donne e sei bambini: “Voi non dovete fare questo”. Indicava gli uomini del villaggio che dormivano tra le alte erbacce dove erano caduti durante la sbornia della sera precedente.

Da quel giorno, iniziai a chiedermi come fare per evangelizzare e riparare le persone in panne (e non più solo gli automezzi)».

Quali sono state le tappe della tua lunga esperienza?

«Da quel lontano 1976, ho vissuto 14 anni a Calungà nel Centro Educativo della Consolata, insegnando e lavorando a riparare macchinari e automezzi della diocesi e della popolazione locale. Il fine settimana, partivo alla volta dei villaggi di lingua indigena Wapixana nella regione di Serra da Lua, per il lavoro di evangelizzazione e assistenza religiosa.

Dal 1991 al 1996, sono stato animatore missionario nelle scuole e nelle parrocchie di Erexim, nel Rio Grande do Sul. Ho poi trascorso 18 mesi nella missione di Catrimani nella terra yanomami, un anno alla missione parrocchiale di Alto Alegre, tre anni alla missione della Barata nella regione Taiano, sei anni all’area missionaria di Caranà a Boa Vista, un anno a Maturuca, sei anni nella missione di Camará nella regione Baixo Cotingo. Dal 2016 sono tornato a Maturuca».

Quali le maggiori difficoltà che hai incontrato in questi anni?

«In primo luogo, la malaria. I numerosi incidenti e le cadute con la mia motocicletta, i viaggi lunghi su strade e sentieri sconnessi e disseminati di pietre, crateri, pantani, torrenti da guadare; imboscate da parte di garimpeiros e fazendeiros evitate solo grazie alla protezione degli stessi indigeni; le incomprensioni e, in ultima istanza, i miei limiti personali e la poca preparazione per lavorare con popoli e culture molto differenti da me».

Quali e quante sono le etnie che hai incontrato in questi anni nella Serra do Sol?

«Nella Regione Baixo Cotingo, ho lavorato con i Macuxi e con gli Irian, due etnie con lingua simile che oggi convivono ma che in passato erano sempre in lotta tra loro. In misura minore ho anche interagito con individui di lingua Wapixana. Nella regione Serras invece, ho lavorato solo con Macuxi e poche persone di altre etnie presenti nelle nostre assemblee periodiche. In generale, i Macuxi, costituiscono la maggioranza insieme a minoranze di Ingarikó, Taurepang, Patamona, Maiongong e qualche Wapixana. Gli Irian, nella Regione Baixo Cotingo, sono al secondo posto come numerosità. Da notare che i Wapixana sono del gruppo linguistico Aruak. Tutti gli altri del gruppo linguistico Carib».

Quali sono le tue maggiori preoccupazioni legate ai problemi che da sempre affliggono le terre indigene?

«Al momento nella Regione Serras, ci sono invasioni di turisti con vari tipi di distrazioni. C’è una forte presenza di venditori ambulanti, che offrono mercanzie di ogni sorta, tra cui bevande alcoliche e droga, senza nessun controllo da parte del governo. Al contrario, il paradosso è che gli indigeni non possono portare i loro prodotti in città a causa della “mosca della Carambola” e il controllo del governo da questo punto di vista è molto severo.

Fortissime le incursioni dei politicanti che offrono di tutto, soprattutto la realizzazione di fantomatici progetti che non sono in sintonia con l’ecosistema della regione e la stessa cultura indigena. Molte le promesse mai mantenute, per fortuna degli indigeni, i quali spesso si lasciano ingannare da questi uomini in malafede e senza scrupoli.

Nella Regione Serras c’è poca vegetazione, tipica dei climi semi aridi. Gli indigeni hanno iniziato da qualche tempo a organizzare fiere di sementi e piante con relativo scambio di prodotti del territorio; stanno così crescendo gli scambi e il commercio di beni che generano lentamente un aumento della produzione alimentare locale.

La televisione è purtroppo il mezzo più distruttivo nelle comunità indigene: è comune vedere nelle capanne di legno e foglie, televisori con grandi schermi alimentati da piccoli generatori o dallo stesso generatore del villaggio, quando questo funziona.

Nella terra yanomani, sono presenti oltre ventimila invasori garimpeiros e questo comporta malattie, morte e annientamento sociale e culturale per gli indigeni.

Il furto delle conoscenze e la distruzione dell’ecosistema sono piaghe secolari.

Purtroppo sono pochi gli indigeni che si preoccupano di queste tematiche che affliggono la loro società e il loro ambiente naturale».

Esistono ancora le condizioni per il pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione delle popolazioni indigene?

«Ci sono molti indigeni e giovani impegnati che partecipano a incontri su questi temi, ma la lotta è durissima. Sono drammatici gli eventi recenti che vedono precipitare la situazione delle terre indigene e peggiorare le condizioni di vita dei popoli nativi a seguito dell’insediamento del nuovo governo di Jair Bolsonaro. Il nuovo presidente ha promesso, durante la campagna elettorale, di permettere l’estrazione dei minerali nelle riserve degli indigeni. Questo ha incoraggiato i cercatori d’oro a continuare le devastazioni per l’estrazione del prezioso metallo violando deliberatamente la legge e inquinando i fiumi.

Dal punto di vista dei diritti umani la situazione peggiora di giorno in giorno. Gli indigeni denunciano gli invasori finanziati dall’agrobusiness di violenza, terrorismo e guerriglia allo scopo di raggirare la legge, calpestando quanto affermato nella stessa Costituzione».

Credi sia possibile arrivare a una fine della violenza, della criminalizzazione e della discriminazione nei confronti delle popolazioni indigene e dei loro territori, garantendo la punizione dei responsabili?

«È il grande sogno indigeno ma anche di moltissimi brasiliani. Purtroppo, la realtà delle cose in Brasile peggiora di giorno in giorno. Impunità totale dei colpevoli ricchi e potenti, punizioni severe per gli indigeni e la povera gente».

Dan Romeo