Migranti in subappalto


L’Unione europea intensifica le collaborazioni con paesi terzi per la gestione dei flussi migratori. Sono accordi costosi nei quali il rispetto dei diritti umani non è un requisito. Ne parliamo con il direttore dell’ufficio per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.

I flussi migratori e la loro gestione sono uno dei temi più dibattuti in Europa. Per far fronte alla questione sono stati stipulati, negli anni, diversi patti tra l’Unione europea o i suoi membri e paesi terzi, soprattutto del Nord Africa e dell’Europa orientale. Questi paesi ricevono ingenti somme di denaro in cambio di un più o meno esplicito impegno nel fermare i movimenti di migranti.

Si parla di processi di esternalizzazione delle frontiere, cioè politiche volte a spostare i confini dell’Ue in paesi terzi ai quali viene subappaltato il controllo dei flussi di persone dirette in Europa. Il tutto nonostante si sappia che in questi paesi non ci sono gli stessi standard di tutela dei diritti umani.

I «patti» dell’Ue

Il «Patto su migrazione e asilo» approvato ad aprile dall’Unione europea va in questa direzione: la compartecipazione a cui i paesi Ue sono chiamati nella gestione dei flussi può essere risolta infatti con il versamento di un contributo monetario in un fondo comune che potrà essere utilizzato per finanziare progetti e patti bilaterali con paesi terzi coinvolti nei flussi. Analizzando i diversi accordi già in opera, emergono diversi dubbi sul rispetto dei diritti umani.

Tra gli accordi di più lunga data ci sono quelli con la Turchia e la Libia. L’Italia porta avanti dal 2017 un memorandum d’intesa con la Libia, Paese altamente instabile, dominato da istituzioni fantoccio e governi locali autoproclamati in un territorio disseminato di campi di prigionia, nuovi lager dove le vite dei disperati sono la base di un mercato di schiavismo e ricatti economici. Nonostante la situazione nota del Paese, l’Italia ha finanziato, formato ed equipaggiato la guardia costiera libica, ignorando gli avvertimenti degli organismi internazionali che da anni denunciano le violazioni dei diritti umani di cui questa si rende partecipe.

Su questa linea, uno degli ultimi passi fatti è rappresentato dalla firma del memorandum tra l’Unione europea e la Tunisia. Si tratta di un pacchetto di aiuti diviso in tre voci, di cui due subito disponibili. Esse prevedono 150 milioni di euro a sostegno delle finanze del Paese e 105 milioni per la gestione dei flussi migratori. Fondi destinati al governo di Kaïs Saïed, ritenuto sempre più autoritario, anche per aver accentrato negli ultimi anni i poteri su di sé indebolendo parlamento e magistratura. Le migrazioni sono proprio uno dei cavalli di battaglia del presidente che da tempo porta avanti discorsi di odio nei confronti dei migranti subsahariani. Parole spesso tradotte in repressioni violente.

La Tunisia è uno dei paesi al centro di una grossa inchiesta giornalistica internazionale, intitolata «Desert dumps», che mostra come i paesi nordafricani utilizzino i finanziamenti europei per compiere azioni violente nei confronti dei migranti subsahariani. Come la pratica di intercettarli sulle imbarcazioni e portarli in zone remote del deserto abbandonandoli in condizioni terribili.

Kigali, capitale del Rwanda.

Il punto di vista dell’Oim

Per indagare a fondo questi temi abbiamo intervistato Laurence Hart, direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.

L’Oim è nata nel 1951, dal 2016 fa parte delle Nazioni Unite e si occupa di assistere i migranti e i suoi 175 paesi membri nella gestione organizzata dei flussi migratori.

L’ufficio di coordinamento del Mediterraneo copre diplomaticamente Italia, Malta e Santa sede e ha il ruolo di supportare un approccio coerente e costruttivo alle migrazioni su entrambe le coste del Mediterraneo, quindi collaborando anche con i paesi del Nord Africa. Cerca di supportare i processi di cooperazione tra stati e lo sviluppo delle loro politiche migratorie, interviene nelle situazioni di emergenza, e offre un grosso supporto alle autorità italiane nei processi di accoglienza, ad esempio con oltre 180 mediatori culturali che affiancano la guardia costiera e gli uffici immigrazione nella valutazione delle domande di asilo.

Il nuovo «Patto su migrazione e asilo» dell’Unione europea vuole coordinare gli sforzi dei vari paesi nella gestione dei flussi migratori. Sono però emerse molte critiche su come questo possa impattare sulla vita dei migranti. Riguardo a questo, l’Oim come si pone?

«Cercare di riassumere in un documento unico quelle che possono essere le risposte al fenomeno migratorio – non lo chiamo mai problema, diventa un problema se non gestito – è sicuramente uno sforzo lodevole. Bisogna capire quanto queste dichiarazioni poi si tradurranno in azioni concrete ed efficaci.

Certamente un punto abbastanza complesso e critico è la tendenza crescente all’esternalizzazione delle frontiere nella gestione migratoria. La cooperazione deve essere inquadrata in una partnership più globale che includa, ad esempio, la migrazione regolare e il rafforzamento delle capacità istituzionali. Non ci si può limitare al pagamento di una somma in cambio del controllo delle frontiere. È già stato dimostrato in passato che queste sono politiche di respiro corto. Spesso poi ci sono cambi politici nei paesi terzi che possono portare a qualche forma di ricatto con lo scopo di alzare la posta aumentando le richieste finanziarie per sostenere la gestione migratoria. Si rischia inoltre di creare nuovi appetiti in paesi che possono, sulla base dei precedenti, sentirsi legittimati a richiedere un aiuto economico».

Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied e Giorgia Meloni durante l’incontro che ha portato al Memorandum con la Tunisia.

Sono stati da poco fatti nuovi accordi con la Tunisia. Accordi di questo tipo sono accusati di finanziare gravi violazioni dei diritti umani, come recenti inchieste sembrano dimostrare. State studiando questo fenomeno?

«Non ne sono testimone diretto ma non mi sorprenderebbe che queste cose succedano, purtroppo. Il rischio è scaricare il peso della gestione del fenomeno migratorio su un paese di transito che non ha le possibilità di assorbirlo. Penso ai paesi nordafricani che sono territori di transito, di origine, ma anche di destinazione. C’è necessità di moltissima manodopera anche in questi Stati i quali vanno quindi accompagnati anche su altre misure, come quelle di inclusione e di collocamento all’interno del tessuto sociale.

Abbiamo situazioni anche molto diverse, per esempio quella della Guardia costiera libica che è un soggetto molto delicato. Esiste sì una struttura ma esistono anche tante infiltrazioni di interessi diversi, soprattutto economici e finanziari, che purtroppo vanno a sfruttare ulteriormente i migranti che vengono riportati in Libia: in questo senso si può considerare un paese “non sicuro”.  Noi lo diciamo da tempo ormai.

Quello che fanno i libici è un lavoro difficile, nel pieno di una crisi che dura ormai da parecchi anni. La Libia è un Paese che richiede la costruzione di infrastrutture, piuttosto che di altri servizi per cui le competenze non esistono necessariamente tra i lavoratori libici. La consapevolezza che la manodopera e le competenze straniere sono uno strumento per lo sviluppo del Paese deve ancora radicarsi. Accompagnare i libici in questo lavoro è estremamente importante.

Trovare le soluzioni che possano venire incontro alle esigenze di tutti è la sfida che oggi ci si ritrova ad affrontare. Purtroppo, documenti come il Patto europeo rischiano di essere ripiegati solo sulle preoccupazioni interne dei paesi dell’Unione, e di dimenticare che il fenomeno è complesso e richiede anche soluzioni che non sono quelle canoniche».

Laurence Hart

Regno Unito e Italia stanno sviluppando nuovi centri per migranti rispettivamente in Rwanda e in Albania, e molti paesi europei vorrebbero emularli. Spostare questi processi in altri paesi quali risvolti può avere?

«Innanzitutto, Albania e Rwanda sono due casi assolutamente diversi, proprio da un punto di vista legale. Uno è un paese che è di futuro accesso all’Unione europea e l’altro invece è un paese che non ha degli standard internazionali riconosciuti o che comunque molti paesi mettono in questione.

Ci sono ancora da capire una serie di elementi nel contesto dell’accordo Italia-Albania: qual è la giurisdizione che sarà applicata? Nella misura in cui la legislazione è italiana, quindi garantista, e viene applicata su tutto il processo, non abbiamo, noi dell’Oim, grandi obiezioni da fare. Sappiamo che esisteranno tutta una serie di tutele.

Diverso è il caso del Rwanda, dove invece si applica una legislazione che non è parte del sistema europeo. Da quel punto di vista ci preoccupa l’esternalizzazione nella misura in cui l’allocazione di queste procedure ad altri paesi può violare i diritti fondamentali delle persone.

Esistono poi altre considerazioni che secondo me sono importanti da fare riguardo il rapporto costi benefici di queste operazioni. Bisogna chiedersi se, visti i numeri, è opportuno investire ingenti somme di denaro per la costruzione di strutture dedicate, e per finanziare un meccanismo che richiederà una serie di viaggi e di enti preposti. Se non sia più efficiente investire nelle strutture già esistenti sul territorio.

Sono domande aperte. Penso che le considerazioni debbano essere fatte tenendo conto della globalità degli elementi. Sicuramente chi porta avanti queste azioni vede la questione più come una specie di deterrenza, con l’obiettivo di creare una serie di ostacoli per far ridurre l’appetito di una migrazione clandestina».

Rifugiati in attesa di attraversare il confine serbo-croato tra le città di Sid (Serbia) e Bapska (Croazia). Sid, Serbia – 17 ottobre 2015.

In questi ultimi anni avete notato dei cambiamenti nelle rotte migratorie e nelle motivazioni che spingono a intraprendere questi viaggi?

«La fotografia è quella di un mondo che si ritrova di fronte a una crescente instabilità la quale va affrontata con soluzioni molto specifiche. Il numero dei conflitti è aumentato negli ultimi anni, basti pensare al Sudan, per esempio, che è uno degli ultimi esplosi in maniera importante e che ha generato non solo sfollamento interno, ma anche – ovviamente – un movimento di richiedenti asilo verso l’Europa e l’Italia. Ci sono molti altri conflitti aperti in corso, come in Etiopia, Sud Sudan, Yemen, Myanmar e Afghanistan.

Esistono anche situazioni di conflitti a bassa intensità: pensiamo ai paesi del Sahel che oggi si ritrovano di fronte a conflitti interni che generano spostamenti di popolazioni.

Ci sono anche interessi internazionali: si stanno svolgendo elezioni in molti paesi, e la narrativa migratoria viene usata come arma di paura e minaccia nei confronti della popolazione. Quindi l’instabilità è sicuramente uno degli elementi che ci porterà ad avere un aumento del movimento di migranti che hanno necessità di protezione. E fornire la necessaria protezione è prima di tutto un dovere per tutti i paesi che sono firmatari di convenzioni internazionali.

Un altro elemento è il cambiamento climatico. Ad oggi non ci è dato sapere con esattezza quante persone emigrano perché la loro attività è vittima di una situazione climatica estrema o avversa. Bisogna indagare quanto il fenomeno del cambiamento climatico incide sulla decisione delle persone di spostarsi, perché è quello che permette poi di capire quali possono essere le risposte a monte per poter mitigare questa situazione e accompagnare le persone che sono in loco, quelle che si muovono e poi quelle nei paesi di destinazione».

Nel prossimo periodo, secondo lei, quali saranno le situazioni più importanti su cui intervenire per una gestione migliore dei flussi migratori?

«Le sfide sono tante e richiedono delle soluzioni che non siano solamente quelle di frenare la migrazione. Si parla molto spesso di sviluppo dei paesi di origine, per esempio il piano Mattei è un’iniziativa che l’Italia ha messo in piedi con questo proposito.

Però dobbiamo anche interrogarci sul concetto stesso di sviluppo. Certamente piccole progettualità possono alleviare sofferenze e difficoltà nei paesi di origine, ma non risolvono la problematica fondamentale: quella di far fiorire l’imprenditoria dei giovani africani nel loro contesto.

Ho letto un articolo che parlava di come le linee aeree low cost in Europa abbiano favorito la creazione e lo sviluppo dell’industria turistica di accoglienza, permettendo un maggior movimento di persone e favorendo la nascita di iniziative e di business tra paesi.

Oggi per fare lo stesso viaggio in aereo in un contesto africano si spende il triplo, questo significa che la classe media africana non ha le risorse per poter viaggiare in forma ricreativa.

Il che non permette la costruzione di un’industria dell’accoglienza e ostacola la circolazione di idee e capitali tra paesi africani.

Gli ostacoli burocratici e di integrazione nel sistema africano sono tra gli elementi su cui gli economisti dovrebbero interrogarsi perché l’aiuto esterno è importante, ma è fondamentale eliminare le barriere strutturali interne ai paesi. Il rischio altrimenti è quello di mettere dei soldi senza avere però anche dei risultati a lungo termine».

Mattia Gisola

 




La persona al centro

«Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti. La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto questa dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù. Da questa verità trae le ragioni del suo impegno a favore di coloro che sono più deboli e meno dotati di potere, insistendo sempre “sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza”».

È l’inizio di Dignitas infinita, la dichiarazione circa la dignità umana che papa Francesco ha rilasciato il 2 aprile scorso. È una forte provocazione a ripensare l’approccio che la nostra società ha oggi verso la persona. Un approccio che si rispecchia nelle scelte politiche che i nostri paesi stanno facendo in questi giorni.

Due sono le aree che destano in me particolare preoccupazione: la difesa della vita dal suo inizio alla sua fine, e la realtà dei profughi e migranti.

Migranti. Oggi, in tutta Europa, assistiamo a una progressiva chiusura sull’accoglienza dei migranti, con la scusa di difendere le frontiere e combattere i trafficanti. Senza andare alle vere cause delle migrazioni rischiamo di convincerci che le persone in fuga da paesi come Afghanistan, Eritrea, Siria, Pakistan, Ciad, Sudan e altri ancora, affidino «per sport o diletto» le loro vite alle promesse dei trafficanti, e non per le durissime condizioni di vita nei loro Stati dilaniati da guerre o segnati da ingiustizie, povertà croniche e mancanza di libertà.

La tristezza è vedere che, dopo aver buttato giù il muro di Berlino, abbiamo costruito nuovi muri e barriere (fisiche, sociali e virtuali) per difendere, si dice, la nostra cultura e identità. E ci si dimentica che da sempre il Mediterraneo e tutta l’Europa sono il crogiolo di popoli diversi: la nostra origine sta nell’India (siamo indoeuropei); dai tempi dell’Impero romano abbiamo importato centinaia di migliaia di schiavi dall’Africa e dall’Asia, non ultimi i molti figli che i nostri soldati hanno generato in Etiopia e Somalia. La nostra cultura è quella che è proprio perché abbiamo saputo assorbire valori e stimoli da tante civiltà diverse.

Difesa della vita. Questo è un altro tema caldo e conflittuale, con posizioni che vogliono far riconoscere sia l’aborto che l’eutanasia non semplicemente come azioni da depenalizzare ma come «diritti umani» da iscrivere in quella che dovrebbe divenire la Costituzione dell’Europa e quindi di ogni Paese, sull’esempio della Francia. Il tutto sostenuto da argomentazioni sofisticate e ammaliatrici, con accuse pesanti e anche minacce, soprattutto sui social media, contro chi la pensa diversamente. Dimenticando, per esempio, che per secoli noi abbiamo trattato da «selvaggi» quei popoli che abbandonavano nella foresta perché venissero finiti dalle fiere gli anziani ormai troppo vecchi e malati, o quei bambini che nascevano fuori da relazioni culturalmente approvate, da ragazze incirconcise o, addirittura, i gemelli che una madre da sola non avrebbe potuto nutrire.

Sono cresciuto con il sogno di un’Europa capace di rigettare il suo passato coloniale e razzista per impegnarsi nella costruzione di un mondo nuovo dove ogni persona fosse accettata per quello che è. Figlio del secondo dopoguerra, credevo avessimo imparato a rifiutare razzismo, autoritarismo, dittatura, etnocentrismo dopo aver sperimentato gli amari frutti dei sistemi dittatoriali che abbiamo avuto prima della nascita della nuova Europa.
Pensavo avessimo messo al centro la pace e il rifiuto della guerra. Che valori come la vita dal suo principio alla fine; la dignità della persona nella sua unicità e nei suoi diritti senza distinzione di genere, di età, di razza o di stato sociale; l’ambiente, «casa» comune, patrimonio e responsabilità di tutti; il lavoro, la salute e la libertà religiosa, fossero ormai nel nostro Dna. Invece, la ricchezza si accumula sempre di più nelle mani di pochi mentre aumentano povertà e sfruttamento, la cura della salute diventa ogni giorno di più un affare per i privati,
il lavoro è sacrificato al profitto, l’«io» prevale sul «noi».

E intanto non ci si sposa, non si fanno figli, si invecchia brontolando, cresce la violenza e il disagio, si svuotano le chiese, si dipende dai social, si ricorre al fentanyl. Dove vai Europa? Troveremo chi è ancora capace di farci sognare? Chi mette al centro la dignità della persona, ogni persona, ogni momento della sua vita?

 




Unione europea. Diritto di asilo negato

 

Un nuovo pacchetto di riforme in materia di migrazioni è stato approvato dal Parlamento europeo. In teoria vuole superare gli accordi di Dublino, in pratica non garantisce nessun aiuto ai paesi di prima accoglienza e potenzia i sistemi di esternalizzazione delle frontiere e dei respingimenti.

Il Parlamento europeo, a due mesi dalle prossime elezioni, ha approvato il nuovo «Patto su migrazione e asilo». Definito da molti come una misura storica, comprende una serie di regolamenti volti a riformare e uniformare le procedure con cui i paesi europei gestiscono i flussi migratori. Ci sono però diversi punti critici che potrebbero mettere in pericolo i diritti dei migranti.

Il dibattito si è sviluppato soprattutto intorno a due questioni fondamentali. Il primo grande tema riguarda la volontà di riformare gli accordi di Dublino per cui l’accoglienza dei migranti è responsabilità dei paesi di primo arrivo. Questo crea un grosso carico sulle spalle dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, primo fra tutti l’Italia. Il nuovo Patto propone un meccanismo che vorrebbe superare questa disparità ma che, in realtà, risolve ben poco. Con l’applicazione delle nuove regole i paesi europei sarebbero apparentemente obbligati a partecipare agli sforzi dei paesi di primo approdo definiti «sotto pressione»: potranno scegliere se accogliere una parte dei migranti oppure pagare una quota economica ad un fondo comune. Non c’è quindi nessun vero obbligo alla redistribuzione delle persone accolte.

La quota che i paesi dovranno versare per ogni mancato ricollocamento potrà essere utilizzata dall’Unione per sostenere i paesi europei sotto pressione ma anche per finanziare accordi con paesi terzi volti al contenimento delle partenze. Accordi come quelli già in atto con Libia e Tunisia che, finanziate dall’Unione europea, bloccano con la forza quanti più migranti possibili. Questo rientra in un processo di esternalizzazione delle frontiere che l’Ue porta avanti ormai da anni con lo scopo di scaricare le responsabilità dei flussi migratori su paesi terzi, facendo finta di non sapere che in questi paesi gli standard sui diritti umani sono molto più bassi e che il contenimento delle partenze si traduce spesso in atroci violenze.

Un altro punto centrale, e molto criticato, di questo patto è l’istituzione di procedure accelerate per l’esame delle richieste di asilo, che oggi richiedono diversi mesi se non anni. Con la riforma tutte le persone che arrivano da paesi ritenuti «sicuri», criterio spesso fondato su basi più politiche che fattuali, o che comunque hanno un tasso di accettazione delle richieste di asilo inferiore al 20% potranno avere risposta in massimo 12 settimane. In questo modo sarà ancora più difficile, se non impossibile, valutare la reale motivazione per cui una persona ha deciso di lasciare il proprio Paese, e il processo sommario e superficiale con cui il suo futuro sarà deciso si baserà esclusivamente sullo Stato di origine ignorando la sua storia personale. Non si avrà così il tempo di valutare se nella specifica regione interna in cui vive c’è l’influenza di gruppi criminali o terroristici, o se il suo orientamento sessuale o politico la costringono a subire vessazioni che mettono in pericolo la sua incolumità.

Il nuovo Patto comprende tante altre riforme, volte a uniformare e spesso irrigidire i processi di accoglienza, il tutto nell’ottica di un progetto definito da molti «fortezza europa» in cui i confini dell’Unione appaiono sempre più alti e sicuri. I reali risultati a cui porteranno le nuove regole saranno evidenti solo con il tempo, ma nell’attesa di poterli giudicare è utile ricordare che questo approccio portato avanti ormai da diversi anni non ha mai ottenuto i risultati sperati di ridurre i flussi migratori, le rotte si sono via via adattate, diventando solo più pericolose per le vite che le percorrono.

Mattia Gisola




Strage annunciata


Comunicato stampa della Conferenza degli Istituti Missionari in Italia – CIMI – 18 giugno 2023

Con il passare delle ore diventa sempre più drammatico il bilancio delle vittime dell’ennesimo naufragio di una imbarcazione carica di migranti che è avvenuto tra il 13 ed il 14 giugno a Pylos, nel mar Jonio nelle acque territoriali greche.

Il timore è quello di arrivare a dover contare più di 600 morti tra uomini, donne e soprattutto bambini lasciati annegare e soccorsi in estremo ritardo. L’allarme lanciato da Alarm Phone alle autorità competenti (guardia costiera della Grecia, UHNCR Grecia e Frontex) è partito alle 16.53 del 13 Giugno e alle 2.47 del 14 giugno si registra l’ora del naufragio dell’imbarcazione. La domanda è quella di sapere che cosa è veramente successo in quelle quasi 10 ore.

Stiamo assistendo come sempre all’inguardabile e stomachevole scaricabarile.

  • I superstiti abbandonati su brandine in una struttura del porto di Kalamata, lontano dai giornalisti.
  • I corpi rinvenuti (sino ad ora sono 78) trasportati di notte al buio da una motovedetta della guardia costiera greca e trasferiti al nord di Atene in camion frigoriferi per la identificazione.
  • I parenti delle persone che avrebbero dovuto essere sull’imbarcazione che intasano il centralino dell’ospedale di Kalamata per avere notizie dei propri cari.

È il “rituale” che si ripete ad ogni naufragio, ad ogni “strage annunciata”.

Si, si tratta di vere “stragi annunciate” perché ogni “imbarcazione” che parte può essere una “strage annunciata” e non serve poi proclamare lutto nazionale per “lavarsi la coscienza”.

Le domande che ci poniamo e che poniamo a che è chiamato a governare sono sempre le stesse: le persone che erano su quell’imbarcazione o sulle altre imbarcazioni naufragate avevano altre alternative per scappare dalla violenza? Rischiare la vita oppure continuare a subire violenze nei lager libici? Voi, noi cosa avremmo fatto se fossimo stati al loro posto?

La risposta non sta l’ultimo “patto europeo”, la risposta non si trova nelle coscienze “sporche” dei politici che lo hanno votato.

Forse la risposta sta “semplicemente” nel rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali. Leggi e convenzioni che tutti i paesi hanno votato ma che vengono dimenticate quando si pensa solo alla difesa del proprio paese o della “fortezza Europa” e quando si fa politica per difendere interessi di corporazione o personali.

Leggi e convenzioni internazionali scritte nel corso di decenni per impedire che la violenza e la cultura della morte tornassero a prevalere.

Rispettare le leggi e le convenzioni internazionali per evitare altre “stragi annunciate”.

Missionari della Consolata;
Missionari Comboniani;
Missionari Saveriani;

Missionari della Società delle Missioni Africane;
Missionari del PIME; Missionari Verbiti;
Missionari d’Africa (Padri Bianchi);
Comunità Missionaria di Villaregia;
Missionarie di Nostra Signora degli Apostoli;
Missionarie dell’Immacolata;
Francescane Missionarie di Maria;
Missionarie di Maria – Saveriane;
Missionarie Comboniane;
Missionarie della Consolata

Per informazioni:
segreteriacimi@gmail.com (Segreteria)
antoniopiquicombo@gmail.com (GPIC)




La dignità sotto i piedi

testo di Daniele Biella |


In Piazza Libertà, davanti alla stazione, una coppia si prende cura dei migranti che arrivano in Italia dopo le peripezie e le violenze alle frontiere. Curare le loro ferite sotto gli occhi di tutti, è un urlo contro la normalizzazione del male.

«Avevo un ricordo bellissimo dei boschi della ex Jugoslavia, mi sembravano paesaggi usciti da film della Disney. Ora, quando li guardo, penso alla tragedia che si sta consumando in quei luoghi. Decine di persone – non sapremo mai quante – vi perdono la vita tentando di migrare verso il Nord Europa. È straziante».

Lorena Fornasir ha uno sguardo al quale non si può sfuggire: nei suoi occhi chiarissimi si specchiano le immagini create dalle parole che ci ha appena rivolto.

Non sono immagini belle, ma questa è la realtà: benvenuti in Europa, dove le frontiere uccidono chi cerca di superarle con la speranza di una vita migliore, ma senza documenti validi.

© Daniele Biella

Unico obiettivo: la cura

Incontriamo Lorena in Piazza Libertà, davanti alla stazione di Trieste, in un tardo pomeriggio di settembre, mentre la seconda ondata di Covid inizia a svegliarsi. È qui che la donna, psicologa 67enne, giudice onorario minorile con un’energia inesauribile, si fa trovare tutti i giorni assieme al marito Gian Andrea Franchi – filosofo e storico, ex professore di 84 anni – e ai volontari dell’associazione Linea d’ombra nata nel 2019. Dedicano tempo a presidiare il luogo con un unico obiettivo: la cura.

«Qui c’è un passaggio continuo di migranti che arrivano dalla “rotta balcanica”. Si fermano a Trieste giusto il tempo per riprendere le forze prima di provare ad andare a Nord», spiega Lorena. «Il problema è che molti arrivano a dir poco malridotti e bisognosi di attenzione. Noi veniamo qui proprio per questo, per curarli: medichiamo le ferite a piedi, gambe, braccia, e ascoltiamo i loro tremendi racconti».

© Daniele Biella

Respingimenti e violenze

Nessuna fake news in questa brutta storia. È tutto vero: la controprova dello scempio dei diritti umani in atto ai confini dell’Europa sono proprio loro, i sopravvissuti con i traumi che si portano addosso.

«Tentava di attraversare il confine italo sloveno insieme alla moglie e a un compagno, ma è morto cadendo in un burrone dopo un volo di venti metri, nei pressi del castello di San Servolo, in provincia di Trieste», riporta Radio Capodistria il primo gennaio 2020. È una vicenda che a Lorena Fornasir ritorna spesso in mente, perché ricorda la disperazione della moglie. Così come ricorda i tanti racconti di chi riesce ad arrivare in Piazza Libertà – ribattezzata da loro Piazza del Mondo – e narra di persone care e compagni di viaggio persi nel buio dei boschi, nelle settimane di cammino tra le frontiere balcaniche e, soprattutto, tra un respingimento e l’altro: «Le persone vengono rimandate indietro dalla polizia di confine, sia in Croazia che in Slovenia. Negli ultimi mesi anche all’arrivo in Italia», sottolinea Gian Andrea.

«Ci sarebbe il diritto del migrante a chiedere asilo politico, ma evidentemente non viene rispettato». E c’è di più: «Le persone che assistiamo in piazza arrivano spesso con evidenti segni di violenze, e denunciano pestaggi da parte delle forze di polizia una volta entrati nel confine croato».

Botte documentate da foto e video che anche gli europarlamentari di Bruxelles conoscono almeno dal 2017, grazie alle mobilitazioni di associazioni per i diritti umani di tutta Europa, compresa Linea d’ombra Odv (Organizzazione di volontariato – www.lineadombra.org), la onlus creata da Fornasir e Franchi. Violenze che nessuno pare riuscire a fermare, anche per la resistenza del governo croato ad ammettere le responsabilità delle proprie forze dell’ordine.

The game, il gioco

Gli stessi Lorena e Gian Andrea hanno visto con i loro occhi i segni di quelle percosse quasi in diretta, quando nel 2015 hanno iniziato a fare la spola con altri amici tra Italia e Balcani, portando vestiario e viveri nei campi profughi informali che si erano creati a Bihac e Velika Kladusa, al confine tra Bosnia e Croazia: «Non solo le botte. Alle persone vengono rotti i telefoni cellulari, requisiti gli zaini, e a volte addirittura tolti i vestiti che indossano», aggiunge Gian Andrea, lasciando intuire tutto il proprio sdegno.

Parecchi di quei migranti che avevano conosciuto al confine tra Bosnia e Croazia, ragazzi e giovani soli, ma anche famiglie con bambini e anziani, li hanno poi reincontrati nei pressi della stazione di Trieste: quelli fortunati che sono riusciti ad arrivare in Italia, nonostante tutto. Tra loro, alcuni hanno affrontato l’ultima parte del viaggio anche decine di volte: ogni volta venivano respinti, ma dopo avere recuperato le forze ripartivano, perché non c’era possibilità di tornare indietro nel posto da cui erano scappati. L’unica speranza era quella di andare avanti, raggiungere il Nord Europa.

Questo continuo procedere ed essere respinti, lo chiamano the game, il gioco: un nome che richiama il divertimento, usato però per qualcosa che di giocoso non ha nulla, forse per esorcizzare una realtà che fino a pochi anni fa non si sarebbe immaginata nemmeno nei peggiori incubi, se pensiamo che accade a ridosso di quell’Europa che nel 2012 ha ricevuto il premio Nobel per la Pace per il suo impegno a cancellare guerre e violenze dal proprio vocabolario.

Una straordinaria prova di quella solidarietà che abbatte i muri e crea legami di fratellanza. La comunità senegalese a Trieste si è mobilitata in sostegno di chi arriva dalla rotta balcanica, fratelli migranti che arrivano da altre terre e per altre vie. Un incontro toccante, ieri in Piazza Libertà, quasi un abbraccio. Un aiuto concreto, consegnato a Linea d’ombra, da parte di chi ha vissuto sulla propria pelle la violenza dei confini, destinato a chi ancora è in viaggio.

Davanti alla stazione

Dal 2019, con un flusso di arrivi notevole (almeno 15mila persone secondo i dati ufficiali dell’Agenzia europea Frontex), l’impegno dei volontari di Linea d’ombra in Piazza Libertà è diventato quotidiano. I viaggi solidali si sono interrotti, in particolare con l’arrivo del Coronavirus, e oggi l’attività è concentrata proprio lì.

«Abbiamo appena ricevuto notizie da una famiglia iraniana che è passata qualche settimana fa da Trieste, dopo avere superato la rotta balcanica. È riuscita ad arrivare in Francia e, da lì, ha raggiunto la casa di un parente in Germania, dove ora sta bene», ci racconta Franchi a fine novembre con sollievo. «Li ricordo bene, perché ci ha impressionato il fatto che fosse la loro figlia di 7 anni, che parlava inglese, a relazionarsi con noi per fare capire i loro bisogni».

Storie. Tante storie che i volontari di Linea d’ombra e di altre associazioni con le quali Linea d’ombra collabora, incrociano ogni giorno. Oltre all’associazione di Lorena e Gian Andrea, infatti, in Piazza Libertà sono presenti quotidianamente l’Ics, Consorzio italiano di solidarietà, che agevola le pratiche di asilo per i pochi che non vogliono continuare il viaggio verso Nord; l’associazione Strada SiCura, con dottoresse che medicano le ferite; e c’è chi si occupa di preparare un pasto caldo, di distribuire i vestiti e le scarpe donati.

Tra i migranti che arrivano a Trieste, alcuni si fermano per chiedere la protezione umanitaria: è la scelta di una giovane medico siro palestinese fuggita dalla guerra, che oggi aiuta a curare le ferite di chi arriva, così come quella emblematica e drammatica di Umar Adnan, un ragazzo pachistano oggi poco più che ventenne, partito da solo a 18 anni dal suo paese, dopo un’infanzia segnata dallo sfruttamento lavorativo, e arrivato in Italia dopo aver subito, tra le altre cose, le angherie di un gruppo di poliziotti croati al confine: «Mercoledì 25 settembre 2019 ho incrociato Adnan lungo la strada che scende dal confine di Velika Kladusa in Bosnia Erzegovina, dopo che era stato catturato, seviziato e respinto dalla polizia croata. Gli avevano tolto le scarpe e lo avevano torturato con una sbarra incandescente scorticandogli la gamba», scrive inorridita Lorena in quello che è poi diventato un appello rivolto all’Unione europea intitolato «Torture ai confini d’Europa», diffuso tramite la piattaforma change.org, dove ha raccolto quasi 70mila firme.

Incontro in piazza con gli Scouts sloveni in Italia (Slovenska Zamejska Skavtska Organizacija), venuti per conoscere la realtà di chi arriva dalla rotta balcanica e portare un aiuto concreto e prezioso

La disumanità

Fornasir ricorda nel testo del suo appello anche un’altra persona che però non ce l’ha fatta: si chiamava Alì. «Nel febbraio 2019, Alì era stato catturato e la polizia croata, dopo vari maltrattamenti, dalla Croazia lo aveva respinto in Bosnia, tra la neve e il gelo, levandogli vestiti e scarpe. Alì era ritornato a Velika Kladusa a piedi, tra la neve, vagando per ore. I suoi piedi si erano congelati ed erano andati in necrosi. Dopo mesi di sofferenze, Alì è morto sabato 21 settembre, a causa della disumanità».

Molte persone, non solo Lorena e Gian Andrea, hanno tentato di alzare la voce per Alì, ma nessuna autorità, Onu compresa, è riuscita a evitare la sua morte.

È andata meglio, nonostante tutto, a Umar Adnan che incontriamo in Piazza Libertà dove, una volta recuperato l’uso della gamba ferita, oggi offre aiuto a sua volta ai nuovi arrivati, e scatta foto molto utili a Linea d’ombra per documentare e diffondere informazioni su quello che accade. «I poliziotti croati volevano obbligarmi a dichiarare che ero un trafficante, e quando negavo arrivavano le botte», ricorda, aiutato dal mediatore volontario Raheem Ullah, suo connazionale arrivato a Trieste per il proprio lavoro di ricercatore in biologia. «È passato un anno e mezzo, qui mi trovo bene e posso dare una mano, oltre che ricominciare a vivere. Ma di certo sono ancora molto risentito. Non riesco e non voglio perdonare. Nessuno mi ha chiesto scusa», conclude mostrandoci i segni ancora ben visibili sulla gamba.

Tollerati perché utili

L’aspetto importante è che ora Umar Adnan ha ritrovato il sorriso, grazie anche a questa «normalità dell’aiutare» che, nella Piazza del Mondo, è visibile a occhio nudo. Una normalità quotidiana, anche se precaria. «Siamo tollerati dalle autorità locali perché siamo funzionali», analizza Franchi. «Medicando le persone, tamponiamo un problema, mettiamo in atto quello che dovrebbero fare loro di fronte a persone bisognose d’aiuto».

Anche durante tutto questo periodo di pandemia, infatti, a Linea d’Ombra è stato permesso di operare, ovviamente con tutti i dispositivi di protezione individuale del caso.

L’unica opposizione esplicita al loro operato, di fatto, è arrivata dalle frange di estrema destra della zona, che un giorno di fine ottobre hanno indetto un presidio nella piazza. Quel giorno, dall’altra parte, si sono fatte presenti numerose persone solidali con i migranti e con i volontari che danno loro supporto.

«Dopo quel momento, a livello cittadino è nato un gruppo di persone che ora si ritrova per coordinarsi su come agire per affrontare le problematiche di Trieste. Partendo dai migranti», aggiunge Gian Andrea, «si riflette anche su altri aspetti, politici e sociali, come le condizioni carcerarie, ad esempio».

Scarpe, giacconi, tute

«Un’altra novità degli ultimi mesi è, nonostante le difficoltà causate dal Covid-19, la creazione di una rete organica di attivisti che arriva fino al confine con la Francia, seguendo gli spostamenti dei migranti tra Trieste, Veneto, Milano, Torino, Oulx e poi Briançon, in Francia».

I migranti scelgono la via più lunga per arrivare in Germania perché la frontiera austriaca è quasi del tutto inaccessibile da tempo. Del resto, la situazione, in questi flussi migratori, è in continuo cambiamento: per la paura di essere respinti al confine italo sloveno vicino a Trieste, le persone cercano sentieri tra le montagne e si spostano anche verso la provincia di Udine senza passare dalla città, con il rischio di diventare ancora più invisibili e di rimanere quindi senza assistenza in casi di emergenza.

Il 2021 si preannuncia un anno duro per tutti a causa della pandemia ancora in corso, ma sarà ancora più arduo per chi non ha una casa e sta cercando un luogo sicuro dove arrivare.

Con una meravigliosa catena di solidarietà, Linea d’ombra continua a ricevere donazioni sia di soldi che di materiale, entrambe molto importanti perché il bisogno è sempre alto: «In questo periodo nel quale fa più freddo, a volte ci sono 30 persone al giorno, a volte meno di una decina, dobbiamo essere sempre pronti», ci dice Franchi.

«Abbiamo bisogno più di tutto di scarpe, giacconi, pantaloni, tute e zaini, mentre usiamo i fondi per comprare in particolare cibo e medicinali».

dalla descrizione della foto su FB: “#BalkanRouteEurope Trieste 10 gennaio 2021 Piazza mondo: <>
Carrettino: “sarò anche pazzo ma sono qui in nome delle madri del mondo, amiamo la vita che mettiamo al mondo, ce la consegniamo l’una con l’altra, nel dolore ci rafforziamo. Aspetto i loro figli, giorno dopo giorno, cerco il coraggio di sognare e di provare a far vivere i sogni. Ma, ti prego piazza del mondo, grida a tutti: APRITE LE FRONTIERE. Lipa è sempre, non solo ora che si è incendiato il campo”

La normalità del male

Mentre accompagniamo Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi lungo la strada che porta a casa loro, una volta lasciata la Piazza del Mondo, l’immagine che abbiamo di questa coppia è quella di un mix di umiltà e tenacia talmente forti da risultare sorprendenti, perlomeno a prima vista. Ma pensando alle storie e alle scelte di vita di tanti uomini e donne che hanno fatto la storia con la loro dedizione agli ultimi, dopotutto, capiamo che loro due fanno parte di questa categoria di persone: una coppia splendidamente normale. Due operatori di pace che hanno come orizzonte il bene dell’umanità.

«Tra di noi è un continuo scambio: io ho un approccio più politico e intellettuale, lei è più corporea e immediata», ragiona Franchi. «Ci completiamo», aggiunge la moglie prima di gettare uno sguardo all’indietro, verso Piazza Libertà e la stazione. «Il dolore che provo, a volte, quando volto le spalle alla piazza, è tremendo: so che le persone andranno a dormire in un posto di fortuna, e rimarranno lì, soli con i loro drammi personali, mentre io vado a casa al sicuro. Questo mi pesa tanto. Mi preoccupo soprattutto per i giovani soli, perché le famiglie che arrivano assieme hanno almeno il conforto di essere un gruppo, di avere dei bambini che, quando scherzano e ridono, portano gioia anche nei momenti peggiori. I ragazzi invece no, e spesso sono in giro da anni, tra Serbia e Bosnia, respinti da tutti e con danni psicologici irreversibili. Mi chiedo quale sarà il loro futuro».

Lorena ci confida poi un suo cruccio: quello di sentire dentro sé crescere l’abitudine, conseguenza dell’aver visto per troppo tempo troppe situazioni insostenibili: «Non sento più tanta rabbia come quella che provavo nel 2015, quando ho iniziato. E questo mi stupisce e mi amareggia, perché significa che ti abitui alla bruttura, alle deportazioni, alle violenze. Perdo di vista l’essere umano mentre mi sforzo di capire e poi denunciare i meccanismi con cui i governi respingono le persone alle frontiere. Ci vuole anche questo aspetto, certo, ma la rabbia, se ben canalizzata, è un collante sociale che genera la giusta reattività per chiedere conto a chi di dovere di quanto accade. Invece se il male diventa “normale”, un’abitudine, rischiamo la rassegnazione, l’assuefazione. Per questo il mio sentimento più forte oggi è resistere alla normalizzazione della barbarie in atto».

Sentendo le parole della moglie, Gian Andrea prosegue e rilancia: «La nostra resistenza è continuare a esserci, “esistere” in questa piazza, fare vedere che l’azione diretta è il modo migliore per evitare che quello che accade cada nell’oblio. Stiamo parlando di persone come noi che non chiedono altro se non di trovare un luogo dove stare che sia migliore di quello dal quale sono venute via».

Un gruppo di liceali triestini ha colto al volo il messaggio: a novembre, dopo che una loro professoressa ha invitato una volontaria di Linea d’Ombra in classe, ha raccolto decine di paia di scarpe in ottimo stato.

Quelle scarpe ora sono ai piedi di qualcuno che ne aveva un grande bisogno.

Daniele Biella

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