Cosa non si vede in Oppenheimer
Nel film di Christopher Nolan colpisce tutto quello che non viene rappresentato: ad esempio, le conseguenze delle bombe sul Giappone, le alternative alla guerra, l’opposizione della scienza al potere militare.
A cosa serve recensire un film uscito quasi un anno fa? Serve a riflettere sui temi che propone, analizzando il film alla giusta distanza emotiva.
Il tempo, le riflessioni altrui, le cose che accadono, possono cambiare molto la prospettiva.
«Oppenheimer» è un film magniloquente. Maestoso, sì, ma non vuol dire che mi sia piaciuto.
È una biografia divisa arbitrariamente in tre fasi. E dura tre ore.
La prima ora è dedicata a spiegarci che Julius Robert Oppenheimer era un genio (nel famoso libro di Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, sarebbe identificata come la «certificazione dell’eroe»). La seconda parte è dedicata alla costruzione e all’impiego della bomba atomica. La terza è centrata sul processo subito da Oppenheimer per essersi rifiutato di proseguire gli studi sulle armi nucleari.
Morti invisibili e guerra ineluttabile
Quello che colpisce di più di questo film è quello che non si vede.
Certo, il fisico nucleare non è mai stato a Hiroshima. Ma nel film non c’è una sola inquadratura dedicata all’utilizzo finale del lavoro fatto da lui e dal suo imponente seguito di scienziati.
Questa è forse la critica più netta, che viene, tra l’altro, proprio dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki: perché nel film non viene mostrata neanche un’immagine dell’inferno scatenato sulle due città giapponesi? E non si dice mai, aggiungo io, che il vero obiettivo era quello di compiere un’azione dimostrativa nei confronti dell’Unione Sovietica, il nemico numero uno degli Usa nei quarant’anni successivi.
Inoltre, non viene mai messa in dubbio la necessità della guerra come soluzione dei conflitti, neanche con un’espressione dubitativa sul volto di qualche comparsa. La guerra c’è, e basta.
Una prospettiva insostenibile, tanto più oggi, quando i governanti del mondo parlano di nuovo di ineluttabilità della guerra: allora, almeno in un film, un accenno alle vie alternative, alla diplomazia, alla nonviolenza, si sarebbe potuto inserire.
Di fronte al rischio per la stessa sopravvivenza della comunità umana, è oggi di vitale importanza aprire a visioni diverse.
Scienza sottomessa
Il secondo elemento riguarda il rapporto tra gli scienziati e l’apparato industriale militare.
Quegli anni furono il punto di svolta per l’Occidente: la scienza si sottomise all’esercito, e da allora divenne la sua ancella. Questo è accennato nel film, ma non è approfondito, mentre invece è uno dei cardini su cui si basa l’intera storia del Novecento.
E poi la pellicola di Christopher Nolan si sarebbe potuta soffermare sulla grande tensione che ci fu dopo il 1933 tra gli scienziati di tutto il mondo: essi si trovarono divisi, per la prima volta, da valutazioni politiche.
Gli anni 30 segnarono, infatti, il primo momento in cui la comunità scientifica internazionale smise di essere coesa, di scambiarsi informazioni, di condividere esperienze, e cominciò a guardarsi con sospetto.
Il ciclo del nucleare
Terzo elemento, quello più nascosto: nel film mancano totalmente i riferimenti al ciclo del reperimento e dell’arricchimento del materiale radioattivo necessario per la costruzione della bomba atomica. Manca quindi una visione sistemica di tutto il ciclo del nucleare: da dove viene l’uranio? Quali conseguenze hanno gli esperimenti sulle persone? Cosa è successo alle popolazioni attorno al sito della prima detonazione nel deserto del New Mexico il 16 luglio 1945? Bisogna sapere, bisognava dirlo, che i primi a subire gli effetti prodotti dalle bombe atomiche non furono i giapponesi, ma molti degli abitanti dell’area di Alamogordo, Usa.
Movimenti contro l’atomica
La terza parte del film si concentra sul processo maccartista a Oppenheimer, che si era rifiutato di proseguire con le ricerche sulla bomba all’idrogeno, avendo, presumibilmente, considerato già abbastanza devastante quella convenzionale (a fissione di plutonio). Di tutto quel periodo storico, successivo alle esplosioni in Giappone, però, non si citano mai le grandi organizzazioni e i movimenti nati contro l’atomica negli anni 50.
Si pensi al Bulletin of the atomic scientists fondato proprio da Oppenheimer già nel Dicembre 1945. Si pensi alle Pugwash conferences on science and world affairs fondate da Joseph Rotblat e Bertrand Russell, nate nel 1957 e che hanno ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1995.
Associazioni e movimenti che si sono battuti per sessant’anni, fino ad arrivare al fondamentale risultato di tutte queste lotte: il Trattato delle Nazioni Unite per la proibizione delle armi nucleari, entrato in vigore nel gennaio 2021, preceduto dal Premio Nobel per la pace del 2017 conferito alla Campagna internazionale contro le armi nucleari (Ican).
Neanche nei titoli di coda si riconosce l’importanza di queste associazioni.
Film militarista?
Dunque? Oppenheimer è un film che si concentra sulla vicenda di un uomo e dell’apparato gigantesco che ha diretto, ma non sottolinea quanto in essa si sia sviluppato l’evento che più di ogni altro ha contribuito ad avvicinare l’umanità alla propria fine.
C’è una scena che mi ha fatto pensare: quando il protagonista vede il lampo accecante della bomba che scoppia, nel silenzio che ne segue, mormora: «Ora sono divenuto morte». Ma le immagini dicono tutt’altro: la nuvola dell’esplosione è fiammeggiante, imponente, devastante e… affascinante. Come l’eruzione di un vulcano.
Questa scena mi ha ricordato quella di Salvate il soldato Ryan alla fine della lunga rappresentazione dello sbarco in Normandia: guardando la spiaggia, le decine di navi e di mezzi, la distesa di morti, il protagonista dice, «però, che spettacolo».
Sottolineare l’aspetto epico di un evento, non significa forse legittimarlo? Oppenheimer, in definitiva, credo sia un film militarista.
Un’ultima cosa: che relazione c’è tra questo film e il documentario uscito in contemporanea: Nuclear now, di Oliver Stone?
Forse è solo una coincidenza che Christopher Nolan e Oliver Stone si siano occupati di nucleare. Forse. Oppure bisogna rendersi conto che c’è un tentativo di rilanciare la «normalità», la «necessità» dell’energia atomica.
Dario Cambiano