Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Rivista scomoda

Buonasera, quest’anno ho voluto aggiungere al bonifico per il vostro progetto natalizio (la cardiologia di Neisu) un secondo bonifico specifico per la vostra rivista, perché la vostra rivista è «scomoda».

La ritiro dalla buca delle lettere, la poso sul tavolino, la ignoro per un po’, voglio rimanere nel mio guscio di «sicurezze», non voglio sentire di altri guai, non voglio pensare (ci sono già le mille preoccupazioni del lavoro, figli, genitori anziani…), voglio solo pensieri leggeri. E poi?

Passa qualche giorno, faccio uno sforzo e riprendo in mano la rivista e poi la leggo dalla prima all’ultima pagina, mi appassiono perfino all’economia che, spiegata da Francesco Gesualdi, ha tutto un altro sapore! E quindi questa mail per dirvi grazie perché la vostra «scomoda» rivista rompe la cappa di comodità in cui vuole rifugiarsi la mia mente e vuole nascondersi il mio cuore, grazie perché mi portate lontano dal mio rassicurante piccolo mondo, mi fate conoscere realtà di cui l’informazione di massa si disinteressa come non esistessero, grazie e un incoraggiamento a continuare, sotto gli occhi amorevoli della Consolata, nonostante tutte le difficoltà che incontrate.

Manuela Pogliano
23/12/2022

 Trent’anni di penna

Nel febbraio del 1993, esattamente 30 anni fa, veniva pubblicato il mio primo articolo. Si trattava in realtà di due pezzi, la storia di una mia esperienza diretta, vissuta con l’amico Roberto Minetti, in alcune favelas di Rio de Janeiro, e una piccola riflessione personale sullo stesso tema.

Io e Roberto, nel 1992, eravamo in viaggio in Sudamerica e, in quel periodo, eravamo stati accolti da padre Claudio Fattor, missionario della Consolata, alla missione nel quartiere Benfica, area di Rio de Janeiro nel mezzo delle favelas (foto qui in basso): la famosa Mangueira, Morro do Telegrafo, Arará, Tuiutí e altre. Nonostante fossimo in viaggio già da mesi (avevamo attraversato la Patagonia in autostop, arrivando fino alla Terra del Fuoco), in quei giorni entrammo in contatto con una realtà assolutamente nuova per noi, scioccante, scomoda, che ci metteva in discussione. Una realtà che, decidemmo, si doveva raccontare, meglio, denunciare. E così fu.

Rientrati in Italia, Roberto mi portò alla Casa Madre dei missionari, in corso Ferrucci a Torino. Era la fine del 1992. Qui incontrammo per primo padre Franco Cellana, all’epoca superiore della comunità. Fu molto accogliente e, dopo i nostri racconti, non esitò ad alzare il telefono e chiamare il direttore della rivista Missioni Consolata, padre Francesco Bernardi.

Francesco ci ricevette subito. Ci ascoltò, e con i suoi occhi vispi, un mezzo sorriso incorniciato dalla barba che all’epoca aveva, manipolando una penna, ci disse che poteva pubblicare qualcosa, se gli avessimo proposto un testo.

Radunate le idee, di getto, iniziai a scrivere. In quei mesi mi capitava spesso di scrivere delle riflessioni, ero ancora pieno di immagini del Sudamerica e di sentimenti contrastanti. Mi sentivo un disadattato in Italia ed ero particolarmente ispirato. Roberto, invece, non mi seguì in questa iniziativa.

Fu così che nacquero quei due primi articoli, quasi spontaneamente, mentre dentro di me cresceva qualcosa, lo stimolo per un mio nuovo ruolo nella vita. Da un lato, occorreva fare qualcosa per ridurre le disuguaglianze di cui ero stato testimone e, dall’altro, bisognava far sapere alla gente di questa parte del Mondo che quelle situazioni esistevano.

A Rio avevo incontrato altri due personaggi particolari. Il primo era il giornalista Giuseppe Nava, che all’epoca lavorava per Missões Consolata, la rivista dei missionari in Brasile. Un giornalista che si occupava di temi sociali, in particolare di popoli indigeni, che affascinò me e Roberto con i suoi racconti e con il tipo di lavoro che faceva, dandomi sicuramente diversi stimoli.

E poi, monsignor Aldo Mongiano, vescovo di Boa Vista, di passaggio a Rio per andare in Italia, con il quale visitammo i cantieri preparatori della conferenza di Rio92. Lui ci parlò molto della sua missione e dei popoli indigeni. Ma ci fece anche riflettere sul nostro futuro. Voglio ricordare che eravamo neolaureati in ingegneria elettronica, con il massimo dei voti, e avevamo preso un periodo per visitare, in economia massima, il Sudamerica. Al nostro rientro tutte, o quasi, le strade ci erano aperte.

Questa è la storia del mio primo articolo con le prime foto pubblicate, per combinazione o per genesi, proprio su Missioni Consolata. In seguito, pubblicai su diverse testate italiane, e alcune estere.

Quindi iniziai a mettermi in testa l’idea di continuare a scrivere e a produrre immagini. Ma sempre con l’obiettivo di far conoscere e di denunciare realtà difficili.

La fotografia, che mi aveva appassionato fino dall’infanzia, la vedevo ora come il più potente mezzo per comunicare queste realtà. Il testo scritto avrebbe contribuito a descriverle.

Incontrai il mio primo giornalista in Italia, Sante Altizio, nella stanza della nostra comune amica Gabriella Roux, nel collegio femminile di via delle Rosine a Torino. Sante mi spiegò come funzionavano le cose per la professione giornalistica nel nostro paese.

Poi cercai altre storie, altri soggetti. Andai in Centro America e incontrai il movimento civile dei guatemaltechi, in particolare le Comunità di popolazioni in resistenza. Documentai la loro lotta.

In seguito, in Italia, mi presentarono il fotogiornalista Paolo Siccardi, il quale mi diede diversi consigli che si sarebbero rivelati preziosi.

Nel 1996 mi iscrissi all’Ordine dei Giornalisti, grazie a diverse collaborazioni che avevo messo in piedi negli anni precedenti. Fu per me un primo traguardo: ero ufficialmente giornalista.

Era deciso, avrei continuato anche su questa strada (intanto vivevo facendo il ricercatore nel settore delle telecomunicazioni), ma non sapevo ancora quanto spazio avrebbe preso nella mia vita.

Marco Bello
Torino, febbraio 2023

Energia e soffio vitale

Caro padre,
ho già scritto altre volte su queste pagine. In particolare, in uno dei miei scritti parlavo di Dio come fonte di energia. «Allora, il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). E commentavo: «Come non interpretare quel soffio come Energia?».

Ebbene, nella vostra rivista di novembre, ho apprezzato molto l’articolo su Albert Einstein e qui mi ha fatto ricordare la famosa formula: E=mc2. Da qualche tempo questa formula mi ronza nelle orecchie cercando di andare oltre la materia rappresentata in poche lettere per descrivere tutto l’universo. Pensavo: ma non è anche divina questa Energia che impregna tutta la materia?

Un giorno, in un «lampo» intravvidi qualcosa che va oltre la materia: «ED=mc2+F2».

Mi spiego: alla E di energia ho aggiunto la D di divino, alla mc2 ho aggiunto la F di fede col 2 inteso come fede al quadrato, ossia grande fede. Badi che non intendo dire che la formula di Einstein sia errata, assolutamente no! È solo un tentativo di comprendere l’universo per coloro che credono in qualcosa che va oltre la materia (e qui sono comprese tutte le forme di religione).

Lei cosa ne pensa? Mi piacerebbe segnalarla a Piergiorgio Pescali autore dell’articolo, ma non so come fare. La ringrazio anticipatamente per l’interessamento. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
14/12/2022

Ho passato questa email al nostro Piergiorgio Pescali, ovviamente. Ecco qui la sua breve email di risposta quasi immediata.

Gent.mo sig. Brugnoni,
capisco che il verso biblico da lei citato possa indurre a interpretazioni scientifiche; personalmente, però, ho sempre interpretato che il soffio vitale che Dio ha instillato nell’uomo sia l’unicità che Dio stesso ha voluto per l’essere umano, concedendogli un dono unico che altri esseri non hanno. Quel soffio divino, quindi, è assai diverso dalla materia.

Le formule scientifiche hanno significato perché utilizzano parametri matematicamente riconducibili a realtà concrete. Nella fattispecie, la formula di Einstein ha avuto conferme e continua ad averle nel nostro mondo fisico. Inserire in questa formula (ma il discorso vale anche per tutte le altre) indici non quantificabili dal punto di vista matematico, non avrebbe senso dal punto di vista scientifico. «E», «m» e «c» sono grandezze fisiche ben determinate, che trovano riscontro nelle sperimentazioni fisiche.

Quali valori e quale unità di misura si potrebbero dare a D e F? Penso che chi ha il dono della fede non abbia bisogno di formule matematiche per spiegare il mondo in cui viviamo, la sua natura, la sua genesi e il suo termine.

Con cordialità.

Piergiorgio Pescali
15/12/2022

Unità: cantiere di fraternità

A fine gennaio, come di consueto, si celebra la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Da noi in Italia, dove si è in gran parte cattolici, non si avverte il problema della divisione tra cristiani. Né si mostra grande sensibilità. Ma in terra d’Africa o d’Asia, dove sono stato come missionario, suonava invece come uno scandalo. «Portateci il Cristo e non le vostre divisioni!», sentivo implorare. Riunirsi in nome dello stesso Cristo da una parte protestanti e dall’altra cattolici – quasi due mondi separati – era, infatti, una ben triste testimonianza.

Ora i tempi stanno cambiando… In Marocco si è perfino costituita nel 2012 a Rabat, insieme, in corresponsabilità tra protestanti e cattolici, una originale Università di teologia, unica al mondo, dal nome «Almowafaqa» (significa accordo). Rappresenta una vera novità nel panorama teologico, includendo persino professori musulmani. La Chiesa cattolica in Marocco, d’altronde, accoglie fraternamente nei suoi luoghi di culto o di accoglienza comunità protestanti. Per gli ortodossi, ricordo quando qualcuno chiedeva a père Michel, cattolico, di celebrare la Pasqua ortodossa. Ma di fronte all’imbarazzo del sacerdote, si mostrava rassicurante. «Non si preoccupi, padre, faccia come il solito, metta solo un po’ più di candele sull’altare!». Gli ortodossi, infatti, nel celebrare adorano la luce, segno vivo del Risorto.

Come missionario ho avuto l’occasione di accompagnare comunità di migranti italiani a Londra, nel mondo anglicano e nella città di Ginevra, definita la «Roma di Calvino». Ricordo quando con due ragazze italiane siamo stati al culto nella centralissima St. Martin in the Fields a Londra e la loro viva sorpresa di vedere officiare una donna pastore in talare romana. Il sermone, poi, fu di una brevità, un’efficacia e un’ispirazione esemplari. La sorpresa più grande, alla fine, quando la donna pastore alla porta d’uscita saluta come sempre ad uno ad uno tutti i presenti. Arrivato il loro turno, sapendo che non erano anglicane ma italiane, con un sorriso inesprimibile le invitava a un caffè nel bar della cripta! Sì, distanza e prossimità, allo stesso tempo, sorprendenti.

A Ginevra, invece, ci venne l’idea di invitare alla preparazione della cresima dei nostri giovani, Philippe, il pastore calvinista della parrocchia accanto. Venne con tutta la preparazione dotta della Parola di Dio, con l’esperienza di padre di famiglia di ben cinque figli e con l’amabilità sorridente del vicino di casa. Il campo da trattare era precisato, anche se sconfinato: lo Spirito Santo nella Bibbia.

Quale, però, fu la nostra sorpresa nel vedere, alla fine del lungo incontro, i nostri ragazzi pronunciare disinvoltamente termini in greco o in ebraico come «pneuma», «ruah» dopo un bel percorso filologico! Ma entusiasti, soprattutto, della loro ultima scoperta: la creazione dell’uomo. Fu un bacio in bocca dato ad Adamo da Dio. È così che Dio stesso trasmise il suo soffio di vita. Evidentemente, il pastore era ricorso alla scioltezza di linguaggio dei suoi figli, ottenendo un vero e insperato successo!

In altra occasione, in una celebrazione funebre, ci si era divisi i momenti con un pastore calvinista: a lui la spiegazione della Parola e il percorso di vita di un migrante italiano che conosceva, a me i gesti del rito e il loro commento simbolico (che i protestanti non contemplano). Alla fine, non posso dimenticare come la moglie stessa del pastore, raggiante, ci venne incontro per ringraziare entrambi. La complementarità dei nostri interventi pare aver dato alla celebrazione senso, interiorità, fede convinta e condivisa. Anche allora il pastore aveva fatto brillare due qualità della tradizione protestante: l’essenzialità e l’efficacia della parola.

Un altro giorno, alla messa per una defunta italiana, notavo la presenza di un pastore protestante nell’assemblea. Durante il corteo verso il camposanto, allora, discretamente avvicinandomi gli chiedevo di improvvisare la preghiera al cimitero. Mi rispondeva con un’occhiata indecifrabile. Ma, poi, in quel luogo sacro che sembrava un giardino, mentre scendeva lentamente la bara nella terra, incominciava forte: «Tu ci hai fatti di terra, Signore, e alla terra noi ritorniamo…», improvvisando così una commossa preghiera finale. Con il suo linguaggio biblico ci inchiodò alla terra. Ci fece sentire tutti semplice argilla. E ci depose, allo stesso tempo, nelle palme accoglienti delle mani di Dio. Per i presenti fu un momento forte, indimenticabile, di speranza.

Per me sono occasioni incredibili di fraternità con pastori protestanti, da sempre appassionati della Parola di Dio. Parola che essi hanno conosciuto, elaborato e interiorizzato non da sessant’anni come noi, ma da ben cinque secoli!

Ecumenismo è costruire dei ponti, lanciare delle passerelle con quelli dell’altra riva. Sapendo che, un giorno, Dio stesso prosciugherà il mare che ci separa.

Renato Zilio, missionario scalabriniano
 a Casablanca, Marocco, autore di  «Dio attende alla frontiera», EMI, 30ª ristampa
11/01/2023

 




I Perdenti 57. Galileo Galilei, tra scienza e fede

testo di Don Mario Bandera |


«La mathematica è l’alfabeto in cui Dio ha scritto l’Universo». Queste parole pronunciate da Galileo Galilei presentano molto bene il nostro personaggio: fisico, filosofo, matematico e astronomo, egli è considerato il padre della scienza moderna perché con notevole anticipo sui suoi tempi creò un approccio scientifico alla realtà, basato sull’osservazione oggettiva.

Nato a Pisa nel 1564, Galileo iniziò nel 1580 a studiare medicina presso l’Università della sua città, prima di scegliere nel 1583 di specializzarsi in matematica. Fino al 1585 Galileo rimase a Pisa dove studiò anche fisica. Nella sua città fece la sua prima scoperta importante: si racconta che osservando
l’oscillazione di un lampadario fissato al soffitto della cattedrale di Pisa scoprì l’isocronismo, fenomeno che
stabilisce che il tempo di oscillazione di pendoli di eguale lunghezza è
costante qualunque sia l’ampiezza dell’oscillazione.

Dal 1589 insegnò a Pisa e nel 1592 venne chiamato presso l’Università di Padova dove
rimase come docente fino al 1610. I diciotto anni trascorsi nella città veneta furono
definiti da Galileo «i migliori di tutta la mia età». Nello studio di Padova creò una piccola
officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio: qui inventò nel 1593 la macchina per portare l’acqua a livelli più alti, che fu subito acquistata e utilizzata dalla Repubblica di Venezia.

Ci spieghi come mai un pisano come te lasciò il Ducato di Toscana, brillante per la sua cultura e le arti, per andare a insegnare a Padova?

Andai a Padova anzitutto perché la sua era una delle più antiche e prestigiose università italiane, ma soprattutto per la posizione del governo della Serenissima che la faceva essere una delle università con la maggiore libertà di pensiero e ricerca scientifica, rispetto a quelle di tutti gli altri stati europei, sia cattolici che protestanti. E per me quello, innamorato della matematica e della ricerca scientifica, era il posto ideale.

Il 9 ottobre 1604 nei cieli europei una supernova eccezionale fece vacillare tutte le teorie astronomiche ufficiali del tempo. Fu un fenomeno che ebbe molti osservatori, perché il quel periodo c’era una spettacolare congiunzione di Giove e Saturno. Era il momento buono per fare oroscopi e anche tu ne approfittasti per farne a pagamento.

Insegnavo matematica e astronomia (ancora tolemaica, anche se nel cuore cominciavo a essere copernicano). A quel tempo astronomia e astrologia viaggiavano insieme, convinti come si era dell’influsso degli astri nella vita delle persone. Per cui in molti mi chiedevano oroscopi.

Quella supernova, osservata e documentata dal suo nascere al suo scomparire, aveva cominciato a mettere in discussione la concezione allora dominante sulla natura del cielo e delle stelle. Non era una cometa e neppure un pianeta sconosciuto. Cos’era e da dove veniva? Così mi sono messo ad approfondire e, quando nel 1607 degli occhialai olandesi costruirono il primo cannocchiale, intuii le possibilità offerte da quello strumento che permetteva di vedere lontano.

Così costruisti il tuo primo cannocchiale (chiamato poi nel 1611 telescopio) modificato e perfezionato, e nel 1609 lo presentasti al governo della Serenissima.

Il nuovo strumento mi permise di acquisire informazioni precise sulla luna. Scoprii che la sua superficie non era liscia come pensavano gli antichi, ma presentava delle irregolarità. Il cannocchiale mi diede modo di studiare anche la Via Lattea, che si rivelò un insieme di stelle lontanissime, che allargavano all’infinito i confini dell’universo. Osservai pure che i pianeti del sistema solare avevano dei satelliti e scoprii anche i quattro maggiori satelliti di Giove. Scrutando il sole, poi, vidi con una certa sorpresa che sulla sua superficie c’erano delle macchie.

Le scoperte vennero pubblicate nel 1611 nell’opera Sidereus Nuncius, che inviai al granduca di Toscana Cosimo II de Medici, il che mi valse una posizione da insegnante a Firenze.

Quali erano le idee nuove che tu presentasti?

I miei studi mi portarono a sostenere l’autonomia della scienza da filosofia e teologia.

Lo esprimo in modo semplificato: proponevo che filosofia e teologia (e quindi la Bibbia) dovessero spiegare il perché dell’esistenza del mondo, ma che toccasse alla scienza spiegarne il funzionamento e le leggi. Per me solo la scienza poteva dare una conoscenza valida della natura. «È l’intenzione dello Spirito Santo d’insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo», scrissi a Caterina de’ Medici, citando una frase del cardinale Cesare Baronio, per spiegarle questo concetto.

china di Paul Gichui

Nel 1611, la Chiesa e il Sant’Uffizio iniziarono a prestare attenzione alle tue opere, e nel marzo di quell’anno fosti convocato a Roma, da papa Paolo IV. Là ti venne ribadito che il nuovo metodo scientifico e il sistema copernicano contraddicevano i testi sacri.

Qualche anno dopo, precisamente nel 1614, a Firenze, frate Tommaso Caccini lanciò contro i matematici moderni, e in particolare contro di me, l’accusa di contraddire le Sacre Scritture con le nuove concezioni astronomiche ispirate alle teorie copernicane. Avevo infatti aderito alle idee di Keplero sui movimenti dei pianeti, tra cui quella in base alla quale la Terra compiva su se stessa un moto di rotazione, e alla teoria eliocentrica enunciata nel De revolutionibus orbium coelestium del 1543 dall’astronomo polacco Niccolò Copernico, per cui non il Sole girava attorno alla Terra, ma il contrario.

Il clima iniziò a farsi teso per i sostenitori di queste idee, e nel 1616 i teologi della Chiesa di Roma (come anche i Riformatori protestanti) affermarono che le idee copernicane erano eretiche perché contraddicevano le Sacre Scritture e le opinioni dei Padri della Chiesa.

Fu in quel periodo che formulai il metodo scientifico sperimentale in una serie di lettere scritte tra il 1613 e 1616, tra le quali la lettera a Caterina de’ Medici, chiamate poi Lettere copernicane, e nel Saggiatore, testo del 1623 dedicato allo studio delle comete. In queste due opere mi preoccupai di spiegare come la Bibbia avesse carattere morale e salvifico, ma non scientifico, per cui volevo chiarire l’approccio che si doveva avere nelle scienze. Le discussioni di carattere scientifico dovevano basarsi su ipotesi e teorie elaborate e confermate a partire dall’osservazione diretta della realtà naturale.

L’osservazione sistematica e scientifica della realtà naturale offriva un cammino nuovo ed esaltante al sapere. Le conferme ottenute aprivano la strada a quello che sarebbe poi rimasto il migliore metodo per comprendere i meccanismi della realtà naturale: il metodo scientifico sperimentale.

Quindi tu fosti uno dei primi protagonisti di quello che sarebbe stato un lungo contrasto tra religione e scienza?

Sì, perché con le sentenze di condanna da cui fui raggiunto, si voleva sottolineare che non ci poteva essere una scienza indipendente dalla visione religiosa biblica, come sostenevo io.

I tempi della cultura e della società nelle quali vivevo non erano ancora maturi ad accogliere le mie idee, ma io volevo che maturassero.

Nel 1633 accettai di presentarmi al tribunale dell’Inquisizione a Roma, per risolvere la questione che ormai si trascinava da prima del 1614, quando un frate di Firenze mi aveva denunciato al sant’Uffizio. Una questione che non riguardava solo me, ma anche altri studiosi (laici, religiosi e frati) che condividevano le mie idee.

Quindi non finì nel 1616 quando ti ammonirono per la prima volta a non professare né divulgare la teoria copernicana?

Dopo quell’ammonizione, il dibattito continuò, e in modo molto vivace, anche perché avevo un carattere forte e non mi lasciavo certo intimidire dai miei oppositori. In più il numero di coloro che condividevano la visione copernicana del mondo e si interrogavano sul vero rapporto tra scienza e Sacre Scritture cresceva. Fu in quel periodo che pubblicai il mio libro Il Saggiatore, che impressionò positivamente il papa Urbano VIII, con il quale mi incontrai poi molte volte.

Quale fu la causa dell’ultimo processo e condanna?

acquarello di Paul Gichui

Nel 1632, dopo anni di lavoro, pubblicai il libro Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, approvato anche dal consultore dell’Inquisizione di Firenze. Nel libro, oltre a sostenere e provare la teoria copernicana, ribadivo che la matematica, mezzo necessario per capire la razionalità della natura, non poteva essere in contraddizione con Dio, il quale è assoluta razionalità. Il libro ottenne un grande successo anche tra molti ecclesiastici e studiosi, ma fece infuriare i conservatori degli uffici romani che lo videro come una minaccia alla fede. In più, in alcuni ambienti, si cominciò ad accusare il papa di essere troppo tenero con le correnti eretiche.

Da qui la decisione di convocarmi a Roma per il processo, che iniziò il 12 aprile e si concluse il 22 giugno 1633 con la condanna.

Quando ti hanno condannato, sei finito in prigione?

La condanna prevedeva tre anni di prigione e la recita una volta alla settimana dei sette salmi penitenziali. Ma la prima cosa che dovetti fare fu l’abiura, nella quale giuravo di credere in tutto quello che «tiene, predica e insegna la santa Chiesa cattolica».  Ma per i salmi, hanno accettato che li dicesse mia figlia, suora di clausura, e presto la pena venne tramutata in arresti domiciliari che scontai fino alla morte nella mia villa di Arcetri, vicino a Firenze, chiamata «il Gioiello».

***

Il 10 novembre 1979, nella sala regia del Vaticano, accanto alla Cappella Sistina, in occasione del centenario della nascita di Albert Einstein, davanti a cardinali, ambasciatori, scienziati e uomini di cultura di tutto il mondo, Papa Wojtyla ha affermato: «La grandezza di Galileo è nota a tutti, come quella di Einstein. Ma, a differenza di colui che oggi noi onoriamo davanti al Collegio cardinalizio, nel Palazzo apostolico, il primo ebbe molto a soffrire – noi non sapremo nasconderlo – da parte di uomini e organismi della Chiesa».

Dopo aver ricordato che il Concilio Vaticano II aveva deplorato i conflitti che hanno indotto gli uomini a credere che ci sia contrasto tra scienza e fede, il Santo Padre ha così proseguito: «Io auguro che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galilei e, nel riconoscimento leale dei torti, da qualsiasi parte provengano, facciano scomparire le lacune che questo caso ancora presenta, nella mente di molti, in una concordia fruttuosa fra scienza e fede, tra Chiesa e mondo. Io dò tutto il mio appoggio a questo compito che potrà onorare la verità della fede e della scienza e aprire le porte a future collaborazioni».

Secoli dopo la sua morte, nel 1992 la Chiesa ha riconosciuto formalmente la grandezza di Galileo Galilei, «riabilitandolo» e assolvendolo dall’accusa di eresia. Egli è sepolto a Firenze, in Santa Croce, nel mausoleo dei sommi italiani.

Don Mario Bandera