Brevetti farmaceutici:

soldi pubblici, profitti privati

testo di Francesco Gesualdi |


Nati per proteggere i diritti degli inventori, i brevetti sono particolarmente odiosi quando riguardano i farmaci. La ricerca costa, ma è anche vero che spesso essa viene finanziata con denaro pubblico, come sta avvenendo per i vaccini contro il Covid-19.

La pandemia da Covid ha riacceso la discussione attorno ai brevetti farmaceutici, cosa che succede ogni volta che scoppia un’emergenza sanitaria. Successe nel 1997 quando ci fu l’emergenza Aids, nel 2013 quando scoppiò l’infezione da Ebola e succede oggi che siamo assediati dal Coronavirus.

Il brevetto è una protezione accordata dall’autorità pubblica agli inventori, per impedire che altri possano usare le loro invenzioni senza permesso e senza aver pagato un prezzo per il loro uso.

Si narra che il primo brevetto sia stato rilasciato in Inghilterra nel 1449 dal re Enrico IV a favore di tale John of Utynam, un produttore di vetro di origine fiamminga. L’attestato reale gli assicurava il diritto di produrre in esclusiva, per la durata di venti anni, il vetro speciale di sua invenzione. In quello stesso periodo, in tutta Europa la scienza muoveva i primi passi e le richieste di protezione si moltiplicarono. Fra il 1561 e il 1590 la regina Elisabetta I rilasciò una cinquantina di brevetti permettendo ai beneficiari di detenere il monopolio produttivo di prodotti come sapone, pellame, tessuti, metalli, carta. Ma la protezione non era gratuita e, pur di incassare, la Corona rilasciava brevetti anche a impostori che non avevano inventato proprio nulla di nuovo. Ne venne fuori un mezzo scandalo che, nel 1624, spinse il Parlamento inglese a mettere ordine nella materia emanando un’apposita legge sui brevetti. Nel 1790 fu la volta degli Stati Uniti e in breve di tutti gli altri paesi industrializzati che, a loro volta, si dotarono di una legislazione a tutela delle invenzioni. Ma le protezioni accordate avevano validità solo all’interno dei confini nazionali, per cui non scongiuravano il rischio che le invenzioni potessero essere copiate da soggetti esteri. Nel 1873 questa paura divenne così dilagante da mandare deserta la più importante fiera internazionale delle invenzioni che si teneva a Vienna. Tanto che nel 1883 i governi degli undici paesi più industrializzati si ritrovarono a Parigi con l’intento di formare un’area di protezione comune, all’interno della quale i brevetti rilasciati in un qualsiasi paese firmatario valessero anche negli altri. L’accordo, che prese il nome di Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, prevedeva anche l’istituzione di un organismo di vigilanza denominato Birpi, Ufficio internazionale per la protezione intellettuale. Nel 1967 il Birpi venne soppresso e sostituito con la Wipo, Organizzazione mondiale per la protezione intellettuale, elevata addirittura al rango di Agenzia speciale delle Nazioni unite.

L’istituzione della Wipo fu il primo passo per estendere la protezione della proprietà intellettuale, ossia delle invenzioni e delle scoperte scientifiche, a livello mondiale. Fino ad allora tale problema non era sentito perché il mondo industrializzato era circoscritto a una manciata di paesi, collettivamente definiti Nord del mondo, che già avevano adottato regole comuni.

I brevetti ai tempi della globalizzazione

Col passare degli anni, altri paesi del cosiddetto Sud del mondo, in particolare Brasile, Argentina, India, Cina, Sudafrica, cominciarono a sviluppare il proprio apparato produttivo e fra le imprese del vecchio mondo industrializzato tornò la paura di essere derubate delle proprie invenzioni. Così sorse il problema di come obbligare anche i paesi del Sud ad adottare le stesse regole di protezione di proprietà intellettuale che il Nord applicava già da decenni. L’occasione si presentò a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando lo sviluppo dei trasporti e delle nuove tecnologie di comunicazione avevano intensificato gli interscambi planetari a tal punto che tutti i paesi si erano convinti della necessità di facilitare ulteriormente l’integrazione economica mondiale. Insomma tutti pensavano che fosse conveniente per ognuno aprirsi ai rapporti con gli altri, ma per riuscirci bisognava rendere i confini più porosi. Nasceva la globalizzazione che fondamentalmente chiedeva alle nazioni di tutto il mondo di ridurre al minimo i dazi doganali e di abbassare il più possibile le regole di carattere ambientale, sanitario, sociale, in modo da creare meno ostacoli possibile al fluire di merci, capitali e processi produttivi. In tutti gli ambiti fuorché uno: quello dei brevetti per i quali si chiedeva l’innalzamento di barriere protettive.

La costruzione di un mondo pensato più per merci, capitali e interessi industriali che per le persone, esigeva l’adozione di una serie di nuove regole che richiese un intero decennio di trattative internazionali sui temi più disparati. Fra essi quello relativo alla protezione della proprietà intellettuale per il quale venne costituito un apposito tavolo che, alla fine, partorì un accordo denominato Trips, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, richiamato come fonte giuridica. Detto accordo comparve in bella mostra fra i sei trattati posti a fondamento   della nuova architettura commerciale internazionale, supervisionata da un nuovo organismo che debuttò nel 1994, sotto il nome di Organizzazione mondiale del commercio (Omc, Wto per dirla all’inglese).

«La ricerca costa»

Nel Sud del mondo, uno degli ambiti dove più si sentirono gli effetti negativi del giro di vite operato sui brevetti, fu quello farmaceutico. Fino ad allora vi erano stati paesi, fra cui India, Brasile, perfino Thailandia, dove l’assenza di obblighi di licenza verso i soggetti esteri proprietari delle formule aveva permesso il fiorire di un’industria farmaceutica locale che produceva farmaci a prezzi molto più bassi di quelli commercializzati dalle imprese proprietarie dei brevetti. La spiegazione fornita dalle grandi case farmaceutiche a giustificazione degli alti prezzi di vendita applicati sui propri prodotti è che la ricerca costa, a volte anche molto, mentre il tempo a  disposizione per recuperare i soldi investiti non va oltre i venti anni. Periodo dopo il quale ogni formula può essere usata liberamente dando luogo ai così detti farmaci generici. Considerato l’alto tasso di segretezza che avvolge le imprese, i conti nelle loro tasche non si possono fare, ma un aspetto che le case farmaceutiche evitano sempre di raccontare è quanto vale la compartecipazione dei soggetti pubblici sotto forma di contributi in denaro o di pezzi di ricerca eseguiti nelle università pubbliche. A tale proposito ci viene in aiuto un’indagine Ocse, secondo la quale  la spesa complessiva per ricerca farmaceutica e sanitaria nei trenta paesi più industrializzati nel 2014 ammontava a 151 miliardi di euro, di cui 100 sostenuti dalle imprese e 51 dai governi. Venendo al presente, il solo governo degli Stati Uniti ha erogato circa 10 miliardi di dollari a fondo perduto a favore di sette imprese farmaceutiche impegnate nella messa a punto di vaccini anti-Covid. Ricevere soldi pubblici e poi imporre prezzi salati è però cosa indecente. Meglio sarebbe che la ricerca per la cura delle malattie fosse sostenuta interamente dagli istituti pubblici e messa a disposizione gratuitamente a tutti, salvo coprire le spese con l’innalzamento delle imposte sui redditi d’impresa. La trasformazione del sapere in bene comune è l’unico modo per sbarazzarsi dei brevetti che creano disuguaglianza e gettano nella disperazione i più poveri.

La battaglia del Sudafrica di Mandela

Il primo paese a portare l’attenzione su quanto i brevetti possano essere devastanti per le popolazioni dei paesi più poveri, fu il Sudafrica che nel 1997 si trovò a fronteggiare una grave crisi da Aids. Gli unici farmaci antiretrovirali contro l’Hiv circolanti nel paese erano quelli prodotti dalle grandi multinazionali detentrici delle formule, che sperimentavano quanto fosse più lucroso essere padroni del mercato piuttosto che concedere licenze. A rimetterci erano i malati che avrebbero dovuto lavorare un anno di fila per poter sostenere la cura di un solo mese. A quei prezzi, neppure il governo era in grado di procurarsi tutte le dosi che servivano per curare le centinaia di migliaia di malati presenti nel paese. Eppure, c’erano nazioni che non avendo ancora applicato il trattato sulla protezione della proprietà intellettuale producevano quegli stessi farmaci a costi molto più bassi.

Perciò Mandela, che all’epoca guidava il Sudafrica, autorizzò l’importazione parallela dei farmaci anti Hiv da paesi come l’India e il Brasile. La reazione delle case farmaceutiche fu immediata e, invocando la violazione di tutte le regole a protezione dei brevetti, dichiararono di voler dare battaglia in tutte le sedi possibili: dai tribunali locali al gran giurì dell’Organizzazione mondiale del commercio. Fortunatamente ci fu una grande sollevazione della società civile che provocò una tale indignazione a livello mondiale da indurre le multinazionali a ritirarsi da tutte le iniziative giudiziarie da loro avviate. Tuttavia, il caso aveva fatto scuola e vari paesi del Sud del mondo pretesero che l’Organizzazione mondiale del commercio dichiarasse nero su bianco che le emergenze sanitarie sono motivazioni sufficienti per sospendere le regole a protezione dei brevetti.

Emergenza Covid-19

Nel 2003 una nota del Consiglio generale dell’Omc precisava tre punti fondamentali. Primo: le regole sulla proprietà intellettuale non possono e non devono essere di impedimento alla tutela della salute pubblica. Secondo: in caso di bisogno, i paesi in emergenza possono autorizzare al proprio interno la produzione dei farmaci necessari a fronteggiare la crisi, pur in assenza di licenza da parte dei detentori dei brevetti, purché venga pagato un indennizzo. Terzo: se nel paese in emergenza non esistono le condizioni industriali per produrre i farmaci che servono, essi possono essere importati dai paesi che, per le ragioni più varie, producono i farmaci senza licenza e, quindi, a basso prezzo.

Nonostante l’esistenza di tali salvaguardie, il 2 ottobre 2020 India e Sudafrica* si sono rivolti agli organi di governo dell’Omc per richiedere la momentanea sospensione del trattato sulla protezione della proprietà intellettuale sostenendo che è di ostacolo alla possibilità di procurarsi, con rapidità ed economicità, tutto ciò che serve per far fronte alla pandemia da Covid-19: dalle mascherine ai ventilatori, dai kit diagnostici ai farmaci antivirali, dai disinfettanti ai vaccini. Il 16 ottobre la richiesta è stata discussa all’interno del Consiglio di vigilanza del trattato, ma nessuna decisione è stata presa. Si è semplicemente preso atto che i paesi presenti erano divisi in tre gruppi: i più poveri favorevoli alla richiesta, quelli a reddito medio con richieste di chiarimenti e i più ricchi contrari. Segno di quanto sia ancora forte la sudditanza della politica nei confronti delle imprese. Una situazione che pone non solo problemi di etica, ma anche di democrazia.

 Francesco Gesualdi

Farmaci e vaccini: come ci si regolerà per il Covid-19? Foto Myriams Fotos – Pixabay.




Non solo fumo

 


La cannabis, nella storia, ha sempre curato le malattie dell’uomo. Nell’era moderna è stata messa al bando, ma da alcuni anni le sue proprietà terapeutiche sono state rivalutate. E le leggi italiane iniziano ad adeguarsi.

La storia della cannabis o canapa (cannabis sativa) si intreccia con la storia dell’uomo, al punto tale che l’uso di questa pianta è più antico della scrittura. Le sue origini si collocano dopo l’ultima glaciazione nell’Asia centrale, da dove è riuscita a colonizzare tutto il pianeta. La canapa, coltivata in Asia da migliaia di anni è stata a lungo utilizzata nell’alimentazione e per ricavarne fibra tessile. La prima Bibbia a caratteri mobili venne stampata da Gutenberg su carta di canapa e lino.

Questa preziosa pianta è ben nota da migliaia di anni anche per le sue proprietà psicoattive e per le sue virtù terapeutiche. Per quanto riguarda queste ultime, la prima citazione dell’uso della cannabis a scopo terapeutico si trova in un testo tradizionale della medicina cinese, il Shen Nung Ben Ts’ao, che sarebbe stato composto nel 2.737 a.C. dal fondatore della scienza medica cinese, l’imperatore Shen Nung. Qui si trovano indicazioni sull’uso della pianta per la cura dei dolori di origine reumatica e gottosa, dei disturbi ginecologici e della malaria. I chirurghi cinesi impiegavano inoltre la cannabis come anestetico.

Oltre alla pianta della canapa, in Cina venivano utilizzati per scopi medici i suoi semi, come antiemetici, nelle intossicazioni e nei casi di dismenorrea, mentre l’olio e il succo da essa ricavati erano diffusamente utilizzati nella cura delle malattie della pelle, delle ulcere, delle ferite e della lebbra.

L’uso a scopo terapeutico della cannabis è riportato anche in diversi manuali di medicina ayurvedica, la medicina induista tradizionale. In India la cannabis era usata per stimolare l’appetito e per curare la lebbra.

Nell’antica Roma, la cannabis per uso medico venne introdotta nel primo secolo d.C. e le sue proprietà vennero descritte da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, da Dioscoride, scienziato e medico, nel suo De materia medica, e da Galeno, uno dei più importanti medici dell’epoca antica, che utilizzò questa pianta per il trattamento di varie patologie e che produsse la tintura galenica di canapa, la quale venne utilizzata per secoli in varie parti del mondo come analgesico e anestetico. Galeno descrisse le proprietà della cannabis e di oltre 600 tipi di piante e di altri rimedi naturali nel trattato De natura medica, che influenzò la medicina fino agli inizi del diciottesimo secolo.

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Fuori legge

Agli inizi del ventesimo secolo, diversi interessi economici come la produzione dei materiali sintetici derivati dal petrolio e lo sviluppo dei medicinali di sintesi, portarono all’introduzione negli stati occidentali di misure sempre più restrittive e orientate alla criminalizzazione della cannabis, vista solo come sostanza stupefacente. Questo determinò l’abbandono della canapa sia per la produzione di tessuti, che di rimedi farmacologici di origine naturale. Le coltivazioni di cannabis scomparvero in breve tempo e la pianta nel 1975 venne definitivamente messa al bando in tutte le sue varietà. Il clima di ostilità, che si sviluppò nel ventesimo secolo nei confronti della cannabis è ben rappresentato dal fatto che, negli Usa prima e nel resto del mondo occidentale poi, essa venne chiamata marijuana, termine che imita il vocabolo messicano marihuana, con cui viene designata la cannabis, usata come sostanza stupefacente in Messico. La demonizzazione della cannabis per molto tempo dissuase buona parte del mondo scientifico dalla conduzione di ricerche approfondite su di essa, dal momento che gli scienziati che se ne fossero occupati avrebbero rischiato la propria reputazione, per cui fino a metà del secolo scorso era ancora sconosciuto il suo principio attivo.

Finalmente un chimico organico israeliano, Raphael Mechoulam, ebbe il coraggio di intraprendere questo studio, e nel 1964 riuscì a isolare il principale principio attivo della cannabis, cioè il delta-9-tetraidrocannabinolo (Thc), la sostanza con proprietà psicoattive. In seguito Mechoulam e la sua equipe riuscirono a isolare molte altre sostanze dalla cannabis, tra cui un altro componente cruciale, il cannabidiolo (Cbd), capace di modulare l’attività del tetraidrocannabinolo prolungandone l’azione e limitandone gli effetti collaterali. Questo non è il componente psicoattivo, ed è quindi senza effetti sul cervello. Questa sostanza ha una certa efficacia come anticonvulsivante, sedativo e analgesico, aiuta a contrastare il diabete, le infezioni batteriche e i tumori maligni, serve a proteggere i nervi e ha effetti documentati contro le psicosi e gli stati d’ansia. Oggi sono oltre 600 le sostanze derivate dalla cannabis e appartengono alle famiglie dei cannabinoidi, dei flavoni e dei terpeni.

Una foglia, molte proprietà

I cannabinoidi sono più di 60. Oltre ai due già citati, sono importanti: la tetraidrocannabivarina, che accelera il raggiungimento dello stato euforico, ma ne diminuisce di molto la durata e sembra utile per combattere il diabete di tipo II, oltre ad avere mostrato un effetto preventivo contro i tumori maligni; la cannabicromina, che sembra capace di combattere gli stati di depressione e le infiammazioni e ha mostrato un effetto inibitore nei tumori al seno e nella leucemia. L’industria farmaceutica ha prodotto diversi cannabinoidi sintetici, ma questi sembrano mostrare minore efficacia e maggiori effetti collaterali rispetto ai derivati naturali. L’equipe di studiosi israeliani, non solo riuscì a scoprire i principi attivi della cannabis, ma nel 1992 riuscì a isolare la sostanza prodotta dal corpo umano che si lega agli stessi recettori del tetraidrocannabinolo, a cui dette il nome di anandamide, dal termine sanscrito ananda, che significa «gioia suprema», il primo endocannabinoide scoperto.

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Leggeri effetti collaterali

In pratica il sistema degli endocannabinoidi regola l’assorbimento energetico del nostro organismo, il movimento dei nutrienti, il loro metabolismo e la loro conservazione. Gli endocannabinoidi regolano diverse funzioni del sistema nervoso, dell’apparato cardiovascolare, del sistema riproduttivo e del sistema immunitario. Inoltre essi aiutano il nostro sistema nervoso a comunicare, funzionando da messaggeri tra una cellula e l’altra.

Le sostanze ricavate dalla cannabis, in primis il delta-9-tetraidrocannabinolo, avendo la capacità di legarsi agli stessi recettori degli endocannabinoidi, possono risultare di estrema utilità nella cura di un numero importante di patologie, senza i pesanti effetti collaterali di molti farmaci di sintesi. Tra le patologie per le quali esistono evidenze incontrovertibili dell’efficacia dei derivati della cannabis ci sono il trattamento della nausea in chemioterapia e la stimolazione dell’appetito nei pazienti con sindrome da deperimento Aids-correlata.

Ci sono poi patologie per cui esistono promettenti evidenze preliminari di efficacia dei derivati della cannabis, per le quali sono necessarie sperimentazioni cliniche controllate, cioè: sclerosi multipla, terapia del dolore, sindrome di Gilles de la Tourette, glioblastoma, artrite reumatornide, glaucoma, epilessia, ictus e traumi cranici, prevenibili grazie agli effetti neuro protettivi e antiossidanti.

Infine c’è un gruppo di patologie per le quali esistono evidenze di efficacia meritevoli di ulteriori approfondimenti, che sono: lesioni midollari (paraplegia, tetraplegia), malattie neurodegenerative (distonie, Parkinson, corea di Huntington, Alzheimer), asma bronchiale, malattie autornimmuni e patologie infiammatorie croniche (lupus eritematoso, morbo di Crohn, colite ulcerosa, psoriasi), sindromi ansioso-depressive e altre sindromi psichiatriche, patologie cardiovascolari, sindromi da astinenza nelle dipendenze da sostanze, prurito intrattabile, tumori.

Gli effetti collaterali sono gli stessi per tutti i farmaci a base di cannabinoidi e dipendono dalla dose e dalla condizione psicofisica del paziente, ma solitamente scompaiono nel giro di poche ore. Tra i più comuni ci sono le temporanee alterazioni dell’attività psichica (euforia, sedazione, ansia, alterata percezione del tempo, depressione, prestazioni cognitive diminuite) e motoria (debolezza muscolare), accelerazione della frequenza cardiaca, ipo salivazione, labile stabilità ortostatica. Non sono noti casi di morte riconducibili all’uso di cannabis.

Nuove leggi

Negli ultimi anni sono sempre di più i paesi che, mediante leggi meno restrittive, hanno consentito l’accesso ai trattamenti terapeutici a base di farmaci derivati dalla cannabis. In Italia, il decreto Dm 18 aprile 2007, che prevedeva l’aggiornamento delle tabelle delle sostanze stupefacenti e psicotrope, ha stabilito l’inserimento nella sezione B della tabella Medicinali, di almeno tre sostanze derivanti dalla cannabis. Inoltre il Dm 23 gennaio 2013 ha disposto l’inclusione di medicinali di origine vegetale a base di cannabis (sostanze e preparazioni vegetali, inclusi estratti e tinture) nella sezione B. Questo significa che anche il medico di base può prescrivere cannabis e derivati per trattamenti domiciliari. I costi della cura non sono a carico del paziente, ma del sistema sanitario regionale, grazie a una legge regionale adottata da Sicilia, Abruzzo, Puglia, Toscana, Liguria, Veneto, Lombardia e Piemonte, non ostacolata dal governo, che però ha ribadito che i farmaci in questione vanno prescritti esclusivamente «quando altri farmaci disponibili si siano dimostrati inefficaci o inadeguati al bisogno terapeutico del paziente».

View of a marijuana plant, part of the weed plantation with 18,000 plants who has been found in a forest, near the German border, in Reuver, The Netherlands, on August 26, 2014. The street value of 18,000 plants fluctuates around 20 million euros. AFP PHOTO / ANP / MARCEL VAN HOORN ***netherlands out*** / AFP / ANP / MARCEL VAN HOORN
AFP PHOTO / ANP / MARCEL VAN HOORN

Italia, un passo indietro

Esiste però un problema rappresentato dal fatto che l’utilizzo dei farmaci a base di cannabis e derivati è ancora particolarmente difficoltoso per la quasi totale assenza sul mercato italiano di prodotti registrati e materie prime. Finora, in Italia, un solo prodotto cioè il Sativex, ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio, ma è stato inserito in classe H, quindi è disponibile solo presso gli ospedali. Per tutti gli altri prodotti a base di cannabis e derivati, è necessario ricorrere all’importazione dall’estero. Tali prodotti possono essere utilizzati sul territorio nazionale importandoli direttamente, oppure acquistandoli tramite alcune aziende italiane, che sono state recentemente autorizzate al commercio all’ingrosso di preparazioni vegetali a base di cannabis. L’acquisto di medicinali registrati all’estero non deve gravare su fondi pubblici, tranne nel caso che l’acquisto venga richiesto da una struttura ospedaliera, per l’impiego in ambito ospedaliero.

La Regione Piemonte il 15 giugno 2015 ha però approvato la legge regionale n. 11, la quale prevede, rispetto alla normativa nazionale, che quando la terapia a base di medicinali cannabinoidi e preparazioni galeniche magistrali avviene in ambito domiciliare, la spesa per tale terapia sia a carico del servizio sanitario regionale. Questa legge definisce inoltre la possibilità di centralizzare acquisti, stoccaggio e distribuzione dei farmaci alle farmacie ospedaliere abilitate territoriali, dove il cittadino può accedere gratuitamente ai trattamenti prescritti, in modo da ridurre la spesa pubblica.

Per ridurre i costi dell’importazione dei farmaci cannabinoidi è stato approvato nel 2014 un progetto di produzione in Italia presso lo stabilimento farmaceutico militare toscano, ma al momento quest’ultimo non ha ancora reso disponibili questi farmaci.

Medicina sì, fumo no

In Italia oggi, il via libera alla cannabis per uso medico non significa libera coltivazione della pianta, né libero consumo con il fumo di preparazioni vegetali. Non va dimenticato che l’assunzione degli stessi principi attivi attraverso il fumo comporta un’assunzione di dosaggi non riproducibili e non prevedibili, poiché dipendenti da diverse variabili individuali e ambientali, senza alcun vantaggio terapeutico, ma con il rischio di una progressiva riduzione delle capacità cognitive e, negli adolescenti, di un’aumentata predisposizione all’insorgenza di malattie psichiatriche. Secondo recenti studi, la cannabis, se usata in questo delicato periodo, può alterare lo sviluppo cerebrale, riducendo la formazione di solchi e di circonvoluzioni della corteccia cerebrale e lo spessore di quest’ultima.

Rosanna Novara Topino

 




Prima il profitto poi i brevetti


Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore è la possibilità di guadagnare,
indipendentemente dai bisogni. I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto. Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta dell’umanità.

Un pomeriggio di ottobre del 1999, nella Cambogia nord-orientale. Stiamo percorrendo una pista che costeggia il fiume Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento di un programma di controllo delle malattie parassitarie, gestito dal ministero della sanità con il nostro supporto tecnico. Il programma sembra andar bene, e siamo orgogliosi di aver abbattuto i tassi di mortalità per queste malattie nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta per sgranchirci un po’ e bere dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso villaggio, affacciato su una bella insenatura del grandioso fiume. L’aria è pulita e profumata, e la luce dell’imminente tramonto colora di violetto le acque del fiume, incoiciato dal verde della esplosiva vegetazione. Mi allontano un po’ dalla Toyota, e mi fermo sotto una delle casupole, tutte uguali, tutte estremamente precarie: un pavimento di bambù su quattro alti pali (le case sono così, anche per proteggersi dalle inondazioni), quattro pareti di foglie di palma intrecciate e un tetto, anch’esso di foglie. Una bambina sorridente sta appoggiata alla ripida scala che conduce all’interno, e in alto sua madre – così credo – è seduta intenta a eliminare le scorie da una manciata di riso. Mi sorride. Così mi tolgo le scarpe e salgo.
Seduta sul pavimento, la donna ha sulle gambe un fagotto, che si muove ritmicamente. Lei sposta un lembo degli stracci e scopre un bimbetto (10-12 mesi) ansimante, viso affilato, occhi spalancati e una colata di muco dal naso. Chiamo l’interprete, per avere notizie di quel piccolo visibilmente sofferente. È così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche smesso di succhiare il seno. Lo tocco: è bollente. Avvicino un orecchio al suo dorso: polmonite. Non si lamenta mentre lo esamino, continua solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo di utile in quella condizione: trovo delle compresse di ampicillina e di paracetamolo. Dovrebbero andare. Poi l’interprete spiega alla mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in una ciotola, scioglierla e dae un cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi reidratarlo con acqua, zucchero e sale, poi il paracetamolo… cose banali insomma, una serie apparentemente semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto della mamma sembra indicare tutto il contrario: manovre complicate, quasi impossibili, gesti del tutto estranei alla quotidianità della sua vita. Ci allontaniamo dalla casupola lasciando il rantolo del bambino con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno, ci fermiamo di nuovo. La mamma in lacrime ci dice che la sera prima il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il tramonto e durante la notte ha smesso di respirare.

Cosa ha di particolare questa storia? Nulla, assolutamente nulla. Rivela semplicemente quanto accade ogni giorno, in migliaia di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi piede in Africa, fresco di studi di medicina tropicale. Aspettavo con ansia di vedere malati affetti da quei misteriosi e «affascinanti» morbi esotici. Rimasi quasi deluso quando, nella prima giornata di consultazioni mediche, vidi solo bambini gravemente malati o prossimi al decesso per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie: sono queste le prime cause di morte nei paesi in via di sviluppo. Il 95% dei decessi sono dovuti a malattie infettive, per le quali esistono efficaci trattamenti. Ma un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ai farmaci basici. Gran parte di queste malattie sarebbero facilmente curabili; però, proprio là dove più servono, i farmaci relativi non sono disponibili, spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza tra bisogni e offerta risiede in rigide leggi di mercato, in base alle quali i prezzi dei farmaci, protetti da brevetto, sono fissati sulla disponibilità a pagarli nei mercati dei paesi industrializzati. Alla base di gran parte dei disastri sanitari, dell’impossibilità a gestire epidemie o endemie, a prevenirle, a impedire la morte per banali infezioni, alla base di tutto possiamo affermare oggi con certezza che c’è un problema di farmaci. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci utili in medicina tropicale, che siano poco tossici, a basso costo ed efficaci per debellare le malattie (parassitarie, ad esempio), causa di sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni, tra i 1.233 nuovi farmaci offerti dal mercato internazionale, solo 11 avevano come indicazione malattie tropicali, e di questi 7 venivano dalla ricerca veterinaria. Per cui appena lo 0,3% della ricerca farmaceutica contemporanea è indirizzata alle malattie ai vertici di ogni classifica mondiale di morbosità e mortalità. Perché? Semplice, perché queste malattie imperversano in mercati poco remunerativi. Le priorità sono, quindi, più di ordine economico-commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono investiti sulla ricerca di nuove pillole contro l’obesità e l’impotenza, dall’altro quasi niente per malattie tropicali. Se poi talvolta (e c’è l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un farmaco attivo su una malattia tropicale, spesso il fabbricante decide di non commercializzarlo, poiché la sua vendita sarebbe poco remunerativa nei paesi dove i pazienti interessati sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci già disponibili, efficaci e semplici da somministrare scompaiono improvvisamente, come è stato il caso della sospensione oleosa di cloramfenicolo, usata per trattare la meningite meningococcica (malattia capace di uccidere in 24 ore). Tale farmaco era l’alternativa al trattamento con ampicillina, che richiede 4 infusioni endovenose al giorno, contro un paio di iniezioni intramuscolari in tre giorni per il cloramfenicolo. Una bella differenza, per trattare pazienti in strutture sanitarie carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina. Questo farmaco serve per trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi, più conosciuta come malattia del sonno (trasmessa dalla famosa mosca tse-tse). Bene, mentre il vecchio farmaco usato (un derivato dell’arsenico estremamente tossico e somministrabile in dolorose iniezioni) diveniva anche inefficace per l’insorgenza di ceppi di parassiti resistenti, appare questo nuovo ritrovato. Sfortunatamente due anni fa la ditta produttrice, detentrice del brevetto, ha deciso di sospendee la produzione per motivi commerciali. E i circa 300 mila malati si vedono rioffrire il vecchio melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo mercato globalizzato.

Uno dei problemi principali è causato dal brevetto che protegge il farmaco. Il brevetto rappresenta un diritto sacrosanto dell’industria per salvaguardare i frutti dei sui investimenti in sperimentazioni. Accade però che i brevetti si tramutino in micidiali armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di sviluppo, ma in realtà detentori di tecnologie sufficienti per una produzione farmaceutica. Nazioni come India, Thailandia, Sudafrica o Brasile sono in grado di produrre farmaci utili per le loro popolazioni e quindi rivenderli a prezzi accessibili. Il prezzo di farmaci come il fluconazolo, efficace in gravi infezioni fungine, crolla così dai 20 dollari al giorno per un trattamento in Kenya, dove è importato, a meno di un dollaro al giorno in Thailandia, dove è prodotto da una azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una norma che si chiama compulsory licensing, o licenza obbligatoria (vedi box).
A questo punto, la domanda che sorge è: etica e sviluppo economico del settore farmaceutico sono obiettivi incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche inteazionali (ad esempio, British Medical Joual e JAMA) sostengono che l’etica è compatibile con l’economia. Per questo i medici, che operano in questi contesti, sono stanchi di dover pensare, di fronte all’ennesima morte di un loro paziente: «Mi spiace. Stai morendo a causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’AIDS mostra poi cifre apocalittiche. Il 95% dei malati di Aids nel mondo non ha accesso a farmaci efficaci per restituire salute e dignità. Ma (fatto ancor più grave) i trattamenti per ridurre significativamente la trasmissione verticale dell’infezione da madre sieropositiva a figlio al momento del parto non sono disponibili proprio nei paesi dove questa modalità di trasmissione sta segnando le nuove generazioni, condannando a morte entro 5-8 anni un bambino già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina, efficaci anche se somministrati per solo 4 settimane intorno alla data del parto, sono vittime delle stesse regole di mercato. Spietati brevetti ne permettono la vendita a prezzi proibitivi e ne impediscono la produzione da parte di altre aziende. Se è vero, si può sempre applicare la licenza obbligatoria. Ci ha provato la Thailandia iniziando a produrre Azt per le sue donne (tantissime) incinte e sieropositive. Il farmaco ha avuto il costo abbattuto del 7000%.
La reazione degli USA, dove risiede la ditta detentrice del brevetto, è stata: non possiamo impedirtelo, ma possiamo però ridurre le importazioni dalla Thailandia… Cosa questa insostenibile in questo momento di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano troppo; farmaci che esistono, ma non vengono prodotti, germi che divengono resistenti ai comuni trattamenti (TBC, leismaniosi, tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca farmaceutica ha altri obiettivi… e le cifre di morte e malattia continuano ad avere parecchi zeri nei paesi dei poveri del mondo. Quello che basterebbe è esigere un «diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

Carlo Urbani