Comunità di Famiglie


Sommario


La comunità di Bethesda a Padova
Essere insieme è salvifico

Quattro coppie, sedici figli, uniti attorno a un sogno che si realizza da cinque anni in un antico casolare, nell’ordinarietà di una vita quotidiana vocata all’accoglienza. Un’esperienza di Chiesa domestica che annuncia il Vangelo con la semplicità della vita di famiglie che sanno di non bastare a se stesse.

Via Adige, nella periferia nord di Padova, attraversa uno spicchio di campagna incuneato nel quartiere Sacro Cuore. Siamo in città, a 20 minuti di mezzi pubblici dalla basilica del Santo, ma attorno a noi c’è molto verde e campi coltivati.

Al civico 35 troviamo un cancello aperto che invita a percorrere il viale alberato fino all’antico casolare in fondo. Entriamo: il colpo d’occhio è molto bello e ci indica qual è uno dei motivi per cui questo posto è tanto apprezzato dalla Chiesa locale e dalla città. Il portico del corpo centrale della cascina è sostenuto da pilastri che formano cinque archi. Lì un tempo c’era la stalla sormontata dal fienile. Ai due lati, la struttura ospita gli appartamenti delle quattro coppie che, con i loro sedici figli, abitano qui. Siamo arrivati alla comunità di Bethesda che il 15 ottobre scorso ha celebrato i suoi primi cinque anni. Alla messa nel giardino, presieduta da monsignor Paolo Bizzeti, Vicario apostolico di Anatolia (Turchia) e amico delle quattro famiglie, erano presenti diversi sacerdoti e molti amici padovani. La comunità, infatti, nonostante la sua storia breve, intervallata anche dagli anni del Covid, è molto conosciuta a Padova. Tutti i fine settimana qui sono accolti gruppi, associazioni, singoli.

Ordinarietà accogliente

È lunedì sera. Andremo via domattina: vivremo un pezzo della vita ordinaria di questo piccolo villaggio dove, oltre alle quattro famiglie, ce n’è una quinta «accolta» che vive da quasi tre anni nel piccolo alloggio ricavato nella struttura allo scopo di offrire una sistemazione temporanea a qualcuno che ne abbia bisogno.

Quando abbiamo sentito Mauro Marangoni, 44 anni, per darci appuntamento, ci ha invitati a cena con l’idea di dedicarci con calma all’intervista dopo il rosario della sera.

Arriviamo nel pieno dell’andirivieni che precede il pasto serale. Bambini che tornano da una gita, altri dallo sport, gli adulti dal lavoro.

Barbara e Luana ci accolgono con un succo di frutta, poi ci mostrano il soppalco ricavato nel salone comune, l’ex fienile, dove dormiremo, e corrono a preparare la cena.

Mentre ci sistemiamo, sentiamo arrivare e andare auto e bici.

Poco dopo compare Mauro per portarci nel suo alloggio dove vive con la moglie Chiara Bolzonella, 43 anni, e i cinque figli: Giosuè, 15 anni, Pietro, 14, Teresa, 12, Martino, 9 e Lorenzo di 2.

Dal 2011 al 2013 Mauro e Chiara sono stati in Kenya come laici missionari fidei donum per la diocesi di Padova. A Nyahururu, 2.400 metri di altitudine, quasi 200 km a nord di Nairobi.

«Quando siamo tornati sentivamo il bisogno di continuare a vivere in comunità – racconta Chiara -. Lì eravamo insieme a sette sacerdoti. È stato bello, ma ci mancava il confronto con altre famiglie. Una famiglia da sola non basta a se stessa».

La cena è allegra. Tra il racconto della gita di un figlio, quello di un lavoretto fatto a scuola di un altro, battute e aneddoti, arriva presto l’ora del rosario nel porticato.

Oltre ai membri della comunità, ci sono anche alcuni amici. Le Ave Maria sono recitate dai bambini che un paio di volte si confondono saltando un verso. Gli adulti sorridono benevoli. Il clima della preghiera è semplice. Molto caldo.

Finito il rosario, Mauro ci invita a salire nel salone per l’intervista insieme a Damiano. Sono già le ventuno e l’indomani ci si alza presto per il lavoro. Salutiamo tutti gli altri che, dopo aver messo via le panche, vanno a prepararsi per la notte.

Nella grande sala si tengono gli incontri quando fuori non si può stare. Può ospitare un centinaio di persone. Diversi gruppi scout vi hanno già pernottato per le loro uscite.

A un’estremità, sotto il soppalco, c’è un bagno. All’altra estremità una piccola cappella, bella e accogliente. In un angolo c’è una cucina attrezzata.

Desiderio di comunità

Mentre Damiano ci prepara una tisana, Mauro inizia a raccontare: «La comunità è composta da quattro famiglie. Luana e Alberto di 36 e 38 anni, con Giovanni di 10 anni, Giacomo di 4 e Tommaso di 1, sono i più giovani. Lei è insegnante alla primaria, lui è ingegnere e lavora nella ricerca.

Roberto e Barbara, 46 e 45 anni, lui ausiliario del traffico in autostrada, lei erborista, hanno cinque figli: Maria di 19 anni, Matilde di 17, Tobia di 12, Agnese di 10 e Gioele di 7.

Elena e Damiano hanno 43 e 44 anni, lei è ostetrica e lui lavora nella disabilità. I loro figli sono Giosuè di 13 anni, Tobia di 12, Giorgio di 8.

E poi ci siamo noi. Io lavoro in azienda come responsabile di amministrazione e controllo, Chiara è insegnante di religione alle superiori. Come vedi, 12 figli su 16 sono maschi».

La storia della comunità di Bethesda potremmo farla iniziare con il rientro di Mauro e Chiara dal Kenya e con la contemporanea ricerca di un’esperienza di comunità da parte di Roberto e Barbara. «Noi nel 2013 tornavamo da tre anni di missione – racconta Mauro -. Roberto e Barbara, che conoscevamo da tempo, in quel periodo vivevano il fallimento di un progetto di una casa di accoglienza con alcune suore.

Loro frequentavano il centro Antonianum di Padova, gestito dai gesuiti, dove il direttore ai tempi era padre Paolo Bizzeti, che sarebbe poi stato nominato Vicario apostolico dell’Anatolia nel 2015.

Padre Paolo ha una ricca storia di comunità di famiglie: ha contribuito a fondarne due a Bologna, una in Toscana. Insomma, sentendo il nostro desiderio ha “annusato l’affare”, e abbiamo organizzato una serie di serate per chiunque fosse interessato a un’esperienza di comunità tra famiglie.

La prima sera sono venute ventiquattro coppie: alcune convinte, altre meno, con diverse motivazioni e idee di comunità. Da lì è iniziato un percorso di “scrematura” che in tre serate le ha portate a dodici.

C’erano poche linee guida, ma molto chiare: che fosse un’esperienza dentro la Chiesa cattolica, che fosse prevista una convivenza e un progetto di accoglienza, che ci fosse una guida spirituale».

Attorno a un sogno

Dopo i primi incontri, le dodici famiglie hanno iniziato a trovarsi una volta al mese. Nel giro di sei mesi, sono diventate quattro. Era dicembre 2014. «È stato un ritrovarsi e un discernere sul desiderio comune. Sin dall’inizio era chiaro che non era un progetto in nome di un’amicizia, ma di un sogno da realizzare», chiarisce Mauro.

Damiano ci mostra una tavoletta di legno appesa sopra la cucina. Sopra sono incisi il nome della comunità e il logo. Questo raffigura in forma stilizzata i cinque archi del porticato.

«I cinque archi rappresentano i pilastri su cui si fonda “il sogno” di Bethesda – ci dice -: fraternità tra famiglie, Parola di Dio, servizio alla Chiesa, accoglienza di bisognosi e misericordia. Quest’ultima è un po’ il collettore di tutto il resto».

«L’idea è che lo stare insieme passa attraverso l’esercizio della misericordia», aggiunge Mauro. E prosegue: «Quando noi quattro famiglie abbiamo deciso di partire, abbiamo iniziato a trovarci tutte le settimane per pregare, ragionare e sognare insieme. È nata l’idea di cercare un nome simbolico. Era il 2015, l’anno del giubileo della Misericordia, e Bethesda, versione inglese di Betzaetà, significa “Casa della misericordia”. È il nome della piscina di cui racconta il Vangelo di Giovanni al capitolo 5 che aveva cinque portici, come i cinque archi di questo cascinale. Gesù entra a Gerusalemme dalla Porta delle pecore, vede il paralitico e gli chiede: vuoi guarire? La cosa per noi interessante è la risposta del paralitico: sì, ma non ho nessuno che, quando passa l’angelo, mi butta nell’acqua. Siccome l’idea della comunità di famiglie è quella di prendersi cura l’uno dell’altro, ci piaceva l’immagine di essere gli uni per gli altri quelli che, quando hai bisogno, ti prendono e ti buttano dentro la piscina. Crediamo fermamente – prosegue Mauro – che una delle grandi fatiche delle famiglie in questo tempo è la solitudine. Essere insieme non è facile, perché ti pesti i piedi, ti arrabbi, l’altro ti mette di fronte ai tuoi limiti, ma è salvifico».

Una cascina in città

Una volta radunate attorno a un progetto, ora le famiglie dovevano trovare un luogo nel quale realizzarlo. Inizialmente avevano pensato a una struttura della diocesi, nella quale andare in comodato d’uso o con altre formule, in modo che l’impronta ecclesiale della comunità fosse esplicita fin dalle mura. Ma quella ricerca non ha dato frutti e, quando si è orientata verso l’acquisto di una casa, è spuntato il vecchio cascinale di via Adige, abbandonato oramai da anni.

Mauro ci mostra un album fotografico. Nelle foto della messa di apertura del cantiere dell’8 maggio 2017, sullo sfondo, si vedono muri scrostati, scritte, erbacce. Il luogo era noto nel quartiere per essere frequentato da spacciatori e vandali.

Un po’ di pagine dopo, le foto del 14 ottobre 2018 mostrano il cascinale ristrutturato con una folla di mille persone, 24 sacerdoti e un vescovo (padre Paolo) radunati nel prato di fronte al porticato per la messa d’inaugurazione della comunità.

«La cosa bella è che la Chiesa locale ci riconosce tantissimo – racconta Mauro -. Tutte e quattro le nostre famiglie hanno un’importante storia ecclesiale, e tutti abbiamo da subito raccontato a molti il nostro sogno. E quando racconti un sogno, la gente se ne prende cura.

Anche grazie alla “pubblicità” che ci ha fatto padre Paolo, abbiamo avuto aiuti da ogni parte per realizzare questa cosa che altrimenti sarebbe stata al di là delle nostre capacità. I nostri quattro alloggi, infatti, li abbiamo acquistati e ristrutturati con i nostri soldi, ma le parti comuni come questo salone, la cappella, l’alloggio per l’ospitalità, gli spazi esterni, che sono proprietà dell’associazione costituita ad hoc, non saremmo mai riusciti a comprarli e sistemarli senza il contributo economico, e poi anche fisico, di molti che hanno creduto nel nostro progetto.

È stata l’esperienza di Provvidenza più concreta della mia vita – chiosa Mauro -. La cosa bella della comunità è che è qualcosa di più della somma dei singoli. Qualsiasi cosa qua dentro nessuno di noi sarebbe stato in grado di farla da solo».

Accoglienza

Nella cascina, da tre anni, vive anche una famiglia accolta. Damiano racconta: «Dopo otto mesi che eravamo qua, abbiamo iniziato l’accoglienza con un ragazzo spagnolo venuto a Padova per lavorare qualche mese. Poi ci siamo rivolti alla Caritas, ed è arrivata questa famiglia che ora è in grado di fare un passo verso l’autonomia. Oggi abbiamo la possibilità di costruire nuovi spazi per l’accoglienza. Abbiamo infatti ricevuto molte richieste, le più varie, e quindi ci stiamo interrogando su come fare». «Ad esempio – aggiunge Mauro -, quest’anno abbiamo avuto tre richieste per padri separati che non sanno dove andare. Poi ci sono persone che vorrebbero venire nei fine settimana. Un sacerdote che voleva stare qua un mese. C’è tanta gente che ci chiede. E queste richieste ci interrogano».

Più relazioni che programmi

Gli appuntamenti annuali proposti dalla comunità di Bethesda non sono molti, eppure tutte le settimane c’è gente che va e viene per il viale alberato. Lo stile delle quattro famiglie è più improntato all’accoglienza e alle relazioni che ai programmi.

Anzitutto le «relazioni interne»: «Abbiamo degli appuntamenti fissi – elenca Mauro -. Il lunedì mattina le lodi. Il giovedì sera una preghiera più lunga per noi adulti. Il venerdì sera una preghiera con i figli. Il martedì abbiamo la riunione tecnica, dove decidiamo i compiti dei giorni successivi. La domenica è la giornata in cui invitiamo le persone a venirci a trovare e stiamo tutti insieme. Normalmente siamo da quaranta in su».

«Spesso vengono alcuni frati che sono a Padova per studiare. Provengono dall’America Latina e dall’Europa – aggiunge Damiano -. Vengono perché si sentono a casa, respirano un clima di famiglia».

«Poi ci sono coppie amiche – continua Mauro -, e compagni di scuola dei nostri figli, magari figli unici, che stanno qui dal venerdì alla domenica».

Per quanto riguarda gli appuntamenti con «esterni», «oltre al fine settimana di esercizi spirituali che organizziamo per famiglie una volta all’anno e due pellegrinaggi a Natale e Pasqua – ci dice Mauro -, quello che facciamo è principalmente accogliere. Ci chiedono di venire quasi tutte le settimane gruppi di diverso tipo: scout, coppie, associazioni.

Il nostro servizio poi lo offriamo in parrocchia: il coro, il catechismo, l’oratorio, il catecumenato.

Il bello della comunità è che siamo tanti e possiamo dividerci i compiti. Detto questo, però, bisogna fare un po’ di attenzione alla bulimia di attività: anche stare un po’ a casa è importante».

Il nucleo è la famiglia

A proposito di stare un po’ a casa e in famiglia, chiediamo come i figli vivono questa esperienza.

«Loro fanno molta più comunità di noi – risponde Mauro -. Noi facciamo riunioni infinite, facciamo attenzione agli equilibri, una volta al mese ci troviamo con una psicoterapeuta che ci aiuta nella gestione dei conflitti. I nostri figli, invece, sono liberi di mandarti a quel paese, di vivere la comunità dall’inizio alla fine. Chi è nato qui è proprio parte dei muri. Non starebbe altrove».

Domandiamo qual è il vantaggio, se c’è, di essere un ragazzino che cresce in un contesto come questo: «C’è un fortissimo senso dell’altro – dice Mauro -. Qui vedo crescere bambini che non si concepiscono da soli. A volte dicono: ma non posso avere una volta un gioco solo mio? Per le biciclette abbiamo messo i cartelli: questa è tua e guai a chi te la tocca; però vedo un bell’equilibrio relazionale dei nostri ragazzi».

Mauro prosegue: «Comunque la famiglia rimane il nucleo della comunità. La comunità deve essere al servizio della famiglia, se fosse il contrario non avremmo capito niente. Questo perché non siamo famiglie strane o speciali, siamo normali. La nostra non è una scelta assurda, nella quale devi buttare via tutto. L’unica cosa da buttare via è l’idea di non avere bisogno degli altri».

«La normalità – aggiunge Damiano – per noi riguarda la questione delle case che si fanno chiesa, della Chiesa domestica. La Porta delle pecore da cui entra Gesù a Gerusalemme è la porta da cui entrano le persone che vanno al tempio. Una specie di porta di servizio. Per noi è importante che questo posto, che è molto bello e speciale, sia anche molto normale, perché possa essere quella porta di servizio per la Chiesa, per quelli che, per mille motivi, dalla porta principale nella Chiesa non ci entrano».

Si è fatto tardi. Damiano e Mauro si congedano e ci augurano un buon riposo.

Il mattino successivo, dopo la colazione a casa di Mauro e Chiara tra zaini da finire di preparare e occhi assonnati, ci sediamo sotto il porticato prima di essere accompagnati in centro da Damiano. D’un tratto, il silenzio del mattino viene interrotto dalle voci allegre dei ragazzi che escono tutti simultaneamente dalle loro case con gli zaini in spalla. Si salutano, vanno al piccolo capanno delle biciclette, ci montano sopra, si aspettano finché non sono tutti pronti, e partono.

Li vediamo sciamare per il vialetto, oltre al cancello sempre aperto.

Luca Lorusso


Sichem, Efraim e Pachamama a Olgiate Olona (Varese)
Accogliersi per accogliere

Nel 1999 nasce Sichem, comunità formata oggi da nove famiglie che ne accolgono altre quattro in difficoltà. Da Sichem, nel 2011, nasce Efraim: giovani che sperimentano la vita assieme per tre anni. Infine, nel 2018, nasce Pachamama, sei famiglie, tra cui alcuni figli di Sichem. Un’esperienza generativa unica, ma non irripetibile. «Gentili corrieri e postini, siamo famiglie che vivono in comunità. Se non trovate qualcuno in casa, suonate per favore a qualche vicino, che ritirerà volentieri il plico. Grazie!».

Il pannello di legno che ci accoglie al portone della Comunità Sichem a Olgiate Olona (Varese) non lascia spazio a dubbi: stiamo per entrare in un luogo speciale. Abitato da persone del tutto normali che hanno scelto di fondare la propria vita quotidiana sulla condivisione, l’accoglienza e l’alleanza tra famiglie.

Al momento della nostra visita, in un assolato giorno di fine settembre, gli abitanti della comunità sono 76, di ogni età. Ogni nucleo con la propria abitazione e diversi spazi condivisi. Tra questi 76, le quattro coppie con i rispettivi figli, quindici in tutto, che nel settembre 1999 hanno varcato quel portone con ideali condivisi ma nessuna sfera di cristallo: non sapevano che un quarto di secolo dopo sarebbero state considerate un modello unico del suo genere in Italia e, forse, nel mondo.

Perché? «Perché dove prima c’era una comunità, ora ce ne sono tre», indica Alberto, 65 anni, sposato con Tiziana, cofondatore di Sichem.

Tre comunità, proprio così, tutte in un’unica area che comprende più strutture abitative e abbondanti aree verdi.

Sichem è quella originaria che conta oggi nove famiglie residenti e quattro nuclei in accoglienza temporanea impegnati in percorsi di autonomia.

Efraim è la seconda, nata nel 2011 dall’idea di alcuni figli delle prime famiglie: un luogo in cui giovani di diverse provenienze si sperimentano per tre anni nel «servizio» agli altri.

La terza, Pachamama, è nata nel 2018 da persone uscite dal percorso di Efraim che hanno a loro volta dato vita a nuove famiglie, sei in tutto.

Il risultato è un micromondo che ha bisogno di essere descritto un passo alla volta, partendo dalla sua genesi. E da una canzone – l’inno di Sichem – che inizia così: «Il cuore è piccolo come un pugno, ma basta poco e se vuoi ci sta dentro tutta quanta la gente del mondo, e rimane ancora posto».

Mettersi in cammino con altri

Una comunità di famiglie non nasce dall’oggi al domani, anzi: tre delle famiglie che hanno dato vita a Sichem avevano cercato il luogo giusto per ben quattordici anni, percorrendo in lungo e in largo la Lombardia, incontrando privati, associazioni, parrocchie, amministratori comunali.

L’occasione è arrivata negli ultimi mesi del XX secolo, grazie a un agronomo ex compagno di classe di Franco (membro di una delle famiglie): è lui che li ha messi in contatto con Piero Balossi Restelli, imprenditore proprietario di un ampio terreno con alcuni cascinali, una storica dimora signorile e un bosco a ridosso di una conca del fiume Olona, non lontano dal centro cittadino di Olgiate.

In poco tempo è stata presa una decisione: Balossi – persona attenta e visionaria fino alla fine dei suoi giorni, avvenuta nel 2021 – avrebbe reso abitabile la cascina principale per le famiglie in cambio di un affitto a lungo termine, in piena condivisione dei valori fondanti delle quattro famiglie: condivisione, accoglienza e alleanza, appunto.

«La prima notte, il primo settembre 1999, l’abbiamo passata al buio, senza gas e luce, ma era talmente forte la voglia di iniziare a vivere assieme…», ricorda Alberto mentre passiamo sotto l’arco che dal parcheggio porta nella corte in cui ci sono le case delle famiglie di Sichem, dove incontriamo anche sua moglie Tiziana.

«Piano piano abbiamo messo a posto la struttura, poi la zona verde tutt’attorno» che ora è un immenso prato con alberi, un orto biodinamico, giochi per bambini e, nel bel mezzo, un forno per panificare. «Il forno? È l’esempio di come funzionano le cose qui», aggiunge Alberto. «L’abbiamo costruito per renderlo disponibile a tutti: a chi vive dentro le nostre case, ma anche a chi viene da fuori. Quando facciamo le feste, lasciamo acceso il forno tutto il giorno: la popolazione lo sa e viene a cuocere pane, pizza e altro».

Anche l’orto segue un modello comunitario: lo gestisce una persona, ma chi ne vuole usufruire paga una quota annuale e ha diritto a una cassetta settimanale di ortaggi. Le case hanno metrature simili tra loro, ma ovviamente ognuno l’ha personalizzata nel tempo, mentre gli spazi comuni – ad esempio la sala Beniamina e la Limonaia in cui si fanno riunioni, eventi e pranzi condivisi, la cappellina in cui ogni venerdì sera le famiglie pregano, la zona del deposito delle biciclette – sono stati pensati assieme a seconda delle esigenze.

È stato importante, per le famiglie fondatrici, conoscersi un po’ alla volta: «Non eravamo già amici quando siamo arrivati qui. Alcuni erano colleghi, altri conoscenti. Ci siamo uniti grazie all’idea», specifica Franco, 64 anni, quando ci raggiunge.

Lui e Bruna, genitori di quattro figli più tre adottati, già agli albori avevano orientato la propria unione al «servizio»: «Aprirsi agli altri, vivere assieme ad altre famiglie è per noi alla radice di tutto». Incalza Alberto: «Il matrimonio è già una comunità, anche a due, ma poi se ti metti in cammino con altri fai cose che non riesci a fare da solo. Dal forno comune fino all’accoglienza di persone in difficoltà».

Cinquantacinque nomi

Prima ancora che la comunità originaria si allargasse alle altre due, il cuore pulsante del «servizio» di cui parla Franco è stato fin da subito l’accoglienza di chi avesse bisogno di un luogo per uscire da situazioni di vita delicate. Oggi ci sono quattro appartamenti per questo.

Nella cappellina, quando più tardi la visiteremo, troveremo scritti i nomi delle cinquantacinque persone che in questi anni sono state accolte da Sichem, chi per alcuni mesi, chi per diversi anni.

«Attualmente stiamo accogliendo nove persone, un uomo italiano, una famiglia dello Sri Lanka e due originarie dell’Africa», spiega Franco. Fin dalle prime accoglienze «percepivamo all’esterno della comunità un pregiudizio sugli stranieri», poi la quotidianità con la sua normalità ha avuto il sopravvento. «Devi vedere con che energia alcuni di noi si dedicano alle accoglienze, dalle relazioni con le persone alla pulizia degli appartamenti, alla ricerca dei mobili», sottolinea Marco, che, con la moglie Rosaria, è arrivato a Sichem nel 2008.

«Io non mi occupo in modo diretto di accogliere perché mi ritengo poco paziente, ma vedendo gli altri ho imparato modi di fare che non avrei mai appreso altrove», aggiunge con un sorriso.

Oggi il metodo con cui si accoglie è rodato – a volte è il servizio sociale che invia le persone, altre volte associazioni che contribuiscono alle spese, almeno in una fase iniziale, in attesa che chi è accolto inizi a pagare l’affitto calmierato -, ma all’inizio non è stato tutto rose e fiori. Anzi: «La prima accoglienza è stata un disastro», ricorda Flavia, a Sichem con il marito Guido fin dall’inizio. «Non sapevamo come fare a gestire le emergenze, chi chiamare quando c’erano problemi. Ma dopo lo sbandamento iniziale ci siamo strutturati e sono emersi anche i valori individuali di ciascuno di noi: c’è chi ha un approccio più “educativo”, chi più “pratico”, entrambi molto utili».

Il pregiudizio positivo

A Sichem, ogni famiglia è titolare del proprio appartamento, ha i propri spazi e tempi di vita, ma le porte di casa rimangono aperte mettendo in comune una parte non secondaria delle vite di ciascuno, secondo lo stile della lettera ai Romani: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda. Siate forti nella tribolazione. Solleciti per le necessità dei fratelli. Premurosi nell’ospitalità».

È questo un pilastro centrale della comunità: la stima, il pregiudizio positivo sugli altri.

Il nome stesso della comunità, del resto, ricorda il rinnovamento dell’alleanza tra le tribù d’Israele una volta arrivate nella Terra promessa, a Sichem, descritto nel libro di Giosuè.

Anche il metodo decisionale scelto dalla comunità è ispirato dallo stesso stile: «Va nella direzione del consenso, dell’avere l’accordo di tutti, quindi non a maggioranza», riprende Flavia. «Abbiamo discussioni infinite e complicate, ma poi provvidenzialmente si arriva a una decisione condivisa».

«All’inizio – ricorda sorridente Franco – condividevamo le vacanze. Era utile per mettere in ordine le idee, trovare l’identità collettiva. Una volta siamo andati in Svizzera per fare una sorta di concilio. Lì abbiamo deciso molte cose, dal regolare la vita dei bambini nelle strutture fino all’accoglienza».

«L’apertura al cambiamento è il tema portante di tutti questi anni assieme», riprende Alberto mentre ci accompagna tra gli edifici delle comunità.

Giovani in comunità

Nel cortile si sente il suono di un pianoforte. È Andrea che diffonde le note all’imbrunire.

Arriviamo alla villa signorile poco distante, la dimora ottocentesca che Restelli ha ristrutturato e assegnato, anche in questo caso in affitto, alla comunità Efraim, nata nel 2011 da alcuni dei figli di Sichem alla ricerca di un luogo in cui vivere anch’essi in condivisione ma fuori dalle case dei genitori. Qui abita, tra gli altri, Roberto, classe 1997: «In Efraim vivono sei giovani alla volta. Tre ragazze e tre ragazzi che gestiscono la struttura fondata sulle porte aperte ai bisognosi e sulle attività culturali per il territorio».

Mentre parliamo arriva la coetanea Silvia. I due decidono cosa preparare per cena e per quante persone, poi si raccontano la giornata e gli appuntamenti in programma.

Di passaggio ci sono un prete di Pisa e due suore congolesi che vivono in Toscana.

«Nei giorni scorsi – riprende Roberto, vedendo il nostro sguardo curioso su palloni e manifesti posti in un angolo dell’ingresso – abbiamo organizzato un torneo di pallacanestro in memoria di un ragazzo del paese che ha perso la vita non molto tempo fa»: il dinamismo della Villa si nota al primo sguardo. Tra i ragazzi che ci vivono oggi, dai 23 ai 26 anni, c’è chi studia, chi fa servizio civile, chi lavora: la dimensione comunitaria è una forte motivazione in più a riempire di senso le loro vite.

La terza nata

Nel 2018, i primi giovani di Efraim, tra cui alcuni figli di famiglie di Sichem, hanno fatto un passo ulteriore, aprendo la propria comunità: Pachamama, indipendente seppure legata alle altre, è posta a poche decine di metri dalla Villa.

Incontriamo Giovanni ed Enrica, figli di due delle famiglie fondatrici di Sichem. Sono sposati e hanno due figli maschi piccoli – che ci gironzolano attorno con bici senza pedali nel giardino – e un terzogenito in arrivo: «La prima femmina da generazioni», sottolinea Giovanni.

Pachamama, che oggi conta sei famiglie, fa parte della rete delle «comunità Laudato si’», nate dall’invito di papa Francesco a mettersi in gioco in favore della Terra come bene comune. «Ci dedichiamo soprattutto all’alta formazione ambientale, in particolare ogni anno a giugno promuoviamo il Web-weekend di bellezza», un’iniziativa che richiama anche decine di persone in presenza.

Un altro appuntamento oramai consolidato, organizzato da tutte e tre le comunità assieme, è la Tavola dei popoli. Un evento che riunisce centinaia di persone residenti nei dintorni ma che hanno origini da diverse parti del mondo.

Si può fare

«Ci siamo resi conto – ragiona Alberto mentre concludiamo il giro – che il messaggio di questo luogo è generativo: da Sichem è nata Efraim e poi Pachamama, la vita comunitaria si rinnova grazie alla passione di chi subentra». In effetti, questa sorta di rigenerazione continua della comunità originaria è qualcosa di tanto inedito quanto affascinante. Replicabile? «Direi proprio di sì – risponde Alberto -. Bisogna provarci, ognuno come può. Il mondo può essere brutto ma con coraggio si può dare il proprio contributo per migliorarlo».

Anche Bruna e Franco lanciano un messaggio: «In fondo la nostra è una scelta in parte egoista, quella di vivere in comunità, perché per primi fa stare bene noi: a casa sei sicuro di trovare un contesto di amici e relazioni che ti aiutano anche nei momenti difficili. Detto questo, la vita è nettamente più facile se la si “fa” insieme».

Daniele Biella


La neonata esperienza di Marene (Cuneo)
Segno di una vita possibile

È nata un anno fa con l’intento di formare una «famiglia di famiglie». L’esperienza di Marene riunisce quattro nuclei che si sostengono a vicenda nella quotidianità e nella fede, e mettono al centro le relazioni nel desiderio di essere un piccolo seme di Chiesa tra le case.

Arriviamo a Marene, piccolo centro del cuneese di 3.300 anime, alle 9 di un mercoledì mattina. Ai due lati di via Roma ci sono piccoli condomini, ville, cascine storiche, capannoni. Poco più in là, la campagna.

Matteo ha preso mezza giornata di ferie per accompagnare Elia al nido per l’inserimento. Approfittiamo di questo «incastro» per conoscere la fraternità di famiglie nata a fine 2022: otto adulti tra i 39 e i 50 anni, sedici figli tra i 18 mesi e i 19 anni.

Sopra il citofono della piccola palazzina di due piani una targhetta dice: «Condominio vicino».

Nonostante sia autunno, Matteo ci accoglie nel suo alloggio in jeans, maglietta e infradito. Accanto a lui ci sorridono Chiara e Daniela rappresentanti di due delle altre tre famiglie. «Ho lasciato Elia che piangeva», dice, mentre ci fa sedere al tavolo della cucina nel luminoso ambiente che fa anche da soggiorno e ci prepara un caffè.

Su una parete campeggia un batik che rappresenta la quotidianità di un villaggio africano.

Sentirsi a casa

«Siamo quattro famiglie – inizia a raccontare Matteo mettendoci di fronte un vassoio con diversi croissant -. Due abitano qui: io ed Eleonora al primo piano con i nostri tre figli; Daniela e Stefano al secondo con i loro quattro. Una abita nella casa accanto, Paolo e Ilaria, con i loro cinque figli. La quarta famiglia vive invece a Savigliano: sono Chiara e Matteo, con i loro quattro figli».

«Questa comunità nasce dal fatto che ciascuno di noi ha vissuto l’esperienza che una famiglia non basta a se stessa – spiega Chiara -. Benché noi abitiamo a 5 km di distanza, ci sentiamo comunità con le altre famiglie, ad esempio quando accogliamo i loro figli adolescenti che a Savigliano hanno la scuola e molte amicizie. Hanno le chiavi. Vengono per fare pranzo o una doccia, sanno che quella è anche casa loro».

«Io aggiungerei questo – riprende Matteo -: in un mondo in cui tutti più o meno si fanno i fatti propri, volevamo essere un piccolo segno, minuscolo, di una vita possibile un po’ diversa».

Il primo nucleo

Ogni comunità ha una storia a sé. Tutte iniziano ben prima del giorno del trasloco, nelle vicende delle singole famiglie che a un certo punto s’incontrano attorno al desiderio di condivisione.

«Io e Stefano – racconta Daniela – siamo dell’82. Sposati nel 2005, siamo quasi subito partiti per stare un anno in una comunità del movimento dei Focolari a due ore a nord di New York.

Ci animava il desiderio di metterci a disposizione. Immaginavamo l’Africa, le Filippine. Invece ci hanno accolti negli Usa: venticinque persone con un’età media di 60 anni, tutti consacrati o persone singole che desideravano avere con sé anche una coppia giovane. Gente che cercava di volersi bene e vivere il vangelo in modo semplice.

È stata per noi un’esperienza fondante, tanto che quando siamo tornati ci chiedevamo come avremmo potuto rivivere anche qua una simile dimensione di cristianità e di comunità.

Abbiamo affittato un alloggio a Savigliano in una palazzina dove poi, pochi anni dopo, sono arrivati Chiara e Matteo. Chiara è mia cognata, sorella di Stefano. Quello è stato il primo bozzetto di comunità vissuto per dieci anni in un condominio normalissimo, dove la gente non si parlava più di tanto, ma dove, un po’ per volta, abbiamo iniziato a trovarci in giardino, costituire un Gruppo di acquisto solidale, fare pranzi condominiali».

Stefano è un libero professionista che si occupa di pubblicità, grafica e web, e ha uno studio a Fossano. Daniela nel giugno scorso ha lasciato il lavoro «perché ci siamo resi conto che la famiglia aveva bisogno della mia presenza a casa». Fino ad allora aveva lavorato nel settore commerciale dell’azienda di Paolo, gestita secondo i principi dell’economia di comunione ideata da Chiara Lubich, fondatrice dei Focolari.

Anche Chiara e Matteo, lei del ‘79, lui del ‘73, sposati da 23 anni, fanno parte del movimento dei Focolari. «Mio marito lavora con Paolo e Ilaria – dice Chiara -, fa l’informatico e segue la logistica. Io dall’estate scorsa mi prendo cura dei miei genitori. Prima facevo un lavoro di segreteria per progetti educativi del movimento a livello mondiale».

L’intreccio di storie

Matteo ed Eleonora, entrambi del 1984, con i loro tre piccoli tra i 18 mesi e gli 8 anni, sono i più giovani. Matteo, prima di parlare di sé, racconta della quarta coppia, Paolo e Ilaria. «Anche loro partecipano al movimento dei Focolari. Tredici anni fa hanno vissuto sei mesi con altre famiglie di tutto il mondo a Loppiano, la cittadella del movimento, vicino a Firenze. Tornati arricchiti si domandavano: come fare qualcosa di simile qua?».

«Siamo amici di Paolo e Ilaria da tanto – aggiunge Daniela -. Guardando alla nostra esperienza di Savigliano dicevano, che bello sarebbe vivere vicini».

«Poi – riprende Matteo – nel 2019 hanno avuto a disposizione questi immobili. E poco dopo siamo arrivati noi che venivamo da due tentativi di aggregazione con altre famiglie che non si erano realizzati. Un giorno mio padre mi ha detto: “Guarda che Paolo Bertola a Marene vuole fare una roba come la vuoi fare tu. Chiamalo!”. E da lì è decollato tutto. Abbiamo conosciuto anche le altre due famiglie. Paolo e Ilaria intanto hanno completato l’acquisto degli immobili e insieme abbiamo pensato le ristrutturazioni: alloggi indipendenti, ma con alcuni spazi comuni. Ora noi e Daniela e Ste abitiamo qui con un contratto di affitto».

Matteo aggiunge qualcosa anche sulla sua famiglia: «Io ed Eleonora siamo sposati da undici anni. Ele arriva dallo scoutismo, io da un bel cammino parrocchiale. Facevamo l’università insieme: relazioni internazionali. Poi siamo stati per quattro anni in Guinea Bissau, ciascuno per una diversa Ong. Nel frattempo, ci siamo sposati. Si viveva il classico “con la porta aperta”, il vicinato, gente che andava e veniva. Quando siamo tornati, sentivamo che ci mancava qualcosa e abbiamo iniziato la ricerca di un’esperienza insieme ad altri».

Matteo oggi continua a lavorare nella cooperazione internazionale con Casa do Menor, Ong che lavora con i ragazzi di strada in Brasile, fondata da padre Renato Chiera, fidei donum di Mondovì a Rio de Janeiro da 45 anni. Eleonora lavora per Slow food.

Un buon impasto

La vita della comunità si sviluppa in un’ordinarietà senza grandi pretese. Anzi, con l’unica «pretesa» di volersi bene e trasformare la condivisione tra le quattro famiglie in un seme di condivisione che vada oltre le mura delle loro case.

Si danno uno o due appuntamenti alla settimana: un tempo di preghiera o una riunione organizzativa, o un momento conviviale.

Un esperimento recente è quello che Daniela chiama «la giornata ristorante»: un giorno della settimana, una delle tre famiglie residenti a Marene ospita per il pranzo e poi per i compiti e lo studio tutti i figli delle altre famiglie.

Di impegni esterni al momento non ce ne sono. Racconta Daniela: «Siamo aperti alla possibilità di un servizio ma non vediamo questo come l’obiettivo principale da cui partire. Restiamo in ascolto di quello che il buon Dio ci indicherà attraverso gli incontri che faremo durante il cammino, valutando di volta in volta le nostre forze e possibilità di famiglie con figli», e aggiunge: «Al centro c’è il desiderio di sostenerci nella fede e nella vita quotidiana, e questo parla già di per sé agli altri».

Nei mesi prima dell’inizio ufficiale della comunità, le quattro famiglie hanno messo per iscritto il loro sogno. L’hanno chiamato «Carta Marene»: «Ogni volta che la leggiamo – dice Chiara – ci colpisce la chiarezza dell’obiettivo che ci siamo dati: “Non vediamo la fraternità come un fine ma come uno strumento per aiutarsi a crescere e ad essere ciascuno più e meglio famiglia al proprio interno, come sposi e come genitori”. Questo passa attraverso l’esperienza di famiglie che vivono vicine, con le “porte aperte” e spazi in comune e con la voglia di “impastarsi”: ci si aiuta, si parte insieme al mattino, si recuperano i figli insieme, ci si incontra davanti a una birra o un caffè per raccontarsi le proprie giornate».

Una bella cosa

In un’esperienza come questa, i rapporti tra i figli e gli adulti sono centrali. «Vediamo la vita comunitaria come una grande risorsa educativa per i nostri figli – spiega Daniela -. Non per tutti i nostri figli questa scelta è stata semplice. Per alcuni di loro ha comportato cambiare paese e abitudini. Quello che ci ha colpito in questi primi mesi è che tutti loro si sentono parte di questa esperienza e hanno uno sguardo profondo su quello che stiamo cercando di costruire insieme».

Mentre ci alziamo dal tavolo per vedere l’alloggio, composto dalla sala e da tre stanze, e gli spazi comuni, Chiara sottolinea: «I nostri figli ci dicono di essere grati per questa esperienza. Vedono che i loro amici non hanno famiglie vicine.

Un giorno una mia figlia mi ha detto: “Sono fortunata perché ho due genitori con cui parlare, però ho anche altri adulti di cui mi fido”».

«Una volta, durante una cena, c’era padre Renato – aggiunge Matteo preparandosi per uscire a recuperare Elia al nido -. A un certo punto ha domandato ai ragazzi: “Voi cosa ne pensate di questa cosa che i vostri genitori hanno fatto?”. E uno di loro ha esclamato: “Abbiamo fatto una cosa bella!”».

Luca Lorusso


Fraternità di famiglie: scuole e case di comunione
Una forma di vita ecclesiale

Nelle esperienze di fraternità di famiglie si rivela la creatività dello Spirito e si incontra una manifestazione significativa del volto della Chiesa.

La Chiesa annuncia e testimonia il Risorto attraverso la varietà di carismi e ministeri che formano il popolo di Dio. Ogni vocazione è incontro tra due desideri – quello di Dio e quello della singola persona -, ma l’alleanza stabilita tra il Signore, amante della vita (Sap 11,26), e le sue creature va sempre oltre la realizzazione personale: non c’è chiamata la cui bellezza e fecondità non coinvolga la Chiesa e il mondo, non contribuisca a realizzare il Regno.

In questa prospettiva, il ministero di presbiteri e diaconi – che non esaurisce tutte le forme di ministerialità – si integra con i carismi religiosi e laicali. Anzi, fa parte del compito dei ministri ordinati riconoscere e valorizzare i doni di ciascuno, tessere rapporti di stima e amicizia tra le diverse vocazioni, per realizzare insieme la grande sfida di «fare della Chiesa la scuola e la casa della comunione» (Nmi 43).

La vocazione matrimoniale, in forza del legame coniugale e del sacramento, manifesta in modo particolare questo aspetto decisivo dell’esperienza cristiana e della missione ecclesiale.

Le famiglie sollecitano tutta la Chiesa a essere «domestica» – ricordando l’espressione con cui il Concilio Vaticano II definisce la famiglia in Lumen Gentium n. 11 -: spazio intimo e inclusivo, concretamente «casa» in cui sperimentare la familiarità di Dio che ci rende fratelli e sorelle in Cristo.

Fraternità tra famiglie

Sebbene ordinariamente ogni battezzato sia chiamato a manifestare la misericordia di Dio e l’affidabilità del Vangelo prima di tutto nel contesto quotidiano delle relazioni e della cittadinanza, della scuola e del lavoro, alcune famiglie vivono forme di annuncio e di servizio più esplicito in contesti di missione ad extra o nelle nostre stesse diocesi, vivendo talvolta in canonica o in altri spazi religiosi, svolgendo ministeri che variano di caso in caso, ma soprattutto attraverso uno stile che fa dell’«essere famiglia» la forma della loro testimonianza.

In questo quadro, le esperienze di famiglie che vivono la dimensione missionaria attraverso forme di vita fraterna con altre famiglie, riconoscendo una «chiamata nella chiamata», sono particolarmente interessanti. Esse non rappresentano una testimonianza o un servizio che si aggiunge o giustappone alla vocazione matrimoniale, ma un’esperienza che, esprimendo l’autenticità della vita familiare, manifesta la chiamata della Chiesa a essere «famiglia di famiglie», spazio relazionale aperto per ciascuno e ciascuna.

Le esperienze esistenti di fraternità di famiglie hanno origini, sviluppi ed esiti diversi. Esse, infatti, prendono forma a partire da vissuti e appelli precisi che sono legati al modo in cui ogni famiglia incarna l’amore in dinamiche e realizzazioni storiche molto concrete, perché l’amore è sempre concreto. Allo stesso tempo è possibile riconoscere alcuni elementi comuni nel cammino di queste fraternità: il primo è una vita credente delle singole coppie, spesso maturata attraverso esperienze significative nell’ambito della comunità cristiana (volontariato, animazione, viaggi missionari, appartenenza a movimenti e associazioni); secondo, un tempo prolungato di discernimento attraverso l’ascolto della Parola e in compagnia della Chiesa (nella storia di ciascuna coppia che decide per un cammino di fraternità con altre c’è normalmente la presenza di una guida, sacerdote, diacono, religioso, religiosa o coppia sposata); terzo, l’attenzione a custodire la ricchezza coniugale e il compito educativo verso i figli, senza scadere in forme snaturanti di attivismo o clericalizzazione; quarto, l’individuazione di una casa (o di un gruppo di case) che concretamente consenta una vita «sana» ed equilibrata a ogni singola famiglia e, contemporaneamente, l’incontro e la fraternità con le altre tramite degli spazi comuni; quinto, la strutturazione di un progetto che non chiuda le famiglie in una forma di intimismo autoreferenziale ma espliciti la dimensione ospitale della comunità cristiana; sesto, la disponibilità cordiale a lasciarsi coinvolgere dalle storie delle comunità parrocchiali e dei territori in cui sono inserite, costruendo relazioni buone con i sacerdoti e le realtà locali; settimo, la prossimità della soglia, vissuta tessendo rapporti con famiglie e persone credenti e non credenti; infine, la formazione e la preghiera, l’ascolto della Parola e il discernimento che custodisca il bene della famiglia e uno stile di vita evangelico.

In un cambiamento d’epoca

È interessante poi che molte di queste esperienze partano dal basso, dalla ricerca delle singole famiglie, e si realizzino in spazi non religiosi che sono ecclesiali di fatto, perché espressione di battezzati che agiscono in forza della propria appartenenza a Cristo e alla Chiesa.

Va detto che i criteri elencati sopra sono alla base anche di quelle esperienze che vedono una singola famiglia (piuttosto che una fraternità di famiglie) disponibile a vivere la propria testimonianza all’interno di una parrocchia, talvolta ricevendo un mandato esplicito dal parroco o dal vescovo, magari vivendo in una comunità (e in una casa parrocchiale) nella quale il sacerdote, per quanto suo responsabile, non sia più residente. Le nostre Chiese, oggi, sono chiamate a fronteggiare un cambiamento d’epoca. L’esistenza di queste realtà che nascono dalla concretezza della vita invece che da una previa progettualità a tavolino sollecita approfondimenti teologici e pastorali che offrano strumenti di comprensione e aiutino le comunità cristiane, le parrocchie, i ministri ordinati a riconoscerle e valorizzarle. Nelle esperienze di fraternità di famiglie si rivela la creatività dello Spirito e si incontra una manifestazione significativa del volto della Chiesa.

Per questo vale la pena raccontarle.

Mario Aversano


Quante sono?

La comunità Sichem, prima del Covid, aveva tentato di costruire una rete con altre fraternità di famiglie. Abbiamo chiesto a Franco Taverna, uno dei fondatori di Sichem, se esista una sorta di censimento delle esperienze in Italia: «Abbiamo raccolto il maggior numero di nomi di comunità che siamo riusciti a recuperare tramite i nostri contatti. Siamo arrivati a circa quaranta, molte del Nord. Esiste poi una grande esperienza di coordinamento di comunità di famiglie che si chiama Mcf (Mondo di comunità e famiglia), nata da quella che forse può essere considerata la prima e il prototipo di molte altre: Villapizzone di Milano, storica esperienza di un gruppo di famiglie insieme ad alcuni gesuiti sorta nella seconda metà degli anni ’70. Attualmente solo la rete di Mcf conta poco meno di quaranta comunità. Anche queste massimamente concentrate al Nord.

Da quando noi abbiamo cominciato con la nostra Sichem sono nate tante altre espressioni del “vivere insieme”: gruppi che vivono intensamente il contatto con la natura, comunità di servizio (ad esempio per assistere disabili), famiglie che vivono insieme all’interno di un movimento più grande (Comunione e liberazione, Focolarini, Giovanni XXIII, ecc).

Non è per nulla facile tracciare una linea di separazione tra questi (e altri) mondi che sono accomunati dal desiderio di vivere una vita comune.

Ogni comunità si configura a modo suo. Con propri ritmi, priorità, storie.

È come se ogni comunità fosse un nuovo figlio e, come ben sappiamo, ogni figlio, pur essendo della stessa famiglia, sviluppa propri caratteri specifici».

Luca Lorusso

Hanno firmato il dossier

  • Daniele Biella
    Giornalista e ricercatore, si occupa di temi sociali. Ha pubblicato i libri Nawal, L’isola dei giusti e Con altri occhi.
  • Don Mario Aversano
    Vicario episcopale per la Pastorale sul territorio della diocesi di Torino. Lavora da sempre nella pastorale famigliare, cosa che gli ha permesso di conoscere da vicino alcune esperienze di fraternità di famiglie.
  • Luca Lorusso
    Giornalista, redattore di MC.




Missione a km0

Testo di Luca Lorusso


Una nuova forma di presenza della Chiesa

Abitare è annunciare

«Abitare in una parrocchia con i propri figli per un’esperienza di accoglienza, di annuncio del Vangelo, di corresponsabilità pastorale, per dare volto a una Chiesa fraterna e missionaria, per annunciare la gioia del Vangelo nel modo più semplice e vero: da persona a persona», è la frase che campeggia nella parte alta del blog delle Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano: https://famigliemissionariekm0.wordpress.com/

Sono famiglie che annunciano il Vangelo nella quotidianità e nella fraternità, abitando uno spazio ecclesiale, a volte con altre famiglie, con altri laici, a volte con sacerdoti, religiosi o religiose in una bella e feconda sinergia di vocazioni.

Il gruppo di Milano, che al momento è l’unico organizzato, conta già 27 esperienze, ma molte altre ne esistono e ne stanno nascendo in diverse diocesi della Chiesa italiana.

Siamo andati a conoscerne alcune.



btroz

A Mongreno, sulla collina torinese

Ricchi di fraternità

Quattro giovani famiglie vivono gli spazi altrimenti abbandonati della chiesa di San Grato facendo esperienza di fraternità e di servizio alla Chiesa e all’evangelizzazione. Nella semplicità della loro vita quotidiana.

L’appuntamento è per l’ultimo sabato mattina di settembre alla chiesa di San Grato, immersa nel bosco della collina torinese a Est del fiume Po. Lì, in zona Mongreno, vive una fraternità di quattro famiglie, due nella canonica e due in un’altra casa poco distante di proprietà della parrocchia. Sono otto adulti tra i 30 e i 40 anni e sette bimbi tra i 6 mesi e i 7 anni, più un altro in arrivo.

Sono tutti provenienti dal mondo dello scoutismo con un grande desiderio di mettersi a disposizione: della Chiesa e degli altri. Per questo le loro settimane sono scandite da diversi servizi pastorali e dagli appuntamenti di fraternità, oltre che dagli impegni famigliari e lavorativi comuni a chiunque.

Dopo diversi minuti di salita e di tornanti, parcheggiamo l’auto a un centinaio di metri dalla destinazione, di fronte a una piccola struttura che una volta ospitava la scuola elementare di zona, e percorriamo l’ultimo tratto a piedi. L’aria d’inizio autunno è fresca, e c’è un silenzio molto piacevole.

Arriviamo al sagrato della chiesa: un terrazzo stretto tra la facciata seicentesca dell’edificio e la vegetazione che cresce sul terreno scosceso della collina. Ci guardiamo intorno: oltre alle strutture della chiesa non si vede nient’altro che bosco. Le case dei parrocchiani che abitano qui attorno sono tutte sparse per la collina, e lungo la via ne abbiamo intuito la presenza solo dai passi carrai o dalle stradine laterali che s’infilano nel verde.

Fraternità casalinga

Alla canonica di San Grato si accede da un cancello che dà su un cortile, a lato della facciata della chiesetta. Suoniamo il campanello. Viene ad aprirci Massimiliano Grasso, Max per tutti, il più giovane tra gli adulti della fraternità: 30 anni, capelli neri, folti e ricci. Bolle di sapone sparate da una pistola verde e arancio campeggiano sulla sua maglietta nera. Ci accoglie con un sorriso e ci guida alla porta della canonica, una costruzione di due piani addossata al fianco della chiesa. Lui vive al piano terra con la moglie Sara Stilo, 31 anni, e con i loro bimbi Iago, di 2 anni, ed Elia, di 6 mesi.

Entriamo in cucina, dove Sara, capelli neri a caschetto attorno a un viso che pare giovanissimo, ci saluta mentre prepara la pappa per Elia che sorride allegro nel seggiolone. La piccola stanza, che fino a tre anni fa era una saletta parrocchiale, è semplice e accogliente: dentro ci stanno una cucina ad angolo, un divano a due posti, un tavolo per quattro. Le pareti sono organizzate con pensili e mensole carichi di tutto ciò che una giovane famiglia con bimbi piccoli deve avere a portata di mano.

«Lavoriamo tutti e otto – inizia a raccontare Sara -. Io e Serena, un membro della fraternità, lavoriamo insieme. Lei è la mia referente in una cooperativa di animatori. Facciamo attività di educazione al consumo consapevole nelle scuole. Mio marito, invece, è infermiere, ma in questo momento si sta occupando più di educazione che d’infermieristica, in una comunità di ragazzi psichiatrici. Da poco segue un bambino arrivato da un orfanotrofio russo. Avevano bisogno di una figura maschile e gli hanno chiesto se voleva occuparsene lui».

Quattro giovani famiglie

Max esce nel cortile al richiamo di due voci di bimbi, e al suo posto compare Giovanni Messina, 37 anni, che abita con la moglie Enrica Ruffa al piano di sopra. Sente che parliamo di lavoro e si presenta: «Io faccio lo sviluppatore di web e app per una cooperativa. Invece mia moglie è coordinatrice di una struttura di accoglienza della diocesi di Torino che si trova qua vicino, in strada Traforo del Pino. Segue una quarantina di rifugiati provenienti dal Moi (l’ex villaggio olimpico di Torino occupato da migranti e sgomberato a più riprese negli ultimi anni, ndr). Si occupa di tutto: dalla sistemazione ai documenti, all’italiano, alla condizione sanitaria, alle borse lavoro e alla vita ordinaria».

Mentre Giovanni parla, entra in cucina Iago, seguito da suo papà Max e dall’amichetta Cecilia, di due anni come lui. Iago porta con sé un vasino che posa a terra di fronte a noi: ha imparato da poco a usarlo ed è felice di mostrarlo a tutti.

Giovanni ci spiega che Cecilia ha un fratellino, Pietro, di sei anni, e che i suoi genitori, Stefano Picco e Chiara Gaschino, sono una delle due coppie che vivono nell’altra casa della fraternità a pochi passi da qui: Stefano ha 40 anni e fa il consulente sulla sicurezza in ambito forestale, Chiara ha 37 anni e fa la maestra. In questo momento Chiara è a casa, ma Cecilia è qui perché voleva giocare con Iago.

Nella casa dove abitano Stefano e Chiara c’è un secondo alloggio nel quale stanno Serena Andrà, 34 anni, con suo marito Claudio Aseglio, 35 anni, medico anestesista, e i loro bimbi: Agnese di 7 anni, Paolo di 5 e Francesco di 2 e mezzo. Un quarto piccolino nascerà all’inizio del prossimo anno.

Amici che si spalleggiano

Dopo averci presentato per sommi capi le famiglie della fraternità, Giovanni ci illustra anche i molti servizi che la fraternità offre per la comunità di San Grato e per l’unità pastorale nella quale San Grato è inserita: «Ci occupiamo di un’ex parrocchia di collina. Quando l’ultimo parroco è andato via, la parrocchia è stata fusa con quella di Sassi, dove don Stefano Audisio, che oggi ha quasi ottant’anni, fa i salti mortali. Il nostro incarico è essere qua, aprire e chiudere la chiesa, animare le messe domenicali: abbiamo il nostro nucleo di una decina di parrocchiani affezionati, e poi amici, altre famiglie con bambini, scout che vengono per il week end.

Ci siamo ritagliati una stanza nella casa di sotto dove vivono Chiara, Stefano, Serena e Claudio: la usiamo per i momenti di preghiera della nostra fraternità e per l’ospitalità nei fine settimana. Ospitiamo soprattutto scout per il semplice motivo che dormono per terra, oppure in tenda.

Oltre a questi servizi a San Grato, diamo una mano a don Stefano anche in altri ambiti della pastorale parrocchiale: il corso prematrimoniale, ad esempio, poi il corso per i battesimi, il catechismo, un percorso per i genitori dei bimbi del catechismo. Seguiamo anche un gruppo di giovani affiancando il don. Partecipiamo al consiglio pastorale.

I parrocchiani sono molto felici che ci siamo. Se non ci fossimo noi, probabilmente questa chiesa sarebbe chiusa e la struttura in decadenza. Il bosco si prenderebbe tutto se non ci fosse qualcuno qui.

Il punto di forza della nostra esperienza – conclude – è che siamo in quattro e ci spalleggiamo. Per le messe domenicali, ad esempio, ci alterniamo».

Storia della fraternità

Dal cortile sentiamo arrivare il suono gracchiante di un walkie talkie. È Serena che ci raggiunge con Francesco, di due anni come Iago e Cecilia. I bimbi più grandi, Agnese e Paolo, non volevano venire, e sono rimasti a casa insieme a Chiara, collegati con la mamma tramite la radiolina. La casa è appena al di là del piccolo sagrato della chiesa e di una rampa di scale in discesa tra gli alberi, forse una cinquantina di metri, ed è divertente rimanere in contatto così. Mentre Francesco si ferma in cortile con Iago, Cecilia e Max, Serena entra e ci saluta.

Serena e suo marito Claudio vivono a San Grato da sette anni, a differenza delle altre tre famiglie che sono arrivate tre anni fa. Chiediamo quindi a lei di raccontarci la storia della fraternità.

«I primi a venire a Mongreno nel 2006 sono stati Paolo e Nicoletta Leombruni. San Grato era ancora parrocchia, e don Sebastiano, che aveva ricevuto come lascito testamentario la casetta qui sotto, li ha invitati a viverci perché gli dessero una mano. Loro si occupavano di pastorale famigliare.

Quando don Sebastiano è andato in pensione e la canonica è rimasta vuota, Paolo e Nicoletta hanno chiesto a Luca e Arianna Tagliano di venire a viverci per fare un’esperienza di fraternità. Era il 2008. Entrambe le famiglie sono rimaste a Mongreno fino al 2016-17. I Leombruni avevano 4 figli più un affido. I Tagliano tre figli. Noi siamo arrivati nel 2012, dopo due anni di matrimonio, mentre aspettavo Agnese».

Quando Serena e Claudio sono arrivati, hanno introdotto alcune novità. Una di queste è stata l’apertura agli esterni del triduo pasquale fino ad allora vissuto in fraternità. Un triduo «ora et labora», lo chiama lei, cioè un’occasione di preghiera e lavoro per sistemare il verde che cresce rigoglioso attorno alla chiesa. «È stato proprio durante uno di questi tridui, nel 2016, che abbiamo conosciuto Max e Sara. Loro sono rimasti colpiti dall’esperienza, allora, dato che i Tagliano stavano per andare via, abbiamo proposto loro di venire a vivere qui. Ad agosto si sono sposati, e a gennaio 2017 si sono trasferiti».

Nel frattempo anche la famiglia Leombruni ha deciso di andare altrove, e Serena e Claudio hanno iniziato a cercare altre coppie.

«In quell’estate del 2016 – interviene Giovanni -, Serena e Claudio hanno incrociato noi e Chiara e Stefano e ci hanno fatto la proposta. Noi abbiamo iniziato a venire nei week end per vedere e, pian piano, abbiamo capito che la cosa ci interessava».

«C’è stato un attimo di défaillance – confessa Serena -, non pensavamo che tutti fossero interessati. Gli spazi erano per tre famiglie, non per quattro».

«Quindi abbiamo cercato di capire se ci saremmo stati – prosegue Giovanni -. Noi eravamo già sposati e anche Chiara e Stefano, che avevano già Pietro. Quando abbiamo deciso di venire, abbiamo iniziato i lavori qui nella canonica per ricavare un secondo alloggio e, alla fine, abbiamo traslocato durante l’estate 2017. Ovviamente, in tutto questo cammino, siamo stati sempre accompagnati da don Stefano».

Questioni pratiche (ed economiche)

Dato che si parla di ristrutturazioni e di famiglie che abitano dei luoghi che non sono di loro proprietà, chiediamo qualche delucidazione sugli accordi con la parrocchia. «Il nostro alloggio, qui sopra, è fatto di due stanze, il bagno e la cucina – spiega Giovanni -. Questo di Sara e Max ha la cucina, due stanzette piccole, la camera da letto e il bagno. Le ristrutturazioni le abbiamo pagate noi dividendoci la spesa. Il contratto è un comodato d’uso gratuito per cinque anni. A nostro carico, oltre alle ristrutturazioni, abbiamo ovviamente le spese vive, le utenze di luce, acqua, gas. Poi, ogni anno, facciamo un’offerta volontaria che corrisponde all’Imu. È come se fossimo in affitto: la spesa per le ristrutturazioni è più o meno quello che avremmo speso per un affitto di cinque anni».

Coppia, famiglia, fraternità, impegno

Essendo arrivate le 12, Serena si congeda: aveva già da tempo in programma di andare con i bimbi al picnic ecologico «Un Po meno inquinato» organizzato al parco Colletta, ai piedi della collina, da diverse associazioni, tra cui Altri Modi Ets, l’impresa sociale per cui lavora Enrica.

Anche Sara e Max andranno al picnic tra poco.

La nostra attenzione è rapita dal gorgoglio che Elia emette, quasi come una ninna nanna, in braccio a Sara. Con tutta la fatica che qualsiasi coppia fa, tra le tante gioie, per costruire l’equilibrio sempre nuovo di una giovane famiglia con bimbi piccoli, domandiamo come facciano a tenere dietro anche a tutti gli impegni legati alla fraternità.

«Effettivamente è una delle fatiche – risponde Sara -. Siamo tutti molto impegnati e, tra l’altro, ci siamo resi conto che è importante coltivare anche le relazioni tra noi famiglie. L’anno scorso abbiamo iniziato una riflessione sull’equilibrio tra fraternità, famiglia e servizio. È emerso che alcuni di noi sono qua soprattutto per l’aspetto comunitario e che il servizio dovrebbe essere nel cerchio più esterno. Prima si deve essere alleati nella coppia. Poi si allarga il cerchio ai figli, poi alla fraternità, poi al servizio. Per avere delle fondamenta forti».

Il valore aggiunto

Per lasciare che Sara e Max si preparino anche loro per il pic nic ecologico, ci spostiamo fuori con Giovanni che oggi rimarrà l’unico della fraternità a San Grato. C’è un piacevole sole autunnale che ci illumina e scalda. Nel cortiletto c’è un tavolo da esterno con le sedie.

«Qual è il valore aggiunto di questa fraternità alla vostra vita di sposi?», chiediamo. «Una cosa bella che la fraternità ci offre è quella di poter fare servizio insieme, come coppia. E poi c’è una dimensione di sogno e di condivisione che ci piace. Di bisogno di camminare con altri, di poterci confrontare».

«E quali sono, invece, le difficoltà?».

«La difficoltà dell’esperienza di fraternità è che, come succede a tutti i fratelli che vivono sotto lo stesso tetto, quando ci si passa vicini, ci si può urtare. Ci sono i momenti nei quali uno si dice, chi me l’ha fatto fare? Il fatto di essere in quattro, però, a volte aiuta, perché se c’è un momento nel quale hai bisogno di chiuderti un po’ a guscio, puoi farlo senza scompensare troppo gli equilibri.

C’è poi la fatica della trasparenza continua. Qui non c’è l’anonimato condominiale, e tutto quello che fai è conosciuto dall’altro: i tuoi orari, come decidi di rimproverare i figli, come li fai giocare, cosa gli regali… Tutto è pubblico, anche le tue fatiche con il coniuge, i litigi di coppia. È un’esperienza molto sfidante.

Poi c’è anche il vantaggio di dire: “Mio figlio mi sta facendo impazzire, te lo lascio un attimo perché se no darei di matto”. Hai una rete solida vicina».

Una chiesa incarnata

Arriva il momento di andare anche per noi. Quando ci congediamo, partiamo pensando alla spontaneità dei bimbi e dei loro genitori, colti nel mezzo della loro vita quotidiana. Il clima famigliare, la semplicità dell’accoglienza e della casa, l’andirivieni di bimbi e adulti, la pappa, il caffè preparato con un piccolo in braccio, il pic nic ecologico, ci hanno dato il sentimento di trovarci in mezzo a fratelli che condividono le cose di ogni giorno senza ansie e con molta flessibilità.

È un’immagine di Chiesa in uscita che s’incarna in un tempo e in un luogo attraverso voci e vicende personali, famigliari e comunitarie precise.

Quando abbiamo domandato a Giovanni se crede che l’esperienza di fraternità che sta vivendo abbia un suo posto nella Chiesa di oggi, ha risposto: «Io penso che sia una cosa naturale. Non la vedo come una cosa strana, di rottura. È il frutto del Concilio Vaticano II. Il ruolo del laico. La ricchezza dell’essere coppia, e dell’essere fraternità. Siamo in un tempo di costruzione, di esplorazione. È una dinamica normale, sensata».

Luca Lorusso


Casa Santa Barbara, un condominio speciale ad Alba

Il bene comune si fa insieme

Siamo andati a conoscere dal vivo l’esperienza di Emanuela e Nicola Costa: una «Famiglia missionaria a km0» che vive la fraternità e l’accoglienza in uno spazio parrocchiale assieme a due giovani volontari e a tre donne africane in difficoltà.

A guardarla da fuori è un’anonima palazzina di tre piani come se ne vedono in qualsiasi città: uno scatolone intonacato di bianco con balconi e finestre disposti simmetricamente a sinistra e a destra della scala.

Dentro, però, l’anonimato non ha spazio, perché le persone che la abitano, tutte in modo temporaneo, vivono un’interessante esperienza di fraternità, accoglienza e solidarietà, sempre con le porte aperte.

Siamo ad Alba, seconda città della provincia di Cuneo per popolazione dopo il capoluogo.

La palazzina, chiamata casa Santa Barbara perché sorge nell’omonima via di un quartiere centrale piuttosto benestante della città, è una struttura di proprietà della parrocchia Cristo Re destinata all’accoglienza di donne sole in condizione di disagio.

Attualmente è abitata da tre donne africane con i loro figli che risiedono in tre alloggi distinti, da due giovani volontari, Paolo in un appartamento e Giulia in un altro (in attesa dell’arrivo anche di Miriam, altra giovane), e dalla famiglia Costa, di quattro persone, cui fa capo l’associazione «Il Campo» che gestisce l’accoglienza. Un’umanità variegata che, nella semplicità della vita quotidiana, fatta anche di documenti da tradurre, telefonate dei servizi sociali, tapparelle da aggiustare, nutre le relazioni con occasioni di gioco per i bambini, momenti condivisi di manutenzione, feste, pasti, preghiere, compiti di scuola fatti assieme.

Una parrocchia accogliente

Alla stazione di Alba viene ad accoglierci Emanuela Iacono: jeans blu, maglietta rossa, foulard variopinto di farfalle, occhiali viola e una parlantina invidiabile. Lei e il marito Nicola Costa, entrambi quarantenni, con i due figli Edoardo di undici anni e Giacomo di sette, sono arrivati ad Alba da Milano cinque anni fa per lavoro. Nicola è un esperto di sicurezza alimentare, Emanuela si occupa di comunicazione per il terzo settore.

Emanuela cammina spedita facendoci strada. Oggi è lunedì, giorno di lavoro, e avremo a disposizione poco più del tempo della pausa pranzo. Nonostante questo, prima di andare in via Santa Barbara, abbiamo in programma di conoscere don Claudio Carena, parroco di Cristo Re e vicario generale della diocesi di Alba, responsabile ultimo della casa.

Arriviamo in cinque minuti, e troviamo ad accoglierci nel suo ufficio don Claudio, 53 anni, affabile e sorridente. Nella sua parrocchia l’esperienza della casa Santa Barbara non è l’unica iniziativa sociale: «Qui in canonica, ad esempio, ospitiamo quattro famiglie e quattro persone singole – ci spiega -. È una struttura molto grande, e il mio predecessore ne ha tratto otto bilocali. Gli ospiti hanno tutti situazioni difficili. Innanzitutto economiche, ma anche di fragilità psicologica, sociale. Oggi abbiamo ospiti di tre etnie e tre religioni diverse. C’è un dialogo interreligioso di fatto in un bel clima di rispetto. Le famiglie fanno una convenzione per undici mesi rinnovabili, ma alcuni non riescono ad andarsene anche quando avrebbero la possibilità economica di farlo: c’è una coppia marocchina con due figli, ad esempio, che lavora e potrebbe pagare un affitto altrove, ma nessuno vuole dare loro il proprio appartamento…».

L’esperienza della casa Santa Barbara, dove ora vivono Emanuela e Nicola «è nata circa 20 anni fa – ci racconta don Claudio -. Una persona aveva donato una struttura alla parrocchia con l’impegno di attivare qualcosa per i poveri. Il parroco di allora, don Angelo Stella, ha costruito l’attuale condominio grazie all’istituto per il sostentamento del clero. Poi, il parroco successivo, don Valentino Vaccaneo, ne ha fatto una casa di accoglienza per donne sole, e una coppia di parrocchiani, Anna e Franco Foglino, è andata a viverci dedicando all’accoglienza 18 anni di vita con grande generosità e competenza. Quando sono arrivato io sette anni fa, mi hanno chiesto di trovare un’altra famiglia, e la provvidenza, nel 2016, ha mandato Emanuela e Nicola».

Uno spazio nel quale ricostruirsi

Salutiamo don Claudio e ci lasciamo guidare da Emanuela verso via Santa Barbara. «Accogliamo donne sole in difficoltà – ci spiega lungo la strada -. Sono donne spesso segnate da rapporti difficili con le famiglie di origine o con i compagni. L’obiettivo della casa è offrire un tempo di ripartenza verso una vita autonoma di massimo due anni. Le donne vengono segnalate dai servizi sociali o da associazioni. A ognuna chiediamo di partecipare alle spese della casa. Quando non possono ci aiutano gli enti che ce le mandano: i servizi sociali, Caritas o altri.

Noi diamo una mano a queste donne nelle cose di ogni giorno come buoni vicini di casa: stampare la pagella dei figli, scrivere il curriculum vitae, e cerchiamo di attivare reti di aiuto informali. La loro provenienza è varia. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto con noi donne dalla Romania, dalla Tunisia, dal Marocco, dalla Bulgaria, dall’Italia».

Le attuali ospiti sono tre donne africane: «Una è madre di un ragazzo di 12 anni con disabilità. Insieme a loro c’è anche la nonna. Hanno da poco avuto l’assegnazione di una casa popolare». La seconda è di origine marocchina con un bimbo piccolo: «Sta affrontando una separazione difficile. Ha bisogno di un tempo in cui seguire le pratiche legali, trovare un lavoro, e riprogettare la sua vita». La terza è una mamma originaria della Nigeria, con una bimba di dieci mesi. «È stata battezzata in parrocchia a Cristo Re. Lì ha battezzato anche la sua bimba. Era in un Cas (Centro di accoglienza straordinaria, ndr) di Alba, poi è stata spostata in un Cas di un’altra città. Quando ha ottenuto la protezione internazionale, le abbiamo proposto di tornare qui come segno di cura da parte della comunità che l’ha accompagnata al battesimo. Lei è molto contenta di essere di nuovo ad Alba dove si è ben integrata anche grazie all’aiuto di associazioni del territorio. È molto motivata a ripartire».

Condividere tempi e luoghi

Arriviamo in via Santa Barbara 4. Dietro la palazzina s’intravede un cortile. Di fronte, dall’altra parte della strada, c’è un palazzo di cinque piani, di quelli i cui alloggi negli annunci immobiliari recano la scritta «finiture di pregio».

Entriamo nell’androne sul quale si affacciano tre porte: una è del centro di ascolto Caritas della parrocchia; un’altra è di uno degli alloggi per l’accoglienza, la terza dà su un monolocale a uso comune. I volontari l’hanno sistemato due mesi fa, e ora è attrezzato con una cucina, un tavolo e alcune sedie.

Qui tutti i giovedì vengono alcuni ragazzi scout e delle parrocchie vicine a far giocare i bambini della casa. «Un altro gruppetto di giovani viene il sabato mattina a fare dei lavori manuali – ci racconta Emanuela -. Tra questi c’è anche Babatunde, arrivato in Italia qualche anno fa. Ora ha una fidanzata albese e lavora in una cantina. Viene il sabato mattina a dare una mano perché vuole restituire l’accoglienza che ha ricevuto».

Nel monolocale c’è Nicola, arrivato dal lavoro pochi minuti fa per la pausa pranzo: sta preparando gli agnolotti del plin, tipici piemontesi, e un’insalata. C’è anche Paolo, un giovane di 27 anni – «capo scout», ci tiene a dire -, che vive al piano di sopra da maggio per fare un’esperienza di accoglienza e fraternità. Paolo è già in partenza per andare al lavoro, ma fa in tempo a raccontarci dell’altra sua bella esperienza conclusa appena prima di arrivare qua: ha abitato per due anni con un altro giovane nella canonica della sua parrocchia Santa Margherita, per sperimentare la vita fuori dalla casa paterna, la convivenza e soprattutto il servizio alla parrocchia.

Oltre a Paolo, come detto, nella palazzina abita da poco anche Giulia, e un’altra giovane, Miriam, si sta avvicinando: la famiglia Costa ha, tra le sue caratteristiche, quelle della condivisione e della fraternità, sia con le donne accolte che con i giovani.

Una famiglia missionaria a km0

Emanuela e Nicola sono una scheggia albese del gruppo di «Famiglie missionarie a km0» che loro stessi hanno contribuito a creare nel 2013 nella diocesi di Milano. Un gruppo nel quale si sono radunate famiglie che, in modo indipendente l’una dall’altra e con stili diversi, avevano iniziato ad abitare con spirito missionario in canoniche, oratori o altre strutture ecclesiali. Si definiscono «famiglie missionarie», perché molte di loro hanno vissuto esperienze all’estero, anche di diversi anni, o semplicemente perché sta loro a cuore l’evangelizzazione, far conoscere Gesù a chi ancora non l’ha incontrato; «…a km0» per sottolineare la vicinanza tra la loro vita e la missione: che sia ad Alba o a Quarto Oggiaro – il quartiere milanese della parrocchia Pentecoste nella quale i Costa hanno vissuto due anni, prima di trasferirsi -, poco importa.

Desiderio di fraternità

«In questa casa ci sono dieci alloggi. Uno è questa stanza comune per stare insieme – ci dice Nicola -. Poi c’è il centro di ascolto della Caritas, l’alloggio per Paolo, quello per Giulia, e quello per noi. Tutti gli altri sono dedicati all’accoglienza».

La descrizione della destinazione degli alloggi non vuole essere un semplice elenco, vuole piuttosto mettere in luce uno degli elementi fondamentali di questa esperienza di condominio solidale: la fraternità. La casa non è solo un «rifugio» per persone in difficoltà, ma è un luogo nel quale sperimentare una forma nuova di vicinato, una modalità aperta di relazioni paritarie tra persone diverse.

«La cosa è nata dalla nostra esperienza precedente in parrocchia a Milano – ci spiega Emanuela -. È significativo che ci sia una fraternità tra famiglia e sacerdote al centro della parrocchia. Ci sembrava significativo che ci fosse una forma di fraternità anche al centro dell’esperienza di accoglienza. Cercavamo un’altra famiglia e non l’abbiamo trovata. Allora abbiamo pensato ai giovani».

«Prima che arrivassero questi nuovi giovani – aggiunge Nicola -, è stata qui Elisabetta, che oggi ha 27 anni e si è appena sposata. Lei diceva che voleva vedere le cose con i suoi occhi: “Ho un lavoro, ho il fidanzato, ma non voglio andare a convivere. Esco di casa, faccio due anni con la porta aperta. Mi metto al servizio di chi ha bisogno”». «Alla fine – aggiunge Emanuela – ha detto che essere qua non è solo fare servizio, ma rendersi conto di cosa succede nel mondo, perché ognuna delle donne ospitate ti racconta come vanno le cose a casa sua e anche la fatica di stare in Italia. Paolo e Giulia staranno qua per un anno, Miriam farà un ingresso più graduale. L’idea è che passino per questa esperienza prima delle scelte definitive della vita: è anche un’esperienza di discernimento. Si mettono al servizio, e in più provano a immaginare la loro vita futura. Per vivere la fraternità in modo più completo con loro, facciamo almeno una cena alla settimana insieme. Poi in pratica diventano anche due o tre, perché spesso passano per un saluto e alla fine si fermano a mangiare. Oltre alla cena, stiamo costruendo il modo di pregare insieme».

La quotidianità fraterna, però, per i Costa non si realizza solo con i giovani. In senso più ampio è il vivere con la porta aperta e il cuore disponibile nei confronti degli ospiti: «Vivendo insieme è più facile che s’inneschino delle dinamiche di reciprocità – continua Emanuela -. Io sono qua per aiutarti, però, se questo spazio è unico e lo abitiamo insieme, anche tu che sei ospite partecipi. Il bene comune lo costruiamo insieme. Questo è difficile, soprattutto per quelle persone che sono tanti anni che vengono aiutate. Fare quel salto di qualità: pensare “però anche io posso darmi da fare per gli altri”, è provocatorio, ma vivendo insieme viene naturale».

Il cortile si riempie

Mentre mangiamo e chiacchieriamo, arriva da scuola Edoardo, il figlio maggiore di Nicola ed Emanuela. Saluta, posa lo zaino e si siede a tavola anche lui. Partecipa volentieri a questo pranzo con uno sconosciuto: è abituato a condividere gli spazi e i tempi di casa con altri. Chiediamo però ai suoi genitori come fanno a conciliare le esigenze di coppia e di famiglia con quelle di un condominio così.

Nicola, ormai alla fine della sua pausa pranzo, risponde: «La famiglia e il servizio non sono due cose distinte. Non è come il lavoro: esco, vado in un luogo dove gli altri non possono venire, faccio le mie cose e torno. È una parte integrante della nostra vita. È una forma della vita, anche se bisogna riuscire a tenere degli spazi riservati, soprattutto per i figli». «Il nostro è un vicinato aperto – Aggiunge Emanuela -. Poi è bello che io e Nicola facciamo le cose assieme. Invece per i nostri figli è bello avere molte relazioni. Per cui capita che ci sia l’invasione di chi non vuoi nei momenti che non vuoi, ma poi hai tanto di più attorno. Loro sono contenti. Lo erano anche di vivere in parrocchia. Apprezzano molto i giovani che abitano qua, i giochi al giovedì, il fatto che vengano gli amici dei bambini accolti, che il cortile si riempia».

La terza porta della chiesa

La famiglia Costa vive nella casa Santa Barbara da tre anni. Come i loro amici della diocesi di Milano, anche loro si sono dati un tempo di cinque anni, scaduti i quali verificheranno, insieme alla parrocchia, se la loro presenza nella casa ha portato buoni frutti e se proseguire con l’esperienza oppure andare altrove. «Tre anni sono pochi. Cinque anni permettono di entrare nel vivo. È un tempo sensato. Dopo di ché ci sentiamo sostituibili».

La casa Santa Barbara non è una realtà visibile. È un condominio in mezzo ad altri condomini. Non ha insegne o frecce luminose che ne indichino la presenza. Si fa vedere solo da chi la conosce, e da chi frequenta le persone che la vivono. Non è invadente. Ma è un pezzettino di Chiesa che abita il quartiere, che sta in mezzo alle case.

«Le Famiglie missionarie a km0 sono la terza porta della Chiesa – ci dice Emanuela mentre ci salutiamo -: c’è la porta istituzionale, poi c’è la porta piccola che è quella degli istituti religiosi o della sacrestia dove entrano solo gli addetti ai lavori, e poi c’è la terza porta che è fatta da quelli che desiderano vivere la fede e una vita piena pur facendo la vita di tutti. L’impegno è quello di essere una porta d’ingresso verso il popolo di Dio. Questo è il nostro impegno: riuscire a fare da tramite».

Luca Lorusso


Dieci storie in un libro

Le Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano, dal 2013 costituiscono un gruppo ormai consolidato e organizzato che oggi conta almeno 27 famiglie più altre in rete.

Le loro provenienze sono le più disparate: c’è chi viene dal mondo scout, chi da Azione cattolica, da Comunione e liberazione, dal laicato dei missionari della Consolata, dall’Operazione Mato Grosso, dalla rete delle famiglie ignaziane e da altre realtà.

Tutte si ritrovano attorno a una chiamata e a una prassi comune: essere missionari nella quotidianità, attraverso l’abitare in un quartiere, in una parrocchia, in uno spazio della Chiesa, qui in Italia. Senza bisogno di valicare frontiere. Essere missionari non a prescindere o nonostante la condizione di famiglia, ma proprio perché famiglia.

Il gruppo di Milano è il più visibile, in questo momento, nella Chiesa italiana, ed è quello che ha maturato una riflessione più articolata, ma i suoi membri non sono i soli che vivono la missione a km0. Proprio il fatto di avere iniziato a darsi un nome, a comprendersi come un volto specifico della Chiesa del nostro tempo, sta facendo loro conoscere molte altre esperienze in giro per il nostro paese, famiglie che sentono la stessa chiamata in forme simili e che stanno avviando un dialogo con le loro diocesi di appartenenza.

Gerolamo Fazzini, nell’ottica di iniziare a tirare un po’ le fila di qualcosa che sta pian piano, con i tempi dello Spirito, prendendo forma, ha raccolto in un bel volume, ben scritto e gustoso nei contenuti, dieci esperienze: sette milanesi, due piemontesi e una veneta, con una prefazione di mons. Luca Bressan, una cronologia essenziale della storia del gruppo ambrosiano, una piccola panoramica delle esperienze fuori dalla diocesi di Milano e una postfazione con un’intervista a Johnny Dotti sull’«abitare generativo».

L.L.


A colloquio con monsignor Luca Bressan

Scrivere la presenza di Gesù nel quotidiano

L’esperienza milanese delle famiglie missionarie in canonica sono una freccia che indica nuove forme di presenza della Chiesa sul territorio. La quotidianità, la fraternità, la sobrietà, l’accoglienza, sono alcuni dei suoi strumenti principali per incarnare la fede nella Chiesa e nel mondo che cambiano.

«Per me è stato un privilegio incontrare le Famiglie missionarie a km0. Io le leggo come un segno che lo Spirito ci dà per dire come incarniamo la fede oggi. Sono una realtà giovane che va aiutata a crescere e a scoprire il mistero che porta dentro. Allo stesso tempo sono un dono che interroga la Chiesa, e che mette in luce quanto essa sta cambiando».

Monsignor Luca Bressan è sacerdote della diocesi di Milano dal 1987, dal 2012 è vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale, «ovvero – ci dice -, quella parte di azione pastorale che intercetta la cultura, il mondo, la società, e quindi ne legge i cambiamenti».

È coinvolto nell’accompagnare quelle famiglie che nella sua diocesi incarnano la condizione di «Chiesa in uscita» abitando una struttura ecclesiale, e ce ne offre una lettura di ampio respiro.

Don Luca, a proposito di Chiesa che cambia, in un tuo intervento di qualche mese fa a Padova, proprio riferendoti alla Chiesa, hai parlato di «tornante storico». Ci puoi spiegare?

«Tutti ci accorgiamo che la Chiesa cambia, non solo perché i presbiteri sono meno, ma perché sono meno anche i battesimi. La Chiesa ha un’incidenza minore nella storia.

Il Concilio ci insegna che dobbiamo abitare questo cambiamento senza stancarci. Il rischio, però, è di interpretare questo “non stancarci” in modo troppo attivo: “Siamo noi che agiamo sulla riforma della Chiesa, che la mettiamo al passo con i tempi”. Invece, più che disegnare a tavolino quale sarà la forma futura della Chiesa, è molto meglio fermarsi e vedere come lo Spirito suscita vocazioni diverse, modi differenti di dire la fede.

Veniamo da un passato in cui la fede era incarnata soprattutto dalla vita religiosa, dall’esercito di suore che, accanto ai malati, agli abbandonati, ai bambini, raccontavano alla gente la gratuità dell’amore di Dio. Ecco, adesso quell’esercito di religiosi, religiose, preti, sta venendo meno, e corriamo il rischio che la Chiesa diventi “un’agenzia di servizi” a cui ricorrere per una preghiera, una prestazione.

La presenza delle Famiglie missionarie a km0 ci ricorda che è ancora possibile vivere una logica di gratuità. Avere queste famiglie non significa avere manodopera in più, ma delle persone che scrivono la presenza di Gesù nel quotidiano».

Le Famiglie missionarie a km0 sono una nuova forma di presenza della Chiesa nella società?

«Sì, noi la leggiamo in questo modo. Per questo la vogliamo accompagnare. È una freccia che ci indica nuove forme di presenza. Non in alternativa, non in sostituzione alle forme organizzate, al ministero presbiterale ad esempio, ma proprio come forma di aggiunta.

Il valore profetico che c’è in quest’esperienza è l’idea della fraternità missionaria che fa vedere come insieme si viene trasfigurati dalla fede, dal Vangelo che si vive, e quindi lo annuncia».

La fraternità è una delle caratteristiche fondanti di quest’esperienza, come si esprime?

«Questo dipende dalle situazioni. Ci sono luoghi nei quali la fraternità s’incarna in una frequenza fisica e quotidiana, ci sono luoghi in cui la famiglia abita dove una volta c’era il prete e ora il prete non c’è più, per cui la fraternità è più vincolata a momenti e orari.

C’è una fraternità quotidiana vissuta localmente che si esplicita in modi diversi. Poi c’è una fraternità più ampia che riguarda l’intera esperienza delle Famiglie missionarie a km0, che vuole essere uno spazio nel quale, ad esempio, si confrontano i tanti carismi da cui le coppie provengono: il mondo della missione, quello francescano, gli scout, Cl, famiglie legate a spiritualità più tradizionali, il mondo dei gesuiti…

Il gruppo è come una piazza in cui le differenze s’incontrano e arricchiscono tutti. L’ultima cosa che desiderano è spegnere le differenze. Infine c’è una fraternità ecclesiale di fondo che lega queste famiglie con la Chiesa».

Oltre alla fraternità, anche la quotidianità è un elemento fondamentale per questa esperienza.

«L’incarnazione avviene nel quotidiano. Il Verbo si è fatto carne in un momento determinato della storia e in un luogo determinato. Per cui, esatto, il quotidiano è una parola chiave. Il Vangelo non si vive e non si testimonia in astratto».

Quali sono i punti di forza, le criticità e le prospettive delle Famiglie missionarie a km0?

«I punti di forza sono, da una parte, l’energia spirituale, la gioia, la voglia di creare nuovi percorsi. Poi lo stile di vita famigliare, la sobrietà, la voglia di far vedere che cosa dà sapore e senso alla vita.

C’è una differenza tra ricerca del piacere e ricerca della gioia. C’è chi cerca la gioia pur vivendo in un mondo che ricerca solo i piaceri.

Le sfide stanno nel capire come innestare tutti questi elementi di novità nella presenza della Chiesa tra la gente, e come dare loro forma. La criticità sarà poi superare man mano la fase di entusiasmo e vedere come far diventare questa esperienza la normalità della vita ecclesiale, come farla diventare una figura conosciuta, una figura ministeriale».

Com’è accolta questa esperienza dalla gente e dai sacerdoti della diocesi?

«La gente in qualche caso ha espresso diffidenza, ma poi si è accorta della capacità di contagio e di annuncio che ha quest’esperienza. I preti, in parecchi casi, hanno riconosciuto in questa presenza un nuovo modo di declinare la loro missione, e anche la loro scelta celibataria. Più di un prete mi ha detto che, grazie alla famiglia missionaria, ha imparato, ad esempio, a organizzare meglio la sua vita, gli spazi di silenzio, i luoghi d’incontro con la gente».

Lo scopo del gruppo delle famiglie qual è?

«A livello diocesano è quello di istituire uno spazio di crescita anzitutto spirituale e comunionale. Ci s’incontra per nutrirci a vicenda della profondità del mistero che abitiamo e per tornare poi a immergerci in un quotidiano che richiede tante energie».

C’è una commissione in diocesi che sta redigendo delle linee guida. Cosa sono?

«L’idea è, senza affrettare i tempi, quella di consolidare l’esperienza. Scopo delle linee guida è di mettere per iscritto alcuni suoi elementi costitutivi perché ne diventino l’ossatura e le permettano di essere trasmessa e condivisa. Permettere a noi e agli altri di capire quali sono i tratti essenziali delle Famiglie missionarie a km0, così che poi possano essere declinati nelle differenti situazioni e, man mano, possano istituire una figura riconoscibile dalla diocesi.

Della commissione fanno parte alcune famiglie e alcuni elementi della Chiesa diocesana.

Però non vogliamo accelerare i tempi. Vogliamo che il processo di stesura sia la trascrizione a livello verbale del processo di consolidamento dell’esperienza che si sta vivendo a livello di corpo».

Come viene gestita la presenza di una famiglia in spazi di proprietà della Chiesa?

«Essendo un’esperienza carismatica segnata dalla gratuità, le famiglie si mantengono con il loro lavoro, come fa qualsiasi famiglia normale. Dato però che abitano in un contesto di fraternità missionaria e di collaborazione pastorale, la chiesa le ospita in modo gratuito nelle sue strutture. Il tutto basato su un contratto di comodato di cinque anni, rinnovabile, che permette a tutti di essere liberi, soprattutto alla famiglia. Il primo compito della coppia è salvaguardare, approfondire, nutrire il suo sacramento, e quindi la famiglia: la durata quinquennale serve per dare un termine e per vedere se nella famiglia, ad esempio con la crescita dei figli, sono nate nel frattempo nuove esigenze. L’idea è di non mettere a nessuno degli obblighi».

Cosa dà a te quest’esperienza?

«Io sono contentissimo. Mi accorgo di esserne nutrito. Trovo dei fratelli e delle sorelle che mi aiutano a tenere incarnata la mia fede e, allo stesso tempo, danno gioia al mio cammino. Fa parte del famoso centuplo raccontato dal Vangelo. Ritrovo dei legami famigliari che non avrei mai immaginato potessero esserci. E questo è bellissimo».

Luca Lorusso


Marco, Maida e i loro cinque figli, dalle Ande peruviane a Milano

Con la porta sempre aperta

Marco e Maida Radaelli appartengono all’Operazione Mato Grosso (Omg), presente in Ecuador, Perù, Brasile e Bolivia, fin da giovani. Prima di conoscersi hanno fatto alcune esperienze all’estero: Marco in Ecuador e Maida in Perù, e quando si sono sposati, neanche trentenni, dopo due mesi sono partiti per 10 anni in Perù.

Oggi vivono nella parrocchia di Ponte Lambro, Linate, zona Sud Est di Milano, e sono una Famiglia missionaria a km0 con i loro cinque figli, di cui le prime tre nate sulle Ande: Martina di 14 anni, Margherita (11), Beatrice (9), Daniele (2) ed Elena (1).

«Nel tornare ci eravamo chiesti quale sarebbe potuto essere il modo per vivere la missione anche qua in Italia», ci dice Maida per telefono.

Maida, ci descrivi la vostra esperienza in Perù?

«Vivevamo in una casa dell’Omg a Yungay, a 2.800 metri, in zona rurale sulle Ande, proprio ai piedi del Huascarán, la montagna più alta del Perù. Niente a che vedere con Ponte Lambro a Milano.

Avevamo una scuola di falegnameria con un internato dove c’erano 20 ragazzi scelti tra i più poveri dei villaggi vicini: vivevano insieme a noi e quindi passavamo tutta la giornata con loro.

Dopo due anni abbiamo costruito una scuola: asilo, elementari e medie. Dalle 8 alle 16 avevamo con noi 300 bambini, ai quali davamo anche da mangiare. Tutto con l’aiuto dei volontari italiani.

I professori erano peruviani, e poi c’erano volontari italiani che venivano anche solo per un mese, e davano una mano a insegnare».

Quindi il vostro lavoro in Perù era quello educativo. Non avevate un’altra fonte di reddito?

«No. Non avevamo stipendio. Vivevamo anche noi con quello che veniva mandato dall’Italia. Poi avevamo delle donazioni private di parenti o amici che utilizzavamo per cose nostre».

Che formazione avete?

«Siamo infermieri tutti e due. Ci siamo conosciuti all’università. Abbiamo lavorato come infermieri cinque anni prima di partire».

Cosa vi ha lasciato l’esperienza di condivisione continua con i ragazzi peruviani?

«Una ricchezza molto grande. Le nostre figlie hanno respirato da sempre che la nostra famiglia non è chiusa. La porta di casa era sempre aperta. È sempre stata una famiglia molto allargata. Vuoi o non vuoi, i tuoi problemi, le cose che ti sembra di non riuscire a superare, passano in secondo piano. Condividere la giornata con altre persone ti fa capire che non sei tu il centro del mondo. Le nostre figlie hanno visto con i propri occhi la povertà, materiale e non. Quando oggi diciamo: “Stai attenta a non pensare solo a te stessa”, ci capiamo. In Perù eravamo molto facilitati in tutto, perché non avevamo un lavoro che ci portava via durante il giorno, e quindi eravamo lì 24 ore su 24. Potevamo dedicarci agli altri sempre. In Italia la vita è più frenetica e ti impedisce di fare quello che vorresti: ci sono gli impegni fissi come la scuola, il lavoro, e quindi poi devi gestire il tempo che ti rimane».

Ogni tanto sentivate il bisogno di avere uno spazio solo vostro, di famiglia?

«Ce lo chiedono sempre. Certo: avevamo il nostro spazio con una piccola cucina e le nostre stanze. A volte venivano a bussare, però era sottinteso che se eravamo nel nostro spazietto, dovessero trattenersi. Poi in realtà passavamo in casa pochissimo tempo. Eravamo sempre insieme ai ragazzi».

Collaboravate con la parrocchia?

«C’erano due sacerdoti locali. Con loro avevamo anche dei momenti insieme, e una volta alla settimana uno veniva a celebrare la messa con noi e i ragazzi. C’era una strettissima collaborazione».

Com’è stato il rientro per le vostre figlie?

«Per loro l’Italia era un mondo sconosciuto e si sentono ancora peruviane. Rimpiangono spesso la vita semplice del Perù. Però quando abbiamo spiegato loro che avremmo mantenuto alcune caratteristiche della vita peruviana, che saremmo venuti a vivere in una parrocchia, hanno accettato bene».

Avevate già un posto dove andare?

«Sì, avevamo sentito l’ufficio missionario della diocesi di Milano. Inizialmente avevamo chiesto di andare in un paese e non in città, perché le nostre figlie in Perù avevano vissuto una vita molto semplice e volevamo conservare questo aspetto. Ci è stato proposto Bulciago, in Brianza, e quando siamo tornati nel 2014 siamo andati direttamente lì, in canonica, per tre anni. Nel frattempo è tornato dal Perù don Alberto Bruzzolo che ha sempre chiesto, sia in Italia che in Perù, la collaborazione di una famiglia vivendoci insieme. In diocesi è stato il primo a provare questa esperienza fin dal 2001 a Pentecoste. Quando è arrivato, conoscendoci già, ci ha chiesto di fare fraternità con lui. Allora nel 2017 ci siamo spostati qui a Ponte Lambro, in un contesto di periferia urbana totalmente diverso. Noi diciamo sempre alle nostre figlie che non importa dove si vive, importa come uno vuole spendere la sua vita: che sia con i ragazzi peruviani, in Brianza, o in città. Ne abbiamo parlato molto, e alla fine loro hanno detto che sì, l’importante è aiutare gli altri.

Qui c’è un centro d’ascolto della san Vincenzo che segue 150 famiglie. Vengono distribuiti vestiti, medicine… Anche qui i miei figli vedono la povertà».

Com’è la vita di fraternità?

«Viviamo in fraternità missionaria con don Alberto, che è parroco, e con don Emanuele Merlo, che segue la pastorale dei Rom. Siamo in una casa di due piani dentro l’oratorio: al piano terra ci siamo noi, e al piano superiore i due don. In un’altra struttura ci sono tre suore Marcelline. Anche loro hanno chiesto di lavorare nella periferia.

Abitando nella stessa casa, diciamo le lodi al mattino insieme, poi facciamo colazione per raccontarci un po’ di cose. E poi la domenica sera facciamo la compieta e un commento di un brano biblico.

Nella vita quotidiana, poi, ci sono pranzi, cene. Così come vengono. Avendo la porta sempre aperta è facile che succeda».

Lavorate?

«Mio marito sì. Io no. È stata una scelta per coltivare l’accoglienza. La mia presenza in casa è importante. Infatti, per il fatto di essere un’infermiera, a volte le persone vengono a chiedermi medicine o iniezioni… e questa cosa ci apre un mondo, perché le persone vengono e poi ti raccontano tutto di loro. Come dice una mia amica che vive anche lei in una canonica: “Noi facciamo la pastorale del caffè”.

A volte la figura del sacerdote può dare un po’ di soggezione. Invece vedere una famiglia, che è una famiglia normale, perché ha i figli, fa casino, i bambini gridano, la mamma pure, fa sentire più a casa. Don Alberto dice che conosciamo le stesse famiglie, ma da punti di vista diversi: i nostri figli vanno alle feste di compleanno, vanno a scuola… in tutte quelle parti della vita dove il don non può arrivare, noi possiamo».

Tuo marito che lavoro fa?

«Con degli amici, anche loro tornati dalla missione, ha fondato una cooperativa sociale di imbianchini e giardinieri, e gestiscono cinque isole ecologiche qua nei dintorni e in Brianza. Poi fanno un lavoro sociale con il reintegro nel lavoro di ex alcolizzati, ex drogati, persone bisognose.

Lui dice sempre che non vuole fare un lavoro che lo separi dalla vita normale».

In parrocchia che ruolo avete?

«Non abbiamo cose precise. Facciamo incontri con genitori che chiedono il battesimo. Ognuno di noi ha un gruppo di lettura del Vangelo una volta ogni 15 giorni: cioè andiamo nelle case delle persone che si rendono disponibili. Io sono anche catechista e gestiamo l’oratorio feriale e le attività dei bambini, sempre con i due don e con le suore».

Difficoltà e soddisfazioni?

«La difficoltà è quella di avere pochi momenti di intimità famigliare. A volte dici: “Ma basta! Questo campanello che suona in continuazione”. I bambini che avrebbero bisogno di attenzione, però devi dire loro di aspettare un attimo. A volte è una fatica. Usi energia togliendola alla famiglia. Ma alla fine ti dici: non è quella la cosa che mi rende più felice, pensare solo a me e alla mia famiglia. Alla fine, vivere così è una ricchezza».

L.L.


Per una parrocchia a misura di pannolino

Contagiati dalla gioia

Suor Enrica Bonino, 53 anni, accompagna il cammino delle Famiglie missionarie a km0 fin dal 2001, quando ha partecipato alla nascita della prima esperienza nella parrocchia di Pentecoste, nel quartiere di Quarto Oggiaro a Milano.

È una suora energica. Torinese di nascita e ignaziana di spiritualità. È un’ausiliatrice delle anime del purgatorio con la vocazione di accompagnare le persone attraverso i loro «purgatori», le fasi di crisi che la vita offre a tutti, verso la gioia.

Suor Enrica non esita a definire «profetica» la realtà delle famiglie missionarie che a Milano e altrove offrono un volto nuovo di Chiesa alla gente.

Suor Enrica, tu sei legata all’esperienza delle
Famiglie missionarie a km0 fin dagli inizi.

«L’esperienza è nata nel 2001 nella parrocchia Pentecoste a Quarto Oggiaro, dove vivevo. È partita dal parroco don Alberto Bruzzolo, da Marco e Marta Ragaini, una coppia con tre figli arrivata dal Chad dopo 6 anni di missione, e da me. Loro vivevano in parrocchia, io nella mia comunità e il parroco in un appartamento nel quartiere.

L’ho vissuta fino al 2006, quando sono partita per un anno in Colombia. Al mio rientro nel 2007, sono andata a Torino, e ho ripreso l’attività con le famiglie, anche se più legata alla spiritualità ignaziana. Insieme ad alcune coppie, ci siamo resi conto che è necessaria una certa cura del cammino a due, allora ho sviluppato un po’ questo aspetto: affiancare le famiglie e sostenerle in un percorso di spiritualità coniugale. Credo molto in quello che dice l’Amoris Laetitia (31): “Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa”.

Infine, nel 2012, sono tornata a Quarto Oggiaro».

Che ruolo hai nel gruppo delle Famiglie a km0?

«Sono stata coinvolta per la mia esperienza con le famiglie e perché la spiritualità ignaziana offre degli strumenti concreti: gli esercizi spirituali, una disciplina e un metodo di preghiera, un metodo per il discernimento e per le scelte.

Io non ho un ruolo specifico. Quando il gruppo ha iniziato a organizzarsi, mi sono stati chiesti degli incontri di formazione spirituale. Dopo di che ho iniziato a visitare alcune famiglie a fare telefonate, visite, confronti, in una modalità molto relazionale. L’idea è di prendersi cura l’uno dell’altro e di sensibilizzarsi reciprocamente su questa cura».

E che ruolo hanno, invece, le Famiglie missionarie a km0 nella Chiesa?

«Secondo me hanno un ruolo profetico. Entrare in una canonica e non trovarti la classica segretaria o il parroco, ma un bambino che ti chiede se giochi con lui, rivoluziona l’idea della parrocchia: offre un’immagine di semplicità, di vita quotidiana, di una chiesa a misura di pannolino, direi.

Oggi la parrocchia rischia di essere un luogo in cui si fanno delle cose, mentre è importante che sia vissuta come luogo di fraternità dove si sperimentano delle relazioni, poi si fanno anche delle cose, ma in funzione di una relazione che sia la più ampia, accogliente, aperta possibile».

La fraternità con sacerdoti o religiosi è un punto centrale per tutte le Famiglie missionarie a km0?

«Sì, però le modalità dipendono dalle situazioni: dai lavori della coppia, dalla disponibilità di tempo, dall’età dei figli, dal tipo di sacerdote. Non c’è un cliché. Un momento di preghiera insieme e uno di scambio su come va, c’è sempre. Per chi è implicato nella pastorale, lo scambio avviene anche su dove stiamo andando, cosa stiamo facendo, cosa aiuta di più la parrocchia. Ma non è detto che tutte le famiglie siano coinvolte nella pastorale allo stesso modo».

Quali sono i punti di forza di quest’esperienza per la famiglia, la parrocchia, il quartiere?

«Il punto di forza per la famiglia è la possibilità di non chiudersi in sé, nei propri problemi, nella gestione faticosa della quotidianità, di aprirsi ad altri e di coltivare un orizzonte spirituale più ampio. Perché quando sei continuamente sollecitato dagli altri, ti devi rinnovare nella motivazione che ti abita. Questo è anche il punto di fragilità, perché, a volte, essere troppo sollecitati può creare disguidi. È necessario cercare un equilibrio sempre nuovo.

Anche la comunità parrocchiale e il territorio ne hanno un beneficio, perché iniziano a vedere un volto diverso di Chiesa, la possibilità di confrontarsi con una fede più semplice, vissuta. Non è tanto una fede parlata, è una presenza accogliente.

L’altra cosa bella, per me, è che alcune Famiglie missionarie a km0 prendono contatti con altre diocesi, altre regioni, altri paesi, ad esempio la Francia, dove ci sono realtà simili: è come stare dentro un laboratorio continuo. Tutto questo crea una grande circolazione d’idee ed esperienze. Per esempio, alcuni da Milano sono andati qualche tempo fa a Padova a conoscere una comunità di famiglie ignaziane. Conoscere altri territori e stili è arricchente, dà molto entusiasmo ed è un modo per sostenersi a vivere una vita evangelica».

Il gruppo di famiglie della diocesi di Milano può aiutare altre esperienze a emergere?

«Ci sono diverse esperienze di famiglie che sperimentano fraternità differenti ma non si conoscevano tra di loro e non provengono da organizzazioni già costituite nelle diocesi. Adesso che con i convegni tenuti ogni due anni a Milano, con le trasmissioni televisive, i giornali, si inizia a vedere che c’è una realtà lombarda consistente, allora le altre realtà più isolate incominciano a venire fuori e a chiedere un confronto. Ne ho conosciute in Puglia, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria, Toscana, in Sicilia… Alcune realtà iniziano a confrontarsi con le proprie diocesi. Alcune diocesi non hanno le realtà ma i vescovi vorrebbero.

C’è un grande movimento e una grande curiosità. È un’esperienza portatrice di grande fermento.

Dove porterà non lo so. Don Luca Bressan dice, e io condivido, che dobbiamo lasciare che la cosa cresca, sostenerla con delicatezza, lasciando che le persone trovino il proprio spazio, senza codificare troppo, perché altrimenti si spegne lo spirito.

È necessaria una grande attenzione. Ed è per questo che ci sono molte telefonate: come stai? Come sta quella coppia? La vai a trovare tu, o vado io?».

È bella questa sinergia tra vocazioni differenti.

«Io credo molto nel sostegno tra vocazioni diverse. Indirettamente queste famiglie sostengono me nella scelta che ho fatto e, per quel che sono capace, a mia volta offro un sostegno, una presenza.

Io credo che la Chiesa possa essere solo così. Non può esserci una Chiesa di separati, in cui i religiosi sono da una parte, le famiglie sono dall’altra e ognuno sta chiuso nella propria casa o convento.

Mi piace la possibilità di mostrare un volto di chiesa diverso, il cui la suora, ad esempio, lavora come tutti, dà una mano in cucina se serve, può accompagnare i bambini al bagno e guardare i cartoni animati con loro. È considerata una persona come le altre. Questo è uno stile che vivo anche con la rete delle famiglie ignaziane da anni.

Lavorare per questo ideale e per questa mescolanza a me dà una grande gioia. Poi non so come andrà e chi tirerà le fila di tutto, ma anche questo a me dà una grande gioia e libertà: provo a lavorare, e poi tutto è nelle mani di Qualcun altro».

Questa esperienza è uno dei frutti che il Vaticano II continua ancora oggi a far nascere?

«Per me è un’esperienza a contagio. Sono arrivati dei missionari che hanno fatto esperienza di missione, e hanno iniziato a contagiare. È l’esperienza della semplicità che tu sperimenti solo in missione, con i più poveri, che a un certo punto trasforma la tua vita e non riesci più a vivere diversamente.

Io la vivo così, non tanto pensando ai documenti della Chiesa. Certamente è uno sviluppo del Vaticano II, certamente è in linea con il pontificato di papa Francesco e con tutti i documenti che lui ha scritto, perché uno dei punti cardine di questa esperienza è diffondere la gioia del Vangelo. Cioè far vedere che a essere cristiani si è felici, si è contenti, pur essendo incasinati. Perché i casini non li risparmia a nessuno la vita. Ma li vivi in un altro tipo di serenità, perché sai di chi sei, a chi appartieni e chi vuoi passare, chi vuoi trasmettere».

Luca Lorusso