Il numero di adozioni internazionali in Italia è in calo da alcuni anni. Le motivazioni sono tante, dai Paesi che chiudono ai costi troppo elevati. Secondo il presidente di un ente autorizzato occorre cambiare sistema. Per fare sì che i genitori adottivi non siano di serie B.
Non è un Paese per l’adozione. Con il groppo in gola e anche con più di un pizzico di rabbia, è difficile scrivere qualcosa di diverso quando si sceglie di raccontare come vanno le adozioni internazionali in Italia. I numeri sono impietosi, e fa male vedere che in troppi continuano a dimenticarsi del diritto inviolabile di ogni bambino del mondo ad avere una famiglia che possa accoglierlo e amarlo. Il diritto di essere figlio, insomma. Eppure questo diritto, per ragioni che è fin troppo facile individuare, non viene tenuto sufficientemente in considerazione.
Partiamo proprio dai numeri, che regalano una fotografia della situazione. Nel 2023 si è toccato il fondo: i bambini nati in tante parti del mondo che hanno trovato una famiglia in Italia, infatti, sono stati 478, il 15 per cento in meno rispetto all’anno precedente, quando le adozioni erano state 565. Non era andata così male nemmeno nel 2020, l’anno passato alla storia per via della pandemia da Covid, che, comprensibilmente, aveva bloccato anche le adozioni internazionali: allora di adozioni internazionali ce ne furono 563.
Perché il calo
Ma cosa c’è dietro questo calo drammatico? Tanti elementi. Le situazioni di conflitto che hanno coinvolto e continuano a coinvolgere alcune aree del mondo. Scelte – più o meno difficili da comprendere – fatte da alcuni Paesi, che hanno deciso di chiudere all’Italia le adozioni internazionali. Relazioni di politica estera non ottimali. Forse anche il fatto che, mentre sulle pratiche di procreazione medicalmente assistita si puntano i riflettori, sul mondo delle adozioni internazionali capita molto meno. Anche di questo, con un briciolo di cinismo, ma con tanto realismo, non è così difficile comprendere la ragione. Nell’immaginario di una coppia c’è un bambino piccolo, da crescere e magari perfino da svezzare, un «profilo» che non corrisponde all’adozione internazio- nale, la quale rischia di diventare un’opzione di serie B.
Ci sono poi le ombre che hanno velato alcune pratiche del passato (ma non in Italia): in Danimarca, per esempio, l’agenzia per le adozioni internazionali ha chiuso la sua attività per il prossimo biennio, dopo che un’agenzia governativa aveva sollevato dubbi su alcune pratiche adottive concluse negli anni scorsi.
Insomma, sono tempi duri per le adozioni internazionali. E soprattutto all’orizzonte non si vedono possibili soluzioni per risollevare il trend.
Inoltre, alcuni Paesi da cui fino a qualche tempo fa arrivavano in adozione molti bambini che si trovavano in stato di abbandono, hanno iniziato a mostrare nei loro confronti una maggiore cura, agevolando anche le adozioni nazionali, che così avanzano, anche se timidamente.
Ma torniamo ai numeri che raccontano la crisi in Italia: stando al rapporto diffuso dalla Commissione adozioni internazionali (Cai), l’ennesima contrazione del numero delle adozioni concluse nel corso del 2023 è dovuta «ad alcune conclamate criticità riscontrate in Paesi di origine da cui storicamente provenivano molti minori adottati da famiglie italiane quali la Federazione russa, l’Ucraina, la Repubblica popolare cinese e la Bielorussia e da una riorganizzazione interna all’Autorità centrale colombiana che ha rallentato i percorsi adottivi delle coppie instradate nel Paese». Sempre a proposito dello scorso anno, l’India è stato il Paese da cui è arrivato il maggior numero di bambini adottati in Italia: le pratiche concluse sono state infatti 119. Subito dopo, con 71 adozioni, c’è l’Ungheria. A seguire, nonostante i rallentamenti, troviamo la Colombia, con 68 adozioni concluse. Si segnala, nota positiva, che dalla Sierra Leone, realtà con cui gli enti autorizzati hanno iniziato a collaborare recentemente, sono arrivati i primi nove bambini.
Paesi «chiusi»
Come scritto poco sopra, sono decisamente dolenti le note che arrivano dalla Bielorussia, che registra uno zero allarmante, proprio come era accaduto nell’anno precedente, il 2022. A preoccupare, oltre allo zero, ci sono ben 206 procedure pendenti, vale a dire 206 coppie di aspiranti genitori che sono in attesa di abbinamento con il proprio figlio.
Le cose vanno poco meglio nella Federazione russa, che ha chiuso il 2023 con appena quattro adozioni e che ha sospeso fino al 2027 tutti gli enti italiani. Male anche la Cina, dove si sono concluse soltanto due procedure. Proprio riguardo alla Cina si segnalano ben 87 coppie con procedure di adozione pendenti. Tra queste una trentina ha già ricevuto la famosa «pergamena verde», vale a dire l’abbinamento con un bambino che da ormai parecchi anni aspetta di incontrare mamma e papà, in attesa della «pergamena rossa», cioè l’invito ufficiale a recarsi in Cina per poter completare l’intero iter adottivo.
La voce degli enti autorizzati
Infine, una panoramica sugli enti autorizzati: quello che da sempre riesce a concludere il maggior numero di adozioni è il Cifa di Torino, che ha chiuso il 2023 con 44 adozioni. Subito dopo c’è Asa, con 36, poi Gvs, che ne ha portate a termine 28. Abbiamo fatto il punto della situazione proprio con il dottor Gianfranco Arnoletti, presidente di Cifa. «Il Covid ha sicuramente complicato una situazione già di per sé molto critica, perché ha bloccato ogni tipo di spostamento, elemento imprescindibile quando si tratta di adozioni internazionali. Credo però che le motivazioni di una crisi delle adozioni così dirompente siano anche altre – spiega l’esperto -. Penso al tema economico, per esempio. Pur con la possibilità di portare in detrazione fiscale le spese sostenute per accogliere un bambino nato in un Paese lontano, i costi rappresentano ancora un deterrente importante per le famiglie che non possono contare su un reddito alto. Potrà sembrare un pensiero banale, ma sarebbe bello che l’adozione internazionale fosse “gratuita” come quella nazionale, e che quindi fosse lo Stato a farsene carico. E poi ci sono i tempi, che sono oggettivamente lunghi da sopportare anche dal punto di vista emotivo. Perché se è pur vero che l’adozione è quell’istituto che permette a ogni bambino di vedere rispettato il proprio diritto a diventare figlio, è altrettanto vero che non si può pretendere che gli aspiranti genitori siano dei supereroi con il mantello. Sono esseri umani, come ciascuno di noi, e attendere qualcosa come cinque anni è oggettivamente un fardello pesante da sopportare, anche per chi è animato da tanta volontà».
A oggi, stando sempre al report della Commissione adozioni internazionali, le coppie in attesa di concludere la loro procedura di adozione sono infatti 2.395, ed è facile arrivare alla previsione di attesa di ben cinque anni tenendo conto del numero esiguo di pratiche che vengono portate a termine ogni anno. E in un periodo così lungo in una coppia può capitare di tutto, pur con le migliori intenzioni di questo mondo. Anche che si rinunci a diventare genitore.
Genitori di serie B
Continua a spiegarci il presidente del Cifa Arnoletti: «La ricerca di un figlio è qualcosa che ormai arriva piuttosto tardi con l’età. Una serie di incertezze con cui si è costretti a fare i conti, anche e soprattutto dal punto di vista economico, portano a rimandare sempre di più la decisione. Capita che i 40 anni si avvicinino senza accorgersene, e a quel punto la via più semplice è quella di provare ad avere un figlio biologico. Capita che poi questo figlio biologico magari non arrivi, anche perché non si è più giovanissimi. Solitamente si tenta con qualche pratica di procreazione medicalmente assistita e poi si arriva all’adozione, come ultima spiaggia. Senza voler giudicare, questo tipo di approccio non aiuta. Resta il fatto che sarebbe davvero bello se questa forma di genitorialità non venisse considerata sempre e soltanto di serie B, come un ripiego a una strada che fino a quel momento non ha portato da nessuna parte». Tanto più che, spesso, soprattutto nelle adozioni internazionali, le proposte di abbinamento sono di bambini inseriti nella categoria special needs. Si tratta di bambini dai bisogni speciali , che spesso hanno più di otto anni e problemi di salute più o meno gravi e più o meno reversibili. Continua a spiegarci Arnoletti: «Senza contare che a volte le informazioni legate allo stato di salute del bambino sono scarne ed è difficile conoscere con precisione le condizioni del piccolino. Che sia chiaro, le mie non vogliono essere parole di terrorismo e l’ultima cosa che desidero è allontanare le persone che scelgono di intraprendere questa strada. Quello che maggiormente mi sta a cuore, come presidente di un ente autorizzato, come nonno e soprattutto come padre di una figlia adottata nell’ormai lontano 1981, è che le adozioni continuino a garantire ai bambini di poter diventare figli e di non restare bambini e basta. L’unica certezza è che dobbiamo cambiare marcia, tutti insieme, e che questo cambiamento deve riguardare l’intero sistema e deve arrivare dall’alto, in modo che ne sia garantita la buona riuscita e la completa trasparenza. Servono misure volte a sostenere le famiglie che nascono, e naturalmente non soltanto quelle che sbocciano grazie all’adozione internazionale».
Burocrazia inutile
«Così come è importante debellare il razzismo – prosegue Arnoletti -, una questione ancora tristemente di attualità, che non può non preoccupare un genitore in attesa di adottare un bambino con tratti somatici diversi da quelli caucasici». Insomma, di lavoro da fare ce n’è tanto. E sarebbe bello che il 2024 potesse essere l’anno della svolta. Magari partendo dagli enti autorizzati. Conferma Arnoletti: «Nel 2023 su un totale di 48 organizzazioni, 9 non hanno concluso adozioni, mentre 29 ne hanno realizzata meno di una al mese e solo uno ha superato le 40. Questo significa che le adozioni si concentrano soltanto su 17 enti, che di fatto corrispondono al 35 per cento di quelli regolarmente registrati nell’albo. Questo quadro è intriso di adempimenti burocratici inutili alla realizzazione della procedura adottiva ma dovuti, caso unico in Italia, per le attività di vigilanza sulla rete degli enti e di raccolta dati. La rete delle autorità centrali volute dalla Convenzione dell’Aja (sull’adozione internazionale, ndr) è molto frammentata e variegata nei compiti e non ha permesso accordi di cooperazione tra Stati in materia di adozioni che abbiano portato a un incremento dei numeri. Che fare? Vedo una sola soluzione: che gli enti svolgano la loro attività in regime di concessione simile a quello dei servizi forniti da privati alla pubblica sanità. In questo si potrebbero assistere in modo appropriato le coppie alle prese con le difficoltà di inserimento di un minore nella società, senza dover badare alle risorse disponibili. L’albo degli enti autorizzati andrebbe rivisto sulla base di un’attività annuale minima che consenta di formare una squadra compatta con l’autorità centrale per affrontare le sfide che il mondo ci pone per rispettare i diritti dei bambini».
Già, i bambini. È per loro che vale la pena lottare. Perché l’adozione è anche gioia, come raccontano mamma Claudia e papà Fausto che, dopo avere adottato in Cina, nel 2015, il loro Lorenzo Ai Guo, da pochi mesi sono tornati in Italia con Poornima Sofia, adottata in India: «Che percorso incredibile è quello dell’adozione! Noi la definiamo una giostra che alterna tante emozioni. Siamo partiti sette anni fa con grande slancio per la nostra seconda disponibilità, ma poi il cammino è stato tortuoso e difficile, tanto che in alcuni momenti abbiamo pensato di mollare tutto. Il nostro primogenito ci ha dato la forza di andare avanti, combattere, perseverare e finalmente eccoci qua con il nostro pezzettino mancante, il nostro dono grande. Non potremmo essere più felici e fieri della nostra famiglia colorata. Alle coppie in attesa diciamo di non mollare perché la felicità è dietro l’angolo, e vi assicuriamo che prima o poi arriva e tutte le fatiche a quel punto svaniranno. Forza, quindi!».
Paola Strocchio
Sperimentare il centuplo
Dei tre fratelli Barbero missionari della Consolata, padre Mario è quello di mezzo. Ha accompagnato oltre la metà della storia dell’Imc, tra Italia, Kenya, Usa, Congo e Sudafrica. Suoi amori: la Bibbia, i confratelli e le famiglie del «Marriage encounter» che ha promosso nel mondo.
Padre Mario Barbero, classe 1939, entra nel nostro ufficio con la sua solita discrezione.
Il suo sorriso gentile e il suo sguardo attento non sono mutati dall’ultima volta che ci siamo incontrati a inizio 2020.
Cominciava allora, a 81 anni, una nuova avventura, ed era pronto a prendere, senza saperlo, l’ultimo volo per il Sudafrica prima della chiusura delle frontiere per la pandemia da Covid-19.
Missionario della Consolata nato a Marene (Cn), nei suoi 70 anni vissuti tra i figli dell’Allamano, ha operato in cinque paesi di tre continenti: Italia, Kenya, Usa, Congo Rd e Sudafrica.
Formatore di seminaristi, ha sempre amato lavorare con le famiglie tramite l’esperienza del Marriage encounter («Incontro matrimoniale») di cui è un entusiasta promotore nel mondo.
Settant’anni di gioia
«La prima volta che sono stato in Casa Madre a Torino avevo 12 anni. Era maggio 1951, e l’Istituto missioni Consolata compiva 50 anni. Ora ne ha più di 120».
Padre Mario si siede di fronte a noi e, con la sua voce bassa e affabile, ci offre subito il quadro di quello che racconterà: una lunga esperienza personale che s’intreccia con gratitudine alla ricca storia della famiglia Imc. «Sono entrato in seminario in prima media, alla Certosa di Pesio (Cn). Ero accompagnato da mio fratello Antonio, di undici anni più grande di me, e già seminarista. Io dico sempre che, prima del Covid, nella mia famiglia c’è stato un altro virus che ha colpito tre fratelli su sei facendoli diventare missionari della Consolata».
Oltre a padre Antonio Barbero, nato nel 1928, missionario in Canada e Congo Rd, morto nel 1982, infatti, un altro fratello è stato parte dell’Imc, Tommaso (chiamato Masino), nato nel 1946, missionario in Tanzania e Kenya e mancato poco più di un anno fa, nel settembre 2021.
«Eravamo cinque fratelli e una sorella. Gli altri si sono sposati regalandomi nipoti e pronipoti. Quando Antonio aveva 12 anni, ha sentito un’ispirazione che gli diceva “fatti missionario”. Lui non sapeva cosa fosse un missionario, allora l’ha chiesto al parroco, che gli ha detto: “I missionari sono quelli che vanno in Africa, e sono di due tipi: i sacerdoti che studiano, e i fratelli che lavorano”. Mio fratello non aveva tanta voglia di studiare, e allora dice: “Va beh, sarò di quelli che lavorano”. Poi va a casa, lo dice a mio papà, e lui gli risponde: “Se vuoi lavorare, qui c’è una cascina…”. E Antonio: “Allora mi farò missionario di quelli che studiano” – ride padre Mario -. Quando poi Antonio veniva a casa una volta all’anno dal seminario, portava sempre con sé una rivista: “Missioni Consolata”».
Guardando al fratello, Mario è cresciuto pensando che anche lui sarebbe diventato missionario e, finite le elementari, è entrato in Certosa nel ‘50.
La chiesa che cresce
Padre Mario segue il filo dei suoi ricordi più di quello delle nostre domande. Ci confida che negli ultimi tempi ha avuto modo di pensare molto alla sua vita passata. Anche il lockdown, scattato tre settimane dopo il suo arrivo in Sudafrica nel 2020, e il Covid, contratto nell’estate 2021, che l’ha costretto a trasferirsi per le cure da Pretoria a Nairobi, sono stati per lui situazioni provvidenziali che gli hanno permesso di pregare e riflettere di più.
«Quando sono guarito, ho girato un po’ il Kenya dove ero stato dal ‘76 all’88. Ho visto il grande sviluppo della chiesa: tante parrocchie, ognuna con il suo prete locale, trent’anni fa erano impensabili. Poi sono andato a Tuthu, il primo posto in cui erano arrivati i missionari nel 1902. Lì non c’era la chiesa. Adesso ci sono tanti preti. Oggi più della metà dell’Imc è composta di africani che vanno nel mondo».
Dopo la convalescenza, è tornato in Sudafrica, ma un nuovo problema di salute l’ha fatto rientrare in Italia.
«Da quando sono arrivato a Torino a inizio 2022, sono andato diverse volte al santuario della Consolata e ho pensato all’Allamano: io non credo che avesse immaginato tutto quello che sarebbe successo. Mandando i suoi missionari, ha allargato le dimensioni dell’Africa, l’ha fatta diventare missionaria».
Fratelli
Il volo dei ricordi fa attraversare a padre Mario decenni e continenti avanti a indietro.
Tornando alla sua famiglia, ci dice che lui è il quinto dei sei fratelli, e che l’ultimo era proprio Tommaso, il terzo che si sarebbe fatto missionario. «Ha fatto più di 40 anni di Tanzania e Kenya. Poi è stato gli ultimi 7-8 anni in Italia per problemi di salute.
Ultimamente ho pensato tanto a lui. Aveva un forte zelo missionario, una grande sensibilità. Ha fondato missioni nelle quali, prima delle strutture, pensava alla formazione dei vari ministeri della gente. Negli anni che ha trascorso qui in Italia, quando ci sentivamo, mi diceva tutte le volte: “Ti penso sempre, ogni volta che celebro messa mi sento unito a te”.
Quando sono diventato prete, la sera prima di essere ordinato, mi sono confessato con mio fratello Antonio, che mi ha detto: “Da domani saremo fratelli due volte. Non solo di sangue, ma anche di sacerdozio”. Ed è stato così anche con Masino.
Quando Antonio era malato, gli ultimi sette mesi li ha passati in Casa Madre a Torino. Masino, che allora era in Spagna, l’ultimo mese gli è stato vicino. Era il 1982. Tre giorni prima che mancasse, io sono venuto dal Kenya e mi ha ancora riconosciuto. Quando è morto io e Masino eravamo uno di qua e l’altro di là a tenere il suo polso. Eravamo sereni, perché lui ci aveva preparati. Era tranquillo, e continuava a pensare allo Zaire.
Quella notte, accanto ad Antonio c’era Maria Stocco, un’infermiera che aveva desiderio di andare in Africa. Antonio le aveva detto “vai a prendere il mio posto”, e lei, dopo la sua morte, è partita. Quando nel 2005 io ero in Congo, sono andato a predicare gli esercizi spirituali ai nostri missionari nel Nord, a Isiro. Lei era ancora lì. Dall’82. Antonio aveva fatto nove anni di Congo. Lei ne ha fatti quasi trenta».
Il Concilio da vicino
«Più divento vecchio e rifletto sulla mia storia, più vedo che il Signore mi ha messo accanto tante persone di tutti i tipi, preti, suore, laici, famiglie che hanno reso possibile la mia missione», continua padre Mario.
«Finito il noviziato nel 1959, sono stato a Roma dieci anni. Ho fatto filosofia, teologia e poi la specializzazione in Bibbia. Ma soprattutto sono stato a Roma nel tempo del Concilio. Dieci giorni dopo la sua conclusione, sono stato ordinato prete.
È stata un’epoca stupenda. Alcuni dei nostri professori erano nelle commissioni teologiche che lavoravano ai testi. In casa nostra, poi, avevamo otto vescovi che ci aggiornavano su cosa succedeva in San Pietro.
Io vedo il Concilio come una grande benedizione.
Quando sento persone che dicono che la chiesa è stata rovinata dal Concilio, penso che non hanno idea di cos’era la chiesa prima e di cos’è la chiesa oggi.
Quando si parla di crisi della chiesa, c’è uno sguardo solo occidentale. In Africa al tempo del Concilio c’erano una cinquantina di vescovi neri, adesso sono centinaia. Quando sono arrivati i nostri primi missionari a inizio Novecento, l’Africa avrà avuto sì e no due milioni di cattolici, oggi sono 250-300 milioni. Mai c’è stato uno sviluppo così rapido della chiesa. Eravamo abituati ad avere tanti cardinali italiani e adesso ci si stupisce che il papa li nomini in altri paesi. Ma la gran massa di cattolici non è qua, e perché non avere la voce di quelle chiese? Anche di quelle che vivono in minoranza e perseguitate? Sono questi piccoli gruppi che conservano la forza della Parola di Dio che è Gesù che si diffonde».
Il Kenya
La prima destinazione di padre Mario è stata a Torino per insegnare Bibbia. «Sono stato formatore e insegnante qui dal ‘69 al ‘75. Insegnavo al Cottolengo, dove c’era la sede della scuola di teologia per diversi istituti, anche il nostro. È stato bello. Facevo anche animazione missionaria. Alcuni di quei giovani (tra cui il direttore di MC, ndr) sono poi diventati preti, altri sono diventati padri di famiglia».
Il primo mandato missionario fuori dall’Italia è arrivato nel 1976. «Sono stato 12 anni in Kenya. Dal ‘76 al 1982 ho insegnato al Consolata seminary di Nairobi. Poi sono stato eletto superiore regionale. In quegli anni si è dato molto sviluppo alla formazione dei missionari africani. Il primo keniano Imc è stato Anthony Ireri Mukobo che ora è vescovo di Isiolo. Anche l’attuale vescovo di Marsabit, Peter Kihara Kariuki, è stato tra i primi che erano entrati nel 1976.
L’anno scorso il Consolata seminary ha compiuto 50 anni. Dei ragazzi passati da lì, 152 sono diventati missionari della Consolata, ora sparsi nel mondo. Altri sono diventati preti diocesani, altri ancora padri di famiglia».
Marriage Encounter
È stato in Kenya che padre Mario ha incontrato il programma per famiglie Marriage encounter.
«Nel 1978 sono arrivate in Kenya alcune coppie missionarie dall’Irlanda invitate dal cardinale Maurice Michael Otunga di Nairobi.
Incontro matrimoniale forma gli sposi a vivere meglio il loro amore. È basato sul dialogo. Vi partecipano anche preti e suore.
Io non sapevo cosa fosse. Mi hanno invitato. C’erano tre coppie e un prete che davano degli spunti di riflessione. Per me è stata una scoperta bellissima. Dopo ogni conferenza c’è una domanda, e ognuno è invitato a riflettere e a scrivere una risposta personale. Poi marito e moglie si trovano insieme (io mi trovavo con un altro prete). Si dialoga, ci si scambia gli scritti. È una cosa semplicissima. È incredibile cosa può fare il semplice scriversi e parlarsi. Le coppie, dopo i due giorni d’incontro, sono tornate a casa avendo scoperto molte cose, tanti sogni che non si erano mai detti.
È stata una grazia per me. Scherzando, dico sempre che la mia seconda ordinazione da prete è stata il 27-29 di ottobre del ‘78.
Dopo quel weekend, mi sono fatto coinvolgere, e ho anche contagiato mio fratello Masino che allora era in Spagna. Quando è tornato in Tanzania, lo ha impiantato anche lì, dove adesso ci sono migliaia di coppie di Incontro matrimoniale.
La stessa cosa è successa nel Nord Italia: non potevo tenere questa esperienza per me, e ho coinvolto i miei amici più cari.
Allora in Italia c’era già qualcosa a Rimini. Qui a Torino invece è nato da Mario e Annamaria Tenna che hanno invitato i loro amici, poi il loro parroco, e da lì si è allargato in Piemonte e in Italia. In questo momento la coppia responsabile di Incontro matrimoniale in Europa è italiana.
Quando sono andato negli Usa, Incontro matrimoniale c’era già, e mi hanno subito coinvolto. Per 12 anni ho girato una volta al mese per tutto il paese. Quello che mi ha colpito è che funziona ovunque. L’ho vissuto con i keniani, con gli italiani, poi con gli americani, sia ispanici che inglesi, poi in Congo».
Gli USA e Retrouvaille
Quando padre Mario parla delle coppie incontrate grazie al Incontro matrimoniale ha gli occhi che brillano.
Negli Usa è andato subito dopo il Kenya: prima nella casa di
Somerset, vicino a New York, come superiore regionale Imc dal 1988 al ‘94, poi, fino al 2001, a Washington Dc, di nuovo dedicato alla formazione dei seminaristi. In quegli anni, il suo coinvolgimento in Incontro matrimoniale gli ha fatto conoscere una nuova esperienza nata in Canada, quella del Retrouvaille.
«Nel 1994 mi hanno invitato a un weekend del Retrouvaille, parola che significa ritrovarsi, un programma specifico per le coppie separate o divorziate che, a un certo punto, cercano di aggiustare le relazioni. È stata una cosa incredibile. Per me, anche come prete, l’esperienza del perdono vissuta nel programma
Retrouvaille è la più forte.
Quando sono tornato nel 2001 in Italia, la Cei era interessata a farlo approdare anche qui, così il programma è partito nel 2002.
Gli animatori di questo percorso sono coppie che hanno sperimentato il fallimento in prima persona e poi si sono riconciliate. Quando portano la loro testimonianza, sia del fallimento sia della ripresa, ha un grande impatto su chi li ascolta.
In Italia abbiamo fatto oramai oltre 200 di questi weekend».
Congo
Nel 2001 padre Mario è partito dagli Usa destinato al Congo Rd. «Sono passato dall’Italia per rinfrescare il francese, e sono poi andato in Congo nel 2002, a Kinshasa, dove sono rimasto fino al 2007 per fare il formatore dei nostri seminaristi e il professore in un altro centro. Insegnavo anche nel seminario diocesano.
Anche in quel paese ho lavorato con Incontro matrimoniale: lì era già presente, ma da qualche tempo non andava più molto bene, perché le coppie non riuscivano più a pagare il contributo richiesto per i weekend. Fatto sta che ha ripreso, e ora va ancora avanti. Quasi tutti i giorni ricevo ancora messaggi da là».
Italia
Nel 2008, dopo aver lasciato il Congo e aver trascorso sei mesi in Sudafrica, padre Mario è tornato in Italia dove ha lavorato nell’animazione missionaria fino al 2019, prima a Bedizzole (Bs), poi a Castelnuovo don Bosco (At), infine a Rivoli (To).
«Ho fatto tanti incontri biblici e naturalmente ho lavorato con le famiglie. Poi, nel 2019 mi hanno chiesto di andare in Sudafrica e io ho accettato.
Sono partito a inizio 2020 per fare il parroco per la prima volta nella mia vita. Tre settimane dopo il mio arrivo, c’è stato il lockdown anche lì, e per il primo anno la gente non poteva venire in chiesa. In quella situazione ho riscoperto la preghiera, e facevo un video ogni settimana per i parrocchiani. È nato un bel rapporto con loro, anche se limitato.
Poi ho avuto il Covid, e sono stato mandato in Kenya per curarmi. Dopo tre mesi, sono tornato per altri tre mesi, quando mi è venuta una forte sciatalgia e ho iniziato ad avere difficoltà a camminare. Allora sono ripartito per l’Italia nel febbraio del 2022.
Due anni sono stati pochi, ma sufficienti per iniziare delle belle relazioni. Con alcuni mi sento ancora. È nato un affetto speciale con tante persone.
È stato bello, anche se diverso da quello che immaginavo, come spesso capita nella nostra vita. Adesso sono qui in Casa Madre e sto meglio: ho tanto tempo per pregare, riflettere, ricordare».
Famiglia e missione
Data la sua esperienza, chiediamo a padre Mario qual è secondo lui la missione delle famiglie.
«Innanzitutto, la loro vita famigliare, il parlarsi tra di loro e la formazione dei figli.
Ora che rifletto molto sulla mia vita, mi rendo conto che, pur avendo studiato tanto, le cose più importanti me le hanno insegnate mio papà e mia mamma.
La famiglia è presente in tutte le realtà. Io sono stato fortunato ad avere una famiglia unita, ma anche nelle famiglie nelle quali magari c’è una separazione, i genitori ti accolgono, ti tirano su. Questa è la cosa principale: il primo impegno di una famiglia è quello di avere cura della famiglia. Tutto il resto viene da lì.
Mentre ero a Washington ho fatto un dottorato, e nel 2001 ho scritto la mia tesi su Priscilla e Aquila: una coppia che ha lavorato con san Paolo e ha fondato con lui la chiesa di Corinto e di Efeso. È stato il mio coinvolgimento con le coppie che mi ha fatto scoprire il Marriage encounter anche in san Paolo».
Bibbia
L’altro grande amore di padre Mario è la sacra Scrittura. Gli chiediamo allora, per concludere la chiacchierata, un brano che gli sta particolarmente a cuore.
«Quando Pietro chiede a Gesù: cosa ne avremo noi a seguirti? E Gesù risponde che avremo il centuplo. Ecco, io il centuplo l’ho sperimentato: prima con l’Imc, dove mi sento bene con tutti i miei confratelli; poi con Incontro matrimoniale, che mi ha aperto migliaia di case».
Luca Lorusso
Fratelli due volte
Antonio Barbero
Nato il 12-2-1928 a Marene (Cuneo), tredicenne fu accolto nell’Istituto Missioni Consolata e ricevette l’ordinazione sacerdotale il 20-6-1954. Per sei anni svolse attività di insegnamento e di formazione in Italia. Nel 1961 partì per il Canada: quattro anni di intensa pastorale giovanile. Rimpatriato svolse ancora attività formative nelle case Imc d’Italia, poi nel 1972 raggiunse la missione dello Zaire come superiore del gruppo della nascente delegazione: dieci anni di lavoro missionario ardito e intelligente (cfr. dossier in MC 6/2022). Missionario ottimista e guida saggia, sembrava, talora, spregiudicato, invece di fatto il suo comportamento si rivelava stimolante ma equilibrato. La sua arte era semplice ma non sempre facile: ascoltare, riflettere, rispondere, sorridere; un’arte che faceva sempre presa nel cuore dei giovani. Morì a Torino il 9 febbraio del 1982.
Tommaso (Masino) Barbero
Nato l’8-10-1946 a Cervere (Cn), fece la professione temporanea il 2-10-1966 alla Certosa di Pesio, e quella perpetua il 2-10-1969 a Rosignano. Fu ordinato diacono il 16-2-1972 a Torino e sacerdote il 25-3-1972 a San Lorenzo di Fossano.
Dopo i primi due anni tra Cork (in Irlanda) e Biadene (Treviso), partì per il Tanzania dove rimase tra il 1974 e il 1979. Fece animazione missionaria a Saragoza, in Spagna, tra il 1979 e il 1983. Tornò in Tanzania come vice parroco a Kisinga e come parroco a Ng’ingula tra il 1983 e il 1988.
Tornato in Europa, nel 1989 partì per il Kenya. Fu rettore dell’Allamano House a Nairobi fino al 1992, poi fondatore e parroco di Kahawa (Nairobi) fino al 2000, viceparroco e poi parroco a Likoni-Mombasa fino al 2005, direttore della casa di ritiri Bethany House a Sagana tra il 2005 e il 2008, e poi direttore del Centro pastorale di Maralal fino al 2013. Contemporaneamente fu due volte consigliere regionale del Kenya: nel 2005-2008 e nel 2011-2013. Rientrato in Italia nel 2014, lavorò a Platì, Rivoli, Cavi di Lavagna e Torino. Morì il 16 settembre del 2021.
Nella piazza centrale di questo industrioso paese della provincia di Asti, fa bella mostra di sé un’insegna con la scritta: «Benvenuti a Castelnuovo Don Bosco, terra dei santi e del vino». Accostare «santità» e «vino» non appare agli abitanti del paese una dissacrazione. A parte il fatto che Gesù stesso ha fatto uso del vino per darci il più grande regalo che è l’Eucaristia, la coltivazione della vite e l’industria del vino fanno veramente parte della vita della gente e anche dell’infanzia dei loro quattro santi.
Il capostipite dei santi castelnovesi fu san Giuseppe Cafasso che, nel corso del XIX secolo, infuse ad una schiera di sacerdoti della diocesi di Torino la sua spiritualità seria e misericordiosa, favorita da un’attenta relazione con Dio e allo stesso tempo aperta alla carità verso il prossimo, soprattutto ai poveri e agli ultimi. Non per nulla essi vennero chiamati «Santi sociali».
Don Giovanni Bosco fu l’allievo più celebre di san Giuseppe Cafasso, mentre il beato Giuseppe Allamano, nipote di sangue, seppe ereditare in maniera esemplare lo stile di vita e di santità dello zio.
Fin da secoli lontani, l’industria del vino è sempre stata caratteristica di Castelnuovo che, grazie alla sua posizione geografica, si presenta ricca di vigneti che producono principalmente il Malvasia e il Freisa d’Asti. Le sue varie frazioni sorgono infatti su assolate colline, molto favorevoli alla coltivazione di questi vitigni. Introducendo un suo scritto inedito sulla vita del santo zio Giuseppe Cafasso, Giuseppe Allamano così amava descrivere in maniera un po’ poetica il paese nativo: «A dieci miglia circa da Torino, per quella parte che volge a oriente, posa sull’estremo declivio di lunga collina a destra ed a sinistra circondata da ridenti colli ricchi di vigneti che gli fanno nobile corona, con davanti verdeggiante e deliziosa pianura, Castelnuovo d’Asti, paese assai considerevole pel numero dei suoi abitanti e piccolo centro di commercio e di comodità pei molti paeselli che gli stanno vicino».
Giuseppe Allamano non ha mai lavorato nelle vigne, dato che all’età di 10 anni ha lasciato Castelnuovo per Torino per continuare i suoi studi nel Convitto di Don Bosco. Tuttavia i ricordi dei lavori della sua gente sono sempre stati vivi e presenti nella sua mente e hanno plasmato in qualche modo anche il suo carattere e personalità. Per lui la vita dei contadini tra le vigne di Castelnuovo si identificava con laboriosità, lavoro duro e diuturno, e propensione al servizio. Tali caratteristiche avrebbe trasmesso con insistenza ai suoi missionari e missionarie. Diceva loro: «Un missionario che non sappia e non abbia voglia di lavorare, non è un vero missionario». Era sua convinzione che il lavoro rende solidali con le persone umili e attenti ai bisogni dei poveri.
padre Piero Trabucco
La passione di dio
«Abbiate gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo» (Fil 2,5): l’esortazione di san Paolo ai Filippesi si addice bene all’identità del beato Allamano che, come profeta, ha saputo condividere la «passione» di Dio per l’umanità.
Passione e compassione
Sono molti i testi biblici che ci mostrano come Dio provi affetti ed emozioni, partecipi alle vicende umane ed entri nelle peripezie della storia: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Es 3,7). È un Dio al cui essere appartiene il «pathos». Egli soffre e sperimenta sentimenti, commozioni, passioni. Dio esprime questo suo essere coinvolgendosi nella storia umana, perché la vera passione è «com-passione», assunzione di responsabilità. È così che la passione di Dio per l’umanità porta all’Incarnazione. Gesù Cristo è risposta d’amore e passione per ogni uomo e ogni donna.
I profeti hanno avuto una comprensione di Dio non teorica, ma reale, fino al punto di lasciarsi coinvolgere totalmente nella sua passione per l’umanità, come Geremia: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre. Mi dicevo: non penserò più a Lui, non parlerò più in Suo nome. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente» (Ger 20,7.9). Così il profeta è l’uomo che, in comunicazione con Dio, si identifica con il suo amore per l’umanità, in una partecipazione «appassionata» e «responsabile» agli eventi.
Una vita nella luce del profetismo
L’Allamano è profeta perché è in comunicazione permanente con Dio e da Lui si lascia coinvolgere profondamente. Vive per compiere la sua volontà, come afferma: «Credetemi, c’è niente di più consolante e tranquillo che aver fatto la volontà di Dio».
In forme diverse la Parola di Dio è rivolta all’Allamano, per portarlo alla coscienza di una personale esperienza di Cristo «Missionario del Padre» che è mandato e che manda.
In questa comunicazione, il nostro fondatore viene coinvolto «empaticamente», vale a dire in modo da condividere i sentimenti e la passione di Dio, in un certo senso la sua «sofferenza», per il suo popolo. Alla domanda: «Come dobbiamo amare Dio?», l’Allamano risponde: «Con tutta l’anima. La volontà la diamo tutta a Dio, non volendo che ciò che egli vuole e come lo vuole».
Profeta in ogni attività sociale e apostolica
L’Allamano è attento alle necessità del suo tempo e partecipa alla «passione» di Dio nelle molteplici attività in favore della promozione umana, ispirato dalla celebre enciclica «Rerum Novarum» del papa Leone XIII. Così, attorno al santuario sorgono alcune associazioni che, nella loro denominazione sociale, portano il nome della Consolata, quali: «Pia unione della Consolata fra le operaie-Tabacchi»; «Pia unione della Consolata fra le tessitrici»; «Pia Unione della Consolata fra le operaie del cotonificio Poma»; «Laboratorio della Consolata», per la preparazione professionale e morale di innumerevoli lavoratrici e dirigenti. Inoltre, l’Allamano incoraggia la stampa cattolica, in un momento in cui pochi vi credono, offrendo appoggio morale e aiuti finanziari.
Un altro impulso profetico dell’Allamano lo troviamo nel suo interesse, oltre che per la formazione spirituale e apostolica, anche per quella sociale del clero, che lo porta ad organizzare, nel Convitto Ecclesiastico, corsi di sociologia teorica, diritto finanziario, sociologia pratica. Il periodico «Difesa e Azione» così descrive questa ispirazione: «Possiamo annunziare con viva soddisfazione che il Rev. Can. Allamano, il quale ha sempre avuto un’intuizione precisa dei bisogni dei tempi, intende che il corso di sociologia abbia a formare parte integrante dell’insegnamento del Convitto». Questi corsi hanno la motivazione di fare comprendere ai giovani sacerdoti i grandi movimenti politici, sociali e religiosi del momento, per non rimanere tagliati fuori dai problemi più importanti della diocesi e del mondo.
L’ispirazione profetica più significativa
Gli istituti missionari dell’Allamano costituiscono l’ispirazione profetica più significativa, o meglio, il punto di arrivo di tutte le altre attività che realizza, non tanto come una serie di piccoli progetti, ma come provvidenziale preparazione alla fondazione stessa.
L’ispirazione fondamentale di dare vita agli istituti missionari per l’Allamano non proviene da un’esperienza mistica, o da un’improvvisa illuminazione interiore, ma è frutto della sua capacità di leggere e comprendere le necessità apostoliche del suo tempo (situazione storica sociale e religiosa; persone, avvenimenti, ecc.), e soprattutto della comunione con Dio, centro della sua vita.
L’Allamano è uomo di grande fede e molto realismo. Per esempio, in riferimento alla sua guarigione da molti ritenuta prodigiosa, secondo la testimonianza di padre Lorenzo Sales, l’Allamano confida con semplicità: «Non c’è da pensare che vi siano state rivelazioni; né le cerco né le desidero. Quando ero presso a morire feci promessa, se fossi guarito, di fondare l’Istituto. Guarii e si fece la fondazione. Ecco tutto».
L’Allamano ha le idee chiare ed è convinto che l’opera è di Dio e che è Lui a portarla avanti: «Ecco, questa casa l’ha posseduta fin dal principio Nostro Signore ed è proprio sua, come un campo è del suo proprietario; quindi, non dite goffaggini col dire che il tale o il tal altro l’ha fondata, no, no, è la
Madonna che la fondò, ed il principio è venuto da Nostro Signore».
Figli e figlie dell’Allamano, con gioia continuiamo a contemplare il nostro padre fondatore come «profeta-voce di Dio» che ci invita a condividere con lui la «passione-amore» di Dio in favore di tutta l’umanità.
suor Luz Mery Restrepo González
UMILI, ULTIMI, EUCARISTICI
Domenica 28 agosto, nella casa generalizia delle missionarie della Consolata, le due famiglie fondate da Giuseppe Allamano si sono riunite attorno a mons. Giorgio Marengo, prefetto postolico di Ulaanbaatar, Mongolia, creato cardinale da papa Francesco nel Concistoro del giorno precedente.
Nella sua riflessione, il neo cardinale, illuminato dalle letture della 22ª domenica del tempo ordinario (ciclo C), ha ricordato aspetti che appartengono all’insegnamento del fondatore, alla tradizione dell’istituto e sono una chiara indicazione su come essere cardinale missionario.
Che avrebbe potuto dire il nostro fondatore se avesse visto un suo figlio, missionario della Consolata, diventare cardinale? La Parola di Dio di questa domenica può rispondere a questa domanda e ci propone tre criteri che non sono affatto lontani dalla spiritualità di Giuseppe Allamano e che devono essere presenti nella vita del cardinale missionario della Consolata.
La prima lettura tratta dal libro del Siracide, parla in modo eloquente dell’umiltà. «Quanto più sei grande, tanto più fatti umi-le perché ai miti Dio rivela i suoi segreti» (cf. Sir 3,18-19); in cambio la condizione dei superbi è descritta come misera. Gesù ha preso l’ultimo posto e, come dice san Paolo, se vogliamo vantarci, dovremmo farlo perché lui ci ha chiamati, e non per altri motivi.
Anche il Vangelo tocca lo stesso argomento quando dice che i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi sono i primi invitati al banchetto del Regno (cf. Lc 14,13), e noi siamo quei poveri che sono i privilegiati del Vangelo. L’umiltà quindi, non può mancare nella vita del missionario della Consolata e nemmeno in quella del cardinale missionario della Consolata.
La seconda lettura, una bellissima pagina tratta dalla Lettera agli Ebrei, la voglio leggere in chiave eucaristica perché ci manifesta un aspetto molto tipico della vita del missionario e missionaria della Consolata. L’autore di questo scritto dice che «Non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità» (Eb 12,18), quelle sono manifestazioni potenti e misteriose del Dio dell’Antico Testamento, ma «vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente… a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova» (cf. Eb 12,22-24). Non dimentichiamo che quando ci avviciniamo all’Eucaristia ci stiamo avvicinando a Gesù in persona. Quello che i nostri occhi vedono sono i segni umili e poveri del pane e del vino nel quale Gesù si fa realmente presente alla nostra vita quotidiana. Lui lo fa rispettando fino a tal punto la nostra libertà che in quei segni diventa piccolo e quasi invisibile.
Giuseppe Allamano tutto questo l’aveva nel cuore: l’Eucaristia è il fine della missione, perché come meta abbiamo la costruzione di una comunità convocata attorno alla Cena del Signore, ma è anche il principio perché nell’Eucaristia trova la sua origine la missione come testimonianza, carità e giustizia.
Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero eucaristici perché dall’Eucaristia nasce il servizio verso i più poveri e l’annuncio del Vangelo nei tanti contesti nei quali siamo chiamati a evangelizzare. Anche questo è un criterio valido per il cardinale missionario della Consolata.
Il Vangelo di Luca forse non ha bisogno di spiegazioni perché stabilisce in modo lampante la logica che lo sottende: i nostri posti sono gli ultimi e non i primi. «Non metterti al primo posto, ma vai a metterti all’ultimo perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (cf. Lc 14,8-11). La logica del Vangelo, che è molto diversa da quella del mondo, si vive stando nell’ultimo posto e non nel primo. E questo vale per tutti noi missionari della Consolata, anche per il cardinale.
Il Signore conclude la pericope con questa frase: «(Al tuo banchetto) invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14,13-14). Spesso nella vita finiamo sempre per fare qualche calcolo del tipo: «Se sono una persona buona e onesta ho diritto almeno a qualcosa… se faccio un gesto di carità mi dovranno almeno dire grazie».
Un famoso poeta mongolo, morto non molti anni fa, Dashbalbar, scrisse questo verso in una poesia titolata «Sii come il cielo»: «Qualunque cosa ti succeda, sia che ti applaudano o ti insultino, tu sii amplio come il cielo».
Nella nostra vita missionaria ciò che domina non è il calcolo ma la gratuità, uno dei segni più coerenti con la logica del Vangelo dove tutti siamo figli dello stesso Padre «che fa sorgere il suo sole su cattivi e buoni, e fa piovere su giusti e ingiusti» (cf. Mt 4,45).
Gli esempi di chi vive secondo la logica del Vangelo li abbiamo a casa nostra, nei nostri santi: il beato Giuseppe Allamano e le beate Irene Stefani e Leonella Sgorbati. Nei diari di Leonella si riporta una frase che dice: «… ma quando potrò fare un gesto di gratuità pulito, senza attendere niente in cambio?». Lo Spirito l’ha plasmata e alla fine è stata così somigliante al Cristo da versare il suo sangue mescolandolo anche con quello delle sue guardie del corpo che erano di fede mussulmana; morendo ha detto tre volte «perdono».
Nella tradizione orientale i santi sono chiamati «i somigliantissimi» perché assomigliano in tutto e per tutto a Gesù. La vocazione missionaria ci mette nella condizione degli apostoli e ci porta dove il Vangelo non è ancora conosciuto. Là, dobbiamo essere una chiesa umile, eucaristica, ultima fra gli ultimi e costruita secondo la logica del Vangelo. Dobbiamo essere «somigliantissimi»; santi come diceva il fondatore.
Giorgio cardinal Marengo
Brasile. Vita di favela (con o senza virus)
testo e foto di Gianluca Uda |
Nella favela chiamata Che Guevara vivono circa 30mila persone. In condizioni abitative, igieniche e sociali difficili. Oggi peggiorate a causa dell’arrivo del nuovo coronavirus.
Belém. Il cielo nuvoloso oggi è il campo dove aquiloni colorati lottano tra di loro. Trapezi che sfrecciano con i loro stemmi di Batman, Superman o altri personaggi legati alla fantasia dei più piccoli. Questa è la guerra aerea dei bambini della favela che, con i loro fili di nylon tesi, si scontrano nel cielo con gli aquiloni rivali.
In realtà è un gioco considerato illegale: i fili di nylon che tengono legati gli aquiloni colorati vengono infatti cosparsi di minuscoli frammenti di vetro (in genere si usano quelli delle lampadine). Quando due aquiloni arrivano allo scontro, succede che uno venga tagliato dal filo rivale ed eliminato.
È un gioco illegale perché potenzialmente pericoloso. Il filo trasparente, soprattutto per chi passa in moto o in bicicletta, può provocare ferite. Inoltre, molto spesso cavi della luce o linee internet vengono recisi. Tuttavia, quando entra in favela, la polizia ha cose ben più gravi da risolvere.
Nel complesso urbano di Belém, capitale dello stato del Parà nel Nord Est brasiliano, questo gioco costa al municipio ogni anno diverse riparazioni di fili elettrici troncati. Oggi però non è tanto il problema del gioco degli aquiloni a preoccupare il municipio, quanto l’assembramento di bambini lungo le strade periferiche.
La pandemia legata al Covid-19 è entrata nelle vite del popolo brasiliano. E tristemente le zone più colpite sono le aree suburbane delle grandi città come Belém, divenuta questa l’epicentro della diffusione del virus nella zona Nord Est della nazione.
Favela Che Guevara
Il complesso suburbano di Belém è composto da piccole città, luoghi poveri dove gli abitanti difficilmente riescono ad arrivare a fine mese, soprattutto ora che, a causa della pandemia, molte attività sono state chiuse.
Che Guevara è una favela di circa trentamila abitanti. Oggi è registrata come barrio Almir Gabriel e si trova nella periferia della città di Marituba che dista circa dieci chilometri da Belém, ma per tutti rimane favela Che Guevara.
La favela è nata nel 1997 a seguito della più grande occupazione di massa di tutto il Sud America, quando un centinaio di persone, che non aveva né casa né un’impiego fisso, hanno occupato i terreni dell’attuale favela. Spinti da un ideale socialista di riscatto, hanno preso possesso di quegli spazi e da allora non se ne sono più andati. Oggi la storia dell’invasione è raccontata come una vera e propria leggenda anche perché sono ancora in vita pochi degli autori di quella piccola grande impresa.
La favela ha un’unica strada asfaltata, vero e proprio cuore pulsante della piccola comunità.
È la via commerciale, dove barbieri, piccoli mercati, pescivendoli e farmacie cercano a fatica di sopravvivere. Una linea retta, con l’asfalto che sembra sbriciolarsi nelle giornate di sole. Qui, oltre ai mercati, si trovano le scuole e le varie chiese, pentecostali, evangeliche e, in fondo, quasi nascosta, anche quella cattolica.
Tutte le altre stradine o traverse sono in terra battuta e le fogne corrono a cielo aperto lungo i lati di tutte le strade, anche di quella asfaltata, rendendo l’aria pesante e l’igiene della comunità incerta.
In questo luogo le stagioni sono due e gli abitanti del posto scherzano su questo: «Qui nel Parà o tutti i giorni piove o tutto il giorno piove». Queste sono le stagioni.
Già da marzo il nuovo coronavirus è entrato nel complesso suburbano, ma gli ultimi mesi sono stati quelli più complicati. Il sindaco di Belém, Zenaldo Coutinho, ha ordinato un lockdown preventivo, ma quasi nessuno della comunità di Che Guevara vi ha prestato molta attenzione. Il 25 maggio hanno iniziato a riaprire quasi tutte le attività commerciali, anche se, in realtà, la diffusione del virus non era in calo. I timori della classe politica locale si sono però rivolti verso l’economia: sembrerebbe che, per molti, la paura maggiore sia la crisi economica che, in verità, già ha manifestato i suoi effetti.
Molte persone, soprattutto quelle che vivono ai margini, hanno perso il lavoro; i beni di prima necessità, come il riso e i fagioli, stanno drasticamente aumentando di prezzo.
Per tutto questo, le fasce più vulnerabili hanno iniziato ad avere timore per il loro futuro.
Gli ospedali e i posti di salute vicino alla favela Che Guevara sono tutti al collasso. Molti medici non operano più perché sostengono di aver contratto il virus. Secondo gli abitanti della zona, invece, non vogliono rischiare di ammalarsi, soprattutto se devono salvare le vite di qualche favelado.
Durante le prime settimane di quarantena preventiva, era quasi impossibile trovare mascherine o alcol gel, la nostra Amuchina. In favela, molte donne cucivano le mascherine a mano, per poi rivenderle a buon prezzo, ma oggi le esigenze sono cambiate dato che il virus ha stravolto la vita quotidiana.
Con la chiusura delle scuole, molte donne si sono trovate costrette a rinunciare ai loro piccoli lavori per dedicarsi ai figli.
Storia di Luiziana
Molte famiglie della comunità sono state contagiate dal virus. Come nel caso della famiglia di Luiziana. Il marito della donna lavora per una ditta che distribuisce carne di bovino nei mercati e negozi del centro di Belém. L’uomo, quarantenne, ha iniziato a sentirsi male durante le prime settimane di maggio e poco dopo ha contagiato tutta la famiglia.
I figli adolescenti non hanno avuto grandi ripercussioni, mentre Luiziana e il marito non riuscivano nemmeno a respirare. La donna aveva tutti i sintomi del Covid-19, ma non le hanno fatto alcun tampone. Dopo aver eseguito una radiografia ai polmoni, e vedendo che le condizioni si stavano aggravando, il medico le ha prescritto una serie di antibiotici che fortunatamente hanno scongiurato il peggio.
Lei, come il marito, hanno contratto il coronavirus, ma non sono stati inseriti nei conteggi nazionali. Questo avviene molto spesso anche per le morti legate al Covid-19, perché, non venendo fatti gli esami di accertamento, esse vengono classificate come morti comuni o morti per insufficienza respiratoria. Attualmente (13 luglio) il Brasile ha superato i 72mila decessi, ma la realtà potrebbe essere molto più tragica.
Il marito di Luiziana, una volta attenuatisi i sintomi della malattia, non ha fatto nemmeno i quattordici giorni d’isolamento preventivo ed è rientrato subito a lavorare per non perdere l’unica entrata sicura di cui la famiglia può disporre. Il suo datore di lavoro gli ha detto di non preoccuparsi. Sicuramente anche tutti i suoi colleghi avevano contratto il virus e quindi era meglio per lui rientrare se non voleva perdere il posto. L’uomo, padre di due ragazzi, non ha avuto altra scelta.
Luiziana lavorava part time come donna delle pulizie in una scuola vicino alla favela, ma con la chiusura di quest’ultima è stata licenziata. Lavorando senza contratto purtroppo non ha nessun tipo di garanzia.
Lo stato brasiliano ha stabilito di elargire 600 reais emergenziali per famiglie o persone in difficoltà. Una somma certo insufficiente ma fortunatamente Luiziana è riuscita almeno a farsi assegnare questo sussidio.
Non avendo un’assicurazione sanitaria buona, lei e il marito hanno dovuto pagare quasi tutto di tasca propria: le medicine per lei, il marito e i figli e poi le radiografie. Il tutto è venuto a costare come la somma di due mesi di lavoro suoi e del marito. Ora sono fuori pericolo, ma Luiziana sente ancora nel suo corpo i postumi del virus e ha qualche problema a fare sforzi.
Chiese e famiglie
Nella comunità di Che Guevara, le chiese evangeliche e pentecostali non hanno mai chiuso. Solo alcune di esse hanno rispettato il distanziamento sociale. La chiesa cattolica invece ha riaperto a inizio giugno, ma può ospitare solo il dieci per cento della capienza totale e ogni fedele deve presentarsi alle funzioni con la mascherina.
La favela non poteva fermarsi, le persone più vulnerabili come gli anziani o quelle con problemi fisici hanno rispettato l’isolamento, mentre tutti gli altri dovevano in qualche modo portare a casa il pane o il riso.
Oltretutto la maggior parte delle abitazioni sono dei veri e propri tuguri, dove le famiglie vivono ammassate in una o due stanze. Case fatiscenti fatte con foratini e cemento, sprovviste di intonaco. Nella comunità ogni abitazione ha le grate in ferro ancorate a porte e finestre. Se non prendono delle precauzioni, quel poco che uno ha, potrebbe sparire.
La vita nella favela è poi resa più complicata, violenta e pericolosa a causa della presenza di un gruppo di narcotrafficanti appartenenti al Commando Vermejo (organizzazione criminale nata nel 1979, ndr). Sono loro che gestiscono ogni cosa.
In queste situazioni estreme molti bambini si ritrovano a passare gran parte del loro tempo in strada, giocando con gli aquiloni o pescando nelle fogne che costeggiano le strade.
Molti bambini della comunità vivono con i nonni che, tuttavia, spesso non riescono a stare dietro ai loro nipoti.
La maggioranza dei nuclei familiari è disgregata e questo si deve a varie cause, ad esempio l’uso o lo spaccio di droga. Tante volte gli uomini della comunità non si prendono le loro responsabilità e le donne sono costrette a caricare su di sé tutto il peso della propria famiglia.
Accade però che anche loro, le donne, a volte decidano di vivere con altri uomini che ripudiano i figli delle loro vecchie relazioni, e questo costringe i nonni a farsene carico. Vite che camminano al limite, sempre in bilico, ostaggi di una società che non ha uno spazio adeguato per loro. Musica e miseria s’intrecciano nel dedalo delle viuzze in terra battuta, dove ogni bambino cerca un suo modo personale per poter sopravvivere in un luogo così difficile come la favela.
Storia di George
Forse però il disagio più grande lo vivono le persone con problemi di disabilità. Come nel caso di George, un ragazzo di diciassette anni con una patologia neurologica. Il giovane ha anche una forma di asma molto grave e i genitori hanno dovuto costringerlo a casa durante la quarantena per evitare ogni rischio di contagio.
George è uscito con i genitori una sola volta, per farsi il vaccino dell’influenza comune. Gli assistenti sanitari non lo hanno nemmeno fatto scendere dalla macchina, ma gli hanno somministrato il siero direttamente nella vettura.
Le circa trentamila vite che popolano la comunità Che Guevara, ogni giorno debbono affrontare una loro piccola lotta personale. Oggi, con l’emergenza legata al coronavirus, ogni minima situazione di disagio sembra essersi amplificata a dismisura.
Fortunatamente quella grande anima latina che occupa il cuore delle persone sembra non cedere allo sconforto. La forza della vita è un suono dolce e profumato che ancora resiste.
Gianluca Uda*
(*) Nato a Roma nel 1982, Gianluca Uda ha lavorato come cooperante in paesi in via di sviluppo tra cui la Bolivia, il Bangladesh, il Kenya, l’Ecuador. Attualmente lavora in Brasile. Ha appreso la fotografia grazie al padre Francesco. Usa il mezzo fotografico come strumento di denuncia sociale.
Adozioni: Tutte le tessere del puzzle
testo di Paola Strocchio |
Per un figlio adottivo, arriva il momento nel quale le domande sulle proprie origini si fanno pressanti. È un’esperienza necessaria per la crescita individuale. Ma non è senza rischi.
Per chi, come la maggior parte delle persone, è abituato a conoscere i dettagli del proprio passato, forse sarà sorprendente scoprire che non per tutti è così. Per chi è stato adottato, le incertezze sono tante. Ed ecco che quello che psicologi e assistenti sociali chiamano il «ritorno alle origini» equivale al tentativo di chiudere un cerchio. Quasi si volesse completare un puzzle in cui mancano tasselli importanti, a partire dalla nascita: dove e quando?
Se abitualmente le persone danno per scontati la loro precisa data di nascita e il luogo, ce ne sono tante che invece non li sanno. Sono incertezze importanti, che vanno ben al di là del conoscere il proprio segno zodiacale o l’ascendente. Significa non sapere da dove si arriva, da chi si è nati. Spesso, quindi, in maniera assolutamente sana, nasce nei figli adottivi il bisogno o semplicemente il desiderio di conoscere le proprie origini. Di assaggiare le ricette tipiche del paese in cui si è nati, di annusare gli odori di una terra cui in qualche modo si è appartenuti, o magari di scoprire le proprie origini biologiche. È un’esperienza che non tutti necessariamente scelgono di vivere, ma che quando se ne sente il bisogno è come un fiume in piena, di emozioni e di paure.
Come ogni esperienza importante, va pianificata e preparata, tenendo conto di quello che potrà accadere.
Per il figlio adottivo si tratta indubbiamente di un’opportunità importante per il suo processo di crescita, di un viaggio che serve a riappropriarsi di una parte di sé per integrarla con quella sviluppata invece in Italia, ma è fondamentale individuare il momento giusto. Ci sono indicatori oggettivi cui prestare particolare attenzione per capire se può essere davvero il momento opportuno. L’età anagrafica, per esempio. È imprescindibile che il figlio adottivo possa comprendere davvero cosa sta succedendo, così come è fondamentale individuare quale tipo di attaccamento il ragazzo abbia sviluppato con i suoi genitori adottivi e quali sono le domande che si pone su quello che è stato e rimane un evento traumatico della sua vita: l’abbandono.
Cercare le radici
Ha provato a spiegarlo Cosmin, 24 anni, che da quando di anni ne ha cinque e mezzo è figlio di Francesca e Gianpaolo grazie all’adozione internazionale, quell’istituto che ha permesso a Cosmin di vedere rispettato il diritto più importante di un bambino: avere una famiglia.
Ci racconta Cosmin: «Qualche anno fa ho capito che era arrivato il momento di ritrovare le mie radici, di sentire il profumo della mia terra di origine, di ritrovare piccoli ricordi e provare a ricostruire il puzzle della mia vita. Da qualche tempo mi confrontavo con un punto interrogativo importante: da dove arrivo? In alcune occasioni i punti interrogativi, che allora erano senza risposta, mi portavano negatività e rabbia, perché mi sentivo lontano dall’obiettivo finale. La frustrazione era davvero tanta».
Cosmin ha trovato nei suoi genitori adottivi due alleati preziosi, anche se comprensibilmente disorientati, soprattutto nei primi momenti. «Credo abbiano avuto paura di perdermi, come se questo mio viaggio stesse a significare che volevo tornare dalla mia famiglia di origine – spiega -. Non era così, naturalmente. Siamo una famiglia, e lo siamo da quando mia mamma e mio papà sono venuti in Romania ad adottarmi. Sono riuscito a spiegare loro che ritrovare le mie origini non voleva dire scappare da loro, ma semplicemente dare a me stesso, la possibilità e la libertà di scoprirmi e di scoprire anche la cultura che in qualche modo mi appartiene. Loro mi hanno dato un presente e un futuro: mi hanno dato la possibilità di crescere e di diventare quello che sono». Ma l’adozione non è e non deve essere gratitudine. Adottare un figlio significa accoglierlo e sostenerlo anche nei momenti più delicati, anche quando palesa il desiderio di scoprire da dove arriva.
Mamma Francesca e papà Gianpaolo lo sapevano bene, e proprio per questo non hanno mai fatto mancare il loro sostegno.
Una presenza discreta
Ci racconta la madre adottiva di Cosmin: «Immaginavo che prima o poi sarebbero arrivate le tanto sospirate domande con cui ogni genitore adottivo deve confrontarsi. Non ho avuto paura, perché non ho mai avuto dubbi sull’intensità del legame che c’è sempre stato tra noi genitori e nostro figlio, ma ammetto di essermi sentita un po’ disorientata. Nonostante questo, ho sostenuto Cosmin come era giusto che fosse. Mi sarebbe piaciuto accompagnarlo nel suo viaggio di ritorno alle origini, ma sapevo che la cosa giusta da fare era stargli accanto rispettando le sue scelte e non imponendo la nostra presenza. Ormai è grande…».
E così, con la loro presenza discreta ma continua, Francesca e Gianpaolo hanno accompagnato il loro ragazzo all’aeroporto, destinazione Londra, dove vive la sua famiglia biologica.
Ci racconta Cosmin: «Dopo tanti anni ci siamo incontrati. Ricordo il primo abbraccio con la mia madre biologica, che aveva lasciato la Romania per trasferirsi a Londra assieme ad altri componenti della famiglia. Le ho fatto un sacco di domande, ma tante sono ancora senza una risposta, anche oggi. Adesso però, nonostante tutti quei punti interrogativi, posso dire di avere aggiunto un piccolo pezzo al puzzle della mia vita. È stato un incontro difficile da descrivere, da raccontare e anche da condividere, ma è stato anche un grande momento di crescita. Nei mesi precedenti, durante tutta la fase di ricerca, mi facevo tante domande e sapevo che le risposte avrebbero potuto anche farmi del male, ma ne è valsa la pena e in qualche modo sono cresciuto».
Quando partire
Chiudere il cerchio, capire cosa ci fosse dietro l’abbandono, ha aiutato oggettivamente Cosmin a fare pace con il proprio passato, con ricadute positive anche sul presente e sul futuro. Continua a raccontarci: «Da quando ho ritrovato le mie origini mi sento meno teso e decisamente più sollevato. Sono convinto che nella mia vita si sia in qualche modo formata una rete familiare più sicura, in cui i rapporti sono più intensi e più veri. Ho capito finalmente cosa significa davvero essere adottato».
La stessa consapevolezza che oggi accompagna la vita di Francesca, che ha ritrovato un figlio più maturo e più sereno: «Ricordo perfettamente il momento della sua partenza. Mi ha salutato e mi ha detto che sarebbe tornato il giorno prima del mio compleanno, il 9 febbraio. Quelle sue parole hanno avuto un significato particolare per me: era come se mi volesse dire che sarebbe tornato da noi, che non se ne stava andando via per sempre. Voleva rassicurarmi, e lo ha fatto a modo suo. È stato un momento molto commovente e riabbracciarlo quando è tornato è stato un istante unico e impossibile da descrivere. È stato lì che ho capito che aveva davvero bisogno di chiudere quel suo cerchio, di capire qualcosa in più sulla sua vita. Spesso nell’adozione internazionale si hanno poche informazioni sul passato dei propri figli, e anche per noi era così. Credo che Cosmin abbia individuato il momento giusto per partire alla ricerca delle sue origini.
Il “quando” è un elemento fondamentale nel percorso, perché devi essere pronto, devi avere tutti gli strumenti necessari per affrontare un percorso di crescita importante, che in qualche occasione può fare anche male». Ma che indiscutibilmente aiuta a crescere, nella propria individualità ma anche nell’essere famiglia.
«Come dico ai genitori e ai ragazzi che a volte si rivolgono a me in cerca di un consiglio – continua Cosmin – è importante compiere questo percorso di ritorno alle origini insieme con le persone di cui ci si fida. Non mi riferisco a una compagnia fisica, perché, nel mio caso, per esempio, ho affrontato il viaggio da solo, senza la mia famiglia adottiva. Mi riferisco a un certo tipo di sostegno che non deve mai mancare, perché provare scoprire dove si è nati e da dove si arriva, è un viaggio difficile e doloroso. Mi sono arrabbiato tante volte, lo ricordo come se fosse ieri. Ma i figli devono sentirsi liberi di prendere le loro decisioni: per esempio, io ho preferito affrontare il viaggio da solo perché mi sarei sentito un po’ confuso a partire con mia mamma e mio papà.
Parlatene con i vostri amici, e preparatevi psicologicamente a un’esperienza che vi cambierà la vita, indipendentemente dal fatto che possiate tornare a casa con qualche informazione in più sul vostro passato oppure no. Preparatevi, perché vi assicuro che non sarete le stesse persone che sono partite. Ai genitori, invece, dico che noi figli sappiamo bene che a volte avete paura di perderci, ma non ci state perdendo. Ci state soltanto accompagnando, anche se magari a distanza, in quello che è il nostro percorso di crescita».
Paura, curiosità e consapevolezza
Essere genitore, del resto, è uno dei mestieri più difficili del mondo. Ma proprio come in ogni «professione» non si finisce mai di crescere e di imparare. Così è successo a Francesca: «A tutti i genitori che si ritrovano a vivere un’esperienza come quella che ho vissuto con mio figlio mi sento di dare un solo consiglio: stategli vicino, sempre e comunque. Accompagnatelo in questa esperienza, e aiutatelo a mettere in valigia tutti gli strumenti di cui ha davvero bisogno: dalla paura, che è un sentimento assolutamente sano, alla curiosità, unite alla consapevolezza di come, una volta tornati da quel viaggio, non si sarà più le stesse persone. Mio figlio è cambiato molto in questi ultimi anni. È cresciuto, è maturato. Sono certa che questo viaggio abbia contribuito a farlo diventare l’uomo che è adesso, con le sue fragilità e con la sua forza. Un ragazzo splendido, che mi rende orgogliosa di essere sua madre».
Se Cosmin ha scelto di affrontare da solo quello che è stato il viaggio più importante della sua vita, c’è anche chi sceglie di condividere l’esperienza con la propria famiglia adottiva. Del resto non esiste un libretto di istruzioni: ogni esperienza è a sé, proprio come ciascuno di noi ha la propria individualità, i propri bisogni e i propri desideri.
Il viaggio di Sara
«Ho fatto il viaggio di ritorno alle origini dopo aver scritto una tesi di laurea sull’adozione (in scienza della formazione primaria) e dopo aver incontrato una quarantina di famiglie adottive. Aver analizzato l’adozione attraverso l’esperienza di altre persone è stato fondamentale per farmi sentire finalmente pronta a partire per il Brasile – ci racconta Sara Anceschi, insegnante di trentacinque anni, adottata quando aveva soltanto pochi mesi -. Appena atterrati a Salvador de Bahia mia mamma mi disse di annusare l’aria del mio paese, per capire se avessi dei rimandi atavici particolari. Ero molto emozionata, ma quando scesi dall’aereo rimasi delusa perché, pur respirando a pieni polmoni, non sentii nulla di famigliare. Avevo atteso ventitré anni per ritornare nel mio paese di origine e ora che finalmente ero arrivata, non provavo assolutamente nulla. I profumi e gli odori erano completamente diversi da quelli cui ero abituata e, soprattutto, a quelli che avevo immaginato. Mi sentivo confusa in quel luogo in cui pensavo che invece mi sarei sentita a casa. Questa sensazione è cresciuta con il passare dei giorni, perché girando per Salvador de Bahia mi sentivo osservata in modo particolare. Percepivo sguardi che non avevo mai colto in Italia: la gente del posto mi guardava insistentemente… in fondo ero somaticamente uguale a loro, ma non capivo né parlavo la loro lingua. Questi sguardi curiosi e insistenti della gente del posto mi infastidivano, tanto più che non avevo mai percepito nulla del genere a Torino: tornavo nel mio paese di nascita e mi sentivo una straniera. Questo viaggio è stata un’esperienza importante perché mi ha permesso di “fare pace” con il mio passato e con la mia madre biologica.
Ho trascorso gli ultimi giorni in Brasile con uno stato d’animo particolare: non vedevo l’ora di tornare a casa, dove sarei ritornata a essere una ragazza come tante. In aeroporto, pronti per tornare in Italia, è capitato poi l’episodio più bizzarro. I funzionari non volevamo lasciarmi partire: il mio passaporto era in regola, ma sostenevano che fossi una clandestina in procinto di lasciare illegalmente il paese. Furono attimi di grande concitazione: mi innervosii e spiegai in inglese la mia situazione. I funzionari si rivolsero a me con un atteggiamento marcatamente razzista e di disprezzo. Dopo mezz’ora la situazione si appianò, ma ero contenta di lasciare quel Brasile che mi aveva profondamente delusa. Nonostante questo, a distanza di dodici anni, oggi spero di poterci tornare, per far conoscere il mio paese di nascita ai miei figli e a mio marito». Un altro preziosissimo pezzo di puzzle da aggiungere, anche in età adulta.
Paola Strocchio
Colloquio con la dottoressa Cinzia Riassetto
Perché il ritorno alle origini
«Per un figlio adottivo la possibilità di tornare nel paese di origine rappresenta un’opportunità molto importante nel suo personale processo di crescita. Rivedere il posto dove è nato, i luoghi in cui ha vissuto, le prime tappe della vita, incontrare magari persone che lo hanno conosciuto e gli hanno voluto bene, rappresenta un modo molto efficace per riappropriarsi di una parte importante di sé e integrarla con l’identità del presente».
È la dottoressa Cinzia Riassetto, psicologa e psicoterapeuta con indirizzo sistemico relazionale nel campo delle adozioni internazionali dal 2001, a spiegarci cosa si nasconde dietro al desiderio – sano e legittimo – di un figlio nato in un paese lontano, che sceglie di scoprire le proprie origini. Nel corso degli ultimi anni, la dottoressa Riassetto ha accolto decine di ragazzi, spesso giovani adolescenti, che si sono rivolti al Cifa di Torino, ente italiano autorizzato per le adozioni internazionali, per essere guidati in quello che è indubbiamente uno dei viaggi più importanti che le famiglie nate grazie all’adozione possono affrontare nel corso della loro vita. «Il viaggio rappresenta un’occasione preziosa anche per i genitori adottivi che tornano nel paese del figlio insieme con lui, naturalmente quando si tratta di giovani ragazzi che altrimenti non potrebbero affrontare il viaggio da soli – continua a spiegarci la dottoressa Riassetto -. In questo modo si va a condividere questa appartenenza comune e le radici del loro essere diventati famiglia, pur partendo da storie e condizioni di vita così diverse e lontane».
Il percorso di accompagnamento psicologico è previsto sia prima della partenza sia durante il soggiorno nel paese. Continua la dottoressa Riassetto: «Prima della partenza, i nostri psicologi e gli operatori aiutano le famiglie a preparare il loro personalissimo bagaglio emotivo con cui affrontare il viaggio; una volta arrivati là, i referenti che operano sul posto si occupano di accompagnare le famiglie negli spostamenti e nelle visite anche dei luoghi sensibili». L’intervento di un esperto nell’organizzazione del viaggio permette anche di valutare se è effettivamente arrivato il momento di affrontare questa esperienza o se è forse opportuno rimandare di qualche tempo, in attesa di avere tutti gli strumenti emotivi a disposizione. Proprio perché si tratta di un viaggio importante, è imprescindibile avere con sé il «bagaglio» giusto. «È bene che la preparazione venga affrontata con colloqui sia con la famiglia adottiva sia con il ragazzo – continua la dottoressa Riassetto -. Il bagaglio va riempito di aspetti emotivi, cercando di narrare quelle emozioni che lui deve avere nella valigia con cui parte: gioia, ansia, entusiasmo, paura, desiderio. È necessario lavorare sulle aspettative con cui si parte: chi si vorrebbe incontrare? Quali posti si vorrebbe rivedere? E poi: se incontrassi quella persona cosa gli chiederesti? Cosa pensi che potrebbe chiedere lei a te? Questo lavoro lo si fa su un piano simbolico, attraverso narrazioni emotive che la psicologa fa per lui, in un lavoro di immedesimazione, portando dentro di lui pensieri e risposte». È importante anche preparare il ragazzo alle zone d’ombra che incontrerà atterrando nel suo paese. Un paese forse idealizzato in famiglia, ma che non potrà essere romanzato nel momento in cui si toccheranno con mano quei panorami sociali fatti di indigenza, povertà e difficoltà.
Durante questa fase, l’importanza del «bagaglio» è quindi focale, andando a concentrarsi su cosa può essere il ritorno, con un’idea di come si può tornare. Con dei suggerimenti, delle testimonianze di altri ragazzi che hanno affrontato il medesimo percorso. Questo viaggio interiore deve essere costruito parallelamente anche dai genitori: «Il compito del genitore adottivo è quello di accompagnare silenziosamente il figlio senza troppa intraprendenza, con uno stile silenziosamente contenitivo, senza esaltare né limitare il percorso. E questo è possibile solo e soltanto se non ci si sente sostituti dei genitori biologici ma co-presenti con loro».
Paola Strocchio
Missione a km0
Testo di Luca Lorusso
Una nuova forma di presenza della Chiesa
Abitare è annunciare
«Abitare in una parrocchia con i propri figli per un’esperienza di accoglienza, di annuncio del Vangelo, di corresponsabilità pastorale, per dare volto a una Chiesa fraterna e missionaria, per annunciare la gioia del Vangelo nel modo più semplice e vero: da persona a persona», è la frase che campeggia nella parte alta del blog delle Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano: https://famigliemissionariekm0.wordpress.com/
Sono famiglie che annunciano il Vangelo nella quotidianità e nella fraternità, abitando uno spazio ecclesiale, a volte con altre famiglie, con altri laici, a volte con sacerdoti, religiosi o religiose in una bella e feconda sinergia di vocazioni.
Il gruppo di Milano, che al momento è l’unico organizzato, conta già 27 esperienze, ma molte altre ne esistono e ne stanno nascendo in diverse diocesi della Chiesa italiana.
Quattro giovani famiglie vivono gli spazi altrimenti abbandonati della chiesa di San Grato facendo esperienza di fraternità e di servizio alla Chiesa e all’evangelizzazione. Nella semplicità della loro vita quotidiana.
L’appuntamento è per l’ultimo sabato mattina di settembre alla chiesa di San Grato, immersa nel bosco della collina torinese a Est del fiume Po. Lì, in zona Mongreno, vive una fraternità di quattro famiglie, due nella canonica e due in un’altra casa poco distante di proprietà della parrocchia. Sono otto adulti tra i 30 e i 40 anni e sette bimbi tra i 6 mesi e i 7 anni, più un altro in arrivo.
Sono tutti provenienti dal mondo dello scoutismo con un grande desiderio di mettersi a disposizione: della Chiesa e degli altri. Per questo le loro settimane sono scandite da diversi servizi pastorali e dagli appuntamenti di fraternità, oltre che dagli impegni famigliari e lavorativi comuni a chiunque.
Dopo diversi minuti di salita e di tornanti, parcheggiamo l’auto a un centinaio di metri dalla destinazione, di fronte a una piccola struttura che una volta ospitava la scuola elementare di zona, e percorriamo l’ultimo tratto a piedi. L’aria d’inizio autunno è fresca, e c’è un silenzio molto piacevole.
Arriviamo al sagrato della chiesa: un terrazzo stretto tra la facciata seicentesca dell’edificio e la vegetazione che cresce sul terreno scosceso della collina. Ci guardiamo intorno: oltre alle strutture della chiesa non si vede nient’altro che bosco. Le case dei parrocchiani che abitano qui attorno sono tutte sparse per la collina, e lungo la via ne abbiamo intuito la presenza solo dai passi carrai o dalle stradine laterali che s’infilano nel verde.
Fraternità casalinga
Alla canonica di San Grato si accede da un cancello che dà su un cortile, a lato della facciata della chiesetta. Suoniamo il campanello. Viene ad aprirci Massimiliano Grasso, Max per tutti, il più giovane tra gli adulti della fraternità: 30 anni, capelli neri, folti e ricci. Bolle di sapone sparate da una pistola verde e arancio campeggiano sulla sua maglietta nera. Ci accoglie con un sorriso e ci guida alla porta della canonica, una costruzione di due piani addossata al fianco della chiesa. Lui vive al piano terra con la moglie Sara Stilo, 31 anni, e con i loro bimbi Iago, di 2 anni, ed Elia, di 6 mesi.
Entriamo in cucina, dove Sara, capelli neri a caschetto attorno a un viso che pare giovanissimo, ci saluta mentre prepara la pappa per Elia che sorride allegro nel seggiolone. La piccola stanza, che fino a tre anni fa era una saletta parrocchiale, è semplice e accogliente: dentro ci stanno una cucina ad angolo, un divano a due posti, un tavolo per quattro. Le pareti sono organizzate con pensili e mensole carichi di tutto ciò che una giovane famiglia con bimbi piccoli deve avere a portata di mano.
«Lavoriamo tutti e otto – inizia a raccontare Sara -. Io e Serena, un membro della fraternità, lavoriamo insieme. Lei è la mia referente in una cooperativa di animatori. Facciamo attività di educazione al consumo consapevole nelle scuole. Mio marito, invece, è infermiere, ma in questo momento si sta occupando più di educazione che d’infermieristica, in una comunità di ragazzi psichiatrici. Da poco segue un bambino arrivato da un orfanotrofio russo. Avevano bisogno di una figura maschile e gli hanno chiesto se voleva occuparsene lui».
Quattro giovani famiglie
Max esce nel cortile al richiamo di due voci di bimbi, e al suo posto compare Giovanni Messina, 37 anni, che abita con la moglie Enrica Ruffa al piano di sopra. Sente che parliamo di lavoro e si presenta: «Io faccio lo sviluppatore di web e app per una cooperativa. Invece mia moglie è coordinatrice di una struttura di accoglienza della diocesi di Torino che si trova qua vicino, in strada Traforo del Pino. Segue una quarantina di rifugiati provenienti dal Moi (l’ex villaggio olimpico di Torino occupato da migranti e sgomberato a più riprese negli ultimi anni, ndr). Si occupa di tutto: dalla sistemazione ai documenti, all’italiano, alla condizione sanitaria, alle borse lavoro e alla vita ordinaria».
Mentre Giovanni parla, entra in cucina Iago, seguito da suo papà Max e dall’amichetta Cecilia, di due anni come lui. Iago porta con sé un vasino che posa a terra di fronte a noi: ha imparato da poco a usarlo ed è felice di mostrarlo a tutti.
Giovanni ci spiega che Cecilia ha un fratellino, Pietro, di sei anni, e che i suoi genitori, Stefano Picco e Chiara Gaschino, sono una delle due coppie che vivono nell’altra casa della fraternità a pochi passi da qui: Stefano ha 40 anni e fa il consulente sulla sicurezza in ambito forestale, Chiara ha 37 anni e fa la maestra. In questo momento Chiara è a casa, ma Cecilia è qui perché voleva giocare con Iago.
Nella casa dove abitano Stefano e Chiara c’è un secondo alloggio nel quale stanno Serena Andrà, 34 anni, con suo marito Claudio Aseglio, 35 anni, medico anestesista, e i loro bimbi: Agnese di 7 anni, Paolo di 5 e Francesco di 2 e mezzo. Un quarto piccolino nascerà all’inizio del prossimo anno.
Amici che si spalleggiano
Dopo averci presentato per sommi capi le famiglie della fraternità, Giovanni ci illustra anche i molti servizi che la fraternità offre per la comunità di San Grato e per l’unità pastorale nella quale San Grato è inserita: «Ci occupiamo di un’ex parrocchia di collina. Quando l’ultimo parroco è andato via, la parrocchia è stata fusa con quella di Sassi, dove don Stefano Audisio, che oggi ha quasi ottant’anni, fa i salti mortali. Il nostro incarico è essere qua, aprire e chiudere la chiesa, animare le messe domenicali: abbiamo il nostro nucleo di una decina di parrocchiani affezionati, e poi amici, altre famiglie con bambini, scout che vengono per il week end.
Ci siamo ritagliati una stanza nella casa di sotto dove vivono Chiara, Stefano, Serena e Claudio: la usiamo per i momenti di preghiera della nostra fraternità e per l’ospitalità nei fine settimana. Ospitiamo soprattutto scout per il semplice motivo che dormono per terra, oppure in tenda.
Oltre a questi servizi a San Grato, diamo una mano a don Stefano anche in altri ambiti della pastorale parrocchiale: il corso prematrimoniale, ad esempio, poi il corso per i battesimi, il catechismo, un percorso per i genitori dei bimbi del catechismo. Seguiamo anche un gruppo di giovani affiancando il don. Partecipiamo al consiglio pastorale.
I parrocchiani sono molto felici che ci siamo. Se non ci fossimo noi, probabilmente questa chiesa sarebbe chiusa e la struttura in decadenza. Il bosco si prenderebbe tutto se non ci fosse qualcuno qui.
Il punto di forza della nostra esperienza – conclude – è che siamo in quattro e ci spalleggiamo. Per le messe domenicali, ad esempio, ci alterniamo».
Storia della fraternità
Dal cortile sentiamo arrivare il suono gracchiante di un walkie talkie. È Serena che ci raggiunge con Francesco, di due anni come Iago e Cecilia. I bimbi più grandi, Agnese e Paolo, non volevano venire, e sono rimasti a casa insieme a Chiara, collegati con la mamma tramite la radiolina. La casa è appena al di là del piccolo sagrato della chiesa e di una rampa di scale in discesa tra gli alberi, forse una cinquantina di metri, ed è divertente rimanere in contatto così. Mentre Francesco si ferma in cortile con Iago, Cecilia e Max, Serena entra e ci saluta.
Serena e suo marito Claudio vivono a San Grato da sette anni, a differenza delle altre tre famiglie che sono arrivate tre anni fa. Chiediamo quindi a lei di raccontarci la storia della fraternità.
«I primi a venire a Mongreno nel 2006 sono stati Paolo e Nicoletta Leombruni. San Grato era ancora parrocchia, e don Sebastiano, che aveva ricevuto come lascito testamentario la casetta qui sotto, li ha invitati a viverci perché gli dessero una mano. Loro si occupavano di pastorale famigliare.
Quando don Sebastiano è andato in pensione e la canonica è rimasta vuota, Paolo e Nicoletta hanno chiesto a Luca e Arianna Tagliano di venire a viverci per fare un’esperienza di fraternità. Era il 2008. Entrambe le famiglie sono rimaste a Mongreno fino al 2016-17. I Leombruni avevano 4 figli più un affido. I Tagliano tre figli. Noi siamo arrivati nel 2012, dopo due anni di matrimonio, mentre aspettavo Agnese».
Quando Serena e Claudio sono arrivati, hanno introdotto alcune novità. Una di queste è stata l’apertura agli esterni del triduo pasquale fino ad allora vissuto in fraternità. Un triduo «ora et labora», lo chiama lei, cioè un’occasione di preghiera e lavoro per sistemare il verde che cresce rigoglioso attorno alla chiesa. «È stato proprio durante uno di questi tridui, nel 2016, che abbiamo conosciuto Max e Sara. Loro sono rimasti colpiti dall’esperienza, allora, dato che i Tagliano stavano per andare via, abbiamo proposto loro di venire a vivere qui. Ad agosto si sono sposati, e a gennaio 2017 si sono trasferiti».
Nel frattempo anche la famiglia Leombruni ha deciso di andare altrove, e Serena e Claudio hanno iniziato a cercare altre coppie.
«In quell’estate del 2016 – interviene Giovanni -, Serena e Claudio hanno incrociato noi e Chiara e Stefano e ci hanno fatto la proposta. Noi abbiamo iniziato a venire nei week end per vedere e, pian piano, abbiamo capito che la cosa ci interessava».
«C’è stato un attimo di défaillance – confessa Serena -, non pensavamo che tutti fossero interessati. Gli spazi erano per tre famiglie, non per quattro».
«Quindi abbiamo cercato di capire se ci saremmo stati – prosegue Giovanni -. Noi eravamo già sposati e anche Chiara e Stefano, che avevano già Pietro. Quando abbiamo deciso di venire, abbiamo iniziato i lavori qui nella canonica per ricavare un secondo alloggio e, alla fine, abbiamo traslocato durante l’estate 2017. Ovviamente, in tutto questo cammino, siamo stati sempre accompagnati da don Stefano».
Questioni pratiche (ed economiche)
Dato che si parla di ristrutturazioni e di famiglie che abitano dei luoghi che non sono di loro proprietà, chiediamo qualche delucidazione sugli accordi con la parrocchia. «Il nostro alloggio, qui sopra, è fatto di due stanze, il bagno e la cucina – spiega Giovanni -. Questo di Sara e Max ha la cucina, due stanzette piccole, la camera da letto e il bagno. Le ristrutturazioni le abbiamo pagate noi dividendoci la spesa. Il contratto è un comodato d’uso gratuito per cinque anni. A nostro carico, oltre alle ristrutturazioni, abbiamo ovviamente le spese vive, le utenze di luce, acqua, gas. Poi, ogni anno, facciamo un’offerta volontaria che corrisponde all’Imu. È come se fossimo in affitto: la spesa per le ristrutturazioni è più o meno quello che avremmo speso per un affitto di cinque anni».
Coppia, famiglia, fraternità, impegno
Essendo arrivate le 12, Serena si congeda: aveva già da tempo in programma di andare con i bimbi al picnic ecologico «Un Po meno inquinato» organizzato al parco Colletta, ai piedi della collina, da diverse associazioni, tra cui Altri Modi Ets, l’impresa sociale per cui lavora Enrica.
Anche Sara e Max andranno al picnic tra poco.
La nostra attenzione è rapita dal gorgoglio che Elia emette, quasi come una ninna nanna, in braccio a Sara. Con tutta la fatica che qualsiasi coppia fa, tra le tante gioie, per costruire l’equilibrio sempre nuovo di una giovane famiglia con bimbi piccoli, domandiamo come facciano a tenere dietro anche a tutti gli impegni legati alla fraternità.
«Effettivamente è una delle fatiche – risponde Sara -. Siamo tutti molto impegnati e, tra l’altro, ci siamo resi conto che è importante coltivare anche le relazioni tra noi famiglie. L’anno scorso abbiamo iniziato una riflessione sull’equilibrio tra fraternità, famiglia e servizio. È emerso che alcuni di noi sono qua soprattutto per l’aspetto comunitario e che il servizio dovrebbe essere nel cerchio più esterno. Prima si deve essere alleati nella coppia. Poi si allarga il cerchio ai figli, poi alla fraternità, poi al servizio. Per avere delle fondamenta forti».
Il valore aggiunto
Per lasciare che Sara e Max si preparino anche loro per il pic nic ecologico, ci spostiamo fuori con Giovanni che oggi rimarrà l’unico della fraternità a San Grato. C’è un piacevole sole autunnale che ci illumina e scalda. Nel cortiletto c’è un tavolo da esterno con le sedie.
«Qual è il valore aggiunto di questa fraternità alla vostra vita di sposi?», chiediamo. «Una cosa bella che la fraternità ci offre è quella di poter fare servizio insieme, come coppia. E poi c’è una dimensione di sogno e di condivisione che ci piace. Di bisogno di camminare con altri, di poterci confrontare».
«E quali sono, invece, le difficoltà?».
«La difficoltà dell’esperienza di fraternità è che, come succede a tutti i fratelli che vivono sotto lo stesso tetto, quando ci si passa vicini, ci si può urtare. Ci sono i momenti nei quali uno si dice, chi me l’ha fatto fare? Il fatto di essere in quattro, però, a volte aiuta, perché se c’è un momento nel quale hai bisogno di chiuderti un po’ a guscio, puoi farlo senza scompensare troppo gli equilibri.
C’è poi la fatica della trasparenza continua. Qui non c’è l’anonimato condominiale, e tutto quello che fai è conosciuto dall’altro: i tuoi orari, come decidi di rimproverare i figli, come li fai giocare, cosa gli regali… Tutto è pubblico, anche le tue fatiche con il coniuge, i litigi di coppia. È un’esperienza molto sfidante.
Poi c’è anche il vantaggio di dire: “Mio figlio mi sta facendo impazzire, te lo lascio un attimo perché se no darei di matto”. Hai una rete solida vicina».
Una chiesa incarnata
Arriva il momento di andare anche per noi. Quando ci congediamo, partiamo pensando alla spontaneità dei bimbi e dei loro genitori, colti nel mezzo della loro vita quotidiana. Il clima famigliare, la semplicità dell’accoglienza e della casa, l’andirivieni di bimbi e adulti, la pappa, il caffè preparato con un piccolo in braccio, il pic nic ecologico, ci hanno dato il sentimento di trovarci in mezzo a fratelli che condividono le cose di ogni giorno senza ansie e con molta flessibilità.
È un’immagine di Chiesa in uscita che s’incarna in un tempo e in un luogo attraverso voci e vicende personali, famigliari e comunitarie precise.
Quando abbiamo domandato a Giovanni se crede che l’esperienza di fraternità che sta vivendo abbia un suo posto nella Chiesa di oggi, ha risposto: «Io penso che sia una cosa naturale. Non la vedo come una cosa strana, di rottura. È il frutto del Concilio Vaticano II. Il ruolo del laico. La ricchezza dell’essere coppia, e dell’essere fraternità. Siamo in un tempo di costruzione, di esplorazione. È una dinamica normale, sensata».
Luca Lorusso
Casa Santa Barbara, un condominio speciale ad Alba
Il bene comune si fa insieme
Siamo andati a conoscere dal vivo l’esperienza di Emanuela e Nicola Costa: una «Famiglia missionaria a km0» che vive la fraternità e l’accoglienza in uno spazio parrocchiale assieme a due giovani volontari e a tre donne africane in difficoltà.
A guardarla da fuori è un’anonima palazzina di tre piani come se ne vedono in qualsiasi città: uno scatolone intonacato di bianco con balconi e finestre disposti simmetricamente a sinistra e a destra della scala.
Dentro, però, l’anonimato non ha spazio, perché le persone che la abitano, tutte in modo temporaneo, vivono un’interessante esperienza di fraternità, accoglienza e solidarietà, sempre con le porte aperte.
Siamo ad Alba, seconda città della provincia di Cuneo per popolazione dopo il capoluogo.
La palazzina, chiamata casa Santa Barbara perché sorge nell’omonima via di un quartiere centrale piuttosto benestante della città, è una struttura di proprietà della parrocchia Cristo Re destinata all’accoglienza di donne sole in condizione di disagio.
Attualmente è abitata da tre donne africane con i loro figli che risiedono in tre alloggi distinti, da due giovani volontari, Paolo in un appartamento e Giulia in un altro (in attesa dell’arrivo anche di Miriam, altra giovane), e dalla famiglia Costa, di quattro persone, cui fa capo l’associazione «Il Campo» che gestisce l’accoglienza. Un’umanità variegata che, nella semplicità della vita quotidiana, fatta anche di documenti da tradurre, telefonate dei servizi sociali, tapparelle da aggiustare, nutre le relazioni con occasioni di gioco per i bambini, momenti condivisi di manutenzione, feste, pasti, preghiere, compiti di scuola fatti assieme.
Una parrocchia accogliente
Alla stazione di Alba viene ad accoglierci Emanuela Iacono: jeans blu, maglietta rossa, foulard variopinto di farfalle, occhiali viola e una parlantina invidiabile. Lei e il marito Nicola Costa, entrambi quarantenni, con i due figli Edoardo di undici anni e Giacomo di sette, sono arrivati ad Alba da Milano cinque anni fa per lavoro. Nicola è un esperto di sicurezza alimentare, Emanuela si occupa di comunicazione per il terzo settore.
Emanuela cammina spedita facendoci strada. Oggi è lunedì, giorno di lavoro, e avremo a disposizione poco più del tempo della pausa pranzo. Nonostante questo, prima di andare in via Santa Barbara, abbiamo in programma di conoscere don Claudio Carena, parroco di Cristo Re e vicario generale della diocesi di Alba, responsabile ultimo della casa.
Arriviamo in cinque minuti, e troviamo ad accoglierci nel suo ufficio don Claudio, 53 anni, affabile e sorridente. Nella sua parrocchia l’esperienza della casa Santa Barbara non è l’unica iniziativa sociale: «Qui in canonica, ad esempio, ospitiamo quattro famiglie e quattro persone singole – ci spiega -. È una struttura molto grande, e il mio predecessore ne ha tratto otto bilocali. Gli ospiti hanno tutti situazioni difficili. Innanzitutto economiche, ma anche di fragilità psicologica, sociale. Oggi abbiamo ospiti di tre etnie e tre religioni diverse. C’è un dialogo interreligioso di fatto in un bel clima di rispetto. Le famiglie fanno una convenzione per undici mesi rinnovabili, ma alcuni non riescono ad andarsene anche quando avrebbero la possibilità economica di farlo: c’è una coppia marocchina con due figli, ad esempio, che lavora e potrebbe pagare un affitto altrove, ma nessuno vuole dare loro il proprio appartamento…».
L’esperienza della casa Santa Barbara, dove ora vivono Emanuela e Nicola «è nata circa 20 anni fa – ci racconta don Claudio -. Una persona aveva donato una struttura alla parrocchia con l’impegno di attivare qualcosa per i poveri. Il parroco di allora, don Angelo Stella, ha costruito l’attuale condominio grazie all’istituto per il sostentamento del clero. Poi, il parroco successivo, don Valentino Vaccaneo, ne ha fatto una casa di accoglienza per donne sole, e una coppia di parrocchiani, Anna e Franco Foglino, è andata a viverci dedicando all’accoglienza 18 anni di vita con grande generosità e competenza. Quando sono arrivato io sette anni fa, mi hanno chiesto di trovare un’altra famiglia, e la provvidenza, nel 2016, ha mandato Emanuela e Nicola».
Uno spazio nel quale ricostruirsi
Salutiamo don Claudio e ci lasciamo guidare da Emanuela verso via Santa Barbara. «Accogliamo donne sole in difficoltà – ci spiega lungo la strada -. Sono donne spesso segnate da rapporti difficili con le famiglie di origine o con i compagni. L’obiettivo della casa è offrire un tempo di ripartenza verso una vita autonoma di massimo due anni. Le donne vengono segnalate dai servizi sociali o da associazioni. A ognuna chiediamo di partecipare alle spese della casa. Quando non possono ci aiutano gli enti che ce le mandano: i servizi sociali, Caritas o altri.
Noi diamo una mano a queste donne nelle cose di ogni giorno come buoni vicini di casa: stampare la pagella dei figli, scrivere il curriculum vitae, e cerchiamo di attivare reti di aiuto informali. La loro provenienza è varia. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto con noi donne dalla Romania, dalla Tunisia, dal Marocco, dalla Bulgaria, dall’Italia».
Le attuali ospiti sono tre donne africane: «Una è madre di un ragazzo di 12 anni con disabilità. Insieme a loro c’è anche la nonna. Hanno da poco avuto l’assegnazione di una casa popolare». La seconda è di origine marocchina con un bimbo piccolo: «Sta affrontando una separazione difficile. Ha bisogno di un tempo in cui seguire le pratiche legali, trovare un lavoro, e riprogettare la sua vita». La terza è una mamma originaria della Nigeria, con una bimba di dieci mesi. «È stata battezzata in parrocchia a Cristo Re. Lì ha battezzato anche la sua bimba. Era in un Cas (Centro di accoglienza straordinaria, ndr) di Alba, poi è stata spostata in un Cas di un’altra città. Quando ha ottenuto la protezione internazionale, le abbiamo proposto di tornare qui come segno di cura da parte della comunità che l’ha accompagnata al battesimo. Lei è molto contenta di essere di nuovo ad Alba dove si è ben integrata anche grazie all’aiuto di associazioni del territorio. È molto motivata a ripartire».
Condividere tempi e luoghi
Arriviamo in via Santa Barbara 4. Dietro la palazzina s’intravede un cortile. Di fronte, dall’altra parte della strada, c’è un palazzo di cinque piani, di quelli i cui alloggi negli annunci immobiliari recano la scritta «finiture di pregio».
Entriamo nell’androne sul quale si affacciano tre porte: una è del centro di ascolto Caritas della parrocchia; un’altra è di uno degli alloggi per l’accoglienza, la terza dà su un monolocale a uso comune. I volontari l’hanno sistemato due mesi fa, e ora è attrezzato con una cucina, un tavolo e alcune sedie.
Qui tutti i giovedì vengono alcuni ragazzi scout e delle parrocchie vicine a far giocare i bambini della casa. «Un altro gruppetto di giovani viene il sabato mattina a fare dei lavori manuali – ci racconta Emanuela -. Tra questi c’è anche Babatunde, arrivato in Italia qualche anno fa. Ora ha una fidanzata albese e lavora in una cantina. Viene il sabato mattina a dare una mano perché vuole restituire l’accoglienza che ha ricevuto».
Nel monolocale c’è Nicola, arrivato dal lavoro pochi minuti fa per la pausa pranzo: sta preparando gli agnolotti del plin, tipici piemontesi, e un’insalata. C’è anche Paolo, un giovane di 27 anni – «capo scout», ci tiene a dire -, che vive al piano di sopra da maggio per fare un’esperienza di accoglienza e fraternità. Paolo è già in partenza per andare al lavoro, ma fa in tempo a raccontarci dell’altra sua bella esperienza conclusa appena prima di arrivare qua: ha abitato per due anni con un altro giovane nella canonica della sua parrocchia Santa Margherita, per sperimentare la vita fuori dalla casa paterna, la convivenza e soprattutto il servizio alla parrocchia.
Oltre a Paolo, come detto, nella palazzina abita da poco anche Giulia, e un’altra giovane, Miriam, si sta avvicinando: la famiglia Costa ha, tra le sue caratteristiche, quelle della condivisione e della fraternità, sia con le donne accolte che con i giovani.
Una famiglia missionaria a km0
Emanuela e Nicola sono una scheggia albese del gruppo di «Famiglie missionarie a km0» che loro stessi hanno contribuito a creare nel 2013 nella diocesi di Milano. Un gruppo nel quale si sono radunate famiglie che, in modo indipendente l’una dall’altra e con stili diversi, avevano iniziato ad abitare con spirito missionario in canoniche, oratori o altre strutture ecclesiali. Si definiscono «famiglie missionarie», perché molte di loro hanno vissuto esperienze all’estero, anche di diversi anni, o semplicemente perché sta loro a cuore l’evangelizzazione, far conoscere Gesù a chi ancora non l’ha incontrato; «…a km0» per sottolineare la vicinanza tra la loro vita e la missione: che sia ad Alba o a Quarto Oggiaro – il quartiere milanese della parrocchia Pentecoste nella quale i Costa hanno vissuto due anni, prima di trasferirsi -, poco importa.
Desiderio di fraternità
«In questa casa ci sono dieci alloggi. Uno è questa stanza comune per stare insieme – ci dice Nicola -. Poi c’è il centro di ascolto della Caritas, l’alloggio per Paolo, quello per Giulia, e quello per noi. Tutti gli altri sono dedicati all’accoglienza».
La descrizione della destinazione degli alloggi non vuole essere un semplice elenco, vuole piuttosto mettere in luce uno degli elementi fondamentali di questa esperienza di condominio solidale: la fraternità. La casa non è solo un «rifugio» per persone in difficoltà, ma è un luogo nel quale sperimentare una forma nuova di vicinato, una modalità aperta di relazioni paritarie tra persone diverse.
«La cosa è nata dalla nostra esperienza precedente in parrocchia a Milano – ci spiega Emanuela -. È significativo che ci sia una fraternità tra famiglia e sacerdote al centro della parrocchia. Ci sembrava significativo che ci fosse una forma di fraternità anche al centro dell’esperienza di accoglienza. Cercavamo un’altra famiglia e non l’abbiamo trovata. Allora abbiamo pensato ai giovani».
«Prima che arrivassero questi nuovi giovani – aggiunge Nicola -, è stata qui Elisabetta, che oggi ha 27 anni e si è appena sposata. Lei diceva che voleva vedere le cose con i suoi occhi: “Ho un lavoro, ho il fidanzato, ma non voglio andare a convivere. Esco di casa, faccio due anni con la porta aperta. Mi metto al servizio di chi ha bisogno”». «Alla fine – aggiunge Emanuela – ha detto che essere qua non è solo fare servizio, ma rendersi conto di cosa succede nel mondo, perché ognuna delle donne ospitate ti racconta come vanno le cose a casa sua e anche la fatica di stare in Italia. Paolo e Giulia staranno qua per un anno, Miriam farà un ingresso più graduale. L’idea è che passino per questa esperienza prima delle scelte definitive della vita: è anche un’esperienza di discernimento. Si mettono al servizio, e in più provano a immaginare la loro vita futura. Per vivere la fraternità in modo più completo con loro, facciamo almeno una cena alla settimana insieme. Poi in pratica diventano anche due o tre, perché spesso passano per un saluto e alla fine si fermano a mangiare. Oltre alla cena, stiamo costruendo il modo di pregare insieme».
La quotidianità fraterna, però, per i Costa non si realizza solo con i giovani. In senso più ampio è il vivere con la porta aperta e il cuore disponibile nei confronti degli ospiti: «Vivendo insieme è più facile che s’inneschino delle dinamiche di reciprocità – continua Emanuela -. Io sono qua per aiutarti, però, se questo spazio è unico e lo abitiamo insieme, anche tu che sei ospite partecipi. Il bene comune lo costruiamo insieme. Questo è difficile, soprattutto per quelle persone che sono tanti anni che vengono aiutate. Fare quel salto di qualità: pensare “però anche io posso darmi da fare per gli altri”, è provocatorio, ma vivendo insieme viene naturale».
Il cortile si riempie
Mentre mangiamo e chiacchieriamo, arriva da scuola Edoardo, il figlio maggiore di Nicola ed Emanuela. Saluta, posa lo zaino e si siede a tavola anche lui. Partecipa volentieri a questo pranzo con uno sconosciuto: è abituato a condividere gli spazi e i tempi di casa con altri. Chiediamo però ai suoi genitori come fanno a conciliare le esigenze di coppia e di famiglia con quelle di un condominio così.
Nicola, ormai alla fine della sua pausa pranzo, risponde: «La famiglia e il servizio non sono due cose distinte. Non è come il lavoro: esco, vado in un luogo dove gli altri non possono venire, faccio le mie cose e torno. È una parte integrante della nostra vita. È una forma della vita, anche se bisogna riuscire a tenere degli spazi riservati, soprattutto per i figli». «Il nostro è un vicinato aperto – Aggiunge Emanuela -. Poi è bello che io e Nicola facciamo le cose assieme. Invece per i nostri figli è bello avere molte relazioni. Per cui capita che ci sia l’invasione di chi non vuoi nei momenti che non vuoi, ma poi hai tanto di più attorno. Loro sono contenti. Lo erano anche di vivere in parrocchia. Apprezzano molto i giovani che abitano qua, i giochi al giovedì, il fatto che vengano gli amici dei bambini accolti, che il cortile si riempia».
La terza porta della chiesa
La famiglia Costa vive nella casa Santa Barbara da tre anni. Come i loro amici della diocesi di Milano, anche loro si sono dati un tempo di cinque anni, scaduti i quali verificheranno, insieme alla parrocchia, se la loro presenza nella casa ha portato buoni frutti e se proseguire con l’esperienza oppure andare altrove. «Tre anni sono pochi. Cinque anni permettono di entrare nel vivo. È un tempo sensato. Dopo di ché ci sentiamo sostituibili».
La casa Santa Barbara non è una realtà visibile. È un condominio in mezzo ad altri condomini. Non ha insegne o frecce luminose che ne indichino la presenza. Si fa vedere solo da chi la conosce, e da chi frequenta le persone che la vivono. Non è invadente. Ma è un pezzettino di Chiesa che abita il quartiere, che sta in mezzo alle case.
«Le Famiglie missionarie a km0 sono la terza porta della Chiesa – ci dice Emanuela mentre ci salutiamo -: c’è la porta istituzionale, poi c’è la porta piccola che è quella degli istituti religiosi o della sacrestia dove entrano solo gli addetti ai lavori, e poi c’è la terza porta che è fatta da quelli che desiderano vivere la fede e una vita piena pur facendo la vita di tutti. L’impegno è quello di essere una porta d’ingresso verso il popolo di Dio. Questo è il nostro impegno: riuscire a fare da tramite».
Luca Lorusso
Dieci storie in un libro
Le Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano, dal 2013 costituiscono un gruppo ormai consolidato e organizzato che oggi conta almeno 27 famiglie più altre in rete.
Le loro provenienze sono le più disparate: c’è chi viene dal mondo scout, chi da Azione cattolica, da Comunione e liberazione, dal laicato dei missionari della Consolata, dall’Operazione Mato Grosso, dalla rete delle famiglie ignaziane e da altre realtà.
Tutte si ritrovano attorno a una chiamata e a una prassi comune: essere missionari nella quotidianità, attraverso l’abitare in un quartiere, in una parrocchia, in uno spazio della Chiesa, qui in Italia. Senza bisogno di valicare frontiere. Essere missionari non a prescindere o nonostante la condizione di famiglia, maproprio perché famiglia.
Il gruppo di Milano è il più visibile, in questo momento, nella Chiesa italiana, ed è quello che ha maturato una riflessione più articolata, ma i suoi membri non sono i soli che vivono la missione a km0. Proprio il fatto di avere iniziato a darsi un nome, a comprendersi come un volto specifico della Chiesa del nostro tempo, sta facendo loro conoscere molte altre esperienze in giro per il nostro paese, famiglie che sentono la stessa chiamata in forme simili e che stanno avviando un dialogo con le loro diocesi di appartenenza.
Gerolamo Fazzini, nell’ottica di iniziare a tirare un po’ le fila di qualcosa che sta pian piano, con i tempi dello Spirito, prendendo forma, ha raccolto in un bel volume, ben scritto e gustoso nei contenuti, dieci esperienze: sette milanesi, due piemontesi e una veneta, con una prefazione di mons. Luca Bressan, una cronologia essenziale della storia del gruppo ambrosiano, una piccola panoramica delle esperienze fuori dalla diocesi di Milano e una postfazione con un’intervista a Johnny Dotti sull’«abitare generativo».
L.L.
A colloquio con monsignor Luca Bressan
Scrivere la presenza di Gesù nel quotidiano
L’esperienza milanese delle famiglie missionarie in canonica sono una freccia che indica nuove forme di presenza della Chiesa sul territorio. La quotidianità, la fraternità, la sobrietà, l’accoglienza, sono alcuni dei suoi strumenti principali per incarnare la fede nella Chiesa e nel mondo che cambiano.
«Per me è stato un privilegio incontrare le Famiglie missionarie a km0. Io le leggo come un segno che lo Spirito ci dà per dire come incarniamo la fede oggi. Sono una realtà giovane che va aiutata a crescere e a scoprire il mistero che porta dentro. Allo stesso tempo sono un dono che interroga la Chiesa, e che mette in luce quanto essa sta cambiando».
Monsignor Luca Bressan è sacerdote della diocesi di Milano dal 1987, dal 2012 è vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale, «ovvero – ci dice -, quella parte di azione pastorale che intercetta la cultura, il mondo, la società, e quindi ne legge i cambiamenti».
È coinvolto nell’accompagnare quelle famiglie che nella sua diocesi incarnano la condizione di «Chiesa in uscita» abitando una struttura ecclesiale, e ce ne offre una lettura di ampio respiro.
Don Luca, a proposito di Chiesa che cambia, in un tuo intervento di qualche mese fa a Padova, proprio riferendoti alla Chiesa, hai parlato di «tornante storico». Ci puoi spiegare?
«Tutti ci accorgiamo che la Chiesa cambia, non solo perché i presbiteri sono meno, ma perché sono meno anche i battesimi. La Chiesa ha un’incidenza minore nella storia.
Il Concilio ci insegna che dobbiamo abitare questo cambiamento senza stancarci. Il rischio, però, è di interpretare questo “non stancarci” in modo troppo attivo: “Siamo noi che agiamo sulla riforma della Chiesa, che la mettiamo al passo con i tempi”. Invece, più che disegnare a tavolino quale sarà la forma futura della Chiesa, è molto meglio fermarsi e vedere come lo Spirito suscita vocazioni diverse, modi differenti di dire la fede.
Veniamo da un passato in cui la fede era incarnata soprattutto dalla vita religiosa, dall’esercito di suore che, accanto ai malati, agli abbandonati, ai bambini, raccontavano alla gente la gratuità dell’amore di Dio. Ecco, adesso quell’esercito di religiosi, religiose, preti, sta venendo meno, e corriamo il rischio che la Chiesa diventi “un’agenzia di servizi” a cui ricorrere per una preghiera, una prestazione.
La presenza delle Famiglie missionarie a km0 ci ricorda che è ancora possibile vivere una logica di gratuità. Avere queste famiglie non significa avere manodopera in più, ma delle persone che scrivono la presenza di Gesù nel quotidiano».
Le Famiglie missionarie a km0 sono una nuova forma di presenza della Chiesa nella società?
«Sì, noi la leggiamo in questo modo. Per questo la vogliamo accompagnare. È una freccia che ci indica nuove forme di presenza. Non in alternativa, non in sostituzione alle forme organizzate, al ministero presbiterale ad esempio, ma proprio come forma di aggiunta.
Il valore profetico che c’è in quest’esperienza è l’idea della fraternità missionaria che fa vedere come insieme si viene trasfigurati dalla fede, dal Vangelo che si vive, e quindi lo annuncia».
La fraternità è una delle caratteristiche fondanti di quest’esperienza, come si esprime?
«Questo dipende dalle situazioni. Ci sono luoghi nei quali la fraternità s’incarna in una frequenza fisica e quotidiana, ci sono luoghi in cui la famiglia abita dove una volta c’era il prete e ora il prete non c’è più, per cui la fraternità è più vincolata a momenti e orari.
C’è una fraternità quotidiana vissuta localmente che si esplicita in modi diversi. Poi c’è una fraternità più ampia che riguarda l’intera esperienza delle Famiglie missionarie a km0, che vuole essere uno spazio nel quale, ad esempio, si confrontano i tanti carismi da cui le coppie provengono: il mondo della missione, quello francescano, gli scout, Cl, famiglie legate a spiritualità più tradizionali, il mondo dei gesuiti…
Il gruppo è come una piazza in cui le differenze s’incontrano e arricchiscono tutti. L’ultima cosa che desiderano è spegnere le differenze. Infine c’è una fraternità ecclesiale di fondo che lega queste famiglie con la Chiesa».
Oltre alla fraternità, anche la quotidianità è un elemento fondamentale per questa esperienza.
«L’incarnazione avviene nel quotidiano. Il Verbo si è fatto carne in un momento determinato della storia e in un luogo determinato. Per cui, esatto, il quotidiano è una parola chiave. Il Vangelo non si vive e non si testimonia in astratto».
Quali sono i punti di forza, le criticità e le prospettive delle Famiglie missionarie a km0?
«I punti di forza sono, da una parte, l’energia spirituale, la gioia, la voglia di creare nuovi percorsi. Poi lo stile di vita famigliare, la sobrietà, la voglia di far vedere che cosa dà sapore e senso alla vita.
C’è una differenza tra ricerca del piacere e ricerca della gioia. C’è chi cerca la gioia pur vivendo in un mondo che ricerca solo i piaceri.
Le sfide stanno nel capire come innestare tutti questi elementi di novità nella presenza della Chiesa tra la gente, e come dare loro forma. La criticità sarà poi superare man mano la fase di entusiasmo e vedere come far diventare questa esperienza la normalità della vita ecclesiale, come farla diventare una figura conosciuta, una figura ministeriale».
Com’è accolta questa esperienza dalla gente e dai sacerdoti della diocesi?
«La gente in qualche caso ha espresso diffidenza, ma poi si è accorta della capacità di contagio e di annuncio che ha quest’esperienza. I preti, in parecchi casi, hanno riconosciuto in questa presenza un nuovo modo di declinare la loro missione, e anche la loro scelta celibataria. Più di un prete mi ha detto che, grazie alla famiglia missionaria, ha imparato, ad esempio, a organizzare meglio la sua vita, gli spazi di silenzio, i luoghi d’incontro con la gente».
Lo scopo del gruppo delle famiglie qual è?
«A livello diocesano è quello di istituire uno spazio di crescita anzitutto spirituale e comunionale. Ci s’incontra per nutrirci a vicenda della profondità del mistero che abitiamo e per tornare poi a immergerci in un quotidiano che richiede tante energie».
C’è una commissione in diocesi che sta redigendo delle linee guida. Cosa sono?
«L’idea è, senza affrettare i tempi, quella di consolidare l’esperienza. Scopo delle linee guida è di mettere per iscritto alcuni suoi elementi costitutivi perché ne diventino l’ossatura e le permettano di essere trasmessa e condivisa. Permettere a noi e agli altri di capire quali sono i tratti essenziali delle Famiglie missionarie a km0, così che poi possano essere declinati nelle differenti situazioni e, man mano, possano istituire una figura riconoscibile dalla diocesi.
Della commissione fanno parte alcune famiglie e alcuni elementi della Chiesa diocesana.
Però non vogliamo accelerare i tempi. Vogliamo che il processo di stesura sia la trascrizione a livello verbale del processo di consolidamento dell’esperienza che si sta vivendo a livello di corpo».
Come viene gestita la presenza di una famiglia in spazi di proprietà della Chiesa?
«Essendo un’esperienza carismatica segnata dalla gratuità, le famiglie si mantengono con il loro lavoro, come fa qualsiasi famiglia normale. Dato però che abitano in un contesto di fraternità missionaria e di collaborazione pastorale, la chiesa le ospita in modo gratuito nelle sue strutture. Il tutto basato su un contratto di comodato di cinque anni, rinnovabile, che permette a tutti di essere liberi, soprattutto alla famiglia. Il primo compito della coppia è salvaguardare, approfondire, nutrire il suo sacramento, e quindi la famiglia: la durata quinquennale serve per dare un termine e per vedere se nella famiglia, ad esempio con la crescita dei figli, sono nate nel frattempo nuove esigenze. L’idea è di non mettere a nessuno degli obblighi».
Cosa dà a te quest’esperienza?
«Io sono contentissimo. Mi accorgo di esserne nutrito. Trovo dei fratelli e delle sorelle che mi aiutano a tenere incarnata la mia fede e, allo stesso tempo, danno gioia al mio cammino. Fa parte del famoso centuplo raccontato dal Vangelo. Ritrovo dei legami famigliari che non avrei mai immaginato potessero esserci. E questo è bellissimo».
Luca Lorusso
Marco, Maida e i loro cinque figli, dalle Ande peruviane a Milano
Con la porta sempre aperta
Marco e Maida Radaelli appartengono all’Operazione Mato Grosso (Omg), presente in Ecuador, Perù, Brasile e Bolivia, fin da giovani. Prima di conoscersi hanno fatto alcune esperienze all’estero: Marco in Ecuador e Maida in Perù, e quando si sono sposati, neanche trentenni, dopo due mesi sono partiti per 10 anni in Perù.
Oggi vivono nella parrocchia di Ponte Lambro, Linate, zona Sud Est di Milano, e sono una Famiglia missionaria a km0 con i loro cinque figli, di cui le prime tre nate sulle Ande: Martina di 14 anni, Margherita (11), Beatrice (9), Daniele (2) ed Elena (1).
«Nel tornare ci eravamo chiesti quale sarebbe potuto essere il modo per vivere la missione anche qua in Italia», ci dice Maida per telefono.
Maida, ci descrivi la vostra esperienza in Perù?
«Vivevamo in una casa dell’Omg a Yungay, a 2.800 metri, in zona rurale sulle Ande, proprio ai piedi del Huascarán, la montagna più alta del Perù. Niente a che vedere con Ponte Lambro a Milano.
Avevamo una scuola di falegnameria con un internato dove c’erano 20 ragazzi scelti tra i più poveri dei villaggi vicini: vivevano insieme a noi e quindi passavamo tutta la giornata con loro.
Dopo due anni abbiamo costruito una scuola: asilo, elementari e medie. Dalle 8 alle 16 avevamo con noi 300 bambini, ai quali davamo anche da mangiare. Tutto con l’aiuto dei volontari italiani.
I professori erano peruviani, e poi c’erano volontari italiani che venivano anche solo per un mese, e davano una mano a insegnare».
Quindi il vostro lavoro in Perù era quello educativo. Non avevate un’altra fonte di reddito?
«No. Non avevamo stipendio. Vivevamo anche noi con quello che veniva mandato dall’Italia. Poi avevamo delle donazioni private di parenti o amici che utilizzavamo per cose nostre».
Che formazione avete?
«Siamo infermieri tutti e due. Ci siamo conosciuti all’università. Abbiamo lavorato come infermieri cinque anni prima di partire».
Cosa vi ha lasciato l’esperienza di condivisione continua con i ragazzi peruviani?
«Una ricchezza molto grande. Le nostre figlie hanno respirato da sempre che la nostra famiglia non è chiusa. La porta di casa era sempre aperta. È sempre stata una famiglia molto allargata. Vuoi o non vuoi, i tuoi problemi, le cose che ti sembra di non riuscire a superare, passano in secondo piano. Condividere la giornata con altre persone ti fa capire che non sei tu il centro del mondo. Le nostre figlie hanno visto con i propri occhi la povertà, materiale e non. Quando oggi diciamo: “Stai attenta a non pensare solo a te stessa”, ci capiamo. In Perù eravamo molto facilitati in tutto, perché non avevamo un lavoro che ci portava via durante il giorno, e quindi eravamo lì 24 ore su 24. Potevamo dedicarci agli altri sempre. In Italia la vita è più frenetica e ti impedisce di fare quello che vorresti: ci sono gli impegni fissi come la scuola, il lavoro, e quindi poi devi gestire il tempo che ti rimane».
Ogni tanto sentivate il bisogno di avere uno spazio solo vostro, di famiglia?
«Ce lo chiedono sempre. Certo: avevamo il nostro spazio con una piccola cucina e le nostre stanze. A volte venivano a bussare, però era sottinteso che se eravamo nel nostro spazietto, dovessero trattenersi. Poi in realtà passavamo in casa pochissimo tempo. Eravamo sempre insieme ai ragazzi».
Collaboravate con la parrocchia?
«C’erano due sacerdoti locali. Con loro avevamo anche dei momenti insieme, e una volta alla settimana uno veniva a celebrare la messa con noi e i ragazzi. C’era una strettissima collaborazione».
Com’è stato il rientro per le vostre figlie?
«Per loro l’Italia era un mondo sconosciuto e si sentono ancora peruviane. Rimpiangono spesso la vita semplice del Perù. Però quando abbiamo spiegato loro che avremmo mantenuto alcune caratteristiche della vita peruviana, che saremmo venuti a vivere in una parrocchia, hanno accettato bene».
Avevate già un posto dove andare?
«Sì, avevamo sentito l’ufficio missionario della diocesi di Milano. Inizialmente avevamo chiesto di andare in un paese e non in città, perché le nostre figlie in Perù avevano vissuto una vita molto semplice e volevamo conservare questo aspetto. Ci è stato proposto Bulciago, in Brianza, e quando siamo tornati nel 2014 siamo andati direttamente lì, in canonica, per tre anni. Nel frattempo è tornato dal Perù don Alberto Bruzzolo che ha sempre chiesto, sia in Italia che in Perù, la collaborazione di una famiglia vivendoci insieme. In diocesi è stato il primo a provare questa esperienza fin dal 2001 a Pentecoste. Quando è arrivato, conoscendoci già, ci ha chiesto di fare fraternità con lui. Allora nel 2017 ci siamo spostati qui a Ponte Lambro, in un contesto di periferia urbana totalmente diverso. Noi diciamo sempre alle nostre figlie che non importa dove si vive, importa come uno vuole spendere la sua vita: che sia con i ragazzi peruviani, in Brianza, o in città. Ne abbiamo parlato molto, e alla fine loro hanno detto che sì, l’importante è aiutare gli altri.
Qui c’è un centro d’ascolto della san Vincenzo che segue 150 famiglie. Vengono distribuiti vestiti, medicine… Anche qui i miei figli vedono la povertà».
Com’è la vita di fraternità?
«Viviamo in fraternità missionaria con don Alberto, che è parroco, e con don Emanuele Merlo, che segue la pastorale dei Rom. Siamo in una casa di due piani dentro l’oratorio: al piano terra ci siamo noi, e al piano superiore i due don. In un’altra struttura ci sono tre suore Marcelline. Anche loro hanno chiesto di lavorare nella periferia.
Abitando nella stessa casa, diciamo le lodi al mattino insieme, poi facciamo colazione per raccontarci un po’ di cose. E poi la domenica sera facciamo la compieta e un commento di un brano biblico.
Nella vita quotidiana, poi, ci sono pranzi, cene. Così come vengono. Avendo la porta sempre aperta è facile che succeda».
Lavorate?
«Mio marito sì. Io no. È stata una scelta per coltivare l’accoglienza. La mia presenza in casa è importante. Infatti, per il fatto di essere un’infermiera, a volte le persone vengono a chiedermi medicine o iniezioni… e questa cosa ci apre un mondo, perché le persone vengono e poi ti raccontano tutto di loro. Come dice una mia amica che vive anche lei in una canonica: “Noi facciamo la pastorale del caffè”.
A volte la figura del sacerdote può dare un po’ di soggezione. Invece vedere una famiglia, che è una famiglia normale, perché ha i figli, fa casino, i bambini gridano, la mamma pure, fa sentire più a casa. Don Alberto dice che conosciamo le stesse famiglie, ma da punti di vista diversi: i nostri figli vanno alle feste di compleanno, vanno a scuola… in tutte quelle parti della vita dove il don non può arrivare, noi possiamo».
Tuo marito che lavoro fa?
«Con degli amici, anche loro tornati dalla missione, ha fondato una cooperativa sociale di imbianchini e giardinieri, e gestiscono cinque isole ecologiche qua nei dintorni e in Brianza. Poi fanno un lavoro sociale con il reintegro nel lavoro di ex alcolizzati, ex drogati, persone bisognose.
Lui dice sempre che non vuole fare un lavoro che lo separi dalla vita normale».
In parrocchia che ruolo avete?
«Non abbiamo cose precise. Facciamo incontri con genitori che chiedono il battesimo. Ognuno di noi ha un gruppo di lettura del Vangelo una volta ogni 15 giorni: cioè andiamo nelle case delle persone che si rendono disponibili. Io sono anche catechista e gestiamo l’oratorio feriale e le attività dei bambini, sempre con i due don e con le suore».
Difficoltà e soddisfazioni?
«La difficoltà è quella di avere pochi momenti di intimità famigliare. A volte dici: “Ma basta! Questo campanello che suona in continuazione”. I bambini che avrebbero bisogno di attenzione, però devi dire loro di aspettare un attimo. A volte è una fatica. Usi energia togliendola alla famiglia. Ma alla fine ti dici: non è quella la cosa che mi rende più felice, pensare solo a me e alla mia famiglia. Alla fine, vivere così è una ricchezza».
L.L.
Per una parrocchia a misura di pannolino
Contagiati dalla gioia
Suor Enrica Bonino, 53 anni, accompagna il cammino delle Famiglie missionarie a km0 fin dal 2001, quando ha partecipato alla nascita della prima esperienza nella parrocchia di Pentecoste, nel quartiere di Quarto Oggiaro a Milano.
È una suora energica. Torinese di nascita e ignaziana di spiritualità. È un’ausiliatrice delle anime del purgatorio con la vocazione di accompagnare le persone attraverso i loro «purgatori», le fasi di crisi che la vita offre a tutti, verso la gioia.
Suor Enrica non esita a definire «profetica» la realtà delle famiglie missionarie che a Milano e altrove offrono un volto nuovo di Chiesa alla gente.
Suor Enrica, tu sei legata all’esperienza delle
Famiglie missionarie a km0 fin dagli inizi.
«L’esperienza è nata nel 2001 nella parrocchia Pentecoste a Quarto Oggiaro, dove vivevo. È partita dal parroco don Alberto Bruzzolo, da Marco e Marta Ragaini, una coppia con tre figli arrivata dal Chad dopo 6 anni di missione, e da me. Loro vivevano in parrocchia, io nella mia comunità e il parroco in un appartamento nel quartiere.
L’ho vissuta fino al 2006, quando sono partita per un anno in Colombia. Al mio rientro nel 2007, sono andata a Torino, e ho ripreso l’attività con le famiglie, anche se più legata alla spiritualità ignaziana. Insieme ad alcune coppie, ci siamo resi conto che è necessaria una certa cura del cammino a due, allora ho sviluppato un po’ questo aspetto: affiancare le famiglie e sostenerle in un percorso di spiritualità coniugale. Credo molto in quello che dice l’Amoris Laetitia (31): “Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa”.
Infine, nel 2012, sono tornata a Quarto Oggiaro».
Che ruolo hai nel gruppo delle Famiglie a km0?
«Sono stata coinvolta per la mia esperienza con le famiglie e perché la spiritualità ignaziana offre degli strumenti concreti: gli esercizi spirituali, una disciplina e un metodo di preghiera, un metodo per il discernimento e per le scelte.
Io non ho un ruolo specifico. Quando il gruppo ha iniziato a organizzarsi, mi sono stati chiesti degli incontri di formazione spirituale. Dopo di che ho iniziato a visitare alcune famiglie a fare telefonate, visite, confronti, in una modalità molto relazionale. L’idea è di prendersi cura l’uno dell’altro e di sensibilizzarsi reciprocamente su questa cura».
E che ruolo hanno, invece, le Famiglie missionarie a km0 nella Chiesa?
«Secondo me hanno un ruolo profetico. Entrare in una canonica e non trovarti la classica segretaria o il parroco, ma un bambino che ti chiede se giochi con lui, rivoluziona l’idea della parrocchia: offre un’immagine di semplicità, di vita quotidiana, di una chiesa a misura di pannolino, direi.
Oggi la parrocchia rischia di essere un luogo in cui si fanno delle cose, mentre è importante che sia vissuta come luogo di fraternità dove si sperimentano delle relazioni, poi si fanno anche delle cose, ma in funzione di una relazione che sia la più ampia, accogliente, aperta possibile».
La fraternità con sacerdoti o religiosi è un punto centrale per tutte le Famiglie missionarie a km0?
«Sì, però le modalità dipendono dalle situazioni: dai lavori della coppia, dalla disponibilità di tempo, dall’età dei figli, dal tipo di sacerdote. Non c’è un cliché. Un momento di preghiera insieme e uno di scambio su come va, c’è sempre. Per chi è implicato nella pastorale, lo scambio avviene anche su dove stiamo andando, cosa stiamo facendo, cosa aiuta di più la parrocchia. Ma non è detto che tutte le famiglie siano coinvolte nella pastorale allo stesso modo».
Quali sono i punti di forza di quest’esperienza per la famiglia, la parrocchia, il quartiere?
«Il punto di forza per la famiglia è la possibilità di non chiudersi in sé, nei propri problemi, nella gestione faticosa della quotidianità, di aprirsi ad altri e di coltivare un orizzonte spirituale più ampio. Perché quando sei continuamente sollecitato dagli altri, ti devi rinnovare nella motivazione che ti abita. Questo è anche il punto di fragilità, perché, a volte, essere troppo sollecitati può creare disguidi. È necessario cercare un equilibrio sempre nuovo.
Anche la comunità parrocchiale e il territorio ne hanno un beneficio, perché iniziano a vedere un volto diverso di Chiesa, la possibilità di confrontarsi con una fede più semplice, vissuta. Non è tanto una fede parlata, è una presenza accogliente.
L’altra cosa bella, per me, è che alcune Famiglie missionarie a km0 prendono contatti con altre diocesi, altre regioni, altri paesi, ad esempio la Francia, dove ci sono realtà simili: è come stare dentro un laboratorio continuo. Tutto questo crea una grande circolazione d’idee ed esperienze. Per esempio, alcuni da Milano sono andati qualche tempo fa a Padova a conoscere una comunità di famiglie ignaziane. Conoscere altri territori e stili è arricchente, dà molto entusiasmo ed è un modo per sostenersi a vivere una vita evangelica».
Il gruppo di famiglie della diocesi di Milano può aiutare altre esperienze a emergere?
«Ci sono diverse esperienze di famiglie che sperimentano fraternità differenti ma non si conoscevano tra di loro e non provengono da organizzazioni già costituite nelle diocesi. Adesso che con i convegni tenuti ogni due anni a Milano, con le trasmissioni televisive, i giornali, si inizia a vedere che c’è una realtà lombarda consistente, allora le altre realtà più isolate incominciano a venire fuori e a chiedere un confronto. Ne ho conosciute in Puglia, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria, Toscana, in Sicilia… Alcune realtà iniziano a confrontarsi con le proprie diocesi. Alcune diocesi non hanno le realtà ma i vescovi vorrebbero.
C’è un grande movimento e una grande curiosità. È un’esperienza portatrice di grande fermento.
Dove porterà non lo so. Don Luca Bressan dice, e io condivido, che dobbiamo lasciare che la cosa cresca, sostenerla con delicatezza, lasciando che le persone trovino il proprio spazio, senza codificare troppo, perché altrimenti si spegne lo spirito.
È necessaria una grande attenzione. Ed è per questo che ci sono molte telefonate: come stai? Come sta quella coppia? La vai a trovare tu, o vado io?».
È bella questa sinergia tra vocazioni differenti.
«Io credo molto nel sostegno tra vocazioni diverse. Indirettamente queste famiglie sostengono me nella scelta che ho fatto e, per quel che sono capace, a mia volta offro un sostegno, una presenza.
Io credo che la Chiesa possa essere solo così. Non può esserci una Chiesa di separati, in cui i religiosi sono da una parte, le famiglie sono dall’altra e ognuno sta chiuso nella propria casa o convento.
Mi piace la possibilità di mostrare un volto di chiesa diverso, il cui la suora, ad esempio, lavora come tutti, dà una mano in cucina se serve, può accompagnare i bambini al bagno e guardare i cartoni animati con loro. È considerata una persona come le altre. Questo è uno stile che vivo anche con la rete delle famiglie ignaziane da anni.
Lavorare per questo ideale e per questa mescolanza a me dà una grande gioia. Poi non so come andrà e chi tirerà le fila di tutto, ma anche questo a me dà una grande gioia e libertà: provo a lavorare, e poi tutto è nelle mani di Qualcun altro».
Questa esperienza è uno dei frutti che il Vaticano II continua ancora oggi a far nascere?
«Per me è un’esperienza a contagio. Sono arrivati dei missionari che hanno fatto esperienza di missione, e hanno iniziato a contagiare. È l’esperienza della semplicità che tu sperimenti solo in missione, con i più poveri, che a un certo punto trasforma la tua vita e non riesci più a vivere diversamente.
Io la vivo così, non tanto pensando ai documenti della Chiesa. Certamente è uno sviluppo del Vaticano II, certamente è in linea con il pontificato di papa Francesco e con tutti i documenti che lui ha scritto, perché uno dei punti cardine di questa esperienza è diffondere la gioia del Vangelo. Cioè far vedere che a essere cristiani si è felici, si è contenti, pur essendo incasinati. Perché i casini non li risparmia a nessuno la vita. Ma li vivi in un altro tipo di serenità, perché sai di chi sei, a chi appartieni e chi vuoi passare, chi vuoi trasmettere».
Luca Lorusso
La morte nel pancione: «Mi dispiace, non c’è battito»
Secondo i dati dell’Istat, in Italia, un bimbo concepito ogni quattro non sopravvive. La perdita di un figlio in gravidanza è un evento traumatico che va elaborato. Nel vissuto dei genitori, al lutto si aggiunge il dolore dell’incomprensione e della solitudine. Amici, famigliari e operatori sanitari faticano a superare il tabù che circonda la morte e la sofferenza. Alcune iniziative stanno tentando di porre il tema all’attenzione pubblica.
«Alla prima ecografia, questa è la prima cosa che ho visto di te: un puntino, il battito del tuo cuore», scrive Silvia in una lettera al suo bimbo, nato morto dieci giorni prima della data attesa del parto, «dopo aver saputo che eri un maschietto abbiamo deciso il tuo nome. Matteo: “Dono di Dio”».
Silvia e Nicola sono genitori speciali che non hanno potuto tenere in braccio il loro bimbo vivo, sentire il suo pianto o incrociare il suo sguardo. Un giorno, alla 38ª settimana, Silvia non ha più sentito i movimenti di Matteo, ed è corsa in pronto soccorso: «Trovo un’ostetrica. Mi scuso, ma a costo di sembrare paranoica ho deciso di fare un controllo. Prendono la sonda, l’appoggiano sulla pancia: silenzio. […] Mi spostano nella sala ecografia e chiamano il ginecologo. […] punta il cuore: silenzio. Tutti sono zitti. Allora parlo io: “Non c’è battito vero?”».
Silvia e Nicola raccontano così il loro passaggio dalla gioia dell’attesa al lutto. Un lutto incompreso perché personale sanitario, amici, famigliari sembrano non capire che quel bimbo nato senza vita era una persona ed era un figlio.
Quattro ogni dieci
Quella di Matteo viene definita dalle organizzazioni internazionali «morte perinatale». Riguarda i bimbi tra la 28ª settimana di gravidanza e il 7° giorno dopo il parto. Per i bimbi sotto le 28 settimane si parla di «aborti spontanei» (miscarriage) che sono molto più frequenti e difficili da registrare.
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità1, nel mondo si sono contati nel 2015 circa 2,6 milioni di bimbi nati morti (stillbirth): 18,4 ogni mille nati vivi. Di questi, 1,3 milioni sono deceduti durante il travaglio, prima della nascita e, per la gran parte, erano morti evitabili. Il 98% degli stillbirths avvengono nei paesi a basso e medio reddito dove l’assistenza sanitaria è carente o assente. Nello stesso periodo i bimbi morti entro i primi 7 giorni dalla nascita sono stati 2 milioni: 4,6 milioni di morti perinatali.
In Italia, la morte perinatale riguarda 4,1 bimbi ogni mille nati vivi. Nel 2016, quando le nascite sono state 468.345, le morti perinatali sono state 1.920: circa 700 nei primi sette giorni dalla nascita, gli altri in utero, dopo la 28a settimana. Nello stesso anno, secondo l’Istat2, nel nostro paese gli aborti spontanei sono stati 61.580. Di questi, l’89% (55mila) sono avvenuti entro le prime 12 settimane (46.500 entro le 10). Le interruzioni volontarie di gravidanza sono state 84.874.
In Italia, un bimbo concepito su quattro, il 23%, non sopravvive.
Uno studio della Johns Hopkins University3 stima che negli Usa finiscano in un aborto spontaneo il 30-40% dei concepimenti. Si parla di stima e non di dati registrati perché la maggior parte di essi avviene prima che la donna si sia accorta di essere incinta e non danno luogo, quindi, a un ricovero ospedaliero. Lo stesso studio, inoltre, afferma che il 50% delle perdite di gravidanza non hanno spiegazione.
Un tabù che genera solitudine
L’arrivo di una gravidanza nella vita di una coppia è un evento spartiacque che richiede ai genitori una rivoluzione nel loro modo di affrontare la vita. La morte del bimbo atteso è un secondo spartiacque, un terremoto.
Anche per quelli che hanno già altri bambini, il lutto per il piccolo che si spegne nel grembo è grande. L’evento costringe la coppia a rinunciare al suo progetto genitoriale. Quella creatura già tanto amata viene a mancare.
I genitori sono assaliti dall’incredulità e dal dolore, poi da una grande confusione emotiva: si mischiano in loro vissuti di vergogna, paura, rabbia, dubbi e sensi di colpa: «Non siamo riusciti a proteggerlo»; «Se fossimo andati subito al pronto soccorso…».
Assieme al dolore, allo spaesamento e al senso di colpa, sovente i genitori in lutto sentono una grande solitudine. La morte in gravidanza, pur essendo frequente, è percepita come innaturale e vissuta come un tabù. Spesso, di fronte a essa, le persone fuggono (dai, non parliamo di queste cose tristi) o negano (non era neanche un bambino; ma sì, ne farete altri), qualcuno è insofferente (dopo tre mesi soffri ancora?).
Sembra che il lutto di questi genitori non abbia diritto di esistere, che sia un sentimento inopportuno ed esagerato. Sembra che quei bambini siano figli solo per loro: «Allora dentro di me – scrive Silvia – inizia a salire il grido di una mamma orfana. È il grido di una madre che vuole far sapere al mondo che ha avuto un figlio che è morto! Non è stata una fantasia, è stato reale!».
L’associazione CiaoLapo
La storia di Silvia e Nicola è stata raccolta in un libro4 dall’associazione CiaoLapo5, nata nel 2006 a Prato da due «genitori speciali», Claudia Ravaldi e Alfredo Vannacci, in ricordo del loro piccolo Lapo, morto in utero a 38 settimane. CiaoLapo si occupa, da un lato, di accompagnare le famiglie in lutto e, dall’altro, di ricerca scientifica e di formazione rivolta al personale sanitario.
Ai tempi del loro lutto, in Italia non c’era sensibilità sul tema, e per Claudia e Alfredo è stato fondamentale conoscere associazioni che operavano in altri paesi. Avendo formazione medica e psicologica, hanno iniziato a importare la ricerca scientifica estera strutturando un modello per accompagnare i genitori e uno di istruzioni per operatori sanitari.
Oggi l’associazione ha referenti in tutte le regioni italiane e accompagna genitori in lutto con l’aiuto psicologico individuale e i gruppi di auto mutuo aiuto seguiti da professionisti volontari.
Abbiamo sentito Micarnela Darsena, psicoterapeuta volontaria di CiaoLapo dal 2012: «L’associazione accoglie tutti. Che siano genitori passati attraverso l’interruzione terapeutica o volontaria, che abbiano subito un aborto spontaneo, o morti perinatali. Non facciamo distinzioni. Accogliamo il genitore e il dolore che porta per il proprio bambino, e ci occupiamo di sostenerlo e aiutarlo a elaborare il lutto».
Micarnela è entrata nell’associazione dopo aver vissuto in prima persona la perdita di due gemelline, Elisa e Silvia, nate alla 23° settimana e vissute solo pochi minuti. Dopo aver fatto il suo percorso come genitore, ora, come psicoterapeuta, offre sostegno agli altri, facilita i gruppi e fa formazione agli operatori sanitari.
Psicologia e fede
Oltre all’associazione CiaoLapo, sono nate negli anni in Italia anche altre iniziative6. Una di esse è quella promossa da Benedetta Foà7, psicologa clinica e counselor, esperta di lutto in gravidanza. Grazie alla sua esperienza professionale ha dato vita, cinque anni fa, al seminario «dalle tenebre alla luce»: cinque giorni residenziali nei quali un gruppo di 10-15 genitori per volta viene accompagnato da Benedetta stessa e da un sacerdote in un percorso di elaborazione del lutto che mette in rilievo anche la dimensione religiosa, portando i genitori a una riconciliazione con sé, con il bambino perduto e con Dio. «Si parla poco del tema aborto – ci dice Benedetta al telefono -, sia di quelli spontanei che di quelli procurati. Soprattutto, si parla poco dello stress post aborto. La nostra società fa difficoltà a stare davanti al dolore. Una volta si partoriva e moriva in casa. Oggi, con l’ospedalizzazione, la sofferenza non si vede più, ed è diventato impossibile parlarne. Amici e parenti tacciono, magari per paura di far soffrire i genitori in lutto, ma, alla fine, li lasciano nella solitudine. Inoltre, spesso, i genitori non riescono neppure ad avere il corpicino del loro bimbo per seppellirlo e lasciarlo andare, e non hanno il conforto religioso».
Sentiamo al telefono anche don Roberto Panizzo, il sacerdote che Benedetta Foà ha coinvolto nell’esperienza dei seminari: «Mi era già capitato d’incontrare persone che non riuscivano a riconciliarsi con se stesse e con Dio per la loro esperienza di aborto spontaneo, oppure voluto. Chi ha avuto un aborto spontaneo, spesso sente forti sensi di colpa perché si vede inadeguato al ruolo, incapace di generare. Chi provoca un aborto ha un peso in più. In fondo però i sentimenti sono gli stessi: senso di colpa, motivato da cause differenti, disistima e difficoltà a lasciarsi perdonare. Mettere tutto questo in un rapporto filiale con Dio e in una condivisione con altri è terapeutico, sia dal punto di vista psicologico che spirituale».
Stare nel dolore
Con le loro attività, CiaoLapo e le altre iniziative contribuiscono a creare uno spazio di dibattito che oggi è ancora inesistente: «Già si fa fatica a parlare di morte e di lutto in generale – afferma Micarnela -, ancora di più se si tratta di un bambino. Le persone si difendono. È un dolore che non viene riconosciuto».
Anche gli operatori sanitari spesso minimizzano quello che sta succedendo alla coppia che si presenta in pronto soccorso: «Questo è fatto nel tentativo di far superare il dolore. Ma il dolore va attraversato. Per i genitori non è possibile fare finta che non sia successo niente. Per loro niente sarà più come prima – sottolinea con forza Micarnela -. Elaborare non vuol dire dimenticare, ma integrare quello che è successo nella mia storia di vita, dargli un personale significato, e cercare di riadattare la mia vita tenendo conto di quella perdita. I genitori soffrono molto la mancata comprensione del loro dolore, il mancato riconoscimento di quel bambino così amato. Soffrono l’invito a reagire, a superare velocemente, a non piangere più… a non stare in quel dolore.
Ogni genitore vive il suo lutto in modo personale e deve potersi sentire accolto».
«Ho terminato da poco un percorso con una coppia che ha perso il figlio otto anni fa – racconta Benedetta -. Lei per otto anni ha negato a se stessa che aveva perso un figlio. Però stava male. Quando la situazione si è incancrenita è arrivata da me.
Sono tante le ragioni per cui le persone reagiscono in modi diversi. C’è qualcuno che ci passa sopra dicendo “va bene, è la natura”, qualcuno se ne occupa, ad esempio facendo dire una messa e pregando per lui, qualcun altro invece va in depressione, si ammala, non riesce più a reagire. Ho in mente una signora che ha perso il bambino il giorno prima di partorire. Io l’ho incontrata dieci anni dopo. Nel frattempo era entrata e uscita da ospedali psichiatrici e aveva, di fatto, abbandonato la prima figlia per gestire il lutto del secondo».
«L’esperienza ci fa dire che il dolore non lo si può ignorare – aggiunge don Roberto -, non si può evitare facendo finta di niente. L’unico modo per superarlo è quello di renderlo presente con una lettura positiva, e qui la fede ci aiuta, perché Cristo ha assunto su di sé la sofferenza. Non ti dà una spiegazione, però condivide con te il cammino. Puoi affrontare il dolore cercando non tanto di evitarlo o di dargli delle ragioni di comodo, quanto di dargli ragione nell’oggi. Dare al dolore un senso oggi, per quello che sei ora, permette di trasformare qualcosa di oggettivamente negativo in qualcosa di salvifico. È fondamentale che il dolore si accolga. Il dolore ha un senso. Nella mia libertà, solo io posso darglielo».
«Dalle tenebre alla luce»
Se il dolore non si può evitare, e zittirlo spesso significa amplificare la sua voce, il primo passo è riconoscerlo e dargli un nome. Per questo è importante il confronto con qualcuno che sappia aiutare, e anche la condivisione con chi ha dei vissuti simili.
L’esperienza del seminario «dalle tenebre alla luce» mette in rilievo proprio queste due dimensioni, aggiungendo, per i credenti, quella spirituale. «È un percorso sul lutto, nel quale ci si prende cura del bambino che non è nato», spiega Benedetta.
Nei seminari, organizzati ogni volta in una città diversa, è condensato tutto ciò che nel suo lavoro quotidiano Benedetta propone con approccio laico ai singoli genitori in lutto, associando a esso l’aspetto religioso.
Nel seminario i genitori vivono quattro passaggi fondamentali: possono parlare dell’accaduto in un clima di ascolto privo di giudizio; lasciano emergere sentimenti che a volte loro stessi negavano; vivono un incontro simbolico con il figlio attraverso un oggetto, una lettera scritta e l’uso guidato dell’immaginazione; dopo aver recuperato l’identità del figlio, gli dicono addio, lo lasciano andare.
Don Panizzo racconta: «Si comincia con l’accoglienza e il racconto vicendevole. L’obiettivo è di aiutare i genitori a ristabilire un rapporto con i loro figli, un rapporto che da un lato è interrotto, ma dall’altro è continuamente presente come un’esperienza traumatica. Benedetta chiede alle persone di portare un oggetto: un ciuccio, un pupazzetto, nel quale identificare la creatura che non c’è più. Questo oggetto viene manipolato, tenuto in mano per tutto il percorso, in modo che il contatto fisico crei un rapporto. A un certo punto si dà un nome al bambino e gli si scrive una lettera. Una lettera di addio, di ricordo, di espressione di affetto. Il momento in cui si ristabilisce un contatto con il bambino è molto delicato e doloroso. Poi Benedetta chiede ai genitori di figurarsi un incontro con lui. Il figlio può essere immaginato nel luogo che preferiscono, può avere qualsiasi età. A volte ha 5 anni, altre volte è un giovane. Spesso l’età corrisponde a quella che avrebbe se fosse vivo. I genitori sono chiamati a immaginare l’incontro con il figlio, e poi anche la sua morte. Questo perché rivivano la perdita nel momento presente, in un contesto comunitario, di accoglienza e di fede. L’ultimo momento è quello nel quale i genitori seppelliscono l’oggetto.
Infine si celebra una messa nella quale si benedicono delle vesti bianche, come nei battesimi. Questa messa aiuta i genitori a sperimentare la comunione con Dio che dipende anche da quanto lasciano entrare nella gloria di Dio il loro bambino.
Se il percorso ha successo, i genitori non sono più legati all’episodio in cui hanno perso il loro bambino. Lo lasciano andare. Iniziano a ricordarlo non più legato in maniera traumatica a loro, ma ormai lasciato a Dio».
Un corpo da toccare
I genitori che perdono il proprio bimbo nelle prime settimane di gravidanza non possono avere con lui nemmeno il più elementare contatto fisico. Ma quando è possibile, l’aspetto del toccare, del vedere, del poter vivere un rito di separazione è importante. Micarnela conferma: «Questo è un tema su cui stiamo formando gli operatori sanitari. La vista, il contatto con il bambino, il poter avere dei ricordi, sono elementi preziosi per l’elaborazione, per il distacco, per poter salutare il bambino. Quando i genitori non riescono a farlo, in seguito si trovano a gestire molte emozioni in più: “Avrei dovuto fare, dire…”.
Per le perdite molto precoci, quando non c’è nessun contatto fisico, a volte i genitori compiono qualche rito personale: piantano un albero, fanno volare un palloncino in memoria del figlio. È importante poter celebrare il passaggio di quel bambino».
Benedetta aggiunge: «Molte persone mi hanno detto di non aver avuto la forza di vederlo, però poi rimane un vuoto. Se l’aborto avviene quando il bimbo è un po’ più grande, spesso i genitori chiedono il corpo e lo seppelliscono. Il seppellimento è molto consolatorio. So che il mio bambino è lì, posso andare a piangerlo lì. Ci sono molti cimiteri che hanno degli spazi dedicati ai bimbi piccoli. Senza questo, invece, i genitori dopo un po’ iniziano a dire: “Ma dov’è il mio bambino? L’ospedale cosa ne ha fatto?”. Diventa tutto una ricerca, un dolore. A volte, quando si scopre cosa ne ha fatto l’ospedale è ancora più doloroso, perché magari è stato buttato via insieme ai rifiuti speciali».
«Per il mondo, per la medicina, quando il feto è molto piccolo, è solo materia, qualcosa di scarto – afferma don Roberto -. Quando l’aborto avviene presto, il genitore non ha la possibilità fisica di avere un contatto con suo figlio. Quando, con il tempo, la problematica viene fuori, è proprio questa mancanza che gioca un ruolo importante: nell’immaginazione l’evento rimane continuamente presente. Non c’è un parto, un dare alla luce. Il percorso del seminario “dalle tenebre alla luce” ha proprio questo fine: ripercorrere quello che non è avvenuto, cioè un contatto fisico, una relazione, ma anche il distacco.
Noi siamo degli esseri simbolici, abbiamo la capacità di trarre dalle cose, dalla natura, un significato più profondo. Anche un ciuccio può essere rivelatore. Siamo esseri simbolici e viviamo nella nostra carne, nella nostra creaturalità fisica, oltre che psicologica e spirituale, e quindi abbiamo bisogno di materia, di cose concrete per entrare in relazione».
Lasciare andare
Nei casi di aborti dalla 20a settimana in su è più facile che i genitori e, in molti casi, anche i fratelli più grandi, possano vedere e toccare il corpo del bimbo. Si può vestirlo, fare delle foto, creare dei ricordi tangibili da portare a casa. «CiaoLapo fornisce agli ospedali la Memory box, una scatola con una copertina, degli abitini in cui avvolgere il bimbo. Tutto quello che i genitori possono fare in quelle poche ore è importantissimo, perché possano tornare a casa non proprio a braccia vuote. Questo, a livello internazionale, è riconosciuto come un buon inizio di elaborazione».
Per quanto riguarda un vero e proprio rito funebre, Micarnela ci spiega: «Non so in altre regioni, ma in Lombardia, che venga richiesto o meno dai genitori, si procede alla sepoltura del corpicino a qualsiasi epoca gestazionale. I genitori possono portare a casa il bimbo e fare personalmente la sepoltura. A volte non se la sentono e lasciano che sia l’ospedale a occuparsene. Se intendono farlo loro devono fare richiesta entro 24 ore. Purtroppo non sempre il personale informa i genitori di questo».
Benedetta ci parla della sua esperienza: «Faccio parte dell’associazione Difendere la vita con Maria che ha aperto delle convenzioni con diversi ospedali per occuparsi del seppellimento. Il problema è che il genitore, quando sta perdendo il bambino, è sconvolto. In quel momento non è in grado di pensare in modo lucido e, qualunque cosa gli venga proposta dall’ospedale, si adegua. Sovente non sa neanche che si può seppellire, e quindi lascia fare all’ospedale. Se quest’ultimo ha la convenzione con la nostra associazione, allora propone il seppellimento».
La giornata del BabyLoss
Micarnela ci parla della giornata internazionale del BabyLoss di sensibilizzazione sul lutto perinatale celebrata ogni anno il 15 ottobre: è un’iniziativa a livello mondiale che propone dei riti per ricordare i bimbi che i loro genitori non sono riusciti a vedere, a salutare, a tenere in braccio.
CiaoLapo, già diversi anni fa, ha fatto una proposta di legge per istituire una giornata nazionale di consapevolezza sul tema delle morti in utero. «La proposta è ferma in parlamento da anni, ogni tanto torniamo a fare questa richiesta proprio per allinearci a ciò che succede a livello internazionale». La richiesta è che anche l’Italia riconosca questa giornata e inizi a far uscire dal silenzio il lutto di questi «genitori speciali».
Luca Lorusso
Note
1- Dati riportati nella pagina dedicata alla mortalità perinatale di www.epicentro.iss.it il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica a cura del Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità.
3-Johns Hopkins Manual
of Gynecology and Obstetrics edito nel 2012 dal Dipartimento di Ginecologia e Ostetricia della
Johns Hopkins University School of Medicine.
4- Claudia
Ravaldi (a cura di), La tua culla è il mio cuore, Officina grafica,
Verona 2016.
6- Ne citiamo solo alcune, ma ciascuno può trovarne nella propria zona di residenza: Il Mandorlo, studio di psicologia-psicoterapia a Torino (www.post-aborto.it/equipe/); La Vigna di Rachele, rete ecclesiale per l’elaborazione del lutto per aborto (www.progettorachele.org); A braccia vuote, (www.luciarecchione.it/sportello-a-braccia-vuote/).
– Claudia Ravaldi ha scritto diversi volumi sul tema della morte in gravidanza e del lutto. Citiamo qui solo La morte in-attesa e La tua culla è il mio cuore, entrambi pubblicati da Officina Grafica Edizioni, Verona 2016;
– Benedetta Foà, Dare un nome al dolore, Effatà editrice, Cantalupa (To), 2014; Le doglie del ri-nascere, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2018;
– L. Bulleri, A. De Marco, Le madri interrotte, Franco Angeli, Milano 2013.
Il lutto dei padri
Quelle poche volte che si parla della perdita di un figlio in gravidanza, ci si riferisce soprattutto al lutto delle madri. E il lutto dei padri? «Il lutto dei padri – risponde Micarnela Darsena dell’associazione CiaoLapo – purtroppo è ancora meno riconosciuto di quello delle mamme. Questo accade per un problema culturale generale con le emozioni maschili: gli uomini devono essere forti, devono reagire, non devono piangere, e così via. Molti papà ci dicono: “Per un po’ mi hanno chiesto ‘come sta tua moglie?’, ma a me non hanno mai chiesto come sto”. Caspita! Anche quel papà ha sofferto per la perdita di quel bambino, anche quel papà aveva investito in progettualità su quella nascita. Quanto dolore c’è in un papà che ha perso il suo bimbo.
Quando nei nostri incontri di gruppo sono presenti dei papà, spesso ci dicono che quelli sono gli unici momenti in cui possono parlare del loro dolore.
Hanno sempre detto loro: “Tu devi essere forte per tua moglie, devi sostenerla”. Certo, nelle dinamiche di coppia è facile che inizialmente uno dei due sostenga l’altro e poi, quando questo inizia a stare meglio, il primo si permetta di lasciar andare le emozioni. Questa cosa generalmente succede ai papà: cominciano a stare male quando le mamme stanno meglio, perché finalmente se lo concedono».
L.L.
La sepoltura
Le linee guida internazionali sull’assistenza al lutto, in gravidanza o dopo il parto, prestano molta attenzione alle informazioni da dare ai genitori in merito ai riti funebri e alla sepoltura. È esperienza condivisa a livello transculturale che poter sancire il passaggio, poter chiudere un cerchio, anche solo simbolicamente, è molto importante per i genitori e per il loro lutto. […] È molto importante che i genitori possano conoscere chiaramente le opzioni possibili […]. I genitori che dopo mesi, in molti casi addirittura dopo anni dalla perdita del loro bambino, chiedono informazioni in merito alla sepoltura, riferiscono di aver provato sollievo, e pace, quando si sono potuti recare al cimitero […].
In caso di morte perinatale (dalla 28ª settimana di gestazione)
In questi casi vige l’obbligo di registrazione presso l’anagrafe come previsto dall’art. 74 del Regio Decreto 09/07/1939 n. 1238 […].
In caso di aborto
I regolamenti cimiteriali italiani, pur con variazioni locali, si basano sul D.p.r. 10/09/1990 n. 285, il quale nell’articolo 7 dichiara: […]
2. Per la sepoltura dei prodotti abortivi di presunta età gestazionale dalle 20 alle 28 settimane complete e dei feti che abbiano presumibilmente compiuto 28 settimane di età intrauterina […] i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale.
3. A richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti con la stessa procedura anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane.
4. Nei casi previsti dai commi 2 e 3, i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione o estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale […].
C. Ravaldi, da La morte in-attesa, Officina Grafica, Verona 2016, pp. 155-158
Indagine sulla maternità surrogata
Le attuali conoscenze scientifiche dicono che il rischio di conseguenze psichiatriche sulla madre surrogata e sul bambino è elevato. È difficile sostenere la tesi che avere dei figli sia un diritto. È altrettanto difficile non considerare la maternità surrogata come una particolare forma di sfruttamento della povertà. Per ora la sola e indiscussa certezza è che la pratica si è trasformata in un enorme affare.
Testo di Rosanna Novara Topino
In Italia le tecniche di Procreazione medicalmente assistita (Pma) restano precluse alle coppie omosessuali, ai single e alle mamme-nonne. Sono inoltre vietate la fecondazione post-mortem, cioè l’utilizzazione dei gameti del marito o compagno deceduto e l’utilizzazione degli embrioni a scopo di ricerca (permessa invece dal 2016 in Gran Bretagna). Peraltro il Tribunale di Milano, con una sentenza del 15 ottobre 2013 che riguardava un caso di surrogazione di maternità richiesta da una coppia italiana in Ucraina, stabilì che doveva escludersi la consumazione del delitto, da parte della coppia italiana, di falsa dichiarazione di maternità poiché l’atto di nascita del figlio era conforme alla lex loci, che in Ucraina impone il riconoscimento dello status di madre alla madre sociale (la committente) e non alla madre surrogata (cioè della gestante) o alla madre biologica (cioè della donatrice degli ovuli). Per quanto riguarda le coppie omosessuali, che hanno avuto un figlio mediante maternità surrogata all’estero, attualmente in Italia il figlio viene registrato a nome di un unico genitore, come genitore single. Non è infatti passata la proposta di legge della stepchild adoption, che prevede il riconoscimento, come genitore adottivo, del compagno di un genitore biologico. Va detto che il Tribunale di Roma, la Corte d’Appello di Torino e la Corte di Cassazione hanno più volte concesso la stepchild adoption ai partner dei genitori biologici, nell’ambito di coppie omosessuali, sottolineando la preminenza dell’interesse del minore rispetto a qualsiasi altro interesse dello stato.
Affari e turismo riproduttivo
Nei paesi in cui è consentita la surrogazione della maternità, essa si è ben presto trasformata in un enorme giro d’affari. Negli Stati Uniti esistono oltre 400 cliniche dedicate. Le donne single o le coppie lesbiche possono scegliere su internet gli spermatozoi in base alle caratteristiche genetiche, al quoziente intellettivo e al carattere del donatore. L’acquisto viene recapitato dai corrieri in una notte, per cui si parla di overnight-male, cioè di «uomo di una notte». Gli ovociti di donne belle e intelligenti (spesso vengono messi annunci per cercarne sui giornali studenteschi universitari) arrivano a costare 50mila dollari. Naturalmente sono nate numerosissime agenzie specializzate nel far incontrare la domanda e l’offerta: forniscono le madri in affitto (che spesso possono essere scelte su catalogo), si occupano eventualmente della ricerca dei gameti se la coppia richiedente è sterile, delle visite mediche della futura gestante e della clinica in cui avverrà il parto e infine delle pratiche legali. Con un piccolo sovrapprezzo, di circa 250 dollari, è inoltre possibile scegliere il sesso del nascituro.
Naturalmente l’acquisto di gameti, il pagamento delle madri in affitto e tutte le spese mediche, assicurative, legali, di sostegno psicologico per la gestante che dovrà poi cedere il neonato alla coppia committente, sono a carico di chi richiede la Gestazione per altri (Gpa), quindi è evidente che il presunto «diritto alla procreazione», sbandierato da chi sostiene questa pratica, è senza alcun dubbio un privilegio per persone o coppie facoltose, che molto spesso alimentano il turismo riproduttivo per recarsi dai paesi come il nostro, dove la Gpa è vietata, in quelli dove tutto è permesso. In California nel 2010 sono nati 1.400 bambini con maternità surrogata, metà dei quali richiesti da coppie straniere, mentre in India, dove sono attive oltre 3.000 cliniche, nascono oltre 1.500 bambini l’anno con Gpa, un terzo dei quali per coppie straniere. In Ucraina nel 2011 sono state portate a termine con Gpa 120 gravidanze, ma il numero reale potrebbe essere più elevato.
Sfruttamento della povertà
Non c’è dubbio che la maternità surrogata sia una particolare forma di sfruttamento della povertà da parte di persone facoltose. Basti pensare a cosa prevedono i contratti di maternità surrogata: la donna che si presta per la gravidanza deve rinunciare a ogni diritto sul bambino, deve acconsentire all’aborto in caso di malformazione, deve essere disponibile a fornire il proprio latte dopo il parto e deve pagare delle penali se non rispetta gli standard sanitari richiesti. In alcuni stati, come la Thailandia, i committenti possono rifiutare il figlio con una malattia o un handicap, come capitato nel 2014: una coppia australiana committente di due gemelli ne rifiutò uno, nato Down e con una grave patologia cardiaca.
In realtà, secondo i risultati di alcune ricerche scientifiche, la maternità surrogata è un’autentica violenza perpetrata sia alle madri surrogate che ai figli.
Le madri surrogate, infatti, per favorire l’impianto degli embrioni, devono essere sottoposte a ingenti dosi di ormoni, che ne possono pregiudicare la salute. Oltre a questo bisogna considerare che, secondo una ricerca condotta da neuroscienziati dell’Università autonoma di Barcellona e pubblicata su Nature Neuroscience, i cambiamenti ormonali che avvengono in gravidanza modificano la struttura cerebrale della madre, riducendo per un lungo periodo di tempo il volume di alcune specifiche regioni cerebrali deputate alla cognizione sociale e funzionali alla focalizzazione della madre sul figlio. Si tratta della rete neurale associata alla teoria della mente, cioè la capacità di attribuire stati mentali (pensieri, sentimenti, intenzioni, desideri) a sé stessi e agli altri. In alcune di queste regioni si verificherebbe, durante la gravidanza, un aumento dell’attività neuronale, che rende le madri particolarmente sensibili alle immagini dei propri neonati, molto più che a quelle di altri bambini. Nel cervello dei futuri padri, secondo questa ricerca, non si verifica niente di analogo. Questi risultati ci fanno intuire quale violenza ci sia nella richiesta a una donna di cedere il proprio neonato alla coppia committente e, nel contempo, fanno pensare che una coppia di omosessuali maschi oppure un uomo single siano forse meno adeguati ad allevare il proprio figlio, senza la presenza materna.
Un’altra ricerca, condotta da studiosi della Stanford University e pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha rivelato che per tutti i bambini, la voce della madre rappresenta una fonte importante di comfort emotivo, grazie alla complessa interazione tra diverse regioni cerebrali. Il feto sente la voce della madre mentre si trova in utero e, dopo la nascita, rappresenterà una costante nell’ambiente uditivo del bambino per tutta la fase del suo sviluppo. Essa inoltre accompagnerà molte delle informazioni fondamentali per il comportamento e l’apprendimento del piccolo. Durante l’ascolto della voce della propria madre, nel cervello dei bambini si attivano regioni che elaborano le informazioni uditive e le emozioni, le regioni che rilevano gli stimoli di ricompensa e li elaborano, le regioni che elaborano le informazioni sul sé e le aree che sono coinvolte nella percezione ed elaborazione dei visi. È chiaro che privare un bimbo della propria madre, sia pure surrogata, per farlo crescere con un single o una coppia di gay equivale a renderlo di fatto orfano di madre.
Conseguenze psichiatriche
Secondo le attuali conoscenze in campo psicanalitico e psichiatrico, la maternità surrogata è una pratica ad altissimo rischio di gravi patologie sia per la madre surrogata che per il bambino. L’osservazione del comportamento dei lattanti separati dalla madre che li ha portati in grembo e dei loro vissuti da adulti ha evidenziato la presenza di un grave trauma infantile. Il dialogo sensoriale ed emotivo fra madre e feto infatti si instaura durante la gravidanza, per cui, anche nel caso di maternità surrogata, si forma un vero e proprio legame madre-figlio. Inoltre, secondo le moderne teorie sull’epigenetica, l’espressività genetica viene modulata dall’ambiente che per il feto è rappresentato dalla madre che lo porta in grembo. Esperimenti condotti su animali hanno dimostrato che le madri e i cuccioli si riconoscono immediatamente dall’odore e dai suoni emessi, in linea con le ricerche sopra citate ed effettuate in campo umano. Cambiare la figura di riferimento, che per il neonato è soltanto la propria madre, può risultare pericoloso per la sua integrità psichica. Oltre a questo bisogna considerare le ripercussioni psichiche sulle donne, che hanno ceduto i figli portati in grembo. Spesso si verificano patologie psichiatriche di natura depressiva, che possono portare al suicidio. Un figlio ottenuto mediante maternità surrogata, una volta diventato adulto e venuto a conoscenza della sua reale origine, potrebbe vedere nei genitori sociali o biologici quasi degli aguzzini, nei confronti della propria madre surrogata.
L’assenza di una figura paterna, nel caso di figli di donne single o di coppie lesbiche, può avere ripercussioni altrettanto gravi, perché, secondo gli psichiatri, la figura paterna aiuta il bambino a comprendere le abilità sociali necessarie a vivere nel mondo esterno, nonché il senso del limite e del controllo. Inoltre la figura paterna aiuta a sostenere la frustrazione e a costruire l’autostima. L’assenza del padre determina un notevole senso di vulnerabilità, che può dare luogo a pensieri catastrofici riguardanti determinati accadimenti o la propria salute (con il rischio di cadere nell’ipocondria).
I sostenitori della gestazione per altri, della stepchild adoption o della genitorialità dei single dovrebbero seriamente prendere in considerazione i risultati di studi come quelli appena citati e ricordare che avere dei genitori è un diritto, mentre avere dei figli non lo è mai stato. In realtà al loro figlio mancherà per sempre un genitore.
con gioia e stupore ti ringraziamo perché per un’iniziativa del tuo amore preveniente ci troviamo in questo mondo. Per mezzo del Cristo, tuo dilettissimo Figlio, ci hai creati a tua immagine e ci hai rigenerati a vita nuova, rendendoci tuoi figli adottivi in virtù del dono del tuo Santo Spirito, che ci fa vivere l’entusiasmante avventura di chiamarti Papà nella Chiesa, tua famiglia. Nella fede riconosciamo che la nostra vita è una missione: attratti da te ed inviati nel mondo, ci percepiamo interiormente animati dal tuo Spirito d’amore che custodisce in noi la speranza. Ti supplichiamo umilmente: fa’ che nessuno rifiuti il tuo amore, in modo tale che cessi la povertà materiale e morale e ogni discriminazione di fratelli e sorelle.
O Cristo Gesù crocifisso e risorto,
aprendoci alla missione che tu ci affidi dicendoci: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi», la nostra fede rimane sempre giovane. Tu dai senso alla nostra vita, tu sei la verità che ci rende liberi, il tesoro che riempie di gioia la vita, il fondamento dei nostri sogni e la forza per realizzarli. Stando con te prendiamo coscienza che il male è provocazione ad amare sempre di più. Dalla tua croce gloriosa impariamo la tua logica amorosa, l’offerta di noi stessi come annuncio del tuo Vangelo per la vita del mondo. Tu per la fede abiti nei nostri cuori e vuoi parlare e agire in noi.
Spirito Santo, anima della Chiesa,
dal battesimo dimori in noi come in un tempio.
Illumina e infiamma la mente e il cuore di ciascuno di noi, rendendoci missionari del Vangelo nel mondo
intero. Ti ringraziamo per il dono di coloro
che ci hanno trasmesso la fede con la vita e la parola, testimoniando la perenne vitalità del Vangelo.
O Maria, Regina degli Apostoli e madre e modello della Chiesa,
prega per noi perché in fretta raggiungiamo gli ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù vivente nella Chiesa. Aiutaci a donarci nella vocazione che ci è stata regalata dal Creatore, seguendo il tuo Figlio Gesù. Insegnaci a metterci il grembiule per servire i più piccoli, promuovendo la dignità umana e testimoniando la gioia di amare e di essere cristiani. Ricordaci che molta gente ha bisogno di noi, che Cristo conta su di noi, chiamandoci incessantemente ad essere suoi discepoli missionari, sempre più appassionati per il suo Regno.
San Francesco Saverio, Santa Teresa del Gesù
Bambino, Beato Paolo Manna, intercedete per noi e accompagnateci sempre.
Amen. Alleluia!
don Francesco Dell’Orco di Bisceglie (BT), 02/08/2018
Ha ragione Salvini?
Cari Missionari,
ve la prendete se dico che, almeno in una cosa, Salvini ha ragione? Non è meglio se i coniugati che hanno figli vengano chiamati padre e madre, anziché genitore uno e genitore due?
Mario Zumpanesi 12/08/2018
Caro Mario,
dal mio povero punto di vista non credo ci sia bisogno di scomodare Salvini per dire che un bambino/a ha un padre (maschio) e una madre (femmina) e non genitore 1 e/o 2. Lo dice la natura stessa, la nostra specie. Tanto più che essa è una realtà con paladini più credibili di un ministro che governa (o fa campagna elettorale perenne) twittando.
Primo, c’è una tradizione dell’umanità che va avanti da qualche migliaio di anni ed è condivisa dalle culture più disparate. E questo è «civiltà», come avrebbe scritto Giovannino Guareschi che definiva «progresso» la «tornilette vicino alla stanza dove mangi e dormi», e «civiltà» il «cesso fuori da dove vivi» (come era un tempo nella sua Bassa).
Poi c’è una solida tradizione biblica e cristiana. È vero, il Vangelo non ha norme su come devono essere scritti e formulati i documenti dello stato, e quindi è legittimo che questo usi le diciture che preferisce. Ma se si vuole essere davvero inclusivi e rispettare tutti i credi e le opinioni, perché imporre a tutti quel «genitore 1 e 2» che, se rispetta una minoranza, insulta invece una grande maggioranza?
Da ultimo. Uno stato può e deve legiferare su aborto, divorzio, unioni omosessuali, gender, utero in affitto e via dicendo, ma per un credente l’aborto rimane un omicidio, il matrimonio è per la vita, l’unione tra due persone dello stesso sesso non è matrimonio, l’utero in affitto non è accettabile (vedi a pag. 62) così come la sperimentazione genetica sui feti, un bambino/a nasce dall’incontro tra uno spermatozoo di un maschio e l’ovulo di una femmina, eccetera. Benvenga la modifica dei documenti twittata da Salvini, purché mantenga uno spazio di rispetto per chi la pensa in modo diverso e non sia un’imposizione ideologica.
Dissentire da Gesualdi
Gent.mo padre Gigi,
seguo da anni la rivista e apprezzo molti articoli, devo però dissentire su molte cose scritte negli articoli di Francesco Gesualdi.
Ad esempio, nell’articolo di giugno appare che tanti problemi siano dovuti alla mancanza di sovranità monetaria degli stati. Quando si afferma che «la moneta unica ha prodotto risultati disastrosi», forse sarà pur vero in qualche caso (ha tolto terreno agli speculatori), ma è innegabile che i risultati positivi sono stati di gran lunga maggiori. Ma se la Grecia o l’Italia non avessero avuto una stabilità monetaria cosa sarebbe successo?
Come sarebbero stati gli interessi che si sarebbero dovuti pagare, senza l’euro, a chi ha prestato capitali (usati per politiche demagogiche come mandare in pensione statali con soli 15 anni di lavoro o dare invalidità a tanti che non ne avevano diritto)? Ma si è certi che bastava stampare altra lira per azzerare il debito? Il default dell’Italia sarebbe stato meglio?
Il vero problema è la mancanza di una politica comune (fiscale, economica, estera) e l’esistenza di tanti egoismi locali e nazionali. Ripeto: il problema non è la mancanza di sovranità monetaria.
Quando si fa riferimento a Keynes, come esempio da seguire si dimentica che sono passati 90 anni, che il mondo è cambiato, le distanze si sono enormemente accorciate; alcuni stati (europei e non solo) hanno bilanci inferiori a quelli di alcune multinazionali. Non si può tornare indietro … «Piccolo è bello», slogan in voga negli anni ‘80-’90 ha dimostrato che è un’illusione chiudersi nel proprio piccolo, nazione o gruppo.
Comunque, continuerò a leggere Missioni Consolata e quando leggerò gli articoli di Gesualdi scuoterò sconsolato la testa.
Antonio Borello 20/07/2018
Caro signor Antonio,
quanto Francesco Gesualdi scrive con competenza e passione, non è Vangelo. È un contributo alla comprensione di una realtà – come quella economica – estremamente complessa e sempre più fuori dal controllo non solo di noi gente comune, ma a volte anche dei governi.
È vero che ci fa più piacere leggere cose che confermano quello che già pensiamo, ma confrontarci con chi la pensa diversamente da noi ci arricchisce e ci può invogliare ad approfondire di più e conoscere meglio.
La logica di questa rivista non è quella dei social: riscuotere il più alto numero di «mi piace». Non cerchiamo il consenso, ma crediamo nel cuore e nell’intelligenza dei nostri lettori di cui rispettiamo fino in fondo la libertà di pensiero e di opinione.
Spezzare la catena
La rete che fa partire i migranti africani, cioè quelli che si fermano in Libia, ce l’hanno descritta più volte: ci sono quelli che girano nei paesi per convincere le persone a partire e poi le vendono a una lunga catena di intermediari in tutti i paesi attraversati. Vengono bloccate e torturate fin quando non arrivano altri soldi, e poi l’ultima sanguinosa estorsione avviene in Libia, che magari prende soldi italiani per rubarci su costruendo lager, e altri ancora li estorce dai poveretti per lasciarli imbarcare.
Non potrebbero giornalisti coraggiosi, magari assumendo informazioni dai missionari, descrivere bene questa catena (in cui, a occhio, c’entrano molti stati ex francesi e ora comunque collegati con la Francia che tanto strilla per non riceverli) e l’Italia occuparsi di diffondere queste informazioni su tutte le reti possibili, in modo che arrivino nei paesi d’origine dei migranti?
Claudio Bellavita
04/07/2018
Il problema è grande. Ci sono Ong, associazioni e chiese che si impegnano in questo campo. Pensi solo alla rete «Talitha Kum» creata da tante suore nel mondo che stanno lottando contro la tratta di persone. Oppure alle attività di cui abbiamo scritto a proposito del Niger (MC 3 e 4/2018) o del soccorso in mare (dossier MC 1-2/2018). Quanto alle responsabilità, quella francese è fuori discussione, visto la politica colonialista passata e recente. Ma neanche noi italiani possiamo ritenerci del tutto innocenti: Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia sono nostre ex colonie e il nostro colonialismo non è stato «più buono» di quello inglese, francese o tedesco.
Crollo di una diga in Laos
Spero che la tragedia del 24 luglio, quando il crollo di una colossale diga ha provocato la morte di oltre cento persone e la scomparsa di decine di villaggi nel Sud del Laos, convinca i governanti che il Mekong, più che un gigante pericoloso da imbrigliare con costosissime operazioni di ingegneria idraulica, è un fiume che dovrebbe essere amato, capito e valorizzato per quello che è, ovvero un patrimonio di eccezionale valore biologico, naturalistico e paesaggistico.
Spero che i professionisti dell’informazione facciano del loro meglio per ricordare a tutti che la tutela del Laos e della sua natura è di cruciale importanza per la conservazione degli equilibri ecologici e climatici nella regione del Sudest Asiatico e non solo.
Ave Baldassarretti
12/08/2018
I disastri non risparmiano alcun angolo del mondo. Ma non dovremmo aver bisogno di terremoti, inondazioni, incendi, tsunami ed eruzioni per «custodire il creato». Papa Francesco, nell’enciclica «Laudato si’», ci ha ricordato con forza e chiarezza la nostra responsabilità. Ma come è difficile per tutti cambiare e smettere di comportarci da «padroni» e diventare invece «custodi» e «giardinieri» del mondo.
Cammino verso Czestochowa
«Se vogliamo conoscere il cuore dei polacchi, occorre venire qui a Czestochowa al santuario della Madonna Nera. Bisogna ascoltare in questo luogo l’eco della vita dell’intero popolo vicino al cuore della sua Madre e Regina».
Queste parole pronunciate da Giovanni Paolo II esprimono bene quel rapporto tra il santuario di Czestochowa e la vita di milioni di fedeli. La prospettiva migliore per capire tutto questo è di partecipare a uno dei numerosi pellegrinaggi che a piedi da ogni parte del paese d’estate si dirigono qui. Si contano ogni anno circa 250mila pellegrini provenienti da tutte le 41 diocesi polacche.
La tradizione dei pellegrinaggi al santuario della Madonna Nera è antica. I primi gruppi documentati risalgono al
XVII sec. Nel settembre del 1626 un gruppo di 80 fedeli partì da Gliwice diretto a Czestochowa per onorare un voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dall’assedio dell’esercito danese. Il voto impegnava i cittadini a recarsi lì ogni anno per ringraziare e far memoria dell’evento.
Pochi anni dopo nel 1637 anche i fedeli della città di Kalisz iniziarono a recarsi a piedi al santuario e, cosa singolare, a fare a piedi anche il ritorno. Nel 1771, il 6 agosto, anche i varsaviani come voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dalla peste inziarono a pellegrinare verso il santuario. Questi primi gruppi iniziarono una tradizione ininterrotta che si è sviluppata grandemente e ancora oggi dopo diversi secoli resiste nel tempo.
Dalla sola città di Varsavia partono ogni estate almeno cinque pellegrinaggi a piedi, tra questi quello organizzato dalla Pastorale universitaria dell’Arcidiocesi che ha sede nell’antica chiesa di sant’Anna, nel centro della città. Vi partecipano mediamente 4mila giovani e famiglie divisi in 19 gruppi. Uno di questi gruppi, quello argento, lo guidiamo noi missionari della Consolata. Infatti, fin dal nostro arrivo in Polonia nel 2008 ogni anno partecipiamo al pellegrinaggio con questo gruppo.
Il percorso è di circa 300 km diviso in 10 giorni dal 5 al 14 agosto. La giornata inizia con la sveglia all’alba. Dopo essersi preparati, aver ripiegato la tenda o aver sistemato il sacco a pelo usato nel fienile di qualche contadino, i pellegrini sono pronti ad affrontare la lunga giornata. Ogni due ore circa si fa una sosta nei pressi di una parrocchia che organizza l’accoglienza. Il parroco benedice con l’acqua santa i gruppi che arrivano, mentre i parrocchiani ristorano gli affaticati pellegrini con panini e bevande. In cambio ricevono riconoscenza e tante preghiere. Il programma spirituale è intenso. Ogni giorno, in una cornice di canti gioiosi, vengono fatte conferenze dai sacerdoti, preghiere tradizionali, il rosario, la Corona alla divina misericordia e, come momento culminante, la S. Messa. Alla sera ci si saluta con un momento di ringraziamento in gruppo e un canto mariano. Ogni giorno si fa esperienza dell’ospitalità presso famiglie semplici di villaggi che condividono quello che hanno. Forniscono un po’ di acqua per lavarsi dopo la calda giornata, rendono accessibile il fienile per sistemare i sacchi a pelo e trascorrere la notte oppure i propri giardini su cui montare le tende e passare qualche ora di riposo notturno indispensabile per riprendere un po’ di forza e ripartire il giorno dopo.
Il clima che si crea tra i pellegrini è di grande fraternità e di gioia. Una gioia che umanamente è difficile scorgere in una esperienza obiettivamente faticosa. Eppure, ogni partecipante vive una forza interiore che lo sorregge e incoraggia. Questa forza, lo crediamo, ci è data da Colei verso cui e per cui camminiamo offrendole le fatiche e tantissime intenzioni di preghiera.
Il nostro gruppo in mezzo agli altri si distingue per la caratteristica missionaria. La nostra presenza internazionale vuole essere un segno della universalità della nostra fede vissuta nella fraternità. Spesso invitiamo confratelli e amici da altri paesi che arricchiscono le giornate con i loro racconti e testimonianze.
In una cultura occidentale che propone all’uomo moderno una tecnologizzazione globale, spesso anonima, che esclude le distanze e gli incontri reali così come ogni forma di sacro, il pellegrinare a piedi ha ancora un suo significato prezioso: ridare all’uomo il giusto orientamento per il quale è nato, quello del camminare con altri condividendo una forte esperienza di fede. Per questo andare a piedi percorrendo centinaia di chilometri ha un suo senso e le persone che vi partecipano lo testimoniano con convinzione.
padre Luca Bovio Czestochowa, 17/08/2018
Grazie, Asante sana
Ringrazio Dio per avermi aiutata a concludere gli studi e a diventare una maestra. Lo ringrazio perché l’aiuto di tante persone che neppure conosco mi ha permesso di arrivare a questo punto e superare tutte le difficoltà. Grazie per esserci stati per me quando avevo più bisogno di voi.
Catherine Smaila Maralal, Kenya
Con queste parole Smaila [o Smiler) ha voluto ringraziare tutte le persone che hanno contribuito alla sua educazione dalla scuola elementare fino al completamento dei suoi studi al Teacher’s College.
Ma oggi Smaila è tornata a sorridere grazie all’aiuto di tanti amici che mi hanno permesso di aiutarla nei lunghi anni di scuola. Con lei e con tanti altri bambini e bambine che hanno concluso il loro ciclo di studi o stanno ancora studiando, vi ringarzio anch’io di cuore. Il «sostegno a distanza» è un’avventura lunga e impegnativa, ma la gioia che dà è grande. Che il Signore ricompensi ciascuno di voi per la pazienza e l’affetto con cui aiutate noi missionari a restituire il sorriso e la speranza a tante persone in situazione di grande povertà e sofferenza.
Amoris Laetitia famiglia missionaria
«Saluto i partecipanti dell’Associazione Incontro Matrimoniale e vi ringrazio per tutto il bene che voi fate per aiutare le famiglie. Avanti» (Papa Francesco, 10/9/2016).
Il 19 marzo 2016 papa Francesco ha firmato Amoris Laetitia (AL), l’esortazione apostolica postsinodale sull’amore nella famiglia frutto dei due sinodi dei vescovi del 2014 e del 2015.
Il documento si apre con un tono positivo: nonostante il pessimismo talora diffuso e le difficoltà oggettive che la famiglia incontra in ogni parte del mondo, AL afferma che nelle famiglie si vive la gioia dell’amore e che l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una bella notizia.
AL è il frutto del lavoro dei due sinodi, ma è scritto nello stile narrativo di papa Francesco che ha il dono di farsi capire perché parla il linguaggio della gente. La lettura e riflessione su questo ricco documento impegnerà ogni cattolico (è indirizzata a tutta la Chiesa e segnatamente «agli sposi cristiani») laico, ordinato, consacrato e verrà arricchita dai contributi dei vescovi e teologi e soprattutto da tanti sposi. Già ai sinodi erano presenti varie coppie di sposi che hanno dato un contributo con le loro testimonianze di vita.
AL non è anzitutto un’esposizione dottrinale sulla famiglia, ma una narrazione della realtà quotidiana nelle sue varie sfaccettature. È una miniera di informazioni. Nel capitolo quinto, «L’amore che diventa fecondo», vi sono pagine indimenticabili che descrivono la vita concreta della famiglia nei suoi vari membri: papà, mamma, figli, nonni. Si tratta quasi di un manuale, la cui lettura e meditazione offrono ispirazione e guida.
Nel capitolo sesto che presenta alcune prospettive pastorali, AL insiste sul fatto che «le famiglie cristiane sono i principali soggetti della pastorale familiare, soprattutto offrendo la testimonianza giorniosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche» (n. 200). «Per questo si richiede a tutta la Chiesa una conversione missionaria: è necessario non fermarsi ad un annuncio meramente teorico e sganciato dai problemi reali delle persone» (n. 201). In modo particolare AL chiede di guidare i fidanzati nel cammino di preparazione al matrimonio (nn. 205-11) e accompagnare gli sposi nei primi anni della vita matrimoniale (nn. 217-22).
Incontro Matrimoniale (Im)
Nella Chiesa esiste da oltre cinquant’anni un programma che è nato proprio da questa «conversione missionaria» che non si ferma a un annuncio meramente teorico sganciato dai problemi reali delle persone.
Si tratta dell’Associazione Incontro Matrimoniale, nata in Spagna verso la fine degli anni ’50 a opera di un sacerdote e una coppia di sposi: padre Gabriel Calvo e Mercedes e Jaime Ferrer. Im si è diffusa in America Latina e quindi in Usa, con il gesuita padre Chuck Gallagher. Dagli Stati Uniti è arrivata poi in circa 90 paesi in tutti i continenti col nome di Worldwide Marriage Encounter. In Italia si chiama Incontro Matrimoniale e ha iniziato a operare nel 1978 spargendosi progressivamente in quasi tutte le regioni, raggiungendo circa 40 mila coppie in tutta la penisola.
Il Weekend (We)
L’esperienza di base è un weekend, dal venerdì sera alla domenica pomeriggio, durante il quale tre coppie di sposi e un sacerdote offrono testimonianze su vari settori della vita di famiglia e i partecipanti hanno tempo per «parlarsi» in coppia, rivedere gli aspetti del loro vivere insieme, rinnovando l’impegno di amore che era stato all’origine della loro decisione di sposarsi.
«Perché dopo sposati ci si parla sempre meno?», è questa domanda che ha dato origine all’esperienza di Im. L’esperienza dice che col passare degli anni i coniugi, presi da tanti altri assilli come il lavoro, i figli, la carriera, trovano sempre meno tempo per parlarsi, parlare di sé e dei propri sentimenti, e limitano spesso la loro comunicazione a livello di servizio, trascurando il dialogo che è essenziale per la relazione.
Riscoprire e gustare il dialogo di coppia
Nella vita di coppia e di famiglia l’amore va imparato, praticato, ricostruito, e chi può testimoniarlo meglio di una coppia di sposi?
È questo che mi ha colpito quando per la prima volta, nel 1978 in Kenya, partecipai a un We del Marriage Encounter e vidi come la testimonianza delle coppie fosse efficace per stimolare i partecipanti – coppie e preti – a rinnovare la loro relazione con il dialogo e in un certo modo a risposarsi. C’è una caratteristica del programma Im che è proprio in linea con quanto richiede la Amoris laetitia: «Non fermarsi a un annuncio solamente teorico». Le coppie animatrici del we presentano la vita matrimoniale e familiare nella loro concretezza e questo fa molta presa sui partecipanti.
Ho avuto la grazia di vedere l’efficacia di questo programma in varie parti del mondo, tra africani, americani, europei. Il we sposi è un’esperienza di conversione, tantissime coppie dicono «ha cambiato la nostra vita di coppia, il nostro modo di relazionarci».
Oltre al programma per sposi, Im ha sviluppato anche programmi per fidanzati, per giovani (Choice) e il weekend per famiglie (vediwww.incontromatrimoniale.org).
Un’altra realtà impressionante è il lavoro silenzioso e delicato di migliaia di coppie e centinaia di preti che, ovunque sia presente Im, preparano le loro testimonianze, si prestano ad animare i vari we e offrono molteplici servizi per accompagnare i coniugi, i fidanzati, i giovani. Tutte persone che hanno sperimentato una «conversione missionaria» e s’impegnano perché tante altre persone e famiglie scoprano che «la famiglia è davvero una buona notizia».
Nel mondo vi sono milioni di coppie che hanno sperimentato Im. In Italia sono circa 40.000. Ma come mai è così poco conosciuto? Forse perché non è direttamente legato a una diocesi o a una parrocchia, forse perché non viene pubblicizzato abbastanza, ma conosciuto piuttosto per passa parola.
Testimoni
Gianfelice e Imelda Demarie di Torino, con don Antonio Del Mastro, parroco di San Damiano d’Asti, dal 2014 sono i responsabili nazionali di Im e ne cornordinano le varie attività in Italia.
A loro abbiamo chiesto cosa significa l’esperienza di Im e quali sono le sue prospettive in Italia.
Gianfelice e Imelda
«Innanzitutto grazie, padre Mario, per quest’opportunità, e poi un altro grazie va a voi missionari della Consolata in quanto noi, proprio grazie a voi abbiamo potuto conoscere e vivere Im.
Ti conosciamo da sempre ma abbiamo cominciato ad apprezzare il tuo coraggio nell’estate del 1984 quando ti abbiamo visto in azione in Kenya in un’estate che ci ha cambiato un po’ la vita.
Nostro zio, padre Giuseppe Demarie, allora maestro dei novizi a Sagana, ci fece vivere quell’esperienza. Ci portammo a casa uno zainetto pieno di umanità, di sorrisi, di concretezza e di sogni. Cominciò da lì un rapporto nuovo con la “missione”. Toati in Italia e nel giro di poco tempo contagiammo molte famiglie italiane ad “adottare” una famiglia bisognosa del Kenya. Fu solo l’inizio: padre Giuseppe poi, influenzato da te e dal tuo operato con le coppie del Kenya, ci invitò al we che ormai esisteva anche qui in Italia.
Sono passati 24 anni da quel giorno e possiamo dire che I’esperienza del we ci ha permesso di vivere in modo migliore il nostro “sì” detto 10 anni prima. Il cammino proposto da Im ci ha aiutati a prendere consapevolezza della bellezza di essere sposati dando un significato diverso al sacramento del nostro matrimonio. La decisione di amare ci ha permesso di superare gli alti e bassi della vita quotidiana e ci ha fatto capire quanto fosse arricchente per noi uscire dal nostro guscio e donare il nostro amore agli altri.
Dal marzo 1992 (data in cui abbiamo scoperto Im) a oggi abbiamo avuto modo di conoscere tantissime coppie e sacerdoti meravigliosi e ognuno ci ha arricchiti con la condivisione delle loro esperienze e sfide».
Don Antonio
«Mi ritengo un sacerdote particolarmente fortunato, perché, con l’associazione Incontro Matrimoniale ho scoperto la bellezza del team ecclesiale: ogni impegno viene vissuto insieme tra prete e coppia, le responsabilità sono condivise. Preghiamo insieme, condividiamo la nostra vita di tutti i giorni, le giornie e i dolori, le difficoltà sono affrontate insieme. Quando vado a cena da Gianfelice e Imelda io mi sento a casa. Le loro figlie si confidano affettuosamente con me. Tutte le settimane ci incontriamo e decidiamo insieme ogni iniziativa. Noi non siamo un’eccezione felice. In Im a tutti i livelli, ogni servizio è condiviso tra una coppia e un sacerdote o religioso/a. Ciò che l’Amoris Laetitia ci invita a fare nelle parrocchie, nel dare responsabilità alle coppie insieme ai sacerdoti, noi lo sperimentiamo già da molto tempo e troviamo che sia una testimonianza d’amore eccezionale.
Affinché i preti scoprano fin dall’inizio questa esperienza di comunione, abbiamo organizzato, nel giugno scorso, per la prima volta in Italia un we studiato in speciale modo per i sacerdoti, accompagnati da una coppia ciascuno. Hanno potuto aprire il loro cuore, affrontare insieme le loro delusioni e insuccessi, per scoprire quanto è bello amarsi e decidere insieme di essere missionari tornando nel proprio ambiente di vita. Gesù ha mandato i discepoli a due a due in missione. Anche oggi ritornare a vivere una Chiesa missionaria, dove la prima testimonianza viene dalla testimonianza del modo di vivere insieme, mi sembra la novità più bella».
Il team
«Concludendo in team vi condividiamo il nostro sogno che è anche il nostro programma:
essere sempre più inseriti nella Chiesa per essere di aiuto alle coppie, alle famiglie, ai giovani e ai sacerdoti e religiosi che desiderano approfondire e migliorare il loro cammino di relazione.
Un sogno che è stato confermato il 10 settembre scorso quando nell’udienza generale cui parteciparono settemila persone di Im da tutto il mondo, papa Francesco, salutandoci, ci ha ringraziato “per tutto il bene che voi fate per aiutare le famiglie. Avanti”».
Mario Barbero*
*Missionario della Consolata, biblista. Ha servito in Kenya, Stati Uniti, Congo Rd, Sud Africa e ora in Italia.