Siccità quest’anno diverso


Etiopia, Swaziland, Brasile, solo per citare i paesi nei quali sono presenti i nostri
missionari. Ma ce ne sono molti altri colpiti dall’ondata di siccità che si è verificata fra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016 e che ancora fa sentire i suoi devastanti effetti sulle vite di milioni di persone e sulle economie di molte nazioni.

Il 2015 è stato l’anno più caldo di sempre, o almeno del periodo del quale disponiamo di rilevazioni costanti, cioè a partire più o meno da metà Ottocento. L’anno scorso l’aumento delle temperature è stato di 0,76 gradi centigradi sopra la media che si era registrata fra il 1961 e il 1990 e di un grado pieno rispetto all’epoca preindustriale, cioè antecedente al 1865. A questo si è aggiunto El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che ha origine nella fascia tropicale del Pacifico ma che può interessare anche altre parti del globo: nel 2015 si è manifestato in modo particolarmente forte.

Quali siano le relazioni fra El Niño e l’innalzamento della temperatura, se e come possano influenzarsi l’un l’altro e che cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro è qualcosa che la comunità scientifica sta studiando senza approdare, per il momento, a conclusioni definitive. Quel che è certo è che un’ondata di siccità particolarmente impetuosa ha colpito diversi paesi in America Latina e in Africa. Cominciamo dall’Etiopia, che dallo scorso dicembre è l’oggetto di ripetuti appelli delle organizzazioni umanitarie proprio per la quantità di persone che la siccità ha esposto al rischio di carestia.

Etiopia, la peggiore siccità

«Qui siamo benedetti», scrive dall’Etiopia fratel Francisco Reyes, missionario della Consolata e direttore dell’Ospedale di Gambo, in Oromia. «La siccità ci ha risparmiati. I casi di malnutrizione non sono aumentati». Riporta poi Aljazeera che a Jijiga (o Giggiga, in italiano), nella regione Nordorientale del Somali, lo scorso aprile le piogge sono arrivate addirittura in anticipo e sono state particolarmente impetuose, al punto da provocare inondazioni in cui hanno perso la vita ventotto persone.

Ma già a pochi chilometri dall’ospedale di Gambo, o nei dintorni di Jijiga la situazione è ben diversa. Insieme all’Afar, la regione Somali e l’Oromia sono le regioni più interessate dall’ondata di siccità, e di acqua non se ne vede quasi più.

Secondo i dati della «Direzione generale Europea per l’aiuto umanitario e la protezione civile» (Echo), diffusi lo scorso aprile, «l’Etiopia sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi cinquant’anni in seguito al mancato manifestarsi di due stagioni delle piogge». Più di dieci milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria immediata; nelle zone più colpite fra il cinquanta e il novanta per cento dei raccolti sono andati perduti e centinaia di migliaia di capi di bestiame sono morti. Gli sfollati interni hanno superato il mezzo milione in un paese che ospita anche 732 mila rifugiati eritrei, somali, sudanesi e sud sudanesi. Decine di migliaia di bambini hanno smesso di andare la scuola.

Cristina Coletto, volontaria in Etiopia dell’Ong Lvia, sul sito della suo organizzazione pubblica aggioamenti sulla situazione in Afar; racconta di livelli dei fiumi sempre più bassi, pascoli scomparsi, animali morti e pessime condizioni del bestiame ancora in vita. «I prezzi di alimenti base, come la farina», continua l’operatrice umanitaria, «sono aumentati a causa della scarsa disponibilità nei mercati locali», ai quali la gente è ora costretta a ricorrere non potendo più contare su risorse proprie. «Quasi 10.000 famiglie, cioè il 3% della popolazione dell’Afar, sono già migrate verso le vicine regioni Amhara, Oromia e Tigray, in cerca d’acqua e pascolo».

«In questa situazione», riferisce il superiore della Visitatoria salesiana dell’Etiopia, padre Estifanos Gebremeskel, al portale di informazione sui temi umanitari

Reliefweb, «aumenta il rischio per molte persone di cadere vittima di trafficanti di esseri umani, di essere sfruttate e schiavizzate».

Molti ricorderanno ancora la carestia etiope del 1984, quella la cui eco internazionale portò a una mobilitazione che ebbe la sua massima risonanza nel Live Aid, il concerto di sensibilizzazione e raccolta fondi organizzato da Bob Geldof a Londra nel luglio del 1985. L’Etiopia oggi non è lo stesso paese; il suo governo, insieme alle agenzie inteazionali, ha fissato a 1,4 i miliardi di dollari necessari per far fronte all’emergenza e si è impegnato a investie 380 milioni. A questi si sono aggiunti, ad aprile, i 120 promessi dalla Commissione europea, mentre la Fao, che aveva stimato in cinquanta milioni i fondi necessari per assistere circa due milioni di persone, ne aveva raccolti poco più di otto. Usaid, l’agenzia governativa americana per lo sviluppo internazionale, ha stanziato 267 milioni di dollari per il 2016 e, ad aprile, riportava che il totale dei fondi destinati dal governo etiope e dalle agenzie umanitarie ammontava a 758 milioni, circa metà del miliardo e quattro richiesto.

Swaziland, prezzi alle stelle

Anche quattromila chilometri più a Sud, nello Swaziland, la situazione non è rosea. A febbraio di quest’anno il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza a causa della siccità. La produzione di mais era già diminuita del trentuno per cento nel 2015 e l’inizio del 2016 ha segnato un peggioramento ulteriore. «I prezzi di cereali, legumi e arachidi», scriveva lo scorso marzo l’amministratore della diocesi di Manzini, padre Peter Sakhile Ndwandwe, «fluttuano normalmente seguendo un andamento stagionale. In genere i prezzi di questi alimenti si impennano poco prima del momento del raccolto. Ma quest’anno è diverso: i prezzi sono altissimi perché per il 95 per cento dei contadini che praticano agricoltura di sussistenza nel paese non è previsto alcun raccolto. Dieci chili di cereali costavano un mese fa 81 Lilangeni (valuta locale, un euro vale 17 lilangeni, ndr). Oggi gli stessi dieci chili costano 120 e continuiamo a registrare aumenti di settimana in settimana. Nel 2013 il prezzo per la stessa quantità di cereali era di 41 emalangeni».

Secondo le stime delle agenzie interazionali raccolte da Reliefweb, ad aprile trecentomila persone – pari a un quarto della popolazione dello Swaziland – aveva urgente bisogno di cibo e acqua, quasi novemila bambini soffrivano di malnutrizione da moderata a grave e sessantaquattromila capi di bestiame erano morti. Le persone in condizioni di insicurezza alimentare rischiano di raddoppiare; la semina, che di solito interessa i mesi di ottobre e novembre, è avvenuta in ritardo di due mesi, cioè molto più a ridosso dell’inverno australe (che corrisponde grossomodo alla nostra estate). Il rischio è che fino alla prossima stagione delle piogge, a ottobre 2016, le condizioni della popolazione swazi non migliorino.

Brasile, El Niño Godzilla

El Niño Godzilla – così lo hanno ribattezzato alcuni media – ha fatto danni anche nell’Amazzoni brasiliana: «Siamo molto preoccupati per la siccità terribile che sta causando la morte del bestiame nella savana e della selvaggina che è bruciata negli incendi forestali», ha scritto ai suoi amici nella lettera di Pasqua 2016 fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata, da Bõa Vista. «Molti ruscelli si sono completamente prosciugati e i villaggi devono spostarsi per poter avere accesso all’acqua. Molti pozzi sono secchi e le piantagioni sono ridotte quasi a zero».

Amazônia Real, agenzia di stampa indipendente brasiliana, riporta le testimonianze di diversi abitanti delle terre indigene Yanomami e Raposa Serra do Sol. «Nei fiumi principali – Uraricoera, Demini e Catrimani – c’è ancora acqua, ma gli affluenti sono secchi, morti», ha detto all’agenzia Dário Kopenawa, cornordinatore delle politiche pubbliche dell’associazione yanomani Hutukara e figlio dello storico leader indigeno Davi Kopenawa Yanomami. Gli incendi sono frequenti e il fumo che invade le aldeias, i villaggi, causa problemi respiratori specialmente ai bambini. Secondo Dário Kopenawa, gli effetti di El Niño si sommano a quelli della distruzione sistematica delle risorse naturali e dei danni ambientali provocati dai cercatori d’oro.

Anche a Raposa Serra do Sol, cinquecento chilometri più a Nord, gli abitanti raccontano di siccità e difficoltà inedite: secondo Geiza Duarte, indigena macuxi, per procurarsi l’acqua necessaria per cucinare e per l’igiene personale, le famiglie camminano per undici chilometri fino alla comunità vicina, dove ancora si trova acqua. Fortunatamente, almeno per Roraima, i nostri missionari ci confermano il ritorno di piogge abbondanti, anche con allagamenti, da aprile.

Rischio rifugiati ambientali?

Anche l’Asia è in difficoltà. In Indonesia, ad esempio, in sedici province su trentaquattro la siccità ha ridotto la disponibilità di acqua e danneggiato la produzione agricola, la pesca e le attività economiche legate alla foresta. Dal novembre 2015 l’Indonesia, terzo paese produttore di riso al mondo, ha iniziato a importare riso per garantire le scorte alla sua popolazione. La siccità, inoltre, ha indirettamente aggravato la piaga degli incendi che hanno distrutto finora due milioni di ettari di foresta, provocando infezioni respiratorie causate dal fumo a oltre mezzo milione di persone. Gli esperti indonesiani calcolano che lo smog generato da questi incendi provocherà perdite economiche per 14 miliardi di dollari fra produzione agricola e foreste danneggiate, danni alla salute, ai trasporti e all’industria turistica.

Davanti agli effetti di questa ondata di siccità, pensando anche agli altri fenomeni climatici che periodicamente infliggono gravi perdite umane ed economiche al pianeta, in molti si chiedono quali saranno in un futuro tutt’altro che lontano le conseguenze in termini di migrazioni umane.

Non esiste una categoria giuridicamente riconosciuta per i rifugiati, o profughi, ambientali. E sul fenomeno della migrazione causata da condizioni ambientali non ci sono statistiche univoche. Tuttavia, a detta dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) il fenomeno sta assumendo una rilevanza che sarà impossibile non tenere in considerazione. Le previsioni future, si legge sul sito dell’Oim, variano dai venticinque milioni al miliardo di migranti ambientali entro il 2050 che si sposteranno sia all’interno del proprio paese che oltre confine, in modo temporaneo o permanente. La cifra più frequentemente citata nelle previsioni è duecento milioni, numero che eguaglia la stima attuale dei migranti inteazionali nel mondo».

Chiara Giovetti




Una malattia chiamata fame


Non è difficile il passaggio dalla malattia psichica (schizofrenia, depressione) a quella organica (denutrizione, tubercolosi, Aids). Ed entrambe sono in relazione con le condizioni ambientali: famiglie disgregate, abbandoni del tetto coniugale,violenza contro donne e bambini. A loro volta, le tensioni familiari trovano terreno fertile quando manca il lavoro e le persone sopravvivono con il minimo, giorno dopo giorno. A Villa El Salvador (Perú), abbiamo visitato il «Centro de salud mental», nato per volontà di un sacerdote spagnoloe oggi diretto dalla «hermana» Patricia. Una realizzazione che ha dell’incredibile…

Villa El Salvador. Un giorno Reyna, di passaggio a casa mia per un caffè, mi dice che è di fretta, perché deve accompagnare una ragazza al Centro de salud mental.
Le chiedo informazioni e scopro che la mia vicina di casa è una volontaria del Centro e che le è stata affidata una ragazza-madre schizofrenica che vive nelle vicinanze.
Colgo l’occasione per chiederle di prendermi un appuntamento con il responsabile di questo Centro per un’intervista. Detto e fatto. Il giorno dopo, ho l’appuntamento.

A rrivato alla Capilla San José, entro in un piccolo ambiente con un bancone per accoglienza e sulla destra una piccola farmacia. Vengo fatto accomodare nel cortile interno, nel quale sono in attesa vari pazienti con alcuni accompagnatori.
Dopo pochi minuti, mi si avvicina una donna, che mi fa entrare in uno studio un po’ oscuro. Senza perdere tempo in convenevoli, inizia a parlare: «Bueno. Lavoriamo qui da quattro anni. Credo sia poco tempo, però forse si possono trarre alcune conclusioni».
Mi scusi – la interrompo -. Ci possiamo presentare?
«Ah, certo. Di lei so già tutto: me ne ha parlato Reyna. Io invece mi chiamo Patricia Yañez Cruz, hermana (sorella) Patricia. Sono qui da tre anni e sono la cornordinatrice cilena, professoressa e suora».
Di fronte ad una persona così sicura, all’inizio quasi non riesco a fare domande. Finalmente mi decido a porre la domanda che mi attanaglia: Hermana Patricia, che relazione esiste tra povertà e salute o, meglio, tra povertà e malattia?
«Lo abbiamo discusso parecchio con i nostri medici, i due psichiatri e lo psicologo. La verità è che molte delle malattie diagnosticate sono in relazione con la situazione economica, politica e sociale. Non oseremmo dire che ne sono la causa; però possiamo affermare che, sì, hanno una forte influenza».
«Pensiamo al fenomeno della disintegrazione familiare. In apparenza, è una questione di relazioni interpersonali; ma, a ben guardare, la maggior parte delle situazioni di disagio familiare ruota attorno ai problemi economici».
«Non oserei dirlo, perché ancora non abbiamo fatto studi specifici su questo; però a prima vista le cause dei problemi nelle famiglie nascono sempre dallo stesso punto. La famiglia non ha la possibilità di condurre una vita accettabile ed iniziano i problemi, le depressioni, le crisi, gli abbandoni del tetto coniugale, purtroppo molto frequenti».

C hiedo a suor Patricia come si è arrivati a decidere di lavorare in un settore così difficile e delicato e, soprattutto, in una comunità marginale come Villa El Salvador.
«Nacque tutto – mi racconta – da un’idea del parroco, padre Antonio Garzón, un sacerdote spagnolo che rimase qui per sette anni. Nel 1996, oppresso dai problemi (sempre più persone andavano a sfogarsi con lui) e cosciente che vi era un limite al di là del quale non poteva essere d’aiuto (un limite che doveva essere trattato da specialisti), propose alla comunità di avere un’assistente sociale e una psicologa, per rispondere ai problemi delle famiglie disintegrate, alle coppie, ai bambini».
«Inizió così. Tre persone che lavoravano alcune ore in parrocchia. Solo dopo si elaborò un progetto. Il Centro di salute mentale fu terminato nel 1998. In questo momento siamo quasi 40 persone che lavoriamo qui».
Quaranta persone non sono poche. E come è organizzato il lavoro?
«È organizzato per servizi. C’è un’area di psichiatria con medici, infermiere, una piccola farmacia (un lusso per Villa El Salvador), un gruppo di volontari che la gestisce e una psicologa».
«Poi c’è il settore di psicologia con tre psicologi e alcuni studenti dell’Università cattolica che vengono a fare i loro periodi di pratica. Infine abbiamo il servizio sociale, con due assistenti sociali e un programma di recupero pedagogico per i bambini con due professori assegnateci dal Provveditorato agli studi. C’è anche un’area di terapia fisica».
«È stato come muoversi in un circolo: una cosa ha portato all’altra. Quando si iniziò questo Centro, non c’era una metodologia pensata prima. Tutto fu creato man mano che ci si rendeva conto dei problemi e delle difficoltà. Si iniziò pensando ai bambini e alle donne. C’era molta violenza nei confronti delle donne, molti bambini maltrattati, violentati. Si pensò quindi a un servizio per questa tipologia di persone. Però questo gruppo era inserito in problematiche generali. Allora si pensò alla famiglia, agli adulti con problemi psicologici, con disordini psichici e si sviluppò anche quest’area. E quindi i bambini con problemi scolastici. Infatti, se nella famiglia c’è una situazione di violenza, immediatamente il bambino diminuisce il suo rendimento scolastico. Questo è automatico».
«Poi si notò che problemi economici, cattiva alimentazione (molta gente che viene da altre parti del Perú è male alimentata) e mancanza di educazione portano i bambini ad avere difficoltà di motilità fine e grossa. Si pensò quindi alla terapia fisica di riabilitazione, alla psicomotricità, alla stimolazione precoce. Insomma, il meccanismo che abbiamo messo in azione ha portato il Centro a crescere, fino a divenire un Centro di assistenza integrale».
Avete potuto svolgere degli studi per conoscere l’epidemiologia della malattia psichiatrica?
«Si stanno facendo studi, valutazioni, analisi delle diagnosi; però è complesso, perché abbiamo ancora pochi dati.
Possiamo confrontare solo tre anni perché all’inizio il lavoro era molto artigianale. Il servizio psichiatrico poi ha solo due anni e mezzo».
Quanti pazienti avete nel servizio psichiatrico?
«In psichiatria i pazienti sono 370, la maggioranza di Villa El Salvador e alcuni anche di altri distretti vicini, come Villa Maria del Triunfo, Lurin e Miraflores. Invece il numero di bambini è più elevato: circa 400 pazienti; si effettuano controlli programmati per tutto l’anno, con terapie fisiche, della parola o interventi pedagogici».
Ci sono a Villa altri servizi di salute mentale?
«Di questo tipo no: solo piccole cose. La gente arriva qui anche per la presenza della farmacia e perché i medici, che lavorano pure nell’ospedale zonale (Maria Auxiliadora) e nell’ospedale psichiatrico di Lima (Larco Herrera), ce li mandano, perché là non hanno possibilità di curarli come vorrebbero».
«In totale quest’anno abbiamo incontrato 9 mila pazienti. Non vogliamo però ampliarci ulteriormente, perché abbiamo raggiunto il limite delle nostre possibilità. Ciò che vogliamo è garantire il controllo costante ai pazienti. Vogliamo coinvolgere le famiglie e, in parte, ci siamo già riusciti, perché il paziente non deve venire da solo, ma accompagnato da un familiare; invitiamo sempre la famiglia a far parte dell’Orfasam (Organizzazione delle famiglie di salute mentale)».
«È un’organizzazione che si riunisce ogni 15 giorni per incontri e seminari, durante i quali si spiega cos’è la malattia mentale, che il paziente è una persona che non deve essere emarginata, che la malattia mentale è come ogni altra malattia. Si insegna poi come affrontare la sintomatologia dei pazienti, come capirli, appoggiarli, che fare quando sopraggiunge una fase critica».
«I familiari devono assistere a tali riunioni, impegnarsi a dare loro le medicine nel momento giusto e partecipare alle terapie di gruppo del venerdì. Tutto questo ha avuto come conseguenza un miglioramento del rapporto fra il paziente e la propria famiglia. È stato un lavoro duro, però bello, e ha portato a ricostruire una base di fiducia».
Qual è l’età dei pazienti?
«La maggioranza è giovane. Di ciò stavo discutendo con il medico, perché stiamo osservando che sta scendendo l’età dei primi sintomi della schizofrenia. Ci sono giovani di 17-18 anni, che presentano forme di schizofrenia. La maggioranza è però intorno ai 30 anni. Ci sono anche adulti; però il numero è più basso. I più sono giovani».
Sono malattie legate alla situazione sociale ed economica?
«Sì, certo. Sono fortemente legate, fortemente».
Quando cerco di raccontare di Villa El Salvador nel mio paese, quello che dico sempre è che la gente ha i nostri stessi problemi e in più la povertà.
«Più la povertà, è vero. Ed è una povertà molto, molto forte. Vivo da tre anni a Villa El Salvador e ancora mi sconvolge vedere la gente vivere con il minimo, giorno dopo giorno. Pensare che una famiglia possa risparmiare e programmarsi il futuro, immaginare di ottenere qualche cosa in più nel giro di un anno… no, qui questo proprio non è possibile! Moltissime donne e famiglie debbono cercare ogni giorno di ottenere il necessario per la sopravvivenza quotidiana. E un giorno di malattia è un giorno nel quale non si mangia del tutto. Così semplicemente…».
«Abbiamo discusso a lungo con l’assistente sociale. Costei ha trovato molti casi nei quali è la donna che deve uscire di casa per la quotidiana ricerca della sopravvivenza. È più facile, infatti, per una donna trovare lavoro che per un uomo: perché una donna può cucinare, preparare qualche cosa, vendere, lavare. Gli uomini, al contrario, possono soltanto lavorare nelle costruzioni, come tassisti o venditori».
La malattia psichiatrica si osserva di più nelle donne o negli uomini?
«Negli uomini. Io almeno l’ho vista più negli uomini, molti dei quali giovani».
Perché?
«Ci sono giovani che, finita la scuola superiore, non possono continuare a studiare e nel contempo non trovano lavoro. Così vanno in giro e possono passare un anno o due senza fare niente. Per questo cadono in uno stato depressivo, che è molto forte. Non possono aiutare la famiglia e questa rinfaccia loro di non portare niente a casa e di essere soltanto un peso economico. È molto duro da sopportare per un uomo».
Che legame esiste fra malattia psichiatrica, depressione e altre malattie come la tubercolosi o l’Aids? C’è una relazione?
«Per quanto ho potuto notare qui, sì. Le persone con problemi mentali, se la famiglia non li comprende, vengono respinte e quindi diventano dei vagabondi. È molto facile che contraggano malattie, nel senso che sono malnutriti, si ammalano più facilmente di tubercolosi e spesso anche di malattie a trasmissione sessuale. Nel Centro abbiamo casi di Aids… Non hanno un regime alimentare adeguato e stabile, si abituano a mangiare per strada cose che non sono nutritive, solo per riempirsi lo stomaco».
«Con altri centri medici parrocchiali, abbiamo visto un notevole incremento di tubercolosi in questo periodo e di tubercolosi associata all’Aids».
«Inoltre, non ho mai visto tanta spazzatura in Villa El Salvador come in questo momento e ciò porta come conseguenza un aumento delle malattie infettive».
Nel vostro lavoro, collaborate con altre istituzioni sanitarie?
«Questo è un centro parrocchiale e noi siamo parte del dipartimento della pastorale della salute nella diocesi. Al presente siamo otto centri sanitari parrocchiali con varie specializzazioni. Facciamo poi parte della “Rete municipale di assistenza e prevenzione della violenza sui minori”, alla quale partecipano più di 30 organismi statali, organizzazioni non governative ed altre istituzioni. Facciamo parte inoltre del gruppo di cornordinamento municipale Mesa de la Comunidad saludable».
La malattia psichiatrica è quindi una parte del grande problema della povertà?
«Sì, sì. Il dilemma è fra due atteggiamenti: l’assistenza o la prevenzione. Ci sono persone che, in questo momento, hanno bisogno di assistenza e occorre dargliela. Allo stesso tempo, però, sarebbe necessario un forte lavoro di prevenzione, educazione e formazione della gente da fare nelle scuole, in tutti i centri sanitari, nei municipi. Penso però che saranno necessari parecchi anni per vedere dei risultati. Senza dimenticare i cambi nella politica economica, affinché la gente possa avere più stabilità all’interno delle famiglie».
Hermana, lei ha visto peggiorare la situazione?
«Purtroppo sì, in questi tre anni ho notato un peggioramento. La gente è ogni giorno più povera e c’è sempre meno lavoro. Lo si nota vedendo quante persone vengono al Centro a chiedere aiuto».
Come si fa a raccontare questi problemi alla gente dell’Europa e di altri paesi ricchi? Per me è difficile, perché là non si conosce una povertà come questa e l’incertezza nella quale si vive.
«È vero, è difficile da spiegare… Quando uno vive in altre società e in altri ambienti, non riesce a comprendere una realtà così diversa. Anche in Perù ci sono sempre due mondi: il Perù turistico e quello della povertà inconcepibile. Basti pensare che a 20 minuti da Miraflores, dove ci sono gli hotel dei turisti, c’è Villa El Salvador con le sue invasioni di poveracci. Come spiegare l’inconcepibile?».
Gracias, Patricia!

R icordo quella volta che nell’ambulatorio si presentò una signora con un bambino.
Buon giorno, signora, che cos’ha il suo bambino?, le chiesi.
«Ha un po’ di tosse e di febbre, e vorrei che me lo controllasse».
Lo spogliai, lo pesai, tirai fuori il mio stetoscopio riscaldandolo prima fra le mani, glielo feci toccare affinché non si spaventasse e gli ascoltai i polmoni. Aveva solo una bronchitella.
Dopo avere tranquillizzato la signora, un qualche cosa di non spiegabile (qualcuno lo chiama intuito, ma forse è soltanto esperienza), mi suggerì una domanda: Signora, il bambino sta bene ma mi pare che lei abbia il viso sofferente. Cosa succede?
«Oh no, dottore – mi disse -. Ho i soldi solo per una visita e sono per il mio bambino (ndr: il municipio fa pagare una piccola somma, che in caso di necessità non è richiesta)».
Non si preoccupi, signora! Anzi, guardi: se la madre non sta bene; anche il bambino non sta bene. Allora mi dica: cosa succede?
«No, nulla. Sono solo un po’ debole».
Mi ritrassi nella sedia. La guardai negli occhi e le chiesi: Che cosa ha mangiato a pranzo?
«Un pane con il thè», mi rispose con gli occhi bassi.
E a colazione?
«Un pane con il thè».
E ieri sera?
«Un pane con il thè».

Cosa prova un medico a diagnosticare «la Fame» con la «F» maiuscola? La Fame di una madre che dà il poco che ha a suo figlio?
Capite, amici lettori di Missioni Consolata? Il bambino ha una leggera bronchite e la madre Fame; Katherine (cfr. Missioni Consolata di marzo) è cresciuta nella Fame e lavora nella Fame; il «matto» della Gillette (Missioni Consolata di gennaio) vive la propria malattia nella Fame; i ragazzi del Centro de salud mental si ammalano per la Fame.
E la Fame non è altro che la povertà, quella povertà che la hermana Patricia ha definito «inconcepibile».
Avevamo fatto, negli anni dell’iperinflazione nel Perù, una semplice constatazione: il dollaro cresceva e dopo 2 mesi aumentavano i bambini denutriti; dopo 6 mesi, aumentava la tubercolosi. Ora mi accorgo che, magari dopo un anno, aumenta anche la depressione e questa è, a sua volta, causa di altra Fame e di altre malattie.

Guido Sattin