Un rapporto di fine ottobre della Piattaforma integrata di classificazione della sicurezza alimentare (Integrated food security phase classification, Ipc), composta da Ong e agenzie dell’Onu, riporta che 25,6 milioni di congolesi, su una popolazione di 104,3 milioni, sono minacciati a breve termine a causa dell’insufficienza alimentare. Inoltre, sono tre milioni le persone per le quali l’insicurezza alimentare oramai è acuta, ovvero sono in crisi umanitaria.
Secondo la Fao (l’agenzia Onu che si occupa di cibo e agricoltura e ha sede a Roma), si tratta di uno dei più grandi numeri al mondo per una sola popolazione con questa problematica.
L’insicurezza alimentare acuta è il risultato di diversi fattori combinati: i conflitti armati, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e quello dei costi di trasporto, ma anche l’effetto di diverse epidemie che hanno colpito il Paese.
È un dato che interessa tutto il Paese, con valori maggiori nelle aree di guerra, ovvero Sud Kivu, Nord Kivu e Ituri. Qui la crisi umanitaria, già presente da tre decenni, è recentemente aumentata a causa del ritorno in auge del gruppo ribelle M23, finanziato dal vicino Rwanda. Si ricorda anche che la Monusco (Missione delle Nazioni unite per la stabilizzazione) ha lasciato il Sud Kivu a fine giugno scorso, dopo vent’anni di presenza.
La guerra in queste regioni ha causato uno sfollamento massiccio della popolazione che si è assembrata nei campi profughi interni. Il 35% degli agricoltori ha smesso di coltivare, mentre il 25% degli allevatori ha perso i propri capi di bestiame. Attualmente, secondo la Fao, sono 7,3 milioni i congolesi che hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni e si trovano nelle tendopoli.
Ci sono poi altri fattori strutturali che acutizzano la crisi, come la scarsità delle strade in numero e in percorribilità e la mancanza dell’accesso all’acqua.
Il problema delle vie di comunicazione rende difficile il collegamento tra i mercati e tra i produttori e i mercati stessi, e quindi la distribuzione degli alimenti, aumentandone enormemente il prezzo.
La Fao e il Pam (Programma alimentare mondiale) avevano già richiamato l’attenzione lo scorso marzo, quando parlarono di 40 milioni di congolesi in stato di insicurezza alimentare cronica.
Oltre a un aiuto di immediato, con distribuzione di cibo, sono necessari, secondo i tecnici della Fao, programmi di agricoltura di emergenze, ovvero distribuzione di sementi e di attrezzi agricoli per realizzazione di mini orti almeno per la popolazione dei campi di sfollati.
La Fao chiede ai donatori 330 milioni di dollari per 2025, per assistere oltre 3 milioni di congolesi attualmente in condizioni disperate.
Zambia, Zimbabwe e Malawi in ginocchio. Senza pioggia
La combinazione del cambiamento climatico e di altri eventi ha portato a una scarsa stagione delle piogge. L’agricoltura ne ha risentito e così manca il cibo di base. L’energia elettrica, generata con le dighe, scarseggia. Con gravi ripercussioni per le piccole imprese e gli ospedali.
Da quarant’anni non si registrava una siccità di queste proporzioni. La combinazione di El Niño e dei cambiamenti climatici quest’anno ha colpito duro. La passata stagione delle piogge, da novembre a febbraio, è stata magra. Poche precipitazioni, quindi poca acqua per l’agricoltura e per i bacini idroelettrici. Il risultato è disastroso. L’agricoltura ha perso quasi interamente i raccolti. Le centrali elettriche sono impossibilitate a funzionare. Manca il cibo (soprattutto il mais, base della dieta locale) e non c’è corrente elettrica, né per uso domestico, né per l’industria. Malawi, Zambia e Zimbabwe stanno vivendo una situazione difficile, stretti nella morsa di una crisi climatica senza precedenti. A soffrirne sono la popolazione, che deve fare i conti con risorse sempre più carenti, e l’economia che deve affrontare una sfida complessa in un contesto fragile. Nei tre Paesi, secondo i dati delle Nazioni Unite, la siccità ha portato a perdite agricole catastrofiche, con raccolti di mais in alcune aree ridotti dal 40 all’80%. L’impatto è stato particolarmente duro sulle popolazioni rurali, dove circa il 70% delle persone fa affidamento sull’agricoltura per sopravvivere. Ciò ha innescato l’insicurezza alimentare per milioni di persone, con una fame diffusa.
Niente acqua né corrente
Il mese di febbraio 2024 per lo Zambia è stato uno dei più secchi degli ultimi decenni, le precipitazioni si sono ridotte del 20%, esacerbando una crisi idrica già in corso almeno dall’autunno 2023. Ciò ha bruciato i raccolti, con perdite fino all’80% in alcune regioni. Secondo le stime ufficiali del Governo, il Paese affronta un deficit di 2,1 milioni di tonnellate di cereali (mais, riso e altri raccolti fondamentali). Secondo i dati forniti dall’autorità governativa, a risentirne sono più di sei milioni di persone su una popolazione complessiva di 20, di cui la metà bambini.
La siccità, però, non ha colpito solo la produzione alimentare, ma anche la produzione di energia. Lo Zambia, nei decenni passati, ha scommesso sulle centrali idroelettriche che forniscono un’energia pulita e continua (a differenza del solare che ha un vuoto durante la notte). Così attualmente le dighe forniscono oltre l’80% dell’energia del Paese. Dopo mesi di siccità però i bacini si sono svuotati. Secondo il ministero dell’Energia di Lusaka, la gigantesca diga di Kariba sul fiume Zambesi, la più grande fonte idroelettrica dello Zambia, ha solo il 10% di acqua disponibile. Danny Kalyala, governatore della Banca dello Zambia, ha affermato che questa crisi energetica non ha precedenti. Gli operatori minerari del secondo produttore di rame africano sono finora riusciti a evitare tagli alla produzione importando elettricità dall’estero. Tuttavia, il deficit energetico, peggiore del previsto e in aumento, sta avendo un impatto su altri settori. Il governo ha tagliato le sue previsioni di crescita economica per il 2024 al 2,3%. Secondo Kalyala, la Banca centrale deve ancora valutare appieno l’impatto economico dell’intensificarsi della crisi. «Chiaramente – ha detto -, la situazione è molto difficile. Le esigenze si stanno moltiplicando anziché ridursi».
La situazione è tragica
«La situazione è tragica». Così Mariangela Tarasco, rappresentante dell’Ong Celim di Milano in Zambia, definisce l’attuale momento vissuto dallo Stato dell’Africa australe. «Manca l’acqua, manca l’elettricità e scarseggia il cibo. Nei giorni scorsi – spiega Mariangela -, il governo aveva garantito almeno tre ore al giorno di corrente. Ma non è riuscito a mantenere la promessa. Qui è da giorni che siamo al buio. In città, l’acqua viene fortemente razionata. Nelle campagne, però, non arriva né l’acqua né la corrente elettrica».
E aggiunge: «Sta diventando sempre più difficile procurarsi il mais non solo per la siccità, ma anche perché molte tonnellate sono state contaminate da un fungo nocivo e sono state ritirate dal mercato. Aggravando ulteriormente una situazione».
La gente è rassegnata, continua Mariangela, ma in questa fase di crisi dimostra una capacità di resilienza fuori dal comune. «Le donne si svegliano la mattina presto – osserva – per andare a prendere l’acqua in quelle zone dove sanno ce n’è ancora. Fanno chilometri con una forza d’animo invidiabile». Il simbolo delle gravi difficoltà è il deficit idrico del bacino di Kariba. «Che un impianto di quelle dimensioni sia a secco è grave – conclude -. Ciò significa che la crisi è profonda. E, soprattutto, non se ne intravvede la fine».
Tra cicloni e siccità
La situazione non è differente nel vicino Malawi. La siccità ha causato una riduzione del 20% delle precipitazioni, portando a un calo significativo delle rese dei raccolti, in particolare per i piccoli agricoltori che producono la maggior parte del cibo del Paese. La coltura di mais ha subito gravi ripercussioni, causando una fame diffusa.
La mancanza di precipitazioni sta inoltre creando difficoltà nell’accesso all’acqua pulita, il che solleva preoccupazioni sui problemi di salute, con il rischio di epidemie di malattie come il colera.
«Questo è il quarto anno consecutivo che il Malawi affronta un disastro legato al clima – spiega Alessandro Marchetti, project manager di Orizzonte Malawi Onlus -. Nei tre anni passati, il Paese aveva dovuto affrontare precipitazioni abbondanti, culminate con il ciclone Freddy. Ora è arrivata la siccità. Il Paese, che ha una popolazione di circa 20 milioni di abitanti, che vive al 90% di agricoltura di sussistenza, è quindi vulnerabile al cambiamento climatico ed è ormai evidente che necessita di misure di resilienza a lungo termine». La situazione è delicata. Nelle città è un po’ mitigata perché lì arrivano più facilmente gli aiuti del Governo e delle organizzazioni internazionali. «Nei villaggi – continua Alessandro – la vita è dura. I raccolti sono bruciati. È difficile per la povera gente tirare avanti. Tra l’altro l’inflazione ha fatto aumentare i prezzi, anche quelli dei fertilizzanti e del cibo. I più colpiti sono i bambini, gli anziani e i malati».
La siccità distrugge tutto, secondo padre Pierluigi Gamba, missionario monfortano e grande conoscitore del Malawi. «Mentre i cicloni, le piogge eccessive, fanno disastri – osserva -, dopo si può sperare di raccogliere qualche prodotto come le patate dolci, la cassava, il cotone, la soia; con la siccità invece muore tutto. Oggi sei milioni di persone non hanno nulla. Le prospettive non sono rosee perché fino a marzo 2025 le campagne non daranno nessuna possibilità di raccolto. L’agricoltura del Malawi non è meccanizzata e non ha irrigazione che permetta alternative».
Il poco grano che si trova al mercato costa tanto, spiega il missionario. Dieci anni fa un operaio comperava quattro sacchi di mais al mese ora ne compra uno. Le famiglie sono di almeno sei persone e un sacco di grano non basta nemmeno per un pasto al giorno. La gente sopravvive solo con la crusca, un tempo riservata agli animali. «È una tragedia non avere cibo per un Paese come il Malawi che deve confrontarsi con una sovrappopolazione che lo rende lo Stato a più alta densità di questa area dell’Africa».
Da settimane, in tutto il Paese manca anche l’energia. L’Escom, la compagnia elettrica nazionale, non conosce la causa di questa mancanza che distrugge tutte le piccole imprese.
A livello sanitario, gli ospedali, ad esempio, non possono conservare i vaccini. «È un ritorno a un passato che si sperava fosse stato superato – osserva il missionario – garantendo alla popolazione dei servizi che non ci sono più».
Le Chiese cristiane fanno il possibile per assistere bambini e i pochi anziani che rischiano di non sopravvivere a questa emergenza.
«Ormai la gente torna nella foresta per cercare radici o erbe che gli antenati avevano imparato a mangiare – conclude padre Gamba -. Ora il più delle volte finisce per avvelenarsi perché non sa più distinguere cosa è buono e cosa no. Sono necessari aiuti immediati».
La crisi nella crisi
Anche lo Zimbabwe è stato travolto dalla siccità. Qui si è abbattuta su un’economia già resa fragile da un ventennio di politiche velleitarie che hanno messo sul lastrico un sistema produttivo un tempo florido.
Le statistiche riguardanti la siccità in Zimbabwe nel 2024 mostrano un quadro allarmante sia in termini di impatto sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare, sia sulle risorse idriche. La carenza di precipitazioni ha messo in crisi la produzione di mais che, stimano le autorità di Harare, è diminuita di oltre il 30% rispetto alla media storica. Questo comporta una riduzione del raccolto a meno di un milione di tonnellate, quando il fabbisogno nazionale supera i 2,2 milioni. Il Governo e l’Onu prevedono che più di 5 milioni di persone, su una popolazione di 15 milioni, soffriranno di insicurezza alimentare nel 2024, un incremento significativo rispetto agli anni precedenti.
Le principali riserve d’acqua sono a meno del 50% della loro capacità totale. Circa il 40% delle famiglie rurali e 25% delle famiglie urbane affrontano carenze d’acqua giornaliere, con frequenti interruzioni della fornitura idrica soprattutto nella capitale.
L’impatto sull’economia è duro. La siccità, si prevede, causerà perdite economiche stimate attorno al 4-6% del Pil. I prezzi di base per cereali e altri beni di prima necessità sono già aumentati tra il 30 e il 50% rispetto al 2023, colpendo le famiglie più vulnerabili. Il presidente Emmerson Mnangagwa ha sottolineato la gravità della crisi e la necessità di un sostegno internazionale. «La persistente siccità che stiamo affrontando – ha detto – non è solo una minaccia per il nostro settore agricolo, ma anche per la sopravvivenza stessa di milioni di zimbabweani. Dobbiamo agire con decisione, come nazione e con i nostri partner, per garantire la sicurezza alimentare e l’accesso all’acqua per tutta la nostra gente».
Gli aiuti internazionali
Il Programma alimentare mondiale (Pam) ha lanciato l’allerta: c’è bisogno di 409 milioni di dollari per sostenere le sue operazioni nei prossimi sei mesi e aiutare 4,8 milioni di persone.
Nelle scorse settimane, l’organizzazione ha mobilitato oltre 14 milioni di dollari in finanziamenti anticipati per assistere coloro che si prevede saranno colpiti. Da parte loro, le Nazioni Unite hanno chiesto alla comunità internazionale almeno 228 milioni di dollari ma, finora, solo il 10% di questa cifra è stata finanziata. A mobilitarsi è stata anche l’Unione europea, che ha donato 4,5 milioni di euro per il supporto nutrizionale tramite l’Unicef, e Usaid (la cooperazione governativa statunitense), che ha promesso 67 milioni di dollari per migliorare gli sforzi per la sicurezza alimentare e la resilienza. La Banca mondiale ha inoltre fornito una sovvenzione di 207,6 milioni di dollari per sostenere l’assistenza di emergenza in contanti per oltre 1,6 milioni di famiglie in Zambia.
I Governi della regione hanno dichiarato lo stato di calamità e stanno lavorando con partner internazionali per garantire aiuti aggiuntivi. La Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (Sadc, organizzazione economica regionale) ha lanciato un appello per raccogliere 5,5 miliardi di dollari. Gli aiuti basteranno a ridurre l’impatto di questa calamità?
Enrico Casale
Haiti. Massacro in Artibonite
Sono circa le 3 di notte del3 ottobre scorso. A Pont Sondé, importante mercato agricolo della regione Artibonite, viene perpetrato uno dei più sanguinosi massacri di civili degli ultimi anni ad Haiti.
Un gruppo di banditi, chiamati «Gran grif», armati di pistole, mitragliatori e granate, provenienti da Savien, una località poco distante dove hanno la base, sono arrivati con il favore delle tenebre e hanno assaltato le case degli abitanti di Pont Sondé. Hanno ucciso la gente mentre dormiva, sparato a chiunque incontrassero sul loro cammino. Quindi hanno dato fuoco a una cinquantina di abitazioni, a oltre trenta automobili e a diversi magazzini. Si sono poi dileguati, lasciando dietro di loro la devastazione.
Questa gang (banda criminale in creolo) è una delle tante che controllano il paese. È comandata da un certo Luckson Elan, ma ne fa parte anche Ti Pay, originario proprio di Pont Sondé, dove è conosciuto.
Attacco annunciato
Voci di un possibile assalto giravano in paese da un paio mesi, dice il rapporto della Rnddh (Rete nazionale di difesa dei diritti umani). Si è trattato, infatti, di una rappresaglia, in quanto a Pont Sondé è attiva una milizia di autodifesa (pratica oramai comune in un Paese dove vige la legge della criminalità e la polizia non riesce a intervenire) chiamata la La Coalition (la coalizione), che era riuscita a togliere a Gran grif il controllo della strada nazionale numero 1. Questa, che passa da Pont Sondé, unisce il Sud, ovvero la capitale Port-au-Prince, al Nord del Paese, ovvero Cap Haitien (la seconda città di Haiti) e Port-de-Paix. La milizia aveva privato Gran grif degli importanti introiti del taglieggio operato su questa arteria fondamentale.
I membri della Coalition sono stati presi di sorpresa dall’incursione notturna, così come la locale stazione di polizia, i cui agenti non sono intervenuti.
Il bilancio è pesantissimo. Le vittime sono più di 70, tra loro bambini, donne, anziani, intere famiglie. Molti sono i dispersi e sono alcune decine i feriti da arma da fuoco o da taglio che hanno cercato soccorso nell’ospedale della città di Saint Marc, a 13 km.
L’assalto ha spinto alla fuga la popolazione verso la stessa Saint Marc, dove centinaia di famiglie si sono accampate per le strade e nella piazza Philippe Guerrier. Fonti delle Nazioni Unite parlano di 6.270 sfollati.
I padri dello Spirito Santo (Spiritani), che gestiscono l’unica parrocchia di Pont Sondé da decenni, sono stati evacuati da alcuni confratelli in una località più sicura. «Stanno bene fisicamente – ci dicono con un messaggio -, ma sono sotto shock e molto provati».
La voce dei vescovi
Intanto anche la Conferenza episcopale di Haiti fa sentire la propria voce, per mezzo del presidente, monsignor Max Leroy Mésidor, arcivescovo di Port-au-Prince. «La popolazione è all’ultimo respiro, chiede il soccorso dello Stato – dice il prelato all’agenzia stampa Alterpresse -. ll Paese è malato nel suo complesso, ma i dipartimenti dell’Ovest (dove si trova la capitale, nda) e dell’Artibonite (dove è avvenuto l’ultimo massacro), i più estesi di Haiti, sono messi ancora peggio. Mi chiedo se non ci sia un progetto segreto contro queste due zone, e contro la nazione intera». Il dipartimento dell’Artibonite, inoltre, coincide con la valle dell’omonimo fiume ed è il granaio del paese in termini di produzione di riso e altri prodotti agricoli.
L’arcivescovo se la prende con l’indifferenza delle autorità, che hanno abbandonato tutta la zona a se stessa: «Da circa due anni Petite Rivière de l’Artibonite, Liancurt, Pont Sondé sono alla mercé delle bande armate».
Nonostante le voci di un assalto imminente, inoltre, il dispositivo di sicurezza non era stato rinforzato.
«Faccio una domanda al Consiglio presidenziale, al governo, al capo della polizia: chi veglia sulla popolazione?», chiede l’arcivescovo.
Il governo di transizione
Attualmente Haiti è governata da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto di 9 membri, che rimpiazza il Presidente (l’ultimo, Jovenel Moise è stato ucciso il 7 luglio 2021). La presidenza del Cpt è a rotazione, e dal 7 ottobre scorso è in carica l’architetto Leslie Voltaire. C’è inoltre un governo di transizione guidato da Gary Conille, in carica dal 12 giugno. Questo meccanismo, voluto dalla comunità internazionale, non ha per ora sortito grandi effetti sul terreno.
Tre membri del Cpt, inoltre, sono già sotto accusa di corruzione da parte dell’Unità per la lotta contro la corruzione di Haiti.
Da fine giugno scorso, inoltre, è arrivato un contingente di 400 poliziotti dal Kenya, a cui si sono poi aggiunti 24 giamaicani, nell’ambito della Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza, approvata dalle Nazioni Unite nell’ottobre 2023. In realtà la missione prevista dovrebbe contare circa 3.100 effettivi da diversi paesi dell’area centroamericana e dell’Africa.
Ancora monsignor Mésidor: «Perché, nonostante la forza multinazionale sia nel Paese, la situazione è peggiorata? […] Quante località devono ancora cadere [nelle mani delle gang] affinché [chi governa] mostri che c’è una sensibilità per il popolo? Questa transizione non è una rottura con il passato. Si stanno facendo le stesse cose: stessi scandali, stessi problemi, stessa indifferenza»
Secondo le ultime cifre delle Nazioni Unite, a livello nazionale, 703mila persone sono sfollate dal 2023 a causa delle violenze, mentre sono 5,3 milioni sono gli haitiani a rischio sicurezza alimentare acuta, ovvero quasi la metà della popolazione. Gli assassinii, da gennaio a settembre di quest’anno, sono stati 3.661 e le armi in possesso alle gang arrivano grazie a traffici dagli Stati Uniti.
Marco Bello
Africa australe. Mancano acqua, cibo ed energia
I campi sono gialli. Secchi. Da febbraio non piove. Neanche una goccia sull’Africa australe. La siccità si è diffusa lentamente. I raccolti sono stati bruciati. I bacini idrici si sono svuotati e anche le centrali idroelettriche sono ferme o viaggiano a ritmo ridotto. La siccità in Zambia, Zimbabwe e Malawi, i Paesi più colpiti, è un problema ricorrente, ma quest’anno le tre nazioni si sono trovate a far fronte a condizioni particolarmente dure, le più dure da 40 anni.
Le cause principali della siccità sono legate a fenomeni climatici globali come El Niño, che altera i modelli di pioggia, e al cambiamento climatico, che sta aumentando la frequenza e la gravità delle siccità. L’insicurezza alimentare è una delle conseguenze più gravi, con milioni di persone che si trovano a fronteggiare la fame e la malnutrizione. Inoltre, l’impatto economico è significativo, con perdite agricole, aumento dei prezzi degli alimenti e pressioni sulle risorse idriche che aggravano le già fragili economie.
In Zambia, la siccità, secondo i dati forniti dall’autorità governativa, ha colpito più di 6 milioni di persone, di cui la metà bambini. La carenza di piogge ha avuto un impatto significativo sulla produzione agricola, soprattutto nelle regioni meridionali, in particolare sulla coltivazione del mais, che è un alimento base per gran parte della popolazione. La mancanza di acqua ha anche influito sulla produzione di energia, poiché il Paese dipende fortemente dall’energia idroelettrica. La diga di Kariba, una delle principali fonti energetiche del Paese, ha visto un drastico calo dei livelli d’acqua, portando a interruzioni di corrente e razionamenti. L’azienda elettrica nazionale ha chiesto all’autorità dell’energia di poter aumentare le bollette del 156%.
Anche lo Zimbabwe è stato duramente colpito, con conseguenze devastanti sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare. Il Paese, già afflitto da una decennale crisi economica, ha visto un ulteriore peggioramento della situazione a causa della scarsità di acqua. La siccità ha colpito duramente la produzione agricola, in particolare le coltivazioni di mais, portando a carenze alimentari diffuse. Ciò ha causato un forte aumento dei prezzi alimentari che ha spinto l’inflazione alimentare sopra al 60%. Circa 2,7 milioni di persone nelle aree rurali sono minacciate dalla fame. Anche in Zimbabwe la scarsità d’acqua ha anche compromesso la produzione di energia idroelettrica rendendo più cara la bolletta.
Pure in Malawi, la siccità ha compromesso la produzione di mais, che è la principale fonte di cibo e reddito per la maggior parte della popolazione. Ciò ha portato a un aumento della fame e della malnutrizione, soprattutto nelle aree rurali. Inoltre, la siccità ha colpito la disponibilità di acqua potabile e la capacità del Paese di generare energia elettrica, poiché gran parte della sua elettricità proviene da impianti idroelettrici. Circa 9 milioni di persone necessitano ora di assistenza, la metà sono bambini.
I governi di Zambia, Zimbabwe e Malawi, insieme alle organizzazioni internazionali, stanno cercando di affrontare la crisi con varie strategie. Il Programma alimentare mondiale e l’Unicef stanno intervenendo con aiuti alimentari e supporto nutrizionale, soprattutto per i bambini più vulnerabili. Tuttavia, la frequenza crescente di questi eventi climatici estremi suggerisce che la siccità diventerà una sfida sempre più ricorrente, richiedendo soluzioni a lungo termine e un supporto internazionale più consistente per rafforzare la resilienza delle comunità locali.
Enrico Casale
Urbanizzazione e sicurezza alimentare
Nel mondo soffrono la fame tra i 690 e i 783 milioni di persone. In Africa una persona ogni cinque. In Asia una ogni 12. L’obiettivo della «fame zero» entro il 2030 appare irraggiungibile.
Fame zero entro il 2030. È questo il secondo obiettivo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.
Man mano che passano gli anni, però, la speranza di riuscire a raggiungerlo entro i tempi previsti è sempre più risicata e un recente report dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) lo conferma. Nel 2022, il 9,2% della popolazione mondiale (tra 690 e 783 milioni di persone) era in una condizione di fame, ovvero non consumava la quantità minima di cibo necessaria per disporre dell’energia essenziale per una vita attiva e salutare.
Una percentuale in crescita rispetto al 7,9% registrato nel 2019. Cosa che rende evidente l’impatto negativo sul settore agroalimentare della pandemia da Covid-19 – che ha causato un rallentamento dell’economia mondiale – e del conflitto in Ucraina – che ha reso difficile reperire beni alimentari di prima necessità e ha provocato un’impennata dell’inflazione fino al 9% (2022).
Persistono inoltre altri fattori destabilizzanti come cambiamento climatico, conflitti e diseguaglianze.
Ricerche complementari al report sono scese nel dettaglio, analizzando i livelli di fame nel mondo dal punto di vista geografico e temporale.
Dalla comparazione dei loro risultati emerge come l’Africa registri i valori più elevati del pianeta: nel 2022, il 19,7% degli abitanti del continente (282 milioni di persone) soffriva la fame. Ma non solo. Sempre in Africa si è verificato l’incremento maggiore dell’insicurezza alimentare, cresciuta di più del 4% in soli due anni tra il 2020 e il 2022.
Considerando i valori assoluti, invece, è l’Asia a raccogliere più della metà della popolazione mondiale in condizione di fame: 402 milioni di persone (l’8,5% degli asiatici, in leggero calo rispetto all’8,8% del 2021).
Basandosi sui dati raccolti nelle diverse aree del mondo, la Fao stima che entro il 2030 la fame nel mondo si ridurrà, ma non si azzererà, dato che coinvolgerà ancora 600 milioni di persone. La maggior parte dei progressi dovrebbe avvenire in Asia con un dimezzamento dei valori, mentre al contrario in Africa si prevede un ulteriore incremento dell’insicurezza alimentare che dovrebbe arrivare a coinvolgere 300 milioni di persone.
Significativa è la decisione degli autori del report di studiare la correlazione tra la sicurezza alimentare – e, nello specifico, l’accesso a una dieta sana – e il fenomeno epocale dell’urbanizzazione. Infatti, se nel 1950 viveva nelle città il 30% della popolazione mondiale, nel 2021 la cifra era salita al 57% e le stime per il 2050 prevedono il 70%. In particolare, Africa subsahariana e Asia meridionale sono le due regioni dove le città stanno crescendo più rapidamente, con tassi tre volte superiori alla media mondiale.
Il report evidenzia come l’espansione delle città – combinata a fattori come l’aumento di reddito e di opportunità lavorative fuori casa, oltre al cambiamento degli stili di vita – stia profondamente influenzando il sistema agroalimentare. Da un lato, si assiste a una modificazione della dieta della popolazione mondiale; dall’altro, la catena produttiva diventa sempre più lunga e complessa.
Cresce la domanda di latticini, carne e pesce, ma anche quella di cibi già pronti, altamente processati, ad alto contenuto energetico ma privi di nutrienti. I sistemi agroalimentari devono quindi produrre e distribuire quantità sempre maggiori di beni. La catena produttiva si allunga, creando una profonda interconnessione tra aree rurali, periurbane e urbane: il sistema agricolo non si basa più sul piccolo mercato locale, ma guarda alle città. Ne deriva una catena sempre più complessa, caratterizzata da una produzione maggiore in termini quantitativi e qualitativi – grazie a migliori input e tecnologie provenienti dalle città – e da forme di processazione e trasporto più efficienti e articolate.
Tendenzialmente, secondo gli autori del report, la relazione tra urbanizzazione e sicurezza alimentare è positiva: man mano che la popolazione si sposta nelle città, si riducono gli indici di fame. Tuttavia, persistono ostacoli all’accesso a una dieta sana, come ad esempio l’inflazione – che negli ultimi anni ha eroso il potere d’acquisto della popolazione mondiale, spingendola verso cibi più economici – e i «deserti alimentari» – aree spesso periferiche dove i prodotti alla base di una dieta sana sono difficilmente reperibili.
Dunque, la strada verso l’eliminazione della fame nel mondo resta ancora lunga e tortuosa.
Aurora Guainazzi
Brasile. Il tè del padre
Frei Gabriel è un giovane francescano della metropoli paulista. Con i suoi confratelli distribuisce pasti ad affamati e senzatetto che ogni giorno, a centinaia, fanno la fila davanti al suo convento.
San Paolo. «Questa città è estenuante. È più facile rubare che chiedere l’elemosina», dice un senzatetto a un altro, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto alla richiesta di una moneta.
Ci sono quarantamila senza tetto nella città di San Paolo del Brasile, la metropoli più grande d’America. Il suo centro storico è un posto dove nessuno ti raccomanda di andare.
Praça da Sé, il piazzale che si estende di fronte alla cattedrale neogotica, è il luogo di ritrovo di centinaia di senzatetto (população em situação de rua). In gran parte uomini, vivono accampati in tende o piccole baracche, avvolti nelle coperte grigie, tutte uguali, distribuite dal comune, chiedono l’elemosina, vendono oggetti recuperati chissà dove, giacciono stesi senza sensi sotto gli effetti del crack. Cenciosi, a volte, si accalcano attorno a un predicatore che declama versetti della Bibbia e alza la voce quando nomina «il diavolo, il male!».
Tra le tende, si scorgono anche persone che sono arrivate lì da poco, hanno portato con sé un comodino, o una pentola, ricordo di una vita di piccole comodità che hanno perso da poco. Ci sono anziani, migranti venezuelani, persone transessuali. Praça da Sé è il ritrovo di coloro che sono scivolati sotto la linea della povertà in una città che è il motore economico del Brasile, la più ricca d’America Latina. Una ricchezza che però lascia senza nemmeno un pasto al giorno quasi sette milioni di persone solo nello stato di San Paolo, 33 milioni in tutto il paese.
Centinaia in fila per un pasto
A duecento metri dall’accampamento di Praça da Sé, si creano lunghe file di senzatetto. Si mettono in coda per ricevere i tre pasti al giorno che distribuisce il convento francescano di Largo São Francisco.
«Ma non è solo un pasto caldo. Offriamo assistenza sociale, giuridica e psicologica. E anche attività culturali, laboratori di musica e pittura. Questo è il “Tè del padre” (Chá do padre), un’attività che esiste dal 1640», spiega Frei Gabriel, 25 anni, frate del convento di Largo São Francisco, «un sostegno integrale, parte del progetto Sefras – Ação social franciscana, alle persone che vivono in strada, a tutti coloro che chiedono aiuto». Vengono distribuiti circa duemila pasti al giorno, spiega Frei Grabriel. Molti di coloro che vanno al Tè del padre, sono persone con dipendenze da sostanze chimiche, soprattutto crack.
«Il nostro lavoro non è solo allontanarle dalla droga, ma capire perché la cercano. Quasi sempre c’è un dolore, un divorzio, un figlio che abbandona il padre. Nel momento del pasto, parliamo. Una persona mi ha fatto un ritratto, un’altra mi ha dedicato una poesia. Certo, è un lavoro difficile perché è un accompagnamento personale. Sono tanti e non riusciamo a seguire tutti. Quando vado in giro per la città senza il saio, qualcuno di loro mi riconosce, “pace e bene” mi gridano e mi salutano con la mano. San Francesco diceva: “Prega sempre il Vangelo. E, se necessario, usa le parole”. Vuol dire che si può pregare ascoltando l’altro, è quello che cerchiamo di fare», racconta Frei Gabriel.
Conciliare studio e vocazione
Statura piuttosto bassa, i capelli ricci neri, la barba e un paio d’occhiali con la montatura rotonda, Frei Gabriel ha uno sguardo sereno e curioso. È il più giovane del convento, parla con molta calma, sceglie con attenzione le sue parole per spiegare perché un ragazzo della periferia di San Paolo ha deciso di essere frate francescano nel Brasile del 2022.
«Da bambino sognavo di fare l’insegnante, non immaginavo di diventare un frate. Sono sempre stato curioso verso i libri. A casa mia c’erano quelli che usava mio padre per studiare, ha completato la scuola da adulto, quando io ero già nato. E mi ricordo un suo libro di geografia, lui studiava le mappe e io già conoscevo tutte le capitali. A scuola ero il secchione. Alle superiori, ho fatto un istituto tecnico, una specializzazione in chimica, pensavo di studiare ingegneria chimica, o qualcosa di simile. Finché un giorno, la mia insegnante di portoghese mi disse “ma sei matto? Tu devi studiare materie umanistiche”. Così decisi di studiare psicologia, ma non mi vedevo a fare terapia, volevo fare ricerca. Poi ho conosciuto i frati francescani. Per circa un anno ho partecipato ai loro incontri qui a San Paolo e ho capito che potevo conciliare il desiderio di studiare con la vocazione religiosa».
«Sono entrato nel seminario di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, ho girato alcune case francescane e da aprile 2021 vivo qui nella casa di Largo São Francisco. A fine 2022 andrò in un’altra casa, a Petropolis, a Rio de Janeiro, per studiare teologia. Ma ho deciso: non voglio essere prete. Voglio seguire il cammino religioso, ma desidero studiare anche altre cose, psicologia, scienze sociali e filosofia. Ho anche una tesi in mente», si entusiasma Frei Gabriel.
Meglio evitare le «letture binarie»
«Voglio studiare l’opera di un critico letterario francese in relazione con gli studi di Focault sulla follia, sulla saggezza dei matti. Nel medioevo i matti erano coloro che rivelavano il divino, mentre con l’uomo moderno si abbandona questa visione. I miei studi filosofici, le letture di Nietzsche, mi hanno insegnato che bisogna superare le letture binarie “male-bene, nero-bianco”, così si può avere una visione più positiva dell’uomo, come un essere complesso».
«Come si relaziona lo studio con la tua vita religiosa?», gli chiedo. «I miei studi mi hanno generato crisi esistenziali, non crisi vocazionali. Anzi, spesso mi chiedevo cosa ci stessi a fare al mondo, quale fosse la mia missione. Alcuni pensano che la filosofia vada contromano rispetto alla religione, ma per me è stato il contrario: lo studio della filosofia abbraccia il mio io religioso:
il Gabriel con il saio è lo stesso Gabriel che è nato nella periferia di San Paolo. In quella periferia, ho perso molti amici, quelli della scuola sono morti o sono in carcere. È triste, ma è quello che sarebbe potuto succedere anche a me se avessi preso un altro cammino. Siamo cresciuti nello stesso posto, frequentavamo le stesse persone. Ringrazio Dio e i miei genitori che mi hanno aiutato a scegliere, anche se forse in modo non cosciente».
Cosa significa essere francescano
Chiedo a Frei Gabriel perché abbia scelto l’ordine dei Francescani. «Innanzitutto, per la fratellanza. La vita fraterna significa che tutto è comune: il cibo, la cassa, il lavoro. Se io lavoro come insegnante, metto il salario nella cassa comune. Il ciabattino, che guadagna anche solo un centesimo, lo mette nella cassa comune. Tutti contribuiscono e tutti prendono solo quello di cui hanno bisogno».
«E poi, perché i Francescani sono l’ordine dei minimi: non sono il detentore della verità, non faccio qualcosa per gli altri, ma insieme agli altri. Per esempio, noi non abbiamo capi. Siamo tutti fratelli. Al massimo, c’è il primo tra i fratelli, il più anziano, il più istruito, ma non abbiamo leader. Qui, in questa casa, non c’è un superiore, c’è un fratello che coordina, che decide di ridipingere la parete», dice indicando la parete bianca del refettorio dove ci troviamo per l’intervista. «Le decisioni le prendiamo in assemblea, nel capitolo della casa, e quel che decide il capitolo è ciò che conta».
«Sono i valori che abbiamo ereditato dalla tradizione di San Francesco, che era un cavaliere medievale. La nostra cultura della semplicità viene dal cameratismo dei cavalieri, dall’uno per tutti, tutti per uno. E oggi riproduciamo e attualizziamo quei valori», afferma Frei Gabriel.
Chiedo se, a parte la crisi dei fedeli, ci sia anche una crisi vocazionale nel clero in Brasile. «Sì – risponde -, e per tanti motivi. Uno è storico: anticamente i religiosi erano gli unici che potevano accedere allo studio, avere opportunità di vita indipendentemente dal contesto sociale di nascita. Oggi non è così, ci sono più opzioni. Ma ci sono anche altri cambiamenti, nel modo di intendere la vita religiosa».
«Ma questo Non è peccato»
«Per noi francescani, è cambiato anche il concetto di Chiesa. Con il Concilio Vaticano II, gli ordini sono tornati al carisma originale dei padri fondatori. Abbiamo ripreso a leggere i testi di San Francesco e di coloro che l’hanno conosciuto».
«Ti faccio un esempio – continua Frei Gabriel -. Il nostro convento è un punto di riferimento per le confessioni, le persone vengono qui da quartieri lontani. Ma perché vengono fin qui, se hanno una chiesa più vicina a casa? Perché, credo, noi francescani siamo “carne e ossa”, siamo comprensivi. A volte, ti capita un tipo molto rigido, puritano, che vuole confessarsi: “Perché non ho pregato la quaresima di San Michele all’alba”, dice, “ma se lavori tutto il giorno, non è peccato”, lo rincuoriamo noi. Mentre, magari, un altro confessore gli direbbe di fare qualche preghiera per recuperare, rafforzando così l’idea del peccato. Quando qualcuno ci dice che è posseduto dal diavolo, noi ci concentriamo innanzitutto sui problemi psicologici, prima che su quelli spirituali», conclude Frei Gabriel.
Federico Nastasi
Gli autori
Federico Nastasi, ricercatore e giornalista freelance, vive in America Latina, collaborando con media e centri studi, in italiano
(Il Manifesto, Espresso) e spagnolo (El País, Brecha semanario). È coautore di Macondo, un podcast sull’America Latina prodotto da Treccani.
Mauricio Zina (Montevideo, 1987), fotogiornalista, lavora per vari media uruguayani e internazionali su temi di carattere politico e sociale. Il suo sito: www.mauriciozina.com
Chiesa cattolica e le nuove Chiese evangeliche
La sfida
In Brasile, il paese con più cattolici al mondo, da decenni vive un cambio religioso importante. Negli anni Settanta, i cattolici erano il 92%, oggi sono il 45%. Nello stesso periodo di tempo, gli evangelici sono passati dal 5% al 30%. Nel prossimo decennio, dicono le statistiche, saranno il primo gruppo religioso del paese. Il cambio avviene soprattutto attraverso le conversioni: si nasce cattolici, ci si converte al culto evangelico.
«In Brasile, come in tutta l’America Latina, chi crede diversamente, l’altro religioso, è uno di noi», scrive Gustavo Morelo, sociologo delle religioni. «Non è uno straniero che viene da un altro paese e che trasforma la nostra identità religiosa, come magari avviene in Europa. È un nostro prossimo, è mia sorella, mio fratello, un mio parente che si converte».
E generalmente, le conversioni avvengono in giovane età, prima dei 25 anni.
Secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 54% dei protestanti in Brasile afferma di essere stato battezzato cattolico. Ma perché si convertono? Secondo il sondaggio, la spiegazione più comune è che cercano una connessione più intima con Dio, un culto diverso, una chiesa più utile ai suoi membri.
«Quello pentecostale è un successo sociologico, non teologico», scrive Clara Mafra, antropologa, che ha studiato l’ascesa dei pentecostali in Brasile. La trasformazione religiosa del paese è conseguenza della trasformazione urbanistica: la crescita delle città e il contemporaneo abbandono delle campagne. A San Paolo vivono venti milioni di persone, sette a Rio de Janeiro. Le metropoli sono diventate immense, attorniate da gigantesche zone periferiche, dimenticate dallo stato e, a volte, anche dalla Chiesa cattolica. La segregazione sociale e urbana, non la povertà, è una chiave del successo pentecostale. E le chiese evangeliche hanno trasformato queste periferie da «terre di nessuno, in un luogo almeno abitabile», scrive Mafra.
Le persone che aderiscono alle chiese entrano in una comunità e si sentono valorizzate. A Vila Misionaria, periferia Sud di San Paolo, ho chiesto a una fedele neopentecostale cosa le piacesse del culto evangelico: «Mi piacciono le feste, i canti, gli incontri che altrove non potrei fare. Se non ci fosse la Chiesa, resterei da sola a casa a guardare la tv», mi ha detto. Il pastore che apre la chiesa in un garage o anche nel suo salotto di casa viene dal quartiere, ha dei figli che frequentano la (pessima) scuola pubblica della zona e nessun parco dove andare a giocare, una moglie che ha avuto a che fare con la sanità pubblica, e ogni giorno fa tre ore di viaggio su mezzi pubblici.
In Brasile, come nel resto dell’America Latina, quella evangelica è un’importante trasformazione religiosa e sociale. E una grande sfida per la Chiesa cattolica.
Fe.Na.
La crisi dell’acqua ora è globale
I fiumi dell’Amazzonia sono inquinati dal mercurio, in Africa orientale quattro stagioni delle piogge consecutive non hanno avuto precipitazioni sufficienti. Di siccità e di lotta agli sprechi idrici si parla da almeno sessant’anni, ma ora la crisi è davvero planetaria.
«L’Africa orientale è in agonia, flagellata dalla più avara siccità degli ultimi 15 anni. Da Gibuti attraverso l’Etiopia fino al Sudan meridionale, lungo la Somalia, il Kenya e l’Uganda, la terra è una fornace bianca, come ossa decrepite». E ancora: «L’inclemenza delle stagioni che, da qualche anno in Kenya e da due anni in Tanganyika non accenna a finire, ha gettato intere popolazioni nella terribile condizione di non potersi sfamare. Lunghi periodi di siccità hanno bruciato i raccolti; successive piogge torrenziali hanno travolto ogni cosa nella loro furia. […] le stagioni hanno perso quella regolarità propria dei paesi tropicali».
Ognuno di questi virgolettati potrebbe riferirsi alla difficile situazione in cui si trova l’Africa orientale in questo momento; invece, il primo è preso da un articolo del Newsweek, The grim famine of 1980, apparso nell’agosto del 1980 e pubblicato in una libera traduzione su Missioni Consolata nel dicembre dello stesso anno, mentre il secondo viene da un articolo pubblicato su Missioni Consolata nell’aprile del 1962, sessanta anni fa.
Ma le assonanze con l’oggi non si limitano al Corno d’Africa: anche in Italia, chi ha almeno quarant’anni potrebbe avere avuto un déjà vu ascoltando le raccomandazioni diffuse dal ministero della Transizione ecologica su come evitare lo spreco di acqua@ nei mesi della scorsa estate, in cui l’Europa ha vissuto la più grave siccità degli ultimi 500 anni.
Le indicazioni, infatti, ricordavano quelle delle campagne degli anni Ottanta, che erano spesso promosse dagli enti locali: «Potabile, non sprecabile», recitavano ad esempio i poster affissi lungo le strade di una città emiliana. Addirittura del 1977 era la campagna di Pubblicità progresso «A difesa dell’acqua»@ che mostrava – proprio come l’articolo su MC del 1962 – i due opposti volti della crisi idrica: l’eccesso e la scarsità di acqua.
Questi precedenti non servono a ridimensionare il problema, al contrario: danno la misura del suo aggravarsi dopo decenni di azioni poco incisive. Se le emergenze idriche erano già tali decenni fa, quando il cambiamento climatico non era, come ora, un fenomeno conclamato con effetti planetari e la popolazione mondiale era la metà di quella odierna, è chiaro il motivo per cui oggi tante fonti istituzionali, accademiche e giornalistiche parlano senza mezzi termini di crisi idrica globale.
I numeri della crisi
Secondo il più recente rapporto di UNWater, il meccanismo di coordinamento delle agenzie Onu che si occupa di acqua e sanificazione, sono 2,3 miliardi gli abitanti del pianeta che vivono in zone con stress idrico, nelle quali cioè si estrae il 25% o più delle risorse rinnovabili di acqua dolce. Di questi, 733 milioni abitano in territori in cui lo stress idrico è alto (fra il 75 e il 100% delle risorse rinnovabili estratte) o critico (oltre il 100%). Le persone che vivono in aree dove si registra una grave scarsità fisica di acqua per almeno un mese all’anno sono quattro miliardi, poco meno di metà della popolazione mondiale@.
Il rapporto cita le stime di Acquastat, il portale statistico dell’agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, secondo le quali «il prelievo globale di acqua dolce era probabilmente di circa 600 chilometri cubi all’anno nel 1900 ed è aumentato a 3.880 chilometri cubi all’anno nel 2017. Il tasso di aumento è stato particolarmente elevato (circa il 3% all’anno) durante il periodo dal 1950 al 1980, in parte a causa di un maggiore tasso di crescita della popolazione e in parte per il rapido aumento dello sfruttamento delle acque sotterranee, in particolare per l’irrigazione. Il tasso di incremento è oggi di circa l’1% annuo, in sintonia con l’attuale tasso di crescita della popolazione» mondiale e, mentre esso si è stabilizzato nei paesi sviluppati, continua ad aumentare nelle economie emergenti e nei paesi a medio e basso reddito.
Secondo questi monitoraggi@, sul pianeta una persona su quattro non ha accesso a servizi di acqua potabile gestiti in maniera sicura e 2,3 miliardi di persone non hanno a casa propria servizi ai quali lavarsi le mani con acqua e sapone.
Inoltre, mancano dati sulla qualità dell’acqua a cui accedono tre miliardi di esseri umani: questo significa che tutte queste persone sono potenzialmente a rischio, poiché la salubrità dei fiumi, laghi e bacini sotterranei da cui attingono l’acqua che usano non è verificata e l’utilizzo di queste risorse idriche potrebbe esporle a inquinanti come batteri fecali, metalli pesanti, pesticidi, solventi e altre sostanze chimiche contaminanti.
Il mercurio nei fiumi dell’Amazzonia
Fra i metalli pesanti responsabili dell’inquinamento di laghi e fiumi vi è il mercurio utilizzato nell’estrazione dell’oro: esso si amalgama all’oro separandolo dalla pietra e viene poi vaporizzato per lasciare libera la pepita.
«Per i popoli indigeni dell’Amazzonia», spiegava padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata che lavora a Baixo Cotingo, Roraima, in un articolo sulla rivista Missões lo scorso marzo@, «la sopravvivenza stessa dipende dall’acqua dei fiumi e degli igarapé», cioè i piccoli corsi d’acqua tributari del Rio delle Amazzoni. Negli ultimi tempi, si legge nell’articolo, con l’invasione dei minatori in Amazzonia, l’acqua del fiume Catrimani e degli altri fiumi della regione si è inquinata, creando problemi di salute alle popolazioni autoctone che bevono continuamente le acque di questi fiumi e mangiano il pesce che in essi vive. Si registrano oggi nei villaggi indigeni malattie e condizioni prima molto più rare: «Cancro, dolori di stomaco continui, impotenza, bambini nati con malformazioni, morti premature per cause non chiare».
Per questo, conclude il missionario, le comunità della zona tengono così tanto a raccogliere fondi per scavare pozzi artesiani, che garantiscono un’acqua più pulita di quella dei fiumi.
Il Kenya e la sua siccità pluriennale
L’Integrated food security phase classification (Ipc) è un’iniziativa che riunisce agenzie governative, agenzie Onu, Ong e altri partner per monitorare le crisi alimentari sul pianeta. Per indicare la gravità della situazione Ipc usa una scala con cinque fasi che descrivono la difficoltà dei nuclei famigliari a soddisfare il proprio bisogno di cibo.
La scala va dalla fase 1, in cui la difficoltà è minima o non c’è, alla fase 5, denominata «catastrofe», in cui è impossibile per le famiglie procurarsi cibo sufficiente. Le fasi intermedie sono:
– la 2, fase di stress,
– la 3, di crisi, e
– la 4, di emergenza.
L’insicurezza alimentare, si legge nell’analisi pubblicata da Reliefweb, il servizio informazioni dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari@, è causata da un combinarsi di diversi shock, primo fra tutti la quarta stagione delle piogge consecutiva con precipitazioni insufficienti. Si aggiungono poi i conflitti locali per le risorse e l’aumento dei costi del cibo a causa della guerra in Ucraina. Le contee più colpite sono Isiolo, Turkana, Garissa, Mandera, Marsabit, Samburu, Wajir e Baringo, zone in cui vivono prevalentemente popolazioni che si dedicano alla pastorizia. Per i mesi da ottobre a dicembre, Ipc prevede un ulteriore peggioramento, con una proiezione che stima a 4,4 milioni le persone in fase di crisi, emergenza o catastrofe.
«Gli ultimi due anni sono stati pessimi», riporta da Isiolo, nel centro del Kenya, padre Joseph Kihwaga, missionario della Consolata, «non ha piovuto per niente. Molti animali sono morti, le persone hanno fame. Anche gli animali selvatici soffrono per questa situazione. Abbiamo dovuto allontanare degli elefanti che, attirati dall’acqua del nostro pozzo, sono arrivati dentro al complesso della missione distruggendo recinto e campi coltivati. Finora sono due le persone uccise da elefanti che vagavano fuori dal parco di notte. C’è paura anche per i bambini, che escono quando è ancora buio per andare a scuola e rischiano di incontrarli».
Padre Mark Githonga, missionario della Consolata a Loyiangalani, sul lago Turkana (Nord del Kenya), scrive confermando che il governo ha imposto il coprifuoco a causa dei conflitti tribali locali. «Qui non piove da quattro anni», riferisce, «eppure il lago Turkana si è ingrandito@, inondando le zone costiere dalle quali le comunità locali, specialmente di etnia El Molo, erano solite pescare».
Il cibo, continua padre Mark, arriva qui portato da commercianti provenienti dalla zona centrale del paese. I prezzi però sono proibitivi a causa dei costi di trasporto e di stoccaggio e per le condizioni di insicurezza legate ai conflitti tribali. Le comunità che vivono sull’isola di Komote (nelle due foto qui sotto del 2009 e del 2022, ndr) sono fra quelle più in difficoltà, perché non c’è più abbastanza acqua pulita da incanalare negli impianti idrici che raggiungono l’isola dalla terraferma.
Non va meglio ad Adu, vicino a Malindi, città costiera bagnata dall’Oceano Indiano: «Nei sei anni dal 2016 a oggi, solo nel 2018 abbiamo avuto precipitazioni sufficienti», scrive padre Urbanus Mutunga. Le soluzioni tentate dal governo e da diverse Ong non sono bastate: ci sono vasche per raccogliere l’acqua piovana, ma sono vuote dal 2018, mentre il programma nutrizionale nelle scuole non esiste più, e così i tassi di abbandono scolastico aumentano. «C’è una migrazione di massa dai villaggi verso le città di Malindi, Lamu e Mombasa, le persone vanno a cercare lavoro e cibo ma spesso si trovano costrette a fare lavori umili o a prostituirsi per sopravvivere».
Chiara Giovetti
Acqua dolce
Sulla terra ci sono in totale 1,4 miliardi di chilometri cubi di acqua: un volume che possiamo immaginarci come una sfera dal diametro di 1.400 chilometri, la lunghezza del Madagascar.
Di quest’acqua il 97,5% è salata, il 2,5% è acqua dolce.
Solo l’1,2% di questa acqua dolce è facilmente fruibile (in superficie) per l’uomo, il resto è sottoterra (30,1%) oppure in forma di ghiaccio (68,7%).
Il 70% dell’acqua dolce disponibile è usata per l’agricoltura, il 19% per l’industria e l’11% per l’uso domestico.
«La situazione non è mai stata così grave. Siamo molto colpiti sul piano personale, famigliare e professionale», ci dice una nostra fonte giornalistica locale, contattata a Port-au-Prince.
Haiti vive una crisi senza precedenti, peggiore, sembra alle tante vissute nella sua storia.
Dal 7 luglio 2021, quando il presidente Jovenel Moise è stato assassinato, e un governo de facto, ovvero non leggitimo, presieduto da Ariel Henry, è stato insediato con l’avvallo di Usa, Canada e altri stati «amici», nel paese non ci sono più istituzioni repubblicane elette. Fanno eccezione dieci senatori non scaduti (la camera alta viene eletta nella misura di un terzo ogni due anni), mentre il presidente del senato, Joseph Lambért, è l’unica figura eletta attualmente in carica. Moise infatti, si era premurato di ritardare le elezioni amministrative locali e quelle parlamentari, portando a scadenza tutte le istituzioni nazionali.
Il paese è, di fatto, controllato da bande criminali (gang), che si dividono il territorio, sia in capitale Port-au-Prince, sia nelle altre città e nelle vie di comunicazione principali. Sono legate a ricche personalità politiche ed economiche e si finanziano anche con l’uso massiccio del rapimento a scopo di estorsione (abbiamo approfondito questa situazione su MC nei mesi di gennaio e marzo 2022, articoli reperibili sul sito).
Ultimo atto
Dal 12 settembre scorso, una potente gang, G9 an fanmi ak alye, controlla e blocca il terminale petrolifero di Varreux, nel porto della capitale, dove sono presenti gli stock di carburante (già successo nell’ottobre 2021). Benzina e gasolio sono diventati introvabili, e la super reperibile sul mercato nero ha raggiunto i 5.000 gourd al gallone (circa 9 dollari al litro). In questo modo il paese è bloccato. I mezzi di trasposto sono paralizzati, le scuole non hanno potuto riaprire, gli ospedali hanno iniziato a chiudere i reparti, gli uffici non funzionano (l’energia elettrica è prodotta con generatori a gasolio).
Il governo de facto, non ha fatto nulla per riportare la sicurezza nel paese, mentre ha annunciato il raddoppiato il costo dei carburanti a metà del mese scorso (sarebbe il secondo raddoppio dopo quello del dicembre 2021). Da allora, forti movimenti di protesta di strada sono cominciati, molto spesso degenerati in saccheggi e violenze.
In ultimo, dall’inizio del mese di ottobre, ha fatto la sua ricomparsa sull’isola il vibrione del colera, e i casi di malati e decessi si stanno moltiplicando, anche a causa della difficoltà, talvolta l’impossibilità, di fornire cure, a causa del blocco del paese.
Una nuova occupazione?
Così, in un consiglio dei ministri, il 6 ottobre scorso, il governo de facto ha autorizzato il primo ministro a «sollecitare e ottenere dai partner internazionali un supporto effettivo per il dispiegamento di una forza armata specializzata, per fermare su tutto il territorio la crisi umanitaria causata, tra l’altro, dall’insicurezza, risultato dell’azione delle bande armate […]».
Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha girato la richiesta di aiuto al Consiglio di sicurezza.
Una richiesta illegittima da parte di un governo de facto, per chiedere una nuova occupazione militare del paese. Un atto anticostituzionale, questo hanno denunciato i diversi settori della società civile e dell’opposizione politica.
Il gruppo nato da società civile e alcuni partiti di opposizione, il 30 agosto 2021, noto come l’accordo del Montana (firmato appunto in quella data), aveva tentato una negoziazione con il potere de facto, per una gestione più concordata e aderente alla Costituzione della crisi degenerata con l’assassinio del presidente Moise. A inizio 2022, però, ha gettato la spugna, vista la reticenza di Henry ad ascoltare altri settori della società, per raggiungere un consenso più ampio su un governo di transizione.
Si ricorda che le occupazioni militari di Haiti, Usa 1915-1934, Usa 1994 poi sostitutita da Nazioni Unite (fino al 1997), e ancora caschi blu dell’Onu dal 2004 al 2017, hanno portato enormi problemi, non hanno risolto quelli presenti e, di fatto, hanno contribuito a portare il paese alla situazione attuale aumentandone, nei decenni, la dipendenza dall’estero.
Tra il 12 e il 13 ottobre, una delegazione statunitense, guidata dal vice segretario di stato per gli affari dell’emisfero occidentale Brian A. Nichols, è stata ad Haiti dove ha incontrato separatamente il governo de facto, il gruppo di Montana, e alcuni settori imprenditoriali e sociali. Intanto, una delle maggiori navi guardacosta Usa, ha iniziato a incrociare al largo di Port-au-Prince.
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Sebbene gli haitiani abbiano mostrato nella storia una grande resilienza, la popolazione è oggi davvero allo stremo. La fame, la violenza, l’insicurezza, le malattie, stanno colpendo tutti. Il rischio, ben visibile, è quello di un’insurrezione popolare generalizzata. A breve.
Marco Bello
Siccità, fame e guerra: il mondo a un bivio
Dal punto di vista climatico, l’estate 2022 è stata complicata. La siccità si è aggiunta alla guerra in Ucraina, spingendo quasi 50 milioni di persone, specialmente nel Corno d’Africa, sull’orlo della carestia. Intanto, le negoziazioni per il clima in vista della Cop27 non fanno progressi e il Programma alimentare mondiale fatica a trovare i fondi per assistere chi è in difficoltà.
La Cop27, o Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si svolgerà a Sharm El-Sheikh, in Egitto, dall’8 al 17 di novembre@. Purtroppo, le premesse non sembrano per il momento incoraggianti.
Qualcosa di più potrebbe uscire dai lavori preparatori della Pre-Cop27 previsti questo mese, magari sulla spinta dei dati pubblicati a settembre dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc, nell’acronimo inglese) nel Rapporto di sintesi del suo sesto ciclo di valutazione@, ma anche la Conferenza sul clima di Bonn dello scorso giugno si era conclusa con pochi progressi.
Quella di Bonn è stata la prima occasione di incontro per le parti dopo la Cop26 di Glasgow del 2021. Uno dei suoi obiettivi principali era quello di definire un programma concreto per realizzare i tagli alle emissioni decisi dai paesi del mondo a Glasgow. Invece, riferiscono diverse fonti, fra cui la Bbc, la negoziazione ha subito uno stallo: sul tema delle perdite e dei danni, infatti, le parti non hanno trovato un accordo.
I paesi in via di sviluppo chiedono che Unione europea e Stati Uniti mettano loro a disposizione i fondi necessari a contrastare i danni che il cambiamento climatico sta già provocando nei loro territori. Essi ritengono le due potenze mondiali le principali responsabili delle emissioni che hanno portato all’attuale situazione. Dal canto loro, Usa e Ue respingono queste richieste, temendo che se accettassero di pagare per le emissioni storiche, potrebbero trovarsi costretti a farlo per decenni, se non secoli@.
A complicare il quadro vi è poi la posizione della Cina, oggi principale responsabile delle emissioni con dieci miliardi di tonnellate all’anno, un quarto del totale globale@. La Cina, infatti – ricorda Ferdinando Cotugno sul quotidiano Domani -, per la Convenzione Onu per i cambiamenti climatici, risulta ancora nell’elenco dei paesi in via di sviluppo, come nel 1992, e da quella posizione conduce le trattative sul clima «come (presunto) campione dei paesi in via di sviluppo».
Il cambiamento climatico è già qui
«Il sistema», riporta il pezzo di Cotugno citando le parole dell’esperto della rete Climate action network, Harjeet Singh, «ha i soldi per te, paese in via di sviluppo, se vuoi mettere i pannelli solari, ha i soldi per te se vuoi migliorare l’efficienza termica della tua casa, ma non ha i soldi per te se invece i cambiamenti climatici distruggono la tua casa. Parliamo di azione per il clima, ma le persone stanno soffrendo già oggi, stanno annegando, e noi gli diciamo: non vi possiamo aiutare, ma se sopravviverete, forse vi aiuteremo a prepararvi meglio per la prossima volta»@.
Oggi, a essere distrutte, sono sempre più anche le «case» europee e statunitensi: nel nostro continente, l’estate scorsa è stata la più calda degli ultimi 500 anni@, mentre uno studio della rivista Nature, già a febbraio scorso, indicava il ventennio 2000 – 2021 come il più secco da 1.200 anni a oggi per gli stati sudoccidentali degli Usa@.
Quanto all’Africa, fra Etiopia, Kenya e Somalia, lo scorso agosto erano 22 milioni le persone che avevano difficoltà a trovare sufficiente cibo. Un numero quasi doppio rispetto ai 13 milioni in difficoltà a inizio anno, mentre le persone che non avevano accesso ad acqua pulita erano passati dai 9,5 milioni di febbraio ai 16,2 milioni di agosto.
La maggior parte degli abitanti del Corno d’Africa, riporta Unicef@, dipende dall’acqua fornita da venditori che la trasportano su camion o carretti trainati da asini, e nelle zone più duramente colpite dalla siccità molte famiglie non possono più permettersi di comprarla: ad esempio, il prezzo dell’acqua in Kenya ha subito fra gennaio 2021 e lo scorso agosto aumenti fino al 400% a Mandera, nel Nord del paese, e del 260% a Garissa, città a poco meno di 400 chilometri a Est della capitale Nairobi.
Le difficoltà del Wfp
La regione del Corno d’Africa sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi quarant’anni perché, per quattro volte consecutive, la stagione delle piogge è stata troppo scarsa di precipitazioni e, secondo le previsioni, sarà così anche la prossima. «Ancora non si vede la fine di questa crisi», ha avvertito lo scorso agosto David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (World food programme, Wfp), «perciò dobbiamo trovare le risorse che servono per salvare vite umane e impedire alle persone di arrivare a livelli di fame catastrofici».
Le risorse che servono sarebbero circa 418 milioni di dollari per i prossimi sei mesi, ma ottenerli è più difficile anche a causa della guerra in Ucraina, che sta avendo conseguenze dirette sulla capacità del Wfp stesso di ottenere il cibo da distribuire nelle emergenze umanitarie, innanzitutto, in termini di forniture. Nel rapporto sull’approvvigionamento di cibo del 2021@, infatti, si legge che sia Ucraina che Federazione Russa erano fra i primi dieci fornitori dell’agenzia Onu: su 4,4 milioni di tonnellate di cibo, quasi un quinto – principalmente grano e piselli – venivano dalla prima e il 5,5% dalla seconda, che forniva grano, farina di grano, olio vegetale e legumi.
Inoltre, il Wfp prevedeva a marzo scorso che l’incremento dei prezzi del grano causati dalla guerra avrebbero determinato su base mensile un aumento di circa 23 milioni di dollari nei propri costi di approvvigionamento, che si aggiungevano ai +6 milioni di dollari al mese per maggiori costi di trasporto e ai +42 milioni di dollari di costi in più che l’agenzia già stava registrando rispetto al 2019, per un totale di 71 milioni di dollari al mese di aumento@.
«Per fermare la fame nel mondo non basterà l’uscita delle navi dall’Ucraina – dice Beasley -, ma con il grano ucraino di nuovo sul mercato globale abbiamo la possibilità di impedire a questa crisi di aggravarsi ancora».
La guerra in Ucraina e l’insicurezza alimentare
Ma le conseguenze della guerra in Ucraina vanno oltre le difficoltà del Wfp, e si traducono in insicurezza alimentare per molti paesi in via di sviluppo. Alcuni di questi, riportava l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, in una nota informativa di giugno@, hanno una significativa dipendenza dal grano russo e ucraino. L’Eritrea, ad esempio, importa tutto il proprio grano dai due paesi, la Somalia dipende da questi per circa il 93%, il Pakistan importa circa la metà del suo grano dall’Ucraina e circa un quinto dalla Russia.
La riduzione della produzione agricola e i blocchi nella zona del Mar Nero, si legge in un aggiornamento pubblicato dal Wfp a giugno@, insieme alle restrizioni commerciali, hanno portato a una ridotta disponibilità di prodotti essenziali e a un forte aumento dei prezzi globali dei cereali: rispetto ai prezzi di gennaio 2022, a maggio l’incremento era stato del 48,6% per il grano, del 28,7% per il mais e del 9,3% per il riso, con implicazioni sui prezzi in tutta l’Africa orientale.
L’aumento dei prezzi del carburante e dei generi alimentari ha, inoltre, spinto al rialzo il tasso di inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto di quelle più povere.
Sempre a causa di sanzioni e aumenti dei costi di produzione, i prezzi globali dei fertilizzanti sono aumentati di quasi il 30% dall’inizio del 2022. Si è così ridotta la quota di fertilizzanti importati in Africa orientale, in coincidenza, fra l’altro, con il picco della principale stagione di semina, quella di marzo-aprile-maggio. Secondo le stime del Wfp, questo potrebbe determinare una diminuzione dei raccolti del 16% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Questi calcoli non tengono però in considerazione la guerra, il cui impatto può essere per ora solo stimato: nelle simulazioni della Fao, considerando il calo nelle esportazioni previsto dall’Ucraina e dalla Federazione Russa nel 2022 e 2023 e ipotizzando che la disponibilità globale di cibo non verrà compensata con derrate prodotte altrove, nel 2023 il numero di persone denutrite nel mondo potrebbe aumentare di quasi 19 milioni@.
Clima e guerre, un nodo sempre più stretto
La guerra in Ucraina, spiega Champa Patel, che si occupa del futuro del conflitto con il gruppo di ricerca International crisis group, nel suo podcast War & peace@, spiega che la guerra ha anche un impatto negativo sulla lotta al cambiamento climatico, perché il ritorno parziale di molti paesi occidentali a fonti di energia fossili per liberarsi dalla dipendenza dal gas russo, rallenta il cammino verso il raggiungimento degli obiettivi climatici, a cominciare dalla riduzione delle emissioni.
Raggiungere questi obiettivi, spiega Patel, è a sua volta «necessario per evitare che il cambiamento climatico abbia effetti catastrofici, soprattutto in quei paesi che sono già fragili o in conflitto». Il clima non provoca le guerre in modo diretto, ma agisce da «moltiplicatore della minaccia e contribuisce al conflitto esacerbando tensioni che esistono già».
C’è poi un aspetto della guerra e del suo incidere sul clima che a oggi è misurato in modo impreciso: le emissioni del settore militare. Axel Michaelowa, fondatore dell’agenzia di consulenze tedesca Perspectives climate group, ha spiegato all’emittente pubblica Deutsche Welle che le emissioni militari possono raggiungere centinaia di milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno. «Le emissioni annuali dirette dei comparti militari in grandi paesi come Stati Uniti e Regno Unito raggiungono l’1% del totale nazionale», la maggior parte per il funzionamento di aerei da combattimento. Altre derivano anche dalla distruzione delle riserve di carbonio durante le guerre, mentre le emissioni indirette per ricostruire città e infrastrutture dopo un conflitto possono facilmente superare i 100 milioni di tonnellate di CO2: circa un quarto dei gas serra emessi dall’Italia@.
Chiara Giovetti
Chi paga la guerra del grano
La guerra in Ucraina ci ha fatto scoprire le vie dell’export-import del grano. Il suo blocco nei porti e la sua minore produzione stanno generando gravi problemi. E, se l’Europa rischia la recessione, milioni di africani rischiano la fame.
Il conflitto in Ucraina ci ha insegnato che le guerre, oltre a seminare morte dove divampano, producono sofferenza anche a distanza per le loro conseguenze commerciali ed economiche. E se l’Europa rischia la recessione per la riduzione delle forniture di gas, milioni di africani rischiano la fame per la riduzione delle forniture di grano.
Analizzando i dati di produzione e commercio, si scopre che il grano è uno dei prodotti più commercializzati a livello mondiale perché ci sono paesi che ne producono più del proprio fabbisogno e altri che non ne producono abbastanza. Da un punto di vista quantitativo, il primo posto spetta alla Cina, che però non ne produce abbastanza per cui è un importatore netto. Il secondo grande produttore è l’India che, al contrario, non lo consuma tutto e compare fra gli esportatori netti. Una notizia che non ti aspetteresti dal momento che, in India, il 13% della popolazione, 189 milioni di persone, è sottonutrita. Dimostrazione di come la fame non sia sempre un problema di produzione, ma di ingiusta distribuzione della ricchezza che priva milioni di famiglie dei mezzi necessari per acquistare il cibo che nei negozi abbonda.
Lo scandalo del blocco
Il terzo produttore mondiale di grano è la Russia che però è anche il primo esportatore perché ne consuma internamente soltanto la metà. Andando avanti, fra i primi dieci produttori troviamo Stati Uniti, Canada, Francia, Pakistan, Ucraina, Germania, Turchia. Tutti paesi, che, a eccezione di Pakistan e Turchia, compaiono anche fra i primi dieci esportatori. Un gruppo, quest’ultimo, di cui fanno parte anche Argentina e Australia che, pur non producendo quantità astronomiche di grano, ne raccolgono oltre il proprio fabbisogno.
Quanto all’Ucraina, si trova all’ottavo posto come produttore e al quinto come esportatore. Nel 2020 il suo contributo alle esportazioni mondiali è stato del 10%, quello russo del 20%. Grano che, in gran parte, salpa dai porti del Mar Nero. Per questo, con lo scoppiare della guerra in Ucraina, il mercato mondiale del grano ha registrato ammanchi importanti.
The Odessa Journal del 2 maggio 2022 titolava che, nei porti ucraini, erano bloccate quattro milioni e mezzo di tonnellate di grano. Cifra che, secondo le Nazioni Unite, saliva a 25 milioni di tonnellate se si allargava la visuale a mais, orzo, segale e altre derrate alimentari.
Multinazionali e prezzi
Le imprese transnazionali che commerciali cereali hanno subito approfittato della situazione per innalzare i prezzi.
Giova ricordare che, a livello mondiale, il commercio di cereali è controllato da un pugno di multinazionali di varia nazionalità: Cargill (Usa), Dreyfus (Francia), Bunge (Brasile), Adm (Usa), Glencor (Svizzera), una pattuglia che, nel caso del grano ucraino, è integrata da imprese a capitale locale come Kernel e Nibulon. Colossi in concorrenza fra loro per strapparsi qualche acquirente, ma sempre pronti ad accordarsi quando si tratta di fare lievitare i prezzi. E siccome un fondamento dell’economia di mercato è che il prezzo scende quando l’offerta supera la domanda e sale quando la domanda supera l’offerta, basta un qualsiasi segnale che possa essere interpretato come contrazione dell’offerta per fare impazzire i prezzi. Lo dimostra il fatto che i prezzi del grano sono in movimento dal 2016 quando si vendeva per 4 dollari al bushel (30 kg). Ma nel gennaio 2022, dunque prima dell’attacco russo all’Ucraina, si vendeva quasi al doppio: 7,85 dollari per bushel. E non si capisce bene il motivo dal momento che produzione e riserve (salvo un lieve calo nel 2019) si sono mantenuti pressoché costanti. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, è bastata la sola ipotesi di blocco dei porti per portare subito il prezzo del grano a 12 dollari per bushel. Un aumento del 200% rispetto al 2016 e del 50% rispetto al gennaio 2022, con conseguenze particolarmente gravi per tutti quei paesi che usano come alimento base il grano proveniente dall’estero.
Nel mondo si contano oltre 50mila piante commestibili, ma il 90% del fabbisogno alimentare dell’umanità è soddisfatto da appena quindici di esse. Fra le principali, il riso rappresenta l’alimento di base per il 50% della popolazione mondiale, soprattutto in Asia, America Latina e alcuni paesi africani. Quanto al grano, esso è l’alimento di base del 35% della popolazione mondiale, all’incirca due miliardi e mezzo di persone distribuite in 89 paesi appartenenti a tutti i continenti, con una maggiore concentrazione in Europa, Africa, Asia. Non a caso i maggiori importatori di grano si trovano in questi tre continenti con l’Egitto che, nel 2021, ha fatto da capofila seguito da Indonesia, Cina, Turchia, Algeria, Bangladesh. Altri paesi con forti importazioni di grano sono l’Iran, la Nigeria, il Marocco, il Giappone. Per completezza d’informazione, va detto che solo il 70% del grano prodotto a livello mondiale ha come destino l’alimentazione umana: un 20%, infatti, è utilizzato per l’allevamento animale, e il restante 10% per altri usi industriali. Una precisazione necessaria perché fra le ragioni che, ad esempio, fanno della Cina uno dei principali importatori di grano, c’è proprio l’esplosione degli allevamenti, in particolare di suini e pollame.
La crisi ucraina è destinata ad avere conseguenze su tutti i paesi importatori di grano, ma con effetti diversificati a seconda del grado di dipendenza dalle importazioni e soprattutto di dipendenza dal grano russo e ucraino. La Fao indica una cinquantina di paesi con percentuali di importazione dall’Ucraina e dalla Russia superiori al 25%. La lista si apre con l’Eritrea che copre il 100% delle proprie importazioni con grano proveniente dai due paesi e si chiude con il Bangladesh che copre il 25% delle proprie importazioni.
Chi rischia di più
Per capire quanto il blocco dei porti del Mar Nero possa davvero rappresentare una minaccia alimentare per i diversi paesi, bisogna tenere conto di altri due elementi. Il primo riguarda il posto detenuto dalla farina di grano nelle abitudini alimentari dei singoli paesi. Il secondo riguarda il grado di dipendenza dalle importazioni di grano. Se un paese importa il 100% del proprio grano, che però gioca un ruolo trascurabile nella dieta nazionale, non ci sarebbero rischi alimentari significativi neanche in caso di sospensione totale. Diverso il caso di un paese nel quale la gente mangia prevalentemente pane e pasta: se importa anche solo il 50% del proprio grano, e questo dovesse venire a mancare, il danno sarebbe notevole. Uno studio condotto dall’istituto francese Cirad su una sessantina di paesi d’Africa e del Medio Oriente, per un totale di 1,3 miliardi di persone, ha evidenziato che, pur dipendendo tutti dalle importazioni di grano per percentuali importanti, non tutti subirebbero le stesse conseguenze in caso di gravi turbolenze sul mercato mondiale del grano. Di fatto «solo» una porzione formata da 400 milioni di individui residenti in una quindicina di paesi subirebbe conseguenze gravi perché fa grande uso di pane e di pasta. Un secondo gruppo, formato da altri 400 milioni di persone, subirebbe conseguenze medie perché pane e pasta rappresentano cibi complementari. Infine, un terzo gruppo formato dai restanti 500 milioni di persone subirebbe conseguenze lievi perché per loro pane e pasta sono alimenti marginali. A conti fatti, in caso di riduzioni significative di grano sul mercato internazionale, i paesi a maggior rischio alimentare sarebbero soprattutto Egitto, Algeria, Marocco, Tunisia, Turchia. In questi paesi, i minori approvvigionamenti dall’estero potrebbero provocare una reale crisi alimentare, come succede là dove il cibo scarseggia per guerre o siccità. Una situazione, quest’ultima che, secondo il World food programme, coinvolge una cinquantina di nazioni per un totale di 193 milioni di persone con aspetti particolarmente drammatici in Etiopia, Madagascar meridionale, Sud Sudan,
Yemen, paese quest’ultimo dove mezzo milione di persone richiede interventi urgenti per evitare la morte per fame.
la spesa delle famiglie
Vada come vada, la guerra in Ucraina è destinata a lasciare un segno profondo in tutti i paesi grandi importatori di grano perché, oltre alle conseguenze immediate, ci sono quelle di lunga durata che si faranno sentire negli anni a venire, per tre ragioni di fondo. La prima è la riduzione dei raccolti 2022 e 2023 causata dal dirottamento di mano d’opera dall’agricoltura all’esercito e dall’insicurezza provocata dal conflitto, fatti che impediscono di raccogliere ciò che arriva a maturazione e di effettuare nuove semine. La Fao stima che fra il 20 e il 30% della terra agricola ucraina non sarà utilizzata per la prossima semina. La seconda ragione di crisi è dovuta al prezzo dell’energia. L’agricoltura ne assorbe grandi quantità, sia in forma diretta che indiretta: diretta, per l’uso di corrente elettrica e carburante; indiretta per l’uso di fertilizzanti. Le sanzioni imposte alla Russia e le contromisure assunte da quest’ultima, hanno già provocato importanti aumenti di prezzi nel settore energetico e dei fertilizzanti, e altri potrebbero arrivare con inevitabili ripercussioni sul prezzo finale delle derrate alimentari. Con due conseguenze: minor cibo sulle tavole di milioni di famiglie e aumento della povertà. In Europa, il cibo assorbe mediamente il 15% della spesa familiare, mentre nei paesi a reddito medio basso assorbe attorno al 50%. In Nigeria, ad esempio, si attesta al 44%. Nel Sud del mondo, dunque, le famiglie sono molto sensibili ai prezzi dei prodotti alimentari, in particolare di quelli di largo consumo come il pane. Se quote crescenti di reddito familiare debbono essere utilizzate per mangiare, ne rimane di meno per le altre spese, determinando un impoverimento generalizzato.
Guerre, fame, debito
Non va dimenticato che, nel 2011, l’aumento del prezzo del pane provocò varie rivolte nei paesi del Nord Africa, fino ad assumere i connotati di una rivolta politica che prese il nome di «primavera araba». Ciò spiega perché, in molti paesi africani, i governi intervengano con sovvenzioni pubbliche per mantenere basso almeno il prezzo del pane. Fra questi l’Egitto dove il 70% dei 102 milioni di abitanti vive acquistando pane a prezzo calmierato dalle integrazioni statali. Questo fa capire perché l’aumento di prezzo dei cereali o dei prodotti oleari, sia non solo un problema delle famiglie, ma anche dei governi che ogni volta subiscono aggravi di spesa pubblica. E non è certo un caso se, poco dopo l’avvio delle ostilità in Ucraina, l’Egitto ha fatto ricorso al Fondo monetario Internazionale e all’Arabia Saudita per discutere nuovi prestiti. La chiusura perfetta del cerchio formato da guerre, fame e debito.