Good morning Korea


Diciotto missionari provenienti da undici paesi diversi, sparsi in Asia fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore del grande continente. Questa la realtà dei missionari della Consolata tra Sud Corea, Mongolia e Taiwan. Questo è il pensiero che mi accompagna «turisteggiando» a Seul.

Cammino per le strade di Seul ormai da un paio d’ore. Mi sono preso una giornata di vacanza per girare liberamente in città, visto che forse è l’ultima volta che ho l’opportunità di farlo. La capitale coreana mi piace molto. Ho imparato a sentirmi a casa qui, pur senza conoscere la lingua della gente, cosa che mi avrebbe permesso di apprezzare di più un mondo tanto diverso, eppure così affascinante. Vagolo senza meta, dopo aver pagato il dazio alla cultura visitando il tempio confuciano di Jongmyo che ancora mancava alla mia agenda di turista, ovviamente interessato, in quanto missionario, alle religioni dell’Estremo Oriente. Bighellono per Tapgol Park, dove un anziano mi ferma, mi chiede da dove vengo e con fatica, in un inglese improbabile, mi racconta perché quel luogo è così importante per l’anima coreana: «Independence from Japan». Mi racconta fatti che risalgono all’inizio del secolo scorso, ma che sembrano di millenni fa se si pensa a cosa è successo qui da cento anni a questa parte e alla velocità che la storia ha impresso a questo angolo di mondo. La Corea (ma lo stesso si può dire di Taiwan, altro posto che ho imparato a conoscere in questi anni) è passata dalle stalle alle stelle alla velocità della luce: sulle rovine di un paese frantumato e diviso dalla guerra civile degli anni ’50 si è innestato il turbo di un progresso vertiginoso.

Zigzagando per il centro

Seul è immensa. Venticinque milioni di coreani, dei cinquanta complessivi che compongono la popolazione nazionale, vivono in questa immensa area metropolitana che non dista molti chilometri dal sempre turbolento confine con la Corea del Nord. Tuttavia, almeno in centro, ormai mi oriento senza troppa difficoltà, anche se ogni tanto sono costretto a estrarre la cartina dallo zainetto perché sotto ai grattacieli la città ti può confondere e il fatto di girare a sinistra invece che a destra ti può complicare non poco la vita. Gli isolati sono enormi e, se ci si sbaglia, i percorsi si possono allungare a dismisura prima di rendersi conto che si sta camminando nella direzione errata. Guardo la mappa quasi di nascosto perché il coreano è solitamente persona gentilissima e si avvicina come un falco appena intuisce la benché minima difficoltà del turista. Iniziano allora conversazioni surreali con l’improvvisata guida che non capisce dove tu vuoi andare, ma ti spiega come fare a raggiungere luoghi di cui manco avresti immaginato l’esistenza. Quanto mi piacerebbe poter andare oltre agli stereotipati annyeonghaseyo (buongiorno) o gamsahabnida (grazie), le uniche due parole di coreano che conservo da un viaggio all’altro. Ho provato ad ammucchiae qualcuna in più nel mio improvvisato bagaglio di viaggiatore, ma il coreano è lingua impegnativa, il cui studio esige dedizione costante e pratica. Alla fine mi sono arreso.

Oggi, dopo questi anni di servizio all’Istituto che mi hanno portato a viaggiare più volte in Oriente, mi resta la nostalgia, condita da un pizzico di rammarico, dei passi non fatti, dei libri non letti… dei film non visti, insomma, della Corea che avrei potuto esplorare anche dalla mia camera e che invece è rimasta sconosciuta. In questi anni mi sono accorto che per capire l’Asia (e la Corea non fa certo eccezione) non basta il «mordi e fuggi», occorre immergersi, entrare nel tessuto, accettare la sfida di rimanere ai margini di un mondo che quando inizia ad essere minimamente intellegibile è soltanto perché vuole fuggire di nuovo, inseguito senza concedersi. Percorrendo Insa-dong, la via dei turisti, non posso far altro che strisciare i piedi con fatica in mezzo a gente di ogni dove. Riconosco facilmente alcuni americani – sono ancora parecchi, molti di loro militari – alcuni europei. Ogni tanto, forse, mi pare di riconoscere un accento australiano, che poi magari è neo-zelandese, o canadese, o chi lo sa… Per non parlare delle migliaia di asiatici che intasano i piccoli negozietti di souvenir: cinesi, giapponesi, taiwanesi, vietnamiti, eccetera, eccetera. Insa-dong è una babele orizzontale, una spremuta di mondo in poche centinaia di metri che terminano in Yulgok-ro, la grande arteria che separa il turista dai tesori della Seul reale. A destra il meraviglioso palazzo di Changdeokgung, patrimonio dell’Unesco, costruito originariamente nel 1405 e a tutt’oggi uno degli edifici storici meglio conservati della nazione. Camminando a sinistra, si raggiunge invece il palazzo di Gyeongbokgung, la più grande delle cinque residenze reali che arricchiscono oggi la Seul storica e culturale. Distrutta completamente durante la dominazione giapponese e ricostruita grande e bella per urlare in faccia al mondo che il corpo muore ma l’anima sopravvive e alimenta la fiamma dell’orgoglio nazionale. Come quello del vecchietto di Tapgol Park: «Independence from Japan».

Nel cuore della gente

Evito i palazzi storici e opto per tornare sui miei passi, puntando diritto verso Jogyesa, il più famoso tempio buddhista di Seul e il più frequentato della Corea. Entro nel grande cortile che si apre di fronte al tempio principale e mi fermo a guardare tante persone che arrivano come formiche, lasciano le scarpe davanti agli ingressi ed entrano, piazzandosi in ginocchio di fronte alle tre grandi statue di Buddha, raffigurato nelle principali fasi della vita: giovinezza, età matura e vecchiaia. Chissà cosa portano nel cuore queste persone che si inchinano ritmicamente di fronte all’Illuminato. Che pensieri si celano dietro i mantra con cui ritmicamente recitano le loro preghiere? Non si immaginano neppure che dietro di loro, a pochi metri di distanza e in rispettosa attesa, un missionario cattolico li sta guardando con interesse e timore, chiuso nel suo mutismo ignorante. Vorrei fare tante domande… non consisterebbe anche in questo il dialogo interreligioso?

Mi smarco dalla folla religiosa di Jogyesa e cammino fino a immergermi in quella chiassosa, variopinta e globalizzata di Myeong-dong. Se non fosse per le scritte in coreano potresti pensare di essere a Milano, New York o Rio de Janeiro… luci, musica, colori, persino i vestiti della gente sembrano essere stati fotocopiati ed applicati in serie alle varie persone. E qui che Asia c’è? Cosa vede il missionario, in piedi, in rispettosa e curiosa attesa dietro alle vetrine di uno delle migliaia di negozi di maquillage che intasano i marciapiedi con i loro banchetti promozionali? O di quel negozio di moda giovanile, dove personale bellissimo, frutto di sacrifici non indifferenti in palestra e cosmesi aspetta le frotte di giovani che vi accorrono rapidi. Che Asia è quella che si apre davanti ai miei occhi, così familiare che mi sembra di averla già vissuta altrove, eppure così diversa? Che pensano quei giovani? Che cercano nella vita? Cosa studiano? Andranno al tempio?

Qualcuno di essi forse andrà in Chiesa. Il Cristianesimo si è diffuso moltissimo in Corea, soprattutto quello protestante, diviso in centinaia di chiese dalla diversa denominazione, ma dalla simile architettura. Le grandi croci luminose che squarciano il cielo notturno della capitale con raggi di vario colore confermano che la presenza evangelica è numerosa e appariscente. A Myeong-dong si staglia la cattedrale cattolica, dedicata all’Immacolata Concezione. Costruita originariamente in una piazzetta del vecchio quartiere, conquistando metri quadrati a ristoranti e negozietti, oggi la grande chiesa si è ritagliata una spianata importante e un colpo d’occhio più imponente. Come i cattolici stessi, del resto. Anch’essi hanno guadagnato il loro spazio importante in seno alla società coreana. Oggi, sono circa il 10% della popolazione, ben organizzati, strutturati, con un clero abbondante e efficiente.

Il gruppo dei missionari della Consolata in Asia (Corea, Mongolie e Taiwan) con i membri della direzione generale dell’Istituto.

I missionari e l’Asia

Dentro questa chiesa, dal 1988, siamo anche noi Missionari della Consolata. Ci rifletto un po’ nel lungo viaggio in metropolitana che mi riporta a casa. Penso ai vari confratelli che si sono succeduti in questo angolo di mondo e alle domande che sicuramente devono essersi fatti per confrontarsi con la realtà quotidiana della Corea. Penso ai giovani coreani che hanno intercettato nel loro cammino, al linguaggio che hanno dovuto imparare per confrontarsi con loro. Sette di essi sono oggi Missionari della Consolata e lavorano in varie parti del mondo. Uno, padre Han Pedro, è rientrato in Corea e aiuta i nuovi arrivati a entrare più velocemente nel tessuto della società coreana. Lui per primo sa che non è facile capire la Corea, al punto che lui stesso ha sentito il bisogno, dopo tanti anni passati in Italia e in Brasile, di rimettersi a studiare. La sua sensibilità verso la pace e la giustizia lo ha portato ad avvicinarsi al tema del riavvicinamento fra le due Coree, un campo vastissimo per esercitare il ministero missionario della consolazione.

Altri si sono dedicati al dialogo interreligioso, cercando di comunicare nella vita di tutti i giorni, negli incontri di studio specializzati e nella condivisione di momenti di spiritualità, la ricchezza del proprio essere cristiano, il valore della comunità, la bellezza dell’interculturalità. Altri ancora hanno cercato i poveri, gli scarti di questa società del benessere, e sono andati a vivere con loro, lontani dalle luci del centro e dai grandi schermi digitali che dalle pareti dei grattacieli trasmettono la pubblicità di paradisi artificiali e inni al consumo. Oggi, diversi migranti giunti dall’Africa o dall’America Latina chiedono aiuto a missionari che li capiscono perché ne parlano le lingue e ne hanno conosciuto le culture provenendo dai loro stessi paesi di origine o avendovi lavorato.

A cena racconto il giro che ho fatto. Conto i confratelli intorno alla tavola. Ci sono tutti perché si sono riuniti per salutarmi visto che presto ripartirò per l’Italia. Seul è proprio immensa, mi dico, e loro sono così pochi. Mentalmente allargo lo sguardo oltre la Corea per cogliere anche il saluto dei tre missionari che vivono a Taiwan e dei quattro confratelli della Mongolia. La Consolata in Asia è tutta racchiusa in quel pensiero che subito diventa preghiera: 18 missionari provenienti da 11 paesi diversi, persi fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore di questo grande continente.

Ugo Pozzoli
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Già direttore di MC, ora consigliere generale dell’istituto con responsabilità per l’Europa e l’Asia.




Amoris Laetitia famiglia missionaria


«Saluto i partecipanti dell’Associazione Incontro Matrimoniale e vi ringrazio per tutto il bene che voi fate per aiutare le famiglie. Avanti» (Papa Francesco, 10/9/2016).

Il 19 marzo 2016 papa Francesco ha firmato Amoris Laetitia (AL), l’esortazione apostolica postsinodale sull’amore nella famiglia frutto dei due sinodi dei vescovi del 2014 e del 2015.

Il documento si apre con un tono positivo: nonostante il pessimismo talora diffuso e le difficoltà oggettive che la famiglia incontra in ogni parte del mondo, AL afferma che nelle famiglie si vive la gioia dell’amore e che l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una bella notizia.

AL è il frutto del lavoro dei due sinodi, ma è scritto nello stile narrativo di papa Francesco che ha il dono di farsi capire perché parla il linguaggio della gente. La lettura e riflessione su questo ricco documento impegnerà ogni cattolico (è indirizzata a tutta la Chiesa e segnatamente «agli sposi cristiani») laico, ordinato, consacrato e verrà arricchita dai contributi dei vescovi e teologi e soprattutto da tanti sposi. Già ai sinodi erano presenti varie coppie di sposi che hanno dato un contributo con le loro testimonianze di vita.

AL non è anzitutto un’esposizione dottrinale sulla famiglia, ma una narrazione della realtà quotidiana nelle sue varie sfaccettature. È una miniera di informazioni. Nel capitolo quinto, «L’amore che diventa fecondo», vi sono pagine indimenticabili che descrivono la vita concreta della famiglia nei suoi vari membri: papà, mamma, figli, nonni. Si tratta quasi di un manuale, la cui lettura e meditazione offrono ispirazione e guida.

Nel capitolo sesto che presenta alcune prospettive pastorali, AL insiste sul fatto che «le famiglie cristiane sono i principali soggetti della pastorale familiare, soprattutto offrendo la testimonianza giorniosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche» (n. 200). «Per questo si richiede a tutta la Chiesa una conversione missionaria: è necessario non fermarsi ad un annuncio meramente teorico e sganciato dai problemi reali delle persone» (n. 201). In modo particolare AL chiede di guidare i fidanzati nel cammino di preparazione al matrimonio (nn. 205-11) e accompagnare gli sposi nei primi anni della vita matrimoniale (nn. 217-22).

Incontro Matrimoniale (Im)

Nella Chiesa esiste da oltre cinquant’anni un programma che è nato proprio da questa «conversione missionaria» che non si ferma a un annuncio meramente teorico sganciato dai problemi reali delle persone.

Si tratta dell’Associazione Incontro Matrimoniale, nata in Spagna verso la fine degli anni ’50 a opera di un sacerdote e una coppia di sposi: padre Gabriel Calvo e Mercedes e Jaime Ferrer. Im si è diffusa in America Latina e quindi in Usa, con il gesuita padre Chuck Gallagher. Dagli Stati Uniti è arrivata poi in circa 90 paesi in tutti i continenti col nome di Worldwide Marriage Encounter. In Italia si chiama Incontro Matrimoniale e ha iniziato a operare nel 1978 spargendosi progressivamente in quasi tutte le regioni, raggiungendo circa 40 mila coppie in tutta la penisola.

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Padre Mario Barbero a Lomé, Togo, con gruppo di Im.

Il Weekend (We)

L’esperienza di base è un weekend, dal venerdì sera alla domenica pomeriggio, durante il quale tre coppie di sposi e un sacerdote offrono testimonianze su vari settori della vita di famiglia e i partecipanti hanno tempo per «parlarsi» in coppia, rivedere gli aspetti del loro vivere insieme, rinnovando l’impegno di amore che era stato all’origine della loro decisione di sposarsi.

«Perché dopo sposati ci si parla sempre meno?», è questa domanda che ha dato origine all’esperienza di Im. L’esperienza dice che col passare degli anni i coniugi, presi da tanti altri assilli come il lavoro, i figli, la carriera, trovano sempre meno tempo per parlarsi, parlare di sé e dei propri sentimenti, e limitano spesso la loro comunicazione a livello di servizio, trascurando il dialogo che è essenziale per la relazione.

Riscoprire e gustare il dialogo di coppia

Nella vita di coppia e di famiglia l’amore va imparato, praticato, ricostruito, e chi può testimoniarlo meglio di una coppia di sposi?

È questo che mi ha colpito quando per la prima volta, nel 1978 in Kenya, partecipai a un We del Marriage Encounter e vidi come la testimonianza delle coppie fosse efficace per stimolare i partecipanti – coppie e preti – a rinnovare la loro relazione con il dialogo e in un certo modo a risposarsi. C’è una caratteristica del programma Im che è proprio in linea con quanto richiede la Amoris laetitia: «Non fermarsi a un annuncio solamente teorico». Le coppie animatrici del we presentano la vita matrimoniale e familiare nella loro concretezza e questo fa molta presa sui partecipanti.

Ho avuto la grazia di vedere l’efficacia di questo programma in varie parti del mondo, tra africani, americani, europei. Il we sposi è un’esperienza di conversione, tantissime coppie dicono «ha cambiato la nostra vita di coppia, il nostro modo di relazionarci».

Oltre al programma per sposi, Im ha sviluppato anche programmi per fidanzati, per giovani (Choice) e il weekend per famiglie (vedi www.incontromatrimoniale.org).

Un’altra realtà impressionante è il lavoro silenzioso e delicato di migliaia di coppie e centinaia di preti che, ovunque sia presente Im, preparano le loro testimonianze, si prestano ad animare i vari we e offrono molteplici servizi per accompagnare i coniugi, i fidanzati, i giovani. Tutte persone che hanno sperimentato una «conversione missionaria» e s’impegnano perché tante altre persone e famiglie scoprano che «la famiglia è davvero una buona notizia».

Nel mondo vi sono milioni di coppie che hanno sperimentato Im. In Italia sono circa 40.000. Ma come mai è così poco conosciuto? Forse perché non è direttamente legato a una diocesi o a una parrocchia, forse perché non viene pubblicizzato abbastanza, ma conosciuto piuttosto per passa parola.

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Testimoni

Gianfelice e Imelda Demarie di Torino, con don Antonio Del Mastro, parroco di San Damiano d’Asti, dal 2014 sono i responsabili nazionali di Im e ne cornordinano le varie attività in Italia.

A loro abbiamo chiesto cosa significa l’esperienza di Im e quali sono le sue prospettive in Italia.

Gianfelice e Imelda
«
Innanzitutto grazie, padre Mario, per quest’opportunità, e poi un altro grazie va a voi missionari della Consolata in quanto noi, proprio grazie a voi abbiamo potuto conoscere e vivere Im.

Ti conosciamo da sempre ma abbiamo cominciato ad apprezzare il tuo coraggio nell’estate del 1984 quando ti abbiamo visto in azione in Kenya in un’estate che ci ha cambiato un po’ la vita.

Nostro zio, padre Giuseppe Demarie, allora maestro dei novizi a Sagana, ci fece vivere quell’esperienza. Ci portammo a casa uno zainetto pieno di umanità, di sorrisi, di concretezza e di sogni. Cominciò da lì un rapporto nuovo con la “missione”. Toati in Italia e nel giro di poco tempo contagiammo molte famiglie italiane ad “adottare” una famiglia bisognosa del Kenya. Fu solo l’inizio: padre Giuseppe poi, influenzato da te e dal tuo operato con le coppie del Kenya, ci invitò al we che ormai esisteva anche qui in Italia.

Sono passati 24 anni da quel giorno e possiamo dire che I’esperienza del we ci ha permesso di vivere in modo migliore il nostro “sì” detto 10 anni prima. Il cammino proposto da Im ci ha aiutati a prendere consapevolezza della bellezza di essere sposati dando un significato diverso al sacramento del nostro matrimonio. La decisione di amare ci ha permesso di superare gli alti e bassi della vita quotidiana e ci ha fatto capire quanto fosse arricchente per noi uscire dal nostro guscio e donare il nostro amore agli altri.

Dal marzo 1992 (data in cui abbiamo scoperto Im) a oggi abbiamo avuto modo di conoscere tantissime coppie e sacerdoti meravigliosi e ognuno ci ha arricchiti con la condivisione delle loro esperienze e sfide».

Don Antonio
«
Mi ritengo un sacerdote particolarmente fortunato, perché, con l’associazione Incontro Matrimoniale ho scoperto la bellezza del team ecclesiale: ogni impegno viene vissuto insieme tra prete e coppia, le responsabilità sono condivise. Preghiamo insieme, condividiamo la nostra vita di tutti i giorni, le giornie e i dolori, le difficoltà sono affrontate insieme. Quando vado a cena da Gianfelice e Imelda io mi sento a casa. Le loro figlie si confidano affettuosamente con me. Tutte le settimane ci incontriamo e decidiamo insieme ogni iniziativa. Noi non siamo un’eccezione felice. In Im a tutti i livelli, ogni servizio è condiviso tra una coppia e un sacerdote o religioso/a. Ciò che l’Amoris Laetitia ci invita a fare nelle parrocchie, nel dare responsabilità alle coppie insieme ai sacerdoti, noi lo sperimentiamo già da molto tempo e troviamo che sia una testimonianza d’amore eccezionale.

Affinché i preti scoprano fin dall’inizio questa esperienza di comunione, abbiamo organizzato, nel giugno scorso, per la prima volta in Italia un we studiato in speciale modo per i sacerdoti, accompagnati da una coppia ciascuno. Hanno potuto aprire il loro cuore, affrontare insieme le loro delusioni e insuccessi, per scoprire quanto è bello amarsi e decidere insieme di essere missionari tornando nel proprio ambiente di vita. Gesù ha mandato i discepoli a due a due in missione. Anche oggi ritornare a vivere una Chiesa missionaria, dove la prima testimonianza viene dalla testimonianza del modo di vivere insieme, mi sembra la novità più bella».

Il team

«Concludendo in team vi condividiamo il nostro sogno che è anche il nostro programma:

essere sempre più inseriti nella Chiesa per essere di aiuto alle coppie, alle famiglie, ai giovani e ai sacerdoti e religiosi che desiderano approfondire e migliorare il loro cammino di relazione.

Un sogno che è stato confermato il 10 settembre scorso quando nell’udienza generale cui parteciparono settemila persone di Im da tutto il mondo, papa Francesco, salutandoci, ci ha ringraziato “per tutto il bene che voi fate per aiutare le famiglie. Avanti”».

Mario Barbero*

*Missionario della Consolata, biblista. Ha servito in Kenya, Stati Uniti, Congo Rd, Sud Africa e ora in Italia.




Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia


“Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma.

Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero.

Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare.

Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute  a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare – infatti –  è verbo che dice vicinanza, frateità, empatia. Verbo che sta tra la proclamazione e il silenzio, molto caro all’Asia. Questa espressione allude anche all’idea di segreto, molto tipica delle culture asiatiche e di quella mongola in particolare: la Parola comunicata esige di essere pronunciata con la stessa profondità da cui si origina e mirando a suscitare in chi l’ascolta la stessa densità di silenzio e di stupore in cui nasce. Ne consegue uno stile che si potrebbe riassumere accennando alla radice sanscrita del verbo “sussurrare”: svar, suono/suonare. La missione come una melodia che fa vibrare il cuore. Esigenza di bellezza, armonia, equilibrio, proporzione, discrezione”.

Sono queste parole dello stesso Giorgio, tratte dal testo con cui ha difeso il suo elaborato. Da esse è facile capire come lo stile del sussurro apra al missionario e gli permetta di approfondire il discorso sulla contemplazione e la preghiera come autentiche vie di evangelizzazione, sia per la dinamica stessa della missione, sia per la particolare sintonia con un contesto fortemente segnato dalla dimensione spirituale.

Il dibattito che è seguito alla presentazione del candidato ha permesso al Direttore della tesi e controrelatori (il Prof. Benedict Kanakapally e i professori Luciano Meddi e Donatella Scaiola rispettivamente ) di chiarire ulteriormente alcuni punti del missionario presentato da padre Giorgio. Il successo è stato garantito da un giudizio estremamente positivo sia sul lavoro scritto che sulla presentazione che di essa è stata dato.

Al termine, prima dei ringraziamenti da parte del candidato, un ospite mongolo, il prof. Selenge, studioso cattolico della cultura del suo paese, amico personale di Giorgio e suo sostegno in questo lavoro di ricerca, ha presentato un segno tradizionale di onore e rispetto, offrendo al neo dottore  dell’Arul (latte essicato) e un drappo azzurro, insieme ad auguri di ogni bene.

Padre Giorgio ripartirà fra pochi giorni per preparare la celebrazione del Natale con la sua piccola comunità cristiana di Arveiheer, continuando con essa a “sussurrare” il Vangelo in Mongolia e al grande continente asiatico.

Padre Giorgio Marengo difende la sua tesi all'università urbaniana. - Articolo su Dottorato Giorgio Marengo “Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma. Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero. Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare. Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare

Padre Giorgio Marengo difende la sua tesi all'università urbaniana. - Articolo su Dottorato Giorgio Marengo “Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia: uno studio missiologico sull’evangelizzazione in Mongolia” è il titolo della tesi di dottorato difesa giovedì 24 novembre da padre Giorgio Marengo presso l’Università Urbaniana di Roma. Il lavoro è la conclusione di una ricerca condotta sul campo, in quanto frutto dell’attività missionaria di padre Giorgio, da ormai quasi quattordici anni in Mongolia. Rubando il tempo al sonno e integrando lo studio con il lavoro pastorale e missionario, padre Giorgio ha dato corpo alla riflessione che lo ha accompagnato durante questa decade abbondante di ministero. Gli obiettivi della ricerca erano: sondare nel fitto tessuto dell’animo mongolo quali siano le porte più accessibili perché l’annuncio cristiano raggiunga quella profondità dove solo può fiorire la fede e radicarsi nel tempo. A segnare i passi di questo percorso è stata la fortunata espressione di Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati – India, che dà il titolo alla tesi di p. Giorgio, suggerendo due momenti d’indagine: il primo, più descrittivo, dedicato alla comprensione della Mongolia e della visione del mondo dei suoi abitanti; e il secondo, volto a rintracciare una modalità di missione che sia il più possibile adeguata a questo mondo e che il verbo “sussurrare” vorrebbe appunto indicare. Padre Giorgio ha ripercorso con la commissione e le tante persone intervenute a questo evento il suo cammino di ricerca, aprendo una finestra di pensiero sulla storia e la cultura di un popolo nomade che fu immensamente grande nel passato, ma che rimane pressoché sconosciuto alla maggior parte delle persone. Usi, tradizioni, costumi, religiosità sono elementi che il missionario ha imparato a conoscere bene grazie a una continua immersione nella realtà del posto, alle relazioni intessute con fatica nel tempo. “Sussurrare




Europa la missioni ci sfida alla novità


La visita di Papa Francesco a Lampedusa e quella più recente all’isola di Lesbo hanno contribuito, attraverso il potere forte delle immagini, a rendere l’idea che la missione in Europa sta cambiando. Anzi, ha già modificato il suo volto: basta guardarsi in giro, esplorando facce e contesti. Questa trasformazione esige oggi risposte diverse rispetto a quelle che la Chiesa e gli Istituti missionari erano abituati a dare in passato.

Il fenomeno delle migrazioni di massa che hanno riversato nelle nostre vie e nelle nostre vite persone di differente credo e cultura si è incrociato con il progressivo invecchiamento della chiesa. Questa appare sterile ed incapace di coinvolgere le nuove generazioni nell’entusiasmo evangelico e nell’incontro/confronto con la complessa realtà secolarizzata e scristianizzata di gran parte dell’Europa.

Questo cambiamento epocale interpella innanzitutto la nostra chiesa locale, e, dentro di essa, gli Istituti missionari che non possono semplicemente stare a guardare, ma sono chiamati a offrire risposte adeguate e competenti, mettendo a disposizione il loro carisma specifico con determinazione e originalità. Serve, oggi, un «progetto missionario» per l’Europa che individui obiettivi e ambiti specifici in cui la nostra missione venga definita con chiarezza e illumini le nostre scelte. Il momento critico che stiamo vivendo può diventare un’opportunità in cui, di fronte alla tentazione, ormai ben radicata nella mentalità di molti, di creare muri e barriere, si possa opporre il modello delle nostre «comunità ponte», interculturali e segno di frateità universale.

Il primo passo in questa direzione consiste nel coltivare una maggiore consapevolezza della nostra identità, riandando all’essenza del nostro carisma e confrontandolo con la mutevole realtà del continente. Se siamo missionari, lo siamo ovunque, anche qui in Europa. Il nostro carisma non ci spinge ad essere missionari soltanto per l’Africa, l’America Latina o l’Asia, ma per tutti coloro che non sono cristiani, dovunque essi siano. Come missionari, destinati a un primo annuncio del Vangelo, sentiamo l’urgenza di andare verso quelle persone e popoli che ancora non conoscono la Buona Notizia o l’hanno completamente dimenticata. Quindi anche in Europa.

Se questo è il criterio di fondo, resta da approfondire in che ambiti e con che stile siamo chiamati a essere missionari oggi in Europa.

Il mondo giovanile, quello dei poveri e degli emarginati, il complesso mondo dei media in cui far risuonare la Buona Notizia, sono contesti che sempre ci hanno visti impegnati nella nostra attività evangelizzatrice e con cui dobbiamo oggi continuare a confrontarci. Nel fare ciò, è però necessario che il missionario si caratterizzi e contraddistingua per scelte di campo precise, che non snaturino ed appiattiscano il suo carisma originale uniformandolo a quello di altre forze ecclesiali.

Oggi, la presenza del nostro Istituto in Europa, tradizionalmente dedicata all’animazione missionaria e vocazionale e alla formazione di futuri missionari, richiede di trovare nuove vie.

Una di esse potrebbe essere quella di guardare alla realtà con gli occhi dei nostri confratelli giovani, in gran parte provenienti da altri continenti. La loro sensibilità e il loro modo di vedere può cogliere aspetti nuovi e offrire proposte alternative agli schemi tradizionali. Il confronto di questa nuova sensibilità con l’esperienza di chi, nato in Europa, si è arricchito con anni di impegno missionario in altri continenti può dare frutti inediti. Se novità ed esperienza si incontrano, da una parte si può superare la frustrazione di una sterile ripetitività, dall’altra si tracciano nuove piste sulla solidità di un bagaglio umano e spirituale maturato negli anni.

E la missione in Europa sarà capace di scoprire le mille meraviglie che Dio continua a operare in questo continente.

Ugo Pozzoli