Bolivia, il 5° Congresso Missionario Americano (CAM 5) /1

Testo e foto dal CAM 5 di Jaime Carlos Patias, IMC |


10 luglio 2019 – La Missione “ha un cuore, un centro, un nome: Gesù Cristo”. Il lavoro missionario non è “filantropia”, nemmeno è nato “dalle nostre opere di buona volontà”, ma è prima di tutto una “benedizione” per tutti coloro ai quali il Vangelo è annunciato.

CAM 5 messa di apertura

Questo è il cuore del messaggio che il Cardinale Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ha pronunciato, martedì 10 Luglio, durante la Messa di inaugurazione del 5° Congresso Missionario Americano (CAM 5), nella città de Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia.

Dal 10 al 14 luglio circa 3.000 missionari provenienti da tutta l’America si incontrano per riflettere sulla “gioia del Vangelo, cuore della missione profetica, fonte di riconciliazione e di comunione”. Sono laici, sacerdoti, diaconi, vescovi, religiosi e seminaristi che, durante il Congresso, saranno accolti dalle famiglie di Santa Cruz in 55 parrocchie e in alcune case religiose.

“La storia della salvezza porta sempre la benedizione di Dio”, ha detto il Cardinale Filoni, inviato speciale del Papa Francesco al Congresso. “Nel nome di Gesù si trova tutta la benedizione di Dio per l’umanità. E, quindi, il lavoro missionario è soprattutto un servizio di benedizione per tutti coloro ai quali viene annunciato il nome del Signore. Le stesse opere di educazione, di sostegno e di difesa degli oppressi, insieme alle opere di carità, di giustizia, di scelta preferenziale dei poveri e degli emarginati, insomma l’uscita verso le varie periferie esistenziali, come dice il Papa Francisco, sono legate tra loro indissolubilmente dal nome di Gesù, e per questo, sono una benedizione”, ha aggiunto il Cardinale Filoni mentre ricordava che il lavoro missionario è, nello stesso tempo, annuncio e testimonianza. “Annuncio di Gesù e testimonianza della vita ricevuta in Cristo”.

Madre Maria Ignazia de Jesus

CAM 5 – Madre Maria Ignazia de Jesus

A questo proposito, il Cardinale ha citato l’esempio della Beata Madre Maria Nazaria Ignazia di Gesù, autentica “missionaria del nostro tempo”, le cui reliquie erano presenti alla messa. Una donna spagnola che ha vissuto tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX secolo, in Bolivia, dove ha scoperto un grande passione per l’apostolato missionario e per questo ha fondato la Congregazione delle Missionarie Crociate della Chiesa, dedicata al servizio dei poveri e degli emarginati. La Beata sarà canonizzata il 14 ottobre da Papa Francesco.
Alla fine, il Cardinal Filoni ha espresso l’augurio che questo Congresso possa, “rafforzare il nostro impegno missionario e dare un nuovo impulso nello zelo e nella passione per Cristo. Questa è la vera benedizione”.

A nome del Papa, il Cardinale ha ringraziato i vescovi della Bolivia e il direttore delle Pontificie Opere Missionarie (PP.OO.MM) per l’impegno profuso nell’organizzazione del Congresso.

Partecipano al Congresso in Bolivia, 12 missionari e missionarie della Consolata, tra cui il Superiore Generale, P. Stefano Camerlengo, Il Consigliere Generale per l’America, P. Jaime C. Patias e la Consigliera Generale per l’America, suor Maria Conceição. Sono presenti anche i vescovi colombiani, Mons. Luiz Augusto Castro, arcivescovo di Tunja e Mons. Francisco Javier Munera Correa, del Vicariato Apostolico di San Vicente del Caguán.

Congressi Missionari Continentali

Nel 1977, il Messico ha celebrato il suo 7° Congresso Missionario Nazionale, a Torreón. Su iniziativa del Cardinale Agnelo Rossi, allora Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, sono stati invitati al Congresso i vescovi responsabili delle Commissioni missionarie e i direttori Nazionali delle Pontificie Opere Missionarie (PP.OO.MM.) di diversi paesi dell’America Latina, che in questo modo ha conferito un carattere continentale all’evento. In quel Congresso fu presentata la proposta di ripetere l’esperienza a livello Latino Americano ogni cinque anni. Così, il Congresso Missionario di Torreón (Messico) nel 1977, è diventato il 1° Congresso Missionario Latino Americano (Comla 1). Nel 1999, in occasione del 6° Comla nella città di Paranà, Argentina, il Congresso ha aperto i suoi confini a tutto il Continente Americano, diventando il 1° Congresso Missionario Americano (CAM 1) e il 6° Congresso Missionario Latino Americano (Comla 6). Mettendo insieme i due eventi, è diventato (CAM 1 – Comla 6).

CAM 5

Cronologia

  • 1977 – Comla 1, Torreón (Messico);
  • 1983 – Comla 2, Tlaxcala (Messico)
  • 1987 – Comla 3, Bogotá (Colombia)
  • 1991 – Comla 4, Lima (Perù)
  • 1995 – Comla 5, Belo Horizonte (Brasile)
  • 1999 – CAM 1 – Comla 6, Paraná (Argentina)
  • 2003 – CAM 2 – Comla 7, Guatemala (Guatemala)
  • 2008 – CAM 3 – Comla 8, Quito (Ecuador)
  • 2013 – CAM 4 – Comla 9, Maracaibo (Venezuela).
  • 2018 – CAM 5, Santa Cruz de la Sierra (Bolivia). Viene abbandonato definitivamente l’acronimo Comla, per essere conosciuto unicamente come CAM.

Jaime C. Patias, IMC

CAM 5 – concelebrazione iniziale


Celebrazione di apertura

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La testimonianza di mons. Eugenio Scarpellini, vescovo di El Alto, sul V CAM

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La parola di padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata

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Angola: Verso una nuova missione ad gentes

Testo sull’Angola di Marco Bello, foto di Diamantino Antunes |


Angola. Dalle grandi città in cui svettano i grattacieli e brulicano le baraccopoli, alle savane sperdute e spopolate. In Africa le sfide per la missione ci sono tutte. Così i missionari della Consolata iniziano un nuovo servizio. In una zona lontana e (quasi) abbandonata da 50 anni. Portando la loro esperienza e lo stile che li caratterizza.

È l’11 settembre del 2010 la data sulla prima lettera spedita da monsignor Jesus Tirso Blanco al superiore dei missionari della Consolata, all’epoca padre Aquileio Fiorentini. In essa il vescovo di Luena lo invita a mandare un’équipe missionaria nella sua diocesi. Siamo nell’Angola profonda, nella provincia di Moxito, al confine con Repubblica Democratica del Congo e Zambia. Il cuore dell’Africa.

Monsignor Tirso Blanco è argentino e salesiano. Ha passato una vita in Angola e dal 2008 è vescovo di questa diocesi, tra le più vaste dell’Africa subsahariana. Conosce il valore e lo stile dei missionari della Consolata, in particolare per il loro lavoro in Mozambico, paese lusofono, che ha similitudini storiche e culturali con l’Angola.

Ci racconta padre Diamantino Antunes, superiore dei missionari della Consolata in Mozambico e incaricato di seguire l’Angola: «Da quando è stato ordinato vescovo, mons. Tirso Blanco ha cercato per la sua diocesi quello di cui aveva, e tuttora ha, più bisogno: missionari. Non avendo clero locale e pochi religiosi missionari, è alla ricerca di équipe missionarie per far rivivere le antiche missioni che sono abbandonate da 50 anni, da quando è iniziata la guerra coloniale. Si rivolge sia in Angola sia all’estero. Lui conosce la nostra esperienza in Africa e, in particolare, nella missione ad gentes. Conosce il lavoro che facciamo in Mozambico dove siamo in aree difficili, di prima evangelizzazione. E apprezza il nostro approccio nella formazione di catechisti, dei laici come membri attivi della chiesa. Ha cercato quindi missionari qualificati per la sua diocesi, che potessero portare un valore aggiunto. Occorre essere disposti a lavorare in zone distanti e difficili, con metodologia nuova, anche se già sperimentata altrove».

Padre Diamantino è stato nella diocesi di Luena e in particolare nella cittadina di Luacano, lo scorso dicembre. È qui che il vescovo ha chiesto ai missionari della Consolata di riaprire una missione, e lo ha fatto tramite una seconda lettera, nel febbraio 2015, scritta a padre Stefano Camerlengo, eletto nel frattempo superiore dell’Istituto.

Missionari della Consolata in Angola. (© AfMC / Diamantino Antunes)

Una provincia isolata

Area molto vasta e sotto popolata, la provincia di Moxico è stata particolarmente toccata dal conflitto. Prima la guerra di liberazione dai coloni portoghesi (iniziata nel 1961) e poi, dal ‘75, la guerra civile tra Mpla (Movimento popolare di liberazione dell’Angola) e Unita (Unione per l’indipendenza totale dell’Angola). «La guerra ha colpito duro qui. Dall’inizio è stata zona di influenza di Unita, che l’ha controllata fino alla fine, nel 2002. Sono stati usati bombardamenti aerei che hanno distrutto le poche costruzioni permanenti, tra cui le chiese». Proprio qui è stato ucciso Jonas Savimbi, il leader storico dell’Unita, evento che ha portato alla fine delle ostilità.

A causa della guerra la provincia si è quindi ulteriormente spopolata. Molti sfollati sono fuggiti nei paesi confinanti e numerose sono state le vittime.

Oggi assistiamo a un impegno del governo per ricostruire le infrastrutture. Ricorda padre Diamantino: «Le cose stanno migliorando dal punto di vista della comunicazione. È stata ripristinata la ferrovia che collega la costa con Luena e i paesi confinanti. Il treno passa anche da Luacano. Questo è importante per rompere l’isolamento della zona, sia verso la capitale, sia verso gli altri stati. È una regione fertile per cui il governo sta cercando di svilupparla».

Il governo, in origine di ispirazione marxista leninista, è molto collaborativo con la diocesi, e vede bene l’insediamento di nuovi missionari in zone sperdute. Ci spiega padre Diamantino: «Passati gli anni della rivoluzione e dell’antagonismo, oggi il governo è interessato a collaborare con la chiesa cattolica. È infatti la chiesa maggioritaria nel paese e ha avuto molta influenza sull’educazione e la formazione. Le autorità vedono come un grande aiuto la sua presenza, soprattutto in questi posti più isolati».

E continua: «Forse anche perché la crisi economica sta attraversando il paese. In ogni caso la chiesa cattolica è vista come un’istituzione che può fare la differenza. In particolare, il vescovo salesiano ha una preoccupazione sociale molto forte. Lavora per attivare progetti per alfabetizzazione, scuola, sviluppo. E il suo lavoro è molto apprezzato».

Arrivo del gruppo di visitatori Missionari della Consolata a Luacano – Padre Freddy Gómez in compagnia di Dom Jesus Tirso Blanco, vescovo di Luena, all’arrivo alla stazione di Luacano, nell’Est dell’Angola, il 19 dicembre 2017 (© AfMC / Diamantino Antunes)

Un altro paese africano

Ma perché i missionari della Consolata, già presenti in nove paesi del continente, hanno deciso di affrontare una nuova sfida, proprio nel gigante angolano? Lo abbiamo chiesto a padre Fredy Alberto Gómez Pérez, che è stato tra i primi tre ad arrivare nel paese, il primo agosto 2014.

«Già nel capitolo generale di São Paulo del 2005 (riunione di tutti i delegati dell’Istituto nella quale si elegge il consiglio e il superiore generale, ndr) si era parlato di una nuova apertura missionaria e in particolare nell’Africa lusofona. Questo perché tra i paesi di lingua portoghese l’Istituto è presente solo in Mozambico. L’idea è stata ripresa sei anni più tardi con più forza ed è iniziata una ricerca per definire il paese», ci racconta padre Fredy.

«La scelta è caduta sull’Angola e le motivazioni erano due: il bisogno nel paese di missionari ad gentes, in terra di prima evangelizzazione, e una richiesta da parte di diocesi con bisogno di clero, per appoggiare il lavoro nella pastorale urbana». Padre Francisco Lerma Martínez, all’epoca superiore dei missionari della Consolata in Mozambico, oggi vescovo di Gurué, intraprese un viaggio in Angola, dove visitò tutte le diocesi e si confrontò con i diversi vescovi.

Era il 2011 ed esisteva già una richiesta pendente: quella di monsignor Tirso Blanco della diocesi di Luena. «I superiori si confrontarono con diverse congregazioni e vescovi e fu loro sconsigliato di iniziare con una missione in una zona come quella, lontana e complessa, un luogo di frontiera». La scelta quindi è andata alla diocesi di Viana, creata nel 2008 da uno smembramento dell’arcidiocesi di Luanda (la capitale). Qui il contesto è quello della periferia urbana della capitale, con alta densità di popolazione e il continuo arrivo di gente dalle province. I cattolici in quest’area sono il 40% della popolazione e la problematica principale è la mancanza di sacerdoti.

Capella di un villaggio di Luacano (© AfMC / Diamantino Antunes)

I primi tempi

Oltre a padre Fredy, gli altri missionari della Consolata a stabilirsi in Angola sono stati padre Dani Antonio Romero Gonzales, venezuelano, e padre Sylvester Oluoch Ogutu, keniano. Una squadra piuttosto giovane: tutti sotto i 40 anni e freschi di ordinazione. Solo Fredy aveva un’esperienza precedente in Repubblica Democratica del Congo.

«Ci accolsero i missionari Xaveriani di Yarumal, una congregazione colombiana. Ci ospitarono presso di loro alcuni mesi. La collaborazione fu ottima e lo è tuttora. La parrocchia che avremmo dovuto gestire, sant’Agostinho a Kapalanga, era stata ritagliata da un’altra molto più vasta. In un’area di 27 km2 vivono 17.000 persone. Ci sono otto cappelle intorno alle quali si riuniscono altrettante comunità. I molti fedeli avevano grosse difficoltà a recarsi nella sede parrocchiale piuttosto distante e la presenza dei sacerdoti era temporanea».

Ricorda padre Fredy: «Nei primi incontri con la comunità abbiamo sentito una sete profonda di presenza dei padri, e dell’ascolto della parola di Dio. Un sentimento e una necessità di tutti. Siamo stati accolti con molto calore». Le prime difficoltà sono state invece di tipo logistico. La parrocchia possedeva solo due terreni, su cui edificare la chiesa e la casa. «Essendo appena arrivati cominciavamo da zero: non avevamo casa, né mezzi di trasporto. Si è subito creata un’iniziativa di grande cooperazione missionaria, per cui gli altri paesi africani in cui i missionari della Consolata sono presenti, ma anche europei e sudamericani, in particolare il Brasile, hanno raccolto fondi per la nuova presenza in Angola».

I tre missionari sono stati per alcuni mesi dagli Xaveriani, per poi, grazie all’appoggio della comunità di Kapalanga, affittare un alloggio nei pressi della parrocchia, dove abitano tuttora. Racconta ancora padre Fredy: «Grazie alle offerte locali riuscimmo a costruire un salone, che funge oggi da chiesa parrocchiale temporanea, oppure da salone per le riunioni. Un altro problema pratico è stato il trasporto. Chiedevamo auto in prestito o andavamo con i mezzi pubblici e i mototaxi. Finalmente abbiamo acquistato un’auto e una moto».

L’accoglienza è stata dunque molto calorosa e, ricorda padre Fredy, difficoltà logistiche a parte: «Era necessario investire tempo nella formazione della comunità, non solo nelle infrastrutture, affinché assumesse una coscienza di vera famiglia. I fedeli ci accolsero molto bene e si diedero subito molto da fare per aiutarci, non solo per l’integrazione. Anche per trovare soluzioni ai problemi pratici».

Cappella di Luacano (© AfMC / Diamantino Antunes)

Secondo (e terzo) atto

Dopo il primo anno si è iniziato a parlare di una seconda missione da aprire. Restava pendente la richiesta di monsignor Tirso Blanco per Luacano. Ricorda padre Fredy: «Le opzioni sul tavolo erano due: Luacano in Luena, oppure Caxito, capitale della provincia di Bengo. Una diocesi nuova come quella di Viana e non lontana. Si optò per quest’ultima. Questo perché, essendo una seconda missione, era preferibile fosse vicina alla prima, per comodità logistica. Per condividere le esperienze e rafforzare la presenza dell’Istituto in Luanda nella pastorale della periferia urbana, molto popolata e carente di sacerdoti».

Non si poteva però restare sordi alla richiesta dell’Angola profonda, così «si decise che la terza apertura sarebbe stata in Luena, in tempi non troppo lunghi».

Sono arrivati in Angola tre nuovi missionari molto giovani, tutti sotto i 35 anni: Luis Antonio de Brito, brasiliano, e due tanzaniani: Heradius Germanus Mbeyela e Marcos Mwasatila Mapinduzi Simbeye. E nel 2016 è iniziato il lavoro nella parrocchia di Funda, diocesi di Caxito.

Questione di stile

Adesso i tempi sono maturi anche per Luacano e, dopo diverse visite, i missionari si apprestano a iniziare questa nuova avventura, entro la fine dell’anno.

Padre Diamantino: «Come missionari è una grande sfida. Anche se abbiamo l’esperienza e siamo ad gentes, siamo da poco in questo paese e le nostre due presenze vicino a Luanda sono molto diverse. Si tratta di zone urbane o periurbane, con buona presenza cattolica. Il lavoro è più facile da organizzare, da portare avanti. Lì stiamo portando un po’ del nostro stile. A Luacano, il contesto è molto diverso. I cattolici sono solo l’8-9% e il territorio è vasto e spopolato. Inoltre, oggi l’Istituto non ha a disposizione gli stessi fondi che aveva in passato e tutto diventa più difficile. Tuttavia, il gruppo di missionari che abbiamo in Angola è giovane e motivato. La scelta non è stata imposta dall’alto, ma sentita. Perciò sono disponibili ad andare, anche se la situazione è molto più difficile di dove siamo adesso. A Kapalanga e Funda c’è molto lavoro, ma anche molte soddisfazioni. Dove andremo a Luena si dovrà cominciare tutto da capo, occorrerà molto spirito missionario, per andare a cercare le persone, ricostruire le comunità. Sapendo che tante cose mancheranno: la tecnologia, le vie di comunicazione. Ma abbiamo uno spirito missionario da pionieri. Anche in Angola il nostro stile di presenza è marcato: con pochi mezzi, una presenza di contatto con la gente, e questo porta a una grande collaborazione da parte della popolazione».

Saluto di Mons. Tirso a Luacano (© AfMC / Diamantino Antunes)

 

Gente molto religiosa

Un’altra sfida nell’area di Luacano è la penetrazione di quelle che padre Diamantino chiama «sette cristiane e chiese indipendenti africane», che hanno preso lo spazio lasciato libero dalla chiesa cattolica.

Le prime sono costituite da gruppi che hanno origini esterne e si stanno diffondendo. Le chiese indipendenti africane, invece, sono un fenomeno in crescita nel continente. «Fondate da africani, in Africa, per gli africani, non sono legate a nessuna chiesa storica. Alcuni fondatori si considerano veri profeti. Queste chiese hanno qualcosa del cristianesimo, come l’uso del Vangelo, ma anche molti aspetti delle religioni tradizionali africane». In particolare, padre Diamantino si riferisce anche a riti più legati alla sfera della stregoneria che della religione.

«In generale questo popolo con cui andremo a lavorare è rimasto un po’ indietro, perché è molto isolato, questo anche nelle aree confinanti degli altri due paesi. Perciò non si sono lasciati molto penetrare dalla colonizzazione, né dall’evangelizzazione, rimanendo molto legati alla tradizione. Nei confronti dei popoli vicini hanno delle caratteristiche proprie. Praticano molto religioni tradizionali ma anche stregoneria».

E continua: «Quello che ho sentito è che si tratta di un popolo un po’ passivo. Nonostante la terra sia fertile, è poco sfruttata. Si dedicano in prevalenza alla pesca (c’è abbondanza di pesce nel lago Diolo, il più grande del paese, ndr) e alla caccia. Si limitano a poche colture, come la manioca. Anche dal punto di vista dello sviluppo umano sono indietro rispetto ad altri popoli. Hanno ricevuto meno educazione, e hanno meno intraprendenza di altri popoli. Penso che dipenda anche dall’isolamento e da un certo atavismo culturale». Fa quindi un parallelismo con una zona di missione simile in Mozambico: «È una zona simile dal punto di vista religioso e culturale a quella di Fingué, nella diocesi di Tete, in Mozambico (Cfr. MC maggio 2015). La differenza è che lì sono confinanti con paesi più sviluppati e questo fornisce influsso positivo.

A Fingué, nonostante le difficoltà c’è da parte della gente curiosità e apertura. Abbiamo lavorato per creare una base affinché la comunità possa svilupparsi, ovvero formato laici, catechisti, in grado di fare essi stessi la chiesa. L’esperienza in Mozambico può insegnarci molto per Luacano».

L’avventura continua

A fine giugno 2018 padre Fredy Gómez e padre Luiz Antonio de Brito si recheranno a Luacano con l’obiettivo di incontrare tutte le comunità. In particolare, quelle intorno al lago Diolo, che è l’area dove si concentra la popolazione. Qui si riesce ad andare solo quando non è stagione delle piogge. Il programma prevede che tre missionari della Consolata vi si stabiliscano a settembre.

Ci spiega padre Fredy: «Dobbiamo incontrare i leader locali e la gente attiva nella pastorale, come i catechisti e i laici impegnati. Sono coloro che sono riusciti a mantenere la presenza cristiana e cattolica in quelle zone durante gli ultimi 50 anni».

Marco Bello

Si preparano i tamburi per la celebrazione della Messa (© AfMC / Diamantino Antunes)




Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia


Dall’esperienza mongola una riflessione sul vangelo in Asia:
Essere prima che fare

Essere cristiani in Asia significa fare i conti con un contesto nel quale si è minoranza. Chiamati a comunicare il Vangelo, lo si fa più con un sussurro discreto all’orecchio che con un annuncio gridato dai tetti delle case. È lo stile del seme che cade nella terra affidandosi e fidandosi.

È il più grande mosaico di culture, popoli e tradizioni religiose. L’Asia è il continente meno cristiano del mondo, ed è, per questo, un campo d’azione naturale per la missione ad gentes. È la sfida che i missionari della Consolata hanno raccolto 30 anni fa aprendo le loro presenze nel 1988 in Corea del Sud, poi in Mongolia nel 2003 e a Taiwan nel 2014.

Da allora la sfida asiatica regala prospettive nuove alla missione dell’Imc, tanto da spingere i missionari a scrivere a chiare lettere nel loro «progetto Asia» presentato e approvato un anno fa al loro XIII Capitolo Generale tenutosi a Roma: «L’Asia, con la ricchezza del suo bagaglio storico e culturale, potrà forse non sentire il bisogno dell’Imc, ma l’Imc ha bisogno oggi dell’Asia per rinnovarsi ed esplorare orizzonti nuovi della missione».

Il continente e gli orizzonti nuovi che esso regala alla missione ce li racconta padre Giorgio Marengo, torinese di 44 anni, arrivato quindici anni fa nella capitale della Mongolia, Ulaanbaatar, con il primissimo gruppo di missionari e missionarie della Consolata, e ora parroco ad Arvaiheer, un piccolo centro nel cuore della steppa dove i cattolici sono 37.

Profondità, prossimità, essenzialità

Prendendo a riferimento un’espressione dell’arcivescovo emerito di Guwahati, India, Thomas Menamparampil, padre Giorgio ci introduce alla missione in Asia descrivendola come un «sussurrare il Vangelo al cuore» del continente. Sussurrare, cioè comunicare con discrezione qualcosa di intimo e di profondo in una condizione di vicinanza fisica e di fiducia, in una relazione personale che rispetta i tempi lunghi della maturazione, quando avviene.

Prossimità, amicizia, umiltà, rispetto, profondità. La missione della Chiesa in una situazione di minoranza, a volte di discriminazione o di persecuzione, spesso di irrilevanza, è interpretata da padre Marengo come una grazia. Essere minoranza dona maggiore libertà, conduce all’essenzialità, restituisce il missionario alla centralità dell’azione di Dio, più che alla sua, essendo la sua caratterizzata da povertà di mezzi e di efficacia. Il missionario in Asia si riscopre fragile, piccolo. E così ha la possibilità di assomigliare di più al seme che cade in terra e muore, dando (forse) poco frutto dal punto di vista umano, molto frutto dal punto di vista del Regno.

Con lo stile della Consolata

I missionari della Consolata a giugno ricordano e celebrano la loro fondatrice, Maria Consolata. In Asia, sussurrare il Vangelo significa sussurrarlo con lei, per tramite suo, nel suo stile. Anche la Consolata sussurra al cuore. Sta vicina come una madre che consola indicando il senso e il centro della vita di ciascuno: suo figlio Gesù.

Luca Lorussso


Uno sguardo a volo d’uccello sul continente più grande:

Asia, culla delle grandi religioni

È il continente più grande del mondo. Ospita il 60% della popolazione mondiale. È anche quello più bisognoso dell’annuncio del Vangelo. Tentare una sua descrizione in poche pagine è impossibile. Ma qualche carattere asiatico, forse, possiamo scovarlo. I missionari partono da lì.

Presentare uno qualsiasi dei cinque continenti è un compito difficile, tanto più se si tratta dell’Asia1, continente che occupa il 30% delle terre emerse con i suoi 49 paesi e nel quale risiede il 60% della popolazione mondiale. In Asia convivono, in un affascinante intreccio, le tradizioni più antiche e le società più avanzate. È il continente di nascita delle principali religioni mondiali (Induismo, Buddhismo, Ebraismo, Cristianesimo, Islam) e di molte altre. Di fronte a una realtà così ampia e complessa, qualsiasi tentativo di renderne un’immagine sintetica ha il difetto dell’approssimazione e della generalizzazione. Tuttavia, ci vogliamo provare.

Territori e lingue

Data la vastità del suo territorio, le Nazioni unite suddividono l’Asia in cinque macroregioni (più una): Asia occidentale, centrale, meridionale, orientale e Sud Est asiatico, a cui si aggiunge la parte asiatica della Federazione Russa, la Siberia.

Nel continente si contano ben undici famiglie linguistiche delle quali fanno parte centinaia di idiomi. Le ricche ed elaborate lingue asiatiche (e le rispettive scritture) testimoniano uno «spessore» culturale davvero impressionante, che non si può trascurare. E ne sanno qualcosa i missionari non asiatici che si trovano nel continente.

Mosaico religioso

Per entrare in empatia con i popoli che abitano l’Asia è necessario, innanzitutto, provare a individuare le tendenze di pensiero che li attraversano, spesso intrecciandosi tra loro.

Tra le fonti autorevoli c’è l’Ecclesia in Asia, l’esortazione apostolica postsinodale di Giovanni Paolo II, pubblicata nel 1999, che ci autorizza a spingerci in questa direzione: «I popoli dell’Asia sono fieri dei propri valori religiosi e culturali tipici, come ad esempio l’amore per il silenzio e la contemplazione, la semplicità, l’armonia, il distacco, la non violenza, lo spirito di duro lavoro, di disciplina, di vita frugale, la sete di conoscenza e di ricerca filosofica. Essi hanno cari i valori del rispetto per la vita, della compassione per ogni essere vivente, della vicinanza alla natura, del filiale rispetto per i genitori, per gli anziani e per gli antenati, ed un senso della comunità altamente sviluppato. In modo tutto particolare, considerano la famiglia come una sorgente vitale di forza, come una comunità strettamente intrecciata, che possiede un forte senso della solidarietà. I popoli dell’Asia sono conosciuti per il loro spirito di tolleranza religiosa e di coesistenza pacifica». Più avanti il testo chiama in causa «un innato intuito spirituale e una saggezza morale tipica dell’animo asiatico, che costituisce il nucleo attorno al quale si edifica una crescente coscienza di “essere abitante dell’Asia”».

Entrare in questo «intuito spirituale» è di fondamentale importanza per noi missionari. Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India), asiatico ed esperto del settore, con una visione d’insieme ampia e allo stesso tempo dettagliata della vita religiosa del suo continente, ne propone quattro caratteristiche peculiari: il senso del sacro; l’intensità della ricerca di Dio e del divino; la semplicità di vita; l’aspirazione a propagare gli insegnamenti religiosi.

Il senso del sacro

Il sacro e il divino fanno parte essenziale della psicologia collettiva asiatica. In molte parti del continente, i ritmi del vivere comune sono ancora oggi scanditi dalle pratiche religiose di svariate tradizioni (Induismo, Buddhismo, Islam, Giainismo, Taoismo, Shintornismo e altre ancora), senza che questo rappresenti in sé una stravaganza o una minaccia alla società regolata dai governi statali.

In alcuni paesi, anzi, sono tutt’ora in vigore forme di governo intimamente associate al potere religioso. In ogni caso, il sacro è qualcosa che non si discute neanche, perché appartiene all’evidenza del vissuto.

Altrove l’impatto con la modernità di stampo occidentale ha cambiato radicalmente l’atmosfera, imponendo stili e ritmi più secolari e apparentemente neutrali rispetto al dato religioso. Ma anche in tali contesti il riferimento religioso fondamentale resta un dato indiscusso, magari più relegato alla sfera privata, ma mai dimenticato o trascurabile. In Asia di solito non ci s’imbatte nell’affermazione «Dio è morto», bensì nella domanda «Quale Dio seguire?».

Intensa ricerca di Dio e del divino

C’è un’aspettativa nel cuore di chi appartiene alle tradizioni religiose dell’Asia: il maestro, a qualunque gruppo appartenga, deve essere capace di indicare Dio, di parlare di lui e del suo piano per il bene del suo popolo. Questa è l’area in cui le persone religiose sono chiamate a essere competenti.

Il misticismo non è la scelta di una élite, ma una dimensione della vita che, se non tutti possono praticare (in molte tradizioni è riservata ai monaci), appartiene comunque all’immaginario collettivo come ideale da raggiungere.

Un’altra parola chiave della religiosità orientale è profondità. Una proposta spirituale che mancasse di questo carattere, apparirebbe inaffidabile, ingannevole. Profondo è ciò su cui si può costruire, ciò che sostiene anche se non si vede, è ciò che resta quando finiscono le parole; ciò che s’intuisce durante una cerimonia sacra o nell’armonia dell’arte religiosa; ciò che dura nel tempo, perché ha già attraversato tante generazioni e si è sedimentato in una letteratura, in testi sacri da maneggiare con rispetto.

Il passo dalla profondità alla preghiera è molto breve, anzi spontaneo. Preghiera e devozione sono un altro aspetto della medesima ricerca di Dio e del divino che in Asia ha prodotto esperienze tra le più ricche. La dimensione della preghiera, del culto e dei riti non si è mai offuscata (come invece è successo in Occidente), ha conosciuto un percorso storico in cui è rimasta viva e articolata. Pregare è la norma, non l’eccezione. Non va giustificata la preghiera, semmai va spiegata la sua originalità che la distingue da quella praticata in un’altra religione. In ogni caso l’esperienza di preghiera appartiene al cuore del cammino spirituale e costituisce il contesto più adatto alla comprensione e diffusione del messaggio religioso. Un aspetto strettamente collegato alla dimensione orante della vita è la ricerca di solitudine, di raccoglimento. In tutte le forme religiose sviluppatesi in Asia esiste un anelito all’intimità con il divino che solo una certa dose di isolamento e silenzio sembrano favorire. L’esercizio delle pratiche ascetiche richiede un contatto con se stessi che esige attenzione all’interiorità e distacco, almeno temporaneo.

Semplicità di vita

Un altro aspetto della religiosità asiatica è il convergere di tante fedi sulla necessità e sul valore di uno stile di vita sobrio. La semplicità riflette un’attitudine molto apprezzata nella persona religiosa in Asia: il giusto distacco dalla materialità delle cose.

Semplicità e sobrietà favoriscono una vita centrata sull’essenziale, identificato quasi sempre con la ricerca spirituale. Una vita che si lasci sommergere da preoccupazioni mondane di ricchezza, accumulo e competizione tiene il praticante lontano dal raggiungimento dei suoi ideali.

Propagazione degli insegnamenti religiosi

Il concetto di «missione» è maturato in ambito cristiano e dunque gode di una sua originalità che l’Occidente postmoderno fa fatica a comprendere e accettare. In Asia invece la tendenza di una dottrina religiosa a diffondersi e quella dei suoi fedeli a propagarla è un dato pacificamente accettato, anzi ne testimonia la validità. Mentre in Occidente si manifesta resistenza (sensi di colpa storici, timore d’ingerenza nella libertà altrui, ecc.) nel panorama religioso asiatico non desta stupore il fatto che una dottrina o una via di sapienza cerchi di diffondersi.

Cristiani esigua minoranza

In questa terra vasta e complessa, trova il suo spazio anche la fede cristiana, benché sia praticata per lo più in condizioni di minoranza e talvolta di discriminazione (o di aperta persecuzione; cfr Cristian Nani, Una fede pericolosa, MC maggio 2018). Negli ambienti missionari si parla di ad gentes per indicare lo specifico della missione in contesti in cui essa rappresenta per gli interlocutori il venire in contatto per la prima volta con il Vangelo e la persona di Gesù Cristo, dal momento che altre tradizioni religiose e culturali hanno plasmato quelle società. Ebbene, in Asia l’ad gentes è una realtà evidente. Non v’è dubbio che i non cristiani sono gli interlocutori principali della Chiesa in Asia. Per questo motivo il magistero missionario del postconcilio ha più volte richiamato l’attenzione proprio sul continente asiatico descrivendolo come il più bisognoso di evangelizzazione2.

A questo riguardo Ecclesia in Asia, al n.1 dice: «Dato che Gesù è nato, vissuto, morto e risorto in Terra Santa, questa piccola porzione dell’Asia occidentale è diventata terra di promessa e di speranza per tutto il genere umano. Gesù conobbe ed amò quella terra, facendo sue la storia, le sofferenze e le speranze di quel popolo; ne ebbe cara la gente». Soffermiamoci su queste ultime parole: anche noi siamo chiamati a entrare in questo movimento di amore per i popoli dell’Asia. È la legge dell’incarnazione che ci spinge a entrare in profonda sintonia con le persone a cui siamo mandati, e quindi con le loro culture, la loro storia, le loro tradizioni religiose e filosofiche, la loro sapienza, la loro psicologia.

Giorgio Marengo

Note:

1  M. De Giorgi, Missione e culture in Asia. Tra passato e presente, in «Quaderni del Centro Studi Asiatico», 11 (2016).
2  Giovanni Paolo II indicava il continente asiatico come quello «verso cui dovrebbe orientarsi principalmente la missione ad gentes» (Redemptoris Missio, 37).


Il cristianesimo in Asia

Il Cristianesimo ha conosciuto una sua diffusione in Asia già dai primi secoli. C’è un dato storico che a molti sfugge: all’indomani della Pentecoste, la prima generazione di credenti si spinse in due direzioni, nel bacino del Mediterraneo, giungendo fino al cuore dell’Impero romano, e in direzione Est, verso l’Asia appunto.

I cristiani d’Oriente avevano centri di eccellenza teologica, monasteri e biblioteche nella zona dell’attuale Turchia e Iran. Questa cristianità assunse ben presto dei tratti peculiari, arrivando anche a dissentire su questioni teologiche ai concili ecumenici, come testimoniato dal caso del patriarca di Costantinopoli Nestorio a Calcedonia (451).

Fu proprio grazie ai credenti delle prime generazioni, soprattutto attraverso le vie del commercio che già attraversavano il continente (come la via della seta), che il Vangelo giunse alle popolazioni asiatiche.

La storiografia tende a identificare questi cristiani con l’appellativo di Nestoriani. Occorrerebbe precisare questo titolo e il suo significato; in ogni caso, accettando convenzionalmente la dicitura, dobbiamo riconoscere che già intorno al VII secolo la fede cristiana era attestata in Cina e quasi contemporaneamente nelle zone centrali del continente. Per non parlare dell’India, con la sua tradizione sull’apostolo Tommaso.

Furono poi gli ordini mendicanti del XIII secolo a prendere il testimone dell’evangelizzazione del continente, dopo l’avanzata dell’Islam e il consolidarsi del Buddhismo in gran parte dei territori.

Quando i Gesuiti arrivarono in Cina e Giappone nel XVI secolo iniziò una nuova fase. Il dato è che, per vari fattori storico culturali, a quel tempo il Cristianesimo era rimasto ai margini delle società in cui era penetrato e, in alcuni casi, del tutto perduto.

Eventi storici non favorevoli? Errori di strategia missionaria? Mancanze e debolezze dei missionari stessi? Incidenti diplomatici?

Tutto va certamente analizzato, però a me piace pensare che la situazione di minoranza in cui versa la fede cristiana anche oggi in Asia non sia da ascriversi solamente a una congiuntura storico sociale, e che ci riveli qualcosa di profondo e, in qualche modo, di provvidenziale: non necessariamente il cristianesimo è destinato a diventare cristianità, a plasmare cioè società intere, al punto di diventare la religione principale (e dominante).

Se in occidente questa è stata l’evoluzione, non è detto che essa sia l’unica possibile e neanche la più auspicabile. È importante rendersi conto che non esiste solo il modello Europeo, come se le società dovessero in qualche modo attestarsi tutte in modo naturale sulle stesse posizioni.

Il nostro punto di riferimento deve sempre rimanere il Vangelo, la logica del Regno di Dio che Gesù ha sempre descritto in termini di piccolezza, sproporzione, inferiorità, seme che cade in terra e muore, lievito nella pasta, lume di una candela che illumina la stanza.

Il primo Asian Mission Congress, tenutosi in Thailandia nel 2006, tirava queste conclusioni, guardando alla storia del Cristianesimo nel continente: la Chiesa Cattolica in Asia ha dato il più alto numero di martiri. Dovunque ci sono missionari o cristiani locali che sopportano fatiche per la loro fede, facendo della loro vita un dono per gli altri, la Chiesa cresce. La testimonianza vivente di molti cristiani in Asia è un miracolo degno di essere celebrato.

G.M.

A d essi vanno aggiunti i circa 2 milioni di cristiani del Libano (ca. 345 della popolazione che al 2016 era di 6 milioni)


Una missione fatta di forza interiore e discrezione:

Comunicare prossimità

Prendendo in prestito l’espressione di un arcivescovo indiano cara alla riflessione missionaria del continente asiatico, «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia», possiamo introdurci nel mistero di una missione fatta di forza e fragilità, profondità, fiducia e prossimità. Completamente nelle mani di Dio.

Il parlare cristiano di Dio è percepito nell’Occidente postmoderno come qualcosa di «antipatico». Forse è per questo che viene spontaneo concentrarsi più sui mezzi per farlo che sui contenuti. Come se dovessimo ottenere un lasciapassare, un’autorizzazione che ci verrebbe concessa, appunto, per il semplice fatto di usare tecniche comunemente riconosciute.

Se questo fosse vero, il rischio grave sarebbe quello di perdere l’originalità del messaggio cristiano che sta proprio nel suo essere scandaloso. Parla, infatti, dell’irruzione nel mondo di Dio fattosi carne, di Dio che abita la nostra umanità allargandola al cielo.

Il dire cristiano su Dio e la missione, stanno in questo paradosso: del Dio ineffabile non si può parlare e, allo stesso tempo, non si può tacere.

Sussurrare il Vangelo

La missione sta nel mettere in comunicazione il «cuore» con il Vangelo e nell’innescare quel delicato processo di dialogo e crescita nel quale nessuno dei due interlocutori rimane indifferente all’altro. Ecco perché vorrei parlare della missione come di un «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia», prendendo in prestito l’espressione usata al sinodo per l’Asia del 1999 da Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India): perché ritengo che per parlare del mistero di quest’incontro, sia più efficace un’espressione evocativa, un’immagine, piuttosto che una teoria o un «paradigma» missionario.

Quest’espressione sta avendo, con sorpresa dello stesso Menamparampil, un grande impatto nella riflessione missiologica del continente. Egli la usa come una sorta di bilancio dei suoi 80 anni spesi ad annunciare il Vangelo nel mondo indiano e nelle tante parti d’Asia nelle quali la Provvidenza lo ha chiamato. Allo stesso tempo ritiene che sia in qualche modo la «formula» per il futuro del lavoro missionario nel suo continente. E, io aggiungerei, anche negli altri.

Prossimità, fiducia, profondità

Il verbo «sussurrare» allude a una relazione. Nel nostro caso, una relazione con Dio ricevuta come dono e coltivata come scelta d’intimità, preghiera, dialogo vitale. Noi missionari siamo chiamati a sussurrare al cuore di Dio e a lasciare che Colui che ci manda a essere sue epifanie presso i popoli asiatici sussurri al nostro cuore. Siamo chiamati a metterci in relazione con le persone alle quali siamo inviati, alla vicinanza, all’immersione nel loro mondo.

Due persone si sussurrano a vicenda qualcosa solo quando sono in confidenza. Non si sussurra all’orecchio del primo che capita. E quello che si comunica nel sussurro è qualcosa di profondo, di vitale, che esige un certo pudore, un’aura di mistero, oltre che di rispetto.

Da quando mons. Menamparampil ha usato quest’espressione, essa è rimasta impressa in molti. Alcuni gli hanno fatto notare che suonava come una posizione troppo timida, quasi in contrasto con il coraggio che proprio in quegli anni Giovanni Paolo II chiedeva alla chiesa missionaria. In realtà l’espressione non invita al timore o al calcolo («se sussurriamo forse evitiamo conflitti»), ma alla necessità di mettere al centro dello stile missionario prossimità, fiducia e profondità.

Non sono forse questi gli strumenti con cui il Signore introdusse progressivamente i suoi amici al mistero della sua persona? Vengono in mente le scene dell’incontro di Gesù con la samaritana, con Nicodemo e, soprattutto, con i discepoli al cenacolo. Gesù si consegna ai suoi, versa il suo cuore proprio nel contesto di un incontro intimo, che anticipa il suo sacrificio.

Dire a voce bassa in modo personale

Il verbo «sussurrare» è evocativo già nella sua pronuncia: è musicale, produce un suono leggero e gradevole per l’orecchio. Ha il significato di «dire a voce bassa e sommessa, perché senta solo chi è vicino, o la persona a cui ci si rivolge»3. Esso indica, quindi, una modalità di comunicazione personale, che avviene nell’ambito di una relazione di amicizia, confidenzialità e sintonia, in un clima di empatia, discrezione e pacatezza. Torna alla mente l’immagine del servo del Signore che «non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce» (Is 42,2), scelta da Gesù per descrivere il suo ministero (cfr. Mt 12).

In Asia ci sono insegnamenti sacri nelle sue numerose tradizioni religiose che vanno trasmessi in confidenzialità: i sutra, ad esempio, ma anche i mantra, parole sacre recitate spesso sottovoce.

Così la Parola evangelica: per la sua qualità di essere allo stesso tempo rivelata e ineffabile, perché appartenente a Dio Altissimo, rifugge i toni chiassosi e gli slogan. Pensiamo a colui che è padre di noi missionari della Consolata nella sequela e nella missione, il beato Giuseppe Allamano, e alla sua attenzione alla persona, alla sua riservatezza, al suo stile discreto. La consegna della Parola sembra più adeguata quando a sussurrarla sono persone diventate segno di quel mistero che essa significa e a cui rimanda.

L’Asia dona la preghiera alla missione

La missione in Asia ci spinge oggi a riaprirci a dimensioni che forse non eravamo più abituati a considerare come specifiche della nostra vocazione. Una di esse è la preghiera. Normalmente, infatti, si associa alla missione prima di tutto l’idea della promozione umana, della lotta alla povertà, all’ingiustizia. C’è stato un tempo in cui lo slancio per le grandi cause dell’umanità ci aveva quasi fatto mettere da parte la preghiera, considerata una caratteristica adatta più ai contemplativi che a noi. «Noi – si diceva – siamo missionari, quindi…». Quindi? Pensiamo veramente che la missione sia esclusivamente un «fare»? E cos’è che davvero qualifica il nostro fare? La preghiera è solo una sorta di dovere da adempiere per essere dei bravi missionari, ma che «accadrebbe» separatamente dalla missione? Prima o dopo, ma non contemporaneamente? Devo a tutti i costi «fare qualcosa» per sentirmi missionario o posso prendermi del tempo per capire quali siano le «cose» più richieste dalla realtà in cui vivo?

Non esiste un solo modo di essere missionari; è invece importante che le nostre scelte siano in piena sintonia con il carisma del Beato Allamano.

Non si tratta di rinunciare all’azione per ritirarsi in una contemplazione staccata dalla realtà, ma di cogliere la sfida che l’Asia ci lancia per (ri)scoprire tutta la fecondità della dimensione contemplativa della missione.

Sembra, infatti, che nei nostri ambienti si faccia ancora fatica a comprendere che facciamo missione nell’atto stesso del nostro darci a Dio nella preghiera. Nonostante l’esempio di alcuni grandi missionari degli ultimi decenni: Charles de Foucauld, i monaci martiri dell’Algeria, madre Teresa di Calcutta, per non parlare del nostro Fondatore.

Mons. Menamparampil lo dice così: «La necessità di penetrare il mondo interiore di una società e di capire il suo funzionamento e la conformazione dei suoi ritmi emozionali è estremamente importante quando si tratta di condividere la propria fede. Più la si condivide in maniera casuale, più essa rimane superficiale. L’aspetto della profondità è importante come la qualità dell’intimità. Gli Asiatici stimano la profondità al di là di quale sia la fede a cui uno appartiene. Essa indica anche l’intimità che la persona ha con il suo “sé” reale. Nella spiritualità indiana, la ricerca del “sé” è uno degli obiettivi più alti. Se il comunicatore è vicino al suo “sé superficiale”, anche il contenuto e lo stile della sua comunicazione lo rifletteranno. Ma se egli è spesso con il suo “sé più profondo”, quando comunica un messaggio attrae l’attenzione»4. Oggi, anche grazie all’esperienza della missione in Asia, siamo più consapevoli che la preghiera è essa stessa via di evangelizzazione.

Una Parola ospitale, nel rischio del rifiuto

Tornando all’immagine del «sussurrare», è importante sottolineare che è il Vangelo a essere sussurrato e nient’altro, tanto meno qualcosa che appartenga solo all’evangelizzatore. Ad accogliere (o rifiutare) il Vangelo, poi, è niente meno che il cuore dell’altro, quel luogo nel quale risiede il suo mondo, la sua cultura, il suo orizzonte.

«Parlare di Dio non può essere come far calare una cappa di piombo sulle cose – scrive Fabrice Hadjadj, scrittore e filosofo francese -. Prima di tutto è un’alba che sorge. […] Ecco l’ineffabile: sta di casa sotto le parole di tutti i giorni. […] Non possiamo parlarne come si parla di una cosa fra le tante, ma non possiamo neppure parlare delle cose della vita se taciamo di Lui che è il loro principio e il loro fine. Portare il suo Nome non vuol dire farlo cadere dall’alto, ma lasciarlo salire dal fondo di ogni realtà. In questo modo la domanda “come parlare di Dio?”, rinvia non tanto a un argomento di conversazione, ma a una modalità ospitale di uso della parola»5.

Il carattere «ospitale» è proprio quello che vorrei descrivere per la missione in Asia: un’ospitalità evangelica restituita a chi ha accolto a casa sua i missionari del Vangelo. E quanto impegno devono profondere i missionari per farsi accogliere davvero dai popoli asiatici. Spesso è forte la sensazione di essere appena tollerati. In questo impegno di empatia, ascolto, studio, inculturazione, non dobbiamo mai perdere di vista il carattere scandaloso del Vangelo: infatti non è raro che la libertà altrui, rispettata e fattivamente accolta, comporti il rifiuto. Scrive ancora Hadjadj: «L’efficacia della proclamazione genera sempre la possibilità di un rifiuto ancora più violento di quello prodotto da una proclamazione meno efficace. […] Sarebbe un errore credere che, se perfetta, la comunicazione evangelica otterrebbe un consenso necessario»6.

Amicizia, parola, sacramento

Tra le varie figure di spicco che nel secolo scorso hanno saputo andare in profondità nell’esplorare (e vivere) la missione e che ci pare utile citare, c’è Catherine Doherty (1896 – 1985). Ispirandosi a uno scritto di Jacques Loew, l’attivista russa emigrata in America riassumeva l’attività missionaria in tre fasi: un tempo di amicizia, un tempo della Parola e un tempo del sacramento. La prima fase, quella dell’amicizia, è per lei fondamentale: non è semplicemente una preparazione, destinata a scomparire in uno stadio successivo, ma la costante che accompagna sempre la vita missionaria. È da seguire con pazienza, senza fretta. Questo tempo di amicizia è il tempo più lungo, la dimensione principale che caratterizza l’azione missionaria. Nella vita dell’evangelizzatore è il risvolto esistenziale, pratico, dell’incarnazione di Dio: assumere la condizione umana, entrare nella trama del tempo e dello spazio e, dunque, della cultura, della storia, della terra così come si presenta nel luogo specifico nel quale ci si trova.

C’è poi la seconda fase, quella della parola. Essa si realizza solo quando l’amicizia ha messo radici profonde. Solo allora si è in grado di esternare la «notizia bella» che si è stati inviati ad annunciare.

Anche qui l’insistenza di Catherine Doherty è sulla delicatezza, la prudenza: «Lo facciamo lentamente, con gentilezza, cambiando la fraseologia e la semantica, in modo che siano adatte ad ogni persona e ad ogni contesto».

È in questo momento che si fa esperienza di tutta l’inadeguatezza strutturale che ci si porta addosso. Per gli evangelizzatori che hanno abbandonato la loro terra per inserirsi in un’altra, questa è l’esperienza più radicale: lingua, riferimenti socio-culturali, storia, tradizioni, religioni sono altri rispetto ai propri, e ci si rende conto che questo incide non poco sulla comunicazione e l’annuncio. È allora che si diventa veri strumenti di chi invia, perché si apre la bocca «in suo nome», non confidando nelle proprie strategie e risorse. S’impara a riconoscere chi si è veramente: un seme che deve morire se vuol portare frutto. In questa impotenza consegnata si apre il solco perché la Parola venga sussurrata, cada e porti frutto.

La terza fase infine è quella del sacramento. È il passaggio cruciale, anzi cruciforme. È il vivere in prima persona la Pasqua, il passaggio dal predominio del proprio io a quello della Grazia. Questo rende liberi, come lo era san Paolo al termine del suo pellegrinaggio terreno. Non si dipende più dalla realizzazione di un qualche proposito o dal giudizio altrui (positivo o negativo che sia), ma unicamente dallo Spirito che cristifica, che porta l’immagine alla somiglianza.

Conformarsi a Cristo crocifisso

Una riflessione missionaria che non tenga conto di questo mistero di conformazione al Cristo crocifisso e risorto si ferma sulla soglia. Le tre fasi descritte dalla Doherty non sono altro che gli stadi attraversati da Cristo stesso. E la proporzione tra di essi dice qualcosa d’importante al modo di concepire e vivere la missione: trent’anni spesi nel tempo dell’amicizia, tre anni di Parola (il suo ministero pubblico) e pochi giorni nel compimento del mistero pasquale.

Raccontare il Vangelo, anzi, sussurrarlo, trasmette la fede – o, meglio, genera alla fede – solo dentro una particolare vicinanza, quella che si crea in relazioni di prossimità discreta che possono diventare autentica fraternità.

Far fiorire è il mestiere di Dio. All’evangelizzatore è riservato il lavoro sul terreno.

Giorgio Marengo

Note:

3  Cfr. la voce «sussurrare» in Treccani 2014 – Dizionario della Lingua Italiana, Giunti Scuola, Firenze 2013.
4  Citazione da un testo inedito di T. Menamparampil, condivisomi di recente da lui stesso.
5  F. Hadjadj, Come parlare di Dio oggi? Antimanuale di evangelizzazione, Edizioni Messaggero, Padova 2013, 56-57.
6  Come parlare di Dio oggi?, cit., 101.


Sussurrare la Consolata

Siamo nel mese del quale celebriamo la Consolata. In tutto il mondo, decine di comunità la ricordano e festeggiano. Cosa succederebbe se sostituissimo la parola «Vangelo» con il nome di Maria nell’espressione di mons. Menamparampil, «Sussurrare la Consolata al cuore dell’Asia»?

Sarebbe forse suggestivo, ci dice padre Giorgio Marengo, autore di questo dossier, ma si arriverebbe allo stesso punto. Perché sussurrare la Consolata all’orecchio di qualcuno vorrebbe comunque dire indicare Maria che, a sua volta, indica suo Figlio.

«Penso che “sussurrare la Consolata” si possa dire nel senso di aiutare le persone a riferirsi a lei in una maniera esperienziale, confidenziale. Cosa che tra l’altro in qualche modo gli asiatici già fanno.

Se noi sussurriamo Gesù, dentro quel sussurro c’è anche lei. Ogni volta che invitiamo qualcuno ad aprirsi al Signore, in questa dinamica c’è la presenza di Maria. Viceversa, più si sta con lei, più si va verso Gesù».

Immagine della Consolata in stile coreano, opera della pittrice Shim Sun-hwa Caterina

Nel processo di sussurrare il Vangelo, la Madonna è quella dalla quale i missionari imparano, perché la vicinanza, la discrezione, l’ascolto, la profondità sono tutte caratteristiche di Maria che, con la sua presenza discreta che non attira a sé ma a suo figlio, indica lo stile giusto. «Sussurriamo suo figlio e allo stesso tempo imitiamo lei, che è schiva ma anche presente».

Oltre alla figura di Maria Consolata, anche il tema della consolazione è in sintonia con lo stile del sussurro. «L’aspetto della Consolazione credo che sia una delle nostre caratteristiche che meglio si sposa con l’Asia, con alcune delle componenti della sua spiritualità. Ad esempio uno dei pilastri forti della spiritualità buddhista è la compassione», ci conferma padre Ugo Pozzoli, fino a un anno fa membro del consiglio Generale dell’Imc con l’incarico speciale di seguire l’Europa e l’Asia. «Per dire consolazione in mongolo – aggiunge padre Giorgio – ci sono almeno tre espressioni: la prima si riferisce all’azione di calmare un dolore fisico. Si trova ad esempio nei bugiardini delle medicine: sollievo da una pena. Poi c’è una seconda espressione che ha un significato più ampio, simile a quello che intendiamo noi per consolare. Infine la terza espressione può essere tradotta letteralmente con “aggiustare il cuore”, nel senso di riparare, sistemare, come fa un meccanico con un motore. Effettivamente Maria aggiusta il nostro cuore, lo sintonizza con il cuore di Dio. Lo purifica, lo cura».

Sussurrare il Vangelo con la Consolata, quindi, sapendo che il contenuto del sussurro rimane Gesù.

Luca Lorusso

Missionari della Consolata in Asia in assemblea precapitolare a fine 2016


L’IMC in Asia

Il sogno asiatico dell’Istituto è antico. Un primo tentativo di «sbarcare» in Asia avviene tra il 1928 e il ‘29, quando quattro missionari della Consolata giungonoi in India, nella provincia del Madhia Pradesh. L’esperienza dura solo tre mesi, interrotta dalle decisioni della Visita Apostolica che l’Istituto subisce in quegli anni.

Quando si apre la prima stabile presenza Imc in Corea del Sud nel 1988, si realizza un desiderio che è appartenuto già al beato Giuseppe Allamano: «Io non vedrò, ma un giorno andrete in Cina, India, Giappone, Tibet…». Nel gennaio di quell’anno arrivano nel paese asiatico i primi quattro missionari della Consolata. Le altre due aperture avvengono nel 2003 in Mongolia e nel 2014 a Taiwan. In Mongolia, i primi missionari, arrivati assieme alle missionarie della Consolata, entrano nell’estate del 2003, si stabiliscono nella capitale, Ulaanbaatar, con l’intento di «fare missione insieme, in comunione». A Taiwan si inizia nel settembre 2014.

Il mandato dell’ultimo Capitolo Generale è quello di rafforzare le presenze attuali in modo da consolidarle e dare all’Imc in Asia una prospettiva concreta di permanenza e sviluppo.

Luca Lorusso


L’ad gentes in Asia: Con lo stile del seme

Poca visibilità e, molto spesso, pura insignificanza. La condizione di minoranza della Chiesa in Asia potrebbe essere letta come un ostacolo insormontabile, oppure come una posizione privilegiata per purificare la missione e rimanere ancorati all’essenziale.

L’ambiente umano in cui la Chiesa si trova a vivere e testimoniare la propria fede in Asia è per lo più di vero ad gentes, nel senso che trova i propri riferimenti e identità al di fuori del Cristianesimo.

Questo dato è di notevole importanza, perché indica che la presenza e l’operato della Chiesa si confrontano quotidianamente con la poca visibilità e, molto spesso, la pura insignificanza. Siamo lontani da realtà in cui la Chiesa rappresenta una forza trainante della società e un’istituzione riconosciuta e stimata (o criticata).

Il confronto storico forse più pregnante è quello con le prime comunità cristiane diffusesi a Est del fiume Eufrate nell’età postapostolica. Esse dovettero misurarsi da subito con culture e tradizioni religiose preesistenti e con i più diversi sistemi politici, quasi sempre non benevoli nei loro confronti.

La libertà dell’essenziale

Proprio questo carattere minoritario, defilato, quasi nascosto è, però, altamente significativo e può rappresentare una grande risorsa. La Chiesa è più simile al seme caduto in terra. Cresce nel nascondimento e può dedicarsi più liberamente all’essenziale. Si regge sull’oblatività dei suoi membri ed è scevra da protagonismi e tentazioni mediatiche. Niente a che vedere con una mentalità da ghetto o da rifugio esclusivista, al contrario, la povertà di immagine e di influenza sociale permette una maggiore trasparenza al messaggio evangelico.

Questa condizione di minoritarietà può allora diventare scelta consapevole di un’evangelizzazione portata avanti con la testimonianza personale, i contatti fraterni, l’impegno non rumoroso per una società più giusta e accogliente.

Stupore, incomprensione, testimonianza

È interessante constatare come anche nell’Occidente postmoderno questa dimensione della testimonianza sembra aprire spazi di luce sul tema della missione. «L’annuncio si trasforma in testimonianza vissuta; testimonianza che, appunto, presuppone una mancanza di dimostrazione e di evidenza, ma che unica può trasformare il linguaggio verbale in un linguaggio pratico ed etico. In questa maniera la missionarietà non indirizza le sue energie nel raccapezzare un senso ormai disperso, ma tenta di evangelizzare il frammento diventando in sé stessa richiamo agapico. […] La testimonianza lascia spazio alla meraviglia, allo stupore, all’incomprensione, cioè a quegli atteggiamenti che trasportano il soggetto postmoderno “al di fuori di sé” nell’attimo di un incontro»7.

La fede chiamata a ricomprendersi

L’Ecclesia in Asia lo ha detto chiaramente al n. 23: «Un fuoco non può essere acceso che mediante qualcosa che sia esso stesso infiammato». Non sentiamo qui riecheggiare le parole del nostro fondatore il beato Giuseppe Allamano? Dovremmo forse fermarci a considerare più a lungo il suo insegnamento: la sua è una vera e propria «mistica dell’annuncio missionario», come l’ha sviscerata e portata in luce il troppo poco conosciuto studio del domenicano padre Ceslao Pera8.

L’originalità di una missione veramente ad gentes è anche questa: il missionario vive in un ambiente privo di riferimenti (almeno espliciti) al Cristianesimo. L’impegno per comprendere e decifrare tale ambiente apporta conoscenze nuove, fa scoprire modi altri di vedere la vita e la relazione con il divino e, dunque, provoca la fede a una ricomprensione radicale di se stessa.

Il dialogo diventa allora una scuola di studio e di riflessione che, oltre ad arricchire il missionario di conoscenze su altre tradizioni, l’aiuta a dischiudere la profondità del mistero cristiano in un modo forse più determinante di quanto non avvenga all’interno di una società «cristiana».

Veglia pasquale ad Arvaiheer con battesimi dei neofiti.

Paura, presunzione, evasione

L’aveva capito molto bene san Francesco Saverio nel XVI secolo: nelle sue lettere rivolte a chi lo avrebbe seguito in India e in Giappone egli insisteva molto sulla virtù apostolica dell’umiltà interiore. In una lettera del 1549 da Kagoshima (Giappone) avvisava i candidati alla missione asiatica che avrebbero dovuto affrontare una triplice tentazione: il pericolo della paura, il rischio della presunzione e la possibilità di evasione dal reale.

L’impatto con culture, religioni, società, situazioni ambientali e umane così altre mette paura, provoca un inaspettato contatto con la parte più fragile di noi stessi. Ecco allora il primo grande vantaggio: dalle ceneri del nostro io andato in frantumi può nascere una nuova fiducia in Dio: «Vi scongiuro pertanto, in tutte le vostre cose fondatevi totalmente in Dio, senza confidare nel vostro potere o sapere od opinione umana»9.

La seconda tentazione è quella della presunzione: a volte, il missionario è tentato di giudicare le cose  non a partire dal Vangelo, ma dai propri riferimenti culturali, rasentando il complesso di superiorità. Il contatto con le ricche tradizioni asiatiche può stemperare questo rischio: «Credetemi, voi che verrete in questo paese, avrete l’occasione di provare quanto valete. Per quanta diligenza voi mettiate per guadagnare ed ottenere molte virtù, siate certi che non ne avrete mai abbastanza»10. Anche questa è una grazia.

Ma c’è una terza prova a cui i missionari sono sottoposti in Asia: il rischio di evadere continuamente dalle sfide del quotidiano rifugiandosi in una realtà creata da loro stessi. Oggi, con l’aiuto di social network e nuove tecnologie, rischiamo di essere fisicamente in un posto e col cuore in un altro: «Stanno nelle Indie, ma vivono col desiderio in Portogallo»11. Anche in questo caso l’unica medicina è l’umiltà di affidarsi a Dio in quel presente che magari vorremmo diverso, ma che è l’unico orizzonte in cui possiamo davvero incontrare il Signore.

Missionari come «paralitici guariti»

Mettendo in guardia i suoi confratelli gesuiti, san Francesco li conduce al cuore dell’esperienza apostolica. Lo stesso fa papa Francesco quando ci dice che siamo testimoni del Risorto in mezzo ai popoli proprio perché abbiamo toccato con mano la nostra povertà e l’abbiamo consegnata a Lui, confidando nella sua misericordia. Siamo «paralitici guariti». Questa fiducia ci abilita a chinarci sulle ferite del prossimo per versarvi l’olio della consolazione. È questa l’esperienza fontale dell’apostolo, e noi in Asia siamo chiamati a viverla ogni giorno, accompagnando persone che, con il loro cammino di fede, ci aiutano a fare verità in noi stessi e a percorrere insieme a loro lo stesso sentiero di rinascita12.

La resistenza delle tenebre

Da san Francesco Saverio impariamo poi un aspetto della prima evangelizzazione che talvolta viene taciuto o mal interpretato. Il grande missionario ritorna spesso a considerare come il male si opponga all’avanzata del Regno di Dio. La missione ad gentes deve trovarci attenti a questo scontro, quello che san Giovanni nel suo Vangelo descrive come la resistenza delle tenebre ad accettare la luce. Con questo non si vuol dire che il mondo non ancora raggiunto dall’annuncio evangelico sia in sé compromesso dal male, anzi, con il libro della Sapienza, noi crediamo che «le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra» (Sap 1,14), ma allo stesso tempo crediamo anche che forze nemiche alla luce di Cristo operino per contrastarla. A cominciare dal nostro io, spesso diviso, e dai tanti interessi mondani che spesso opprimono la coscienza di interi gruppi umani.

Queste forze negative sono un motivo in più per prendere sul serio la dimensione orante della missione. Per poter stare in piedi, dobbiamo saper stare in ginocchio.

Nulla da dimostrare, solo Gesù da mostrare

Prima e al di là di qualsiasi atto pratico (il progetto, l’iniziativa di sviluppo, ecc.), la missione è manifestazione umana, relazionale, della misericordia divina che Gesù ha incarnato. L’esperienza missionaria in Asia ci insegna molto, aiutandoci ad andare all’essenziale: un annuncio che si fa sussurro confidenziale, condivisione sincera, umile servizio offerto senza aspettarsi nulla in cambio. Non abbiamo nulla da dimostrare, ma «solo» Gesù da mostrare con la vita e, se necessario, con la parola.

Padre Gabriele Ferrari, già padre generale dei missionari Saveriani, parla addirittura di «esposizione di Gesù», che «sarà tanto più efficace quanto più semplice, povero e disarmato sarà lo stile di missione»13. L’esposizione del Santissimo Sacramento sui nostri altari diventi allora la sua esposizione in vite trasfigurate dalla sua bellezza: la notizia non è solo «buona», ma principalmente «bella». Il bello sconvolgente dell’amore crocifisso di Gesù attirerà le persone in mezzo alle quali noi viviamo in semplicità, non in case piene di regole, porte e strutture, ma in umili dimore accoglienti, povere e belle, dove l’armonia esteriore sarà un richiamo al fatto che un altro mondo è possibile, la vita non è solo miseria e stenti, la vita in Cristo è luminosa e vale la pena di essere vissuta.

Giorgio Marengo

Note:

7  T. Tosolini, Dire Dio nel tramonto. Per una teologia della missione nel postmoderno, Emi, Bologna 1999, 15.
8  Ceslao Pera O.P., La spiritualità missionaria nel pensiero del Servo di Dio Giuseppe Allamano, Edizioni Missioni Consolata, Torino, 1973.
9  F. X. Léon-Dufour, Francesco Saverio. Vita avventurosa e dimensione mistica dell’apostolo delle Indie, primo missionario gesuita, Piemme, Casale Monferrato 1995.
10  Id, 83.
11  Id, 88.
12  Da più di un anno seguiamo ad Arvaiheer un gruppo di Alcolisti Anonimi; il primo dei 12 passi che costituiscono il loro percorso di guarigione è riconoscere di averne bisogno. Mi sembra il punto di partenza di ogni vera conversione.
13  G. Ferrari, È proprio impossibile uscirne?, in «Testimoni», 2/2017, 12-16.




Don Vincenzo Molino: Musica e Missione

Kenya – Italia | Testo di Lorenzo Tablino |


Appassionato di musica sacra, missionario nel Nord del Kenya per 24 anni, don Vincenzo Molino ha fatto parte del folto gruppo di missionari fidei donum della diocesi di Alba che hanno evangelizzato le aree aride sopra l’Equatore, tra il lago Turkana a Ovest, l’Etiopia a Nord e la Somalia a Est.

Lunedì 9 ottobre 2017 è mancato a Santo Stefano Roero (Cn) don Vincenzo Molino. Aveva 88 anni e dal 1994 era parroco del paese citato. Al funerale, celebrato due giorni dopo, erano presenti due vescovi con i sacerdoti della diocesi di Alba (Cn) e tutta la comunità del piccolo paese del Roero. Oltre a numerosi amici e conoscenti.

Don Vincenzo Molino fu ordinato sacerdote nel 1953, dopo gli studi in teologia presso il seminario diocesano di Alba. Fu curato nella chiesa di San Giovanni in Alba e in seguito parroco a San Giuseppe di Castagnito. Seguì in particolare negli anni del Concilio Vaticano II alcuni gruppi giovanili e diverse cantorie parrocchiali. Appassionato di canto e musica sacra, grazie agli stimoli dei suoi insegnanti di musica, don Boella e canonico Varaldo e all’interessamento del rettore del seminario maggiore mons. Musso, si diplomò in «Organo e Canto Gregoriano» presso la diocesi di Milano.

Ma vorremmo ricordarlo sulle pagine di questa rivista per il suo grande e instancabile impegno missionario (1970-1994). Infatti, con don Bartolomeo Venturino, don Paolo Tablino, don Pietro Pellerino, don Giacomo Tibaldi, don Giovanni Rocca, don Giovanni Asteggiano e don Bartolomeo Rinino ha contribuito, in veste di missionario fidei donum, all’evangelizzazione della desertica regione del Nord Kenya.

Occorre evidenziare che gli anni Sessanta del secolo scorso furono contrassegnati, per la diocesi di Alba, da una grande apertura missionaria. Nel 1958, don Bartolomeo Venturino, primo sacerdote fidei donum di tutta Italia, iniziò la sua attività a Nyeri in Kenya, l’anno seguente lo seguì don PaoloTablino; alla fine degli anni Sessanta i sacerdoti missionari albesi erano presenti in tre missioni nell’esteso territorio del Nord Kenya: a Marsabit (la cittadina sede della diocesi), a Maikona e a North Horr, coprendo un vasto territorio verso il Lago Turkana.

Nel settembre del 1970 si aggiunse don Vincenzo Molino.

L’opera di tutte le missioni cattoliche, nell’esteso e desertico territorio denominato Northern Frontier District, facente parte della diocesi di Marsabit sotto la guida del vescovo mons. Carlo Cavallera, missionario della Consolata, fu orientata su due precise direttive pastorali. Infatti, all’evangelizzazione e all’apostolato si affiancarono subito poliedriche opere a carattere sociale, sanitario e educativo. Inoltre, sin dai primi anni, i nostri missionari studiarono la cultura e le tradizioni del popolo Gabbra, con cui convissero per decenni.

Per tanti motivi: a seguito dei nuovi orientamenti missionari del Concilio Vaticano II, i vescovi africani chiesero a religiosi e laici impegnati in terra africana di percorrere la difficile strada affinché «l’offerta della rivelazione alle culture e religioni indigene non le privasse della loro originalità». In sostanza occorreva conoscere al meglio la complessa società africana, per svolgere una pastorale missionaria attenta e rispettosa dei valori originali delle popolazioni locali.

Missionari fidei donum di Alba in servizio nella diocesi di Marsabit. Da sinistra: don Rocca, don Venturino, don Astegiano, don Tablino e don Molino.

Notevole la mole di studi pubblicati: dal «Dizionario Borana – Italiano» di don Bartolomeo Venturino (1973), al testo «I Gabbra del Kenya» a cura di don Paolo Tablino (1980, Emi, Bologna).

Non sono mancati sussidi e testi a carattere pastorale, religioso e musicale. Su questi ultimi è stato determinante l’apporto di don Vincenzo Molino. Sin dai primi anni Settanta, nelle missioni diocesane albesi di Marsabit e Maikona, studiò a lungo i canti che accompagnavano le danze tribali delle popolazioni Gabbra, Borana e Rendille. In seguito rielaborò e trascrisse molti canti – sia quelli classici in latino che quelli nuovi in kiswahili – nella lingua locale.

Nella lingua borana «Sirba» significa contemporaneamente canto e danza. Ambedue fanno parte delle tradizioni ancestrali delle popolazioni nomadi del Nord Kenya. Infatti, i Gabbra cantano in molte occasioni: tirando su l’acqua dai pozzi, accompagnando i cammelli nel recinto, attorno allo sposo in attesa che arrivi la sposa, nel ricordare fatti di guerra del passato. Ogni occasione è buona.

Santa messa nella cappella di lastre zincate di Marsabit nel 1970.

Don Molino, dopo avere ascoltato a lungo le melodie tribali africane, cercò di inserire in esse parole o frasi prese dalla liturgia cattolica, ovviamente nella lingua locale.

Compito non facile: non sempre le regole della composizione musicale lo permettevano, ma in alcuni casi i suoi sforzi e la sua determinazione portarono a ottimi risultati per una nuova e rinnovata liturgia nelle chiese di tutto il Nord Kenya.

Alcuni esempi tratti da un testo in archivio al Centro missionario diocesano di Alba: «Una gioia immensa per i primi nove battesimi di adulti nel deserto di Maikona con il nuovissimo canto di resurrezione “Alleluia, Alleluia, gioia, lui è morto, lui è risorto e noi siamo testimoni”.

Una ragazza di Marsabit tornando da scuola ci ha portato una nuova melodia (in lingua kiswahili, ndr) per la notte di Natale: Tukufu, tukufu, kwa Mungu juu (Gloria, gloria a Dio nell’alto). L’hanno cantata tre volte per la pura gioia di cantarla. L’indomani lo cantavano al mercato e in varie botteghe. Penso lo cantassero anche nella… moschea».

Lorenzo Tablino

Si ringrazia don Gino Chiesa, direttore del Centro missionario della diocesi di Alba, per l’aiuto fornito.




Mozambico:

Bwana Cilimba, l’uomo dal cuore forte


I missionari della Consolata arrivano in Mozambico nel 1925 nella provincia del Niassa. Uno dei primi è padre Pietro Calandri, detto «Bwana Cilimba», un cuneese forte, determinato, innamorato della gente e con il cuore pieno di Cristo. Fonda una grande missione, ma soprattutto costruisce una solida comunità cristiana che vive con fedeltà la propria fede in un ambiente musulmano e attraverso le prove di una lunga guerra.

I cattolici e i musulmani del Niassa hanno celebrato a Massangulo con grande affetto e solennità il 50° anniversario della morte di padre Pietro Calandri, il primo missionario della Consolata in Mozambico e il pioniere dell’evangelizzazione della zona. È morto il 12 agosto 1967 a 74 anni dopo una lunga vita missionaria dedicata quasi interamente al servizio dell’evangelizzazione del popolo Ayao e all’educazione dei giovani.

Il suo funerale, partecipato da una moltitudine riconoscente, e la sepoltura in Massangulo, la missione da lui fondata nel 1928, sono stati l’espressione eloquente di quanto fosse considerato e amato da tutti.

Tra i musulmani Ayao del Niassa, si era guadagnato un nome: «Bwana Cilimba», che significa «uomo dal cuore forte e che può gestire tutto». È questo senza dubbio il titolo più adeguato per questo grande missionario della Consolata.

1925: verso la zambesia. Fratel Benedetto, padre Sandrone, padre Calandri, padre Luigi Perlo e padre Peyrani.

Missionario della Consolata

Intenso ritratto del giovane padre Calandri.

Nato il 5 luglio 1893 a Moretta, Cuneo, fin da piccolo mostra curiosità e un temperamento disciplinato e determinato. Intelligente, sviluppa presto quel notevole senso di osservazione che plasmerà l’artista che più tardi si rivelerà in lui. Il sogno di una vita di dedizione e di avventura portano il giovane Calandri verso la vocazione missionaria, che abbraccia nel 1911, quando entra nell’Istituto Missioni Consolata. Conclusa la sua formazione, è ordinato il 3 febbraio 1917. A causa della guerra non può realizzare il suo desiderio di partire subito verso terre lontane. Il sogno diventa realtà solo tre anni più tardi, quando, nel 1920, viene inviato in Africa. Il Kenya è la sua prima missione e vi rimane cinque anni maturando esperienza, rafforzando la sua formazione e forgiando quel senso pratico che gli sarà molto utile in futuro.

Pioniere in Mozambico

Nel 1925 il giovane missionario riceve una nuova destinazione. Un altro paese africano sta emergendo all’orizzonte: il Mozambico. Sbarca nel porto di Beira il 30 ottobre 1925, ma quasi subito deve tornare in Kenya per accompagnare un padre che si è ammalato e ha bisogno di cure. Rientra nel giugno 1926 accompagnato da padre Giuseppe Amiotti. Hanno il compito difficile di sondare la possibilità di stabilirsi nella vasta regione del Niassa, dove non è ancora entrato alcun missionario cattolico.

Calandri e Amiotti iniziano, così, una grande avventura attraverso terre sconosciute, in un’epoca in cui le comunicazioni sono quasi inesistenti e la mancanza di strade e mezzi di trasporto rende tutto più isolato, lontano e difficile. I due giovani missionari sono i primi cattolici a entrare nel Niassa e si stabiliscono a Mandimba il 5 luglio 1926. Per circa due anni la prima preoccupazione è l’inserimento nel contesto sociale della regione.

Per raggiungere al meglio questo obiettivo si dedicano all’apprendimento della lingua Ciyao, cercando di conoscere gli usi e i costumi del popolo Ayao, compito in cui mettono sempre maggior impegno nella misura in cui cresce in loro l’amore per la gente e la sua terra. Mentre sono a Mandimba dedicano il loro tempo allo studio e all’individuazione e preparazione delle strategie future.

1925 La carovana sulle rive del lagp Niassa

Uno stratega della missione

Dopo essersi dedicato all’osservazione e allo studio, padre Calandri sceglie, ai piedi del Monte Massangulo, il terreno adatto alla sede della missione. E lì, in pieno Niassa, nel mese di maggio del 1928, fonda «Nostra Signora della Consolata di Massangulo».

Uomo metodico, padre Calandri non rallenta il ritmo. Intraprendente, inizia a disegnare una mappa precisa della regione di Massangulo dove svilupperà la sua attività. Rapidamente si impegna nella programmazione dei compiti da intraprendere al fine di creare le strutture di base della missione: la bonifica del terreno; la piantagione dei primi alberi; l’apertura di strade; la costruzione delle strutture necessarie. Visionario, progetta e fabbrica gli edifici per l’abitazione e i servizi essenziali a uno sviluppo strutturato e integrato: internati, scuole, laboratori, mulino, dispensario e maternità.

Usa le risorse locali per gli edifici impiegando l’argilla per la produzione di mattoni e tegole. Attraverso un ingegnoso sistema di canali capta l’acqua da una sorgente nel monte Massangulo per la missione, ottenendo così una risorsa essenziale per tutte le iniziative. Investe nell’agricoltura e nell’allevamento di bovini, nei laboratori di falegnameria, carpenteria e di calzature, per l’auto-mantenimento e il commercio, e anche nella stampa e rilegatura di libri.

Coinvolge la gente in tutte le attività. Integra gli alunni della missione nel lavoro e li forma in modo da poter essere autonomi e capaci di sognare e osare una vita diversa e migliore.

Lavora sempre in collaborazione con altri missionari: i padri Angelo Lunati e Luigi Wegher e i fratelli Giuseppe Benedetto, Lorenzo Baroffio e Ugo Versino, e con il sostegno delle suore missionarie della Consolata e dei catechisti locali.

2-X-1927 padre Calandri insegna nelal scuola di Mandimba

Mandimba: prima chiesa dei Missionari della consolata nel Niassa (1926) – padre Calandri e il sig. Regina davanti alal chiesa

Il dialogo e la cooperazione con i musulmani

Nei primi tempi non tutto è facile. Dopo la fondazione di Massangulo, padre Calandri e i suoi compagni sperimentano l’ostilità di due capi Ayao musulmani, che non vogliono un’altra religione nella loro terra.

Sopporta pazientemente in quei primi anni l’atteggiamento ostile della popolazione verso la missione e i missionari. Le relazioni di buon vicinato e il lavoro paziente poco a poco danno frutti e l’ostilità lascia il posto a un buon rapporto di collaborazione e rispetto.

Padre Calandri ha un grande merito nello stabilire questo clima di reciproca comprensione e rispetto che dura ancora oggi. Sono numerosi i gesti di aiuto reciproco vissuti negli anni: la difesa della popolazione contro l’espropriazione delle terre per la coltivazione forzata del cotone; l’accoglienza nella missione di gente ricercata (perseguitata) dai militari portoghesi durante la guerra per la liberazione del Mozambico dal dominio coloniale; le visite alle moschee; la partecipazione alle feste comuni. Padre Calandri rispetta la religione della gente senza imporre a nessuno la conversione al cattolicesimo.

Padre Calandri nel 1964

Una vita missionaria feconda

Le opportunità per evangelizzare la popolazione Ayao sono rare, ma padre Calandri non si lascia scoraggiare e con pazienza pone le basi per un servizio pastorale duraturo. Alcuni giovani musulmani Ayao accettano, dopo l’approvazione delle loro famiglie, di ricevere il battesimo, e non c’è dubbio che a questo ha contribuito anche la sua indiscussa autorità morale, oltre all’eccellente educazione data nelle scuole della missione.

Con pazienza la comunità cristiana cresce. Si formano le prime famiglie cristiane a cominciare dagli alunni educati negli internati (i «collegi» nei quali gli studenti vivevano durante il periodo della scuola, ndr).

Uomo d’azione, pur con pochi mezzi, dota la missione di Massangulo di un insieme di edifici imponenti non solo per rispondere ai bisogni immediati ma anche per preparare il futuro sviluppo. Uomo di scienze e di lettere, dopo alcuni anni di permanenza nel Niassa, senza tralasciare il lavoro che gli era stato affidato, compila un dizionario e una grammatica della lingua Ciyao.

Lo studio, il dialogo e la predicazione in lingua locale avvicinano alla popolazione e rafforzano l’empatia. Questo radicamento nella cultura della gente porta come frutto positivo l’adozione del missionario tra gli Ayao.

Uomo di elevata sensibilità e senso estetico, progetta e dirige i lavori dell’imponente e bellissima chiesa dedicata alla Madonna Consolata, oggi Santuario diocesano di Massangulo. Ci volgliono 10 anni per costruirla. Il cantiere diventa anche centro di formazione di carpentieri, falegami e muratori esperti perché impiega maestranze e operai locali e utilizza i laboratori di arti e mestieri della missione. Questa straordinaria chiesa ancora oggi è motivo di meraviglia per chi la visita. È stata benedetta il 3 gennaio 1964 dal primo vescovo della diocesi, Dom Eurico Dias Nogueira, nel suo primo atto pubblico.

In una delle cappelle laterali dell’imponente santuario è sepolto padre Calandri in attesa della gloria della risurrezione.

Diamantino Guapo Antunes




La missione ricomincia da tre


Tra il 12 e il 15 ottobre a Brescia si è svolto il primo Festival della Missione. Organizzato dagli Istituti missionari (Cimi), dalla Fondazione Missio (Cei) e dalla diocesi di Brescia. Lo slogan «Mission is possible» vuole andare oltre ai tanti dubbi legati al futuro della missione ad gentes. E i circa 15mila visitatori sembrano confermare una vitalità che c’è, anche se spesso nascosta. Ecco alcune pillole dal Festival.

Durante tre giorni il centro di Brescia è diventato un brulicare di idee, racconti, testimonianze. Persone venute da lontano, giovani e meno giovani. Suore, sacerdoti, vescovi e qualche cardinale, ma soprattutto molti laici. Quasi un incontro intergenerazionale. La parola d’ordine una sola: «Missione». Molte le questioni sul tavolo: la crisi della missione, missione dove, come e per chi?

I nuovi paradigmi dell’ad gentes ci dicono che non c’è più un occidente cristiano che va verso paesi a maggioranza non cristiana, bensì oggi parte da ogni luogo e va verso ogni luogo. La missione dovrebbe essere «il termometro del nostro essere chiesa», ha detto il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana.

Conferenze, musica, teatro, interviste a testimoni e stand nel centro di Brescia. Il Festival è stato un’occasione per far uscire la missione «allo scoperto», nelle strade e nelle piazze. Il rischio, dice qualcuno, è che ci parliamo addosso, che siamo sempre dei nostri. E pure che ci ripieghiamo sui problemi: calo di vocazioni, invecchiamento, strutture grosse e costose da gestire, senza puntare sugli aspetti positivi che ancora la caratterizzano e guardare al futuro.

Gli istituti missionari devono abbandonare l’autoreferenzialità, dice qualche moderatore. Regolarmente disatteso da alcuni conferenzieri che paiono autocentrati sulla propria congregazione.

Quello che è certo è che siamo in tanti, di tutti i colori e i continenti, c’è entusiasmo e si respira un’energia molto positiva.

Mancano sei miliardi

C’è chi, come il cardinal Fernando Filoni (Prefetto di Propaganda fide, la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli), ci ricorda che «la missionarietà ha degli obiettivi, perché ci sono nel mondo 6 miliardi di persone che il Vangelo non lo conoscono, rispetto a quel miliardo e 270 milioni che lo hanno in qualche modo conosciuto. Siamo chiamati a un impegno fondamentale. […] Non si parla più di continenti da evangelizzare, ma di tutto il mondo che, in forme diverse, ha bisogno di evangelizzazione. Ci sono aspetti che diventano sempre più importanti, come la migrazione, l’inclusione sociale dei nuovi cittadini».

Quindi, riassume Filoni parafrasando il motto del Festival: «Missione è possibile, sì, anzi è doverosa e necessaria. Come cambia? Oggi le chiese locali sono cresciute, i missionari sono i nonni dell’evangelizzazione. Gli autoctoni devono assumere in prima persona questo ruolo missionario. Hanno cultura, lingua, concezione più vicina alle popolazioni».

Le nuove frontiere sono, secondo lui, l’Asia, dal Giappone al Sud Est asiatico, inclusi i paesi musulmani, alla Cina. Poi cita l’Amazzonia, «uno dei luoghi più difficili per la missione ad gentes. Ma gli indios sono nel cuore della chiesa», assicura.

Cambiamento epocale

C’è chi propone un approccio molto pragmatico, come padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei missionari della Consolata: «Siamo di fronte a un cambio d’epoca. Una crisi che ci obbliga a rinnovarci, fare percorsi nuovi. Ma questa è una benedizione. Come missionari e come chiesa stiamo vivendo troppo sull’eredità del passato. Ben venga uno scossone. Occorre un atteggiamento di umiltà. Dobbiamo vivere il Vangelo e non predicarlo soltanto agli altri!», dice in tono provocatorio.

E continua: «Io lancio un invito a collaborare con il mondo. Dove stanno i giovani ai quali vogliamo insegnare il Vangelo? Forse non abbiamo più la terminologia, il modo giusto di parlare ai giovani di oggi. Corriamo dietro ai problemi delle nostre strutture. Siamo troppo “pesanti”, non solo fisicamente. Questa è una provocazione grande al cambiamento. Il punto non è la sopravvivenza degli istituti: perché tenerli in piedi ad ogni costo? La questione è riuscire a essere evangelizzatori come i fondatori hanno voluto, portando non le nostre storie, ma il Vangelo».

Padre Camerlengo non parla un linguaggio accademico, le sue parole sono concrete e chiare: «Abbiamo predicato che siamo tutti missionari, adesso che la chiesa locale si fa avanti, noi siamo un po’ più pesanti, un po’ più vecchi e facciamo fatica a trovare i nostri spazi. La crisi ci spinge a rinnovarci. Andare dove nessuno va. Non solo scrivere i documenti, ma andare. Per me questa rimane la missione ad gentes degli istituti missionari. Giovanni Battista ci insegna a essere cristiani e missionari, è colui che indica il maestro, che indica il cammino. Questo è il nostro ruolo. Anche se rimaniamo in pochi non importa, importante è che non perdiamo la direzione».

Mai tornare indietro

«La missione è in crisi? Non sappiamo più che pesci pigliare? Questo non ci dà il diritto di fermarci o tornare indietro, perché la missione è molto più grande di noi. La nostra identità è essere missionari ad gentes, cioè annunciare il Vangelo a quelli che ancora non lo conoscono. Parlando dell’interculturalità dei nostri istituti: abbiamo fatto molto andando in missione, adesso quelli che abbiamo evangelizzato diventano i nostri responsabili. Ma questa è una grazia di Dio, dove sta il problema? Non sappiamo gestirlo, perché siamo troppo eurocentrici, e non siamo come Giovanni Battista».

Unire le forze

Padre Camerlengo lancia una proposta importante per gli istituti missionari: «Non possiamo andare avanti ogni istituto per conto suo. Per forza, non solo per sopravvivenza, abbiamo bisogno di lavorare insieme. Stiamo cominciando soprattutto in America Latina le esperienze intercongregazionali. Sono piccoli semi che stanno iniziando. Sarà faticoso, ma questa è la strada. Da soli non possiamo andare da nessuna parte».

E di esperienze di questo tipo ce ne sono, come la comunità di Modica, in Sicilia, dove operano padre Gianni Treglia della Consolata, padre Vittorio Bonfanti missionario d’Africa, suor Raquel Soria della Consolata e suor Giovanna Minardi missionaria dell’Immacolata. La comunità mista porta avanti un progetto della Cimi sull’accoglienza ai migranti.

«Oggi evangelizzatori ed evangelizzati si confondono e i primi sono gli africani stessi», dice suor Luigia Cocca, superiora generale delle missionarie Comboniane. «Dobbiamo fare l’esperienza dell’uscita dai nostri riferimenti (occidentali)». Per questo ripete: «È necessaria un’attualizzazione dei carismi dei nostri istituti, dobbiamo ricomprenderci dal di dentro»

Marco Bello


I laici e la missione

Questione di stile

Chi fa informazione sui diritti umani, chi forma i giovani alla partenza,?chi vive in comunità e fa servizio sul territorio. Tutti modi di essere?«corresponsabili», perché la missione è per ogni cristiano.

«Parlare di missione oggi vuol dire recuperare uno stile di gioia. L’esperienza laicale, il più delle volte ha a che fare con la fragilità e la povertà del nostro essere umani». Così Antonella Marinoni, del Pime, introduce la missione declinata al laicale. Parla sul palco dell’Auditorium San Barnaba gremito di gente. Molti i giovani presenti.
«È essenzialmente una questione che ha a che fare con Dio, perché egli esprime una predilezione per i poveri e i fragili. È anche una questione culturale, oltre che teologale: dobbiamo aiutare affinché la società accolga questa condizione di fragilità».
E poi sull’essenzialità della missione: «Sentirsi essenzialmente discepoli e discepole missionarie. Senza altre etichette, senza differenziazioni e separazioni. Oggi abbiamo ancora bisogno di differenziare, in base alla diversità di carismi, di compiti, di scelte di vita. Ma due cose li contraddistinguono tutti: un grande amore per il Vangelo e una disponibilità ad amare fratelli e sorelle».

Marco Ratti, giornalista e fondatore della testata online «Osservatorio diritti» (www.osservatoriodiritti.it), è stato missionario laico in Brasile con la moglie Valentina. Lì, nel profondo Maranhão, stato povero del Nordeste, ha attinto quell’energia necessaria per impostare il suo lavoro una volta tornato in Italia. «Solo ascoltando la voce, il grido, la denuncia degli impoveriti, degli ultimi, di chi è emarginato, posso capire qualcosa di vero, essenziale, autentico per la mia vita. Non è chi vive nella comodità, io credo, che mi può far capire le domande alle quali dobbiamo dare risposte per andare verso una società più giusta e fraterna. Domande scomode spesso sgrammaticate ma sempre autentiche. Chi vive in situazioni di ingiustizia, pretende una risposta, e non ci permette di girarci dall’altra parte». Marco, 40 anni, ma ne dimostra di meno. Il suo parlare è fermo e chiaro: «Osservatorio diritti è nato anche in risposta all’urgenza che mi sono portato dietro dal Brasile, con un solo, semplice, obiettivo: dare voce

agli impoveriti, creando un sito che si occupasse di denunciare le violazioni dei diritti umani. La filosofia è quella di far parlare chi subisce violazioni dei diritti umani nella propria vita». Specifica, Marco, che la scelta della testata è cercare la sostenibilità economica senza contare sulle pubblicità, per mantenere l’indipendenza.

Si parla di laici missionari a chilometro zero. Sono famiglie che si stabiliscono a vivere nelle canoniche o case parrocchiali ormai dismesse e le rivitalizzano, offrendo il loro tempo al servizio della comunità. Al Festival portano la loro testimonianza padre Piero Demaria, giovane missionario della Consolata e Chiara Viganò. Sono due membri di una comunità molto particolare, Casa Milaico (www.milaico.it), sperimentata ormai da oltre un decennio: due famiglie e due religiosi che vivono insieme. Le famiglie vivono in due alloggi separati, ma tutto il resto si fa insieme, ricorda padre Piero: «Si mangia, si prega, si sogna e si decide insieme per le attività da fare».
Chiara e il marito Riccardo hanno tre figli di cui due adolescenti. Sono stati missionari laici in Ecuador, sempre con l’Istituto della Consolata. Milaico si trova a Nervesa della Battaglia (Tv). I membri della comunità propongono una presenza pastorale sul territorio che li vede impegnati in tante attività: formazione, ospitalità, coro, e molto altro.
«Vivere con i religiosi è un’esperienza che facciamo noi, ma che fa pure chi entra a casa nostra, che vuole essere una casa con la porta sempre aperta», racconta Chiara. «Abbiamo scoperto e fatto scoprire agli altri un volto più umano di chiesa, perché vivere insieme ai sacerdoti ci fa scoprire i pregi, ma anche i difetti. Noi laici siamo abituati a vedere i preti come qualcosa di perfetto, e quindi troppo lontani da noi. Vivere insieme ti fa scoprire che sono persone identiche a noi». E continua: «C’è poi un volto di comunione: mettiamo insieme i soldi; un argomento questo, sempre scomodo. Noi non abbiamo un conto corrente nostro, condividiamo gli stipendi. Così scopri che vivere insieme rende possibili cose come vivere in 10 con due stipendi: abbiamo un sostentamento del clero e due mezzi stipendi da insegnanti. Certo grazie all’aiuto di molte persone. Mettendo insieme piccole forze di ognuno si possono fare grandi cose».
«Terza cosa è la corresponsabilità. A Milaico esiste un superiore, che è padre Piero, ma tutto si fa insieme, si pensa e si organizza, poi ognuno porta avanti delle attività a seconda del proprio carisma. Il fatto importante è che sia possibile lavorare insieme. Questo dà forza a noi per andare avanti, e fa capire che non è un sogno irrealizzabile. Importante è vivere delle cose. Importante è seminare. Siamo una comunità in uscita». Una comunità aperta al mondo.

«Il nostro volto di Chiesa – per padre Piero – è un volto acqua e sapone, senza trucco, con semplicità. Magari con i capelli un po’ arruffati, perché a Milaico siamo anche un po’ disordinati. Ma sempre con un sorriso nei confronti di chi arriva».
«Io sono arrivato in comunità due anni fa, e come prima cosa mi sono sentito accolto. L’accoglienza radicale non è scontata. Penso che derivi dalla famiglia, ambiente in cui si impara ad accogliersi, marito e moglie, anche quando è difficile, poi i figli. La scopri solo vivendo insieme. È una delle caratteristiche che Gesù ci insegna di più. Secondo me se gli stavi vicino, ti faceva sentire come lui, come amici da sempre. Sapeva come prendere l’altro e farlo sentire bene».
È entusiasta padre Piero: «Una delle sfide di stare insieme laici e religiosi è un po’ mettere insieme le due parti dell’universo: ognuna ha fatto delle scelte e lasciato delle cose. Mettendo insieme l’accoglienza e la voglia di avere una casa aperta si riesce a essere al servizio di molte più persone. C’è chi preferisce parlare con un religioso e chi con un laico. Insieme si riesce a stare meglio e a servire meglio. Ci sono tante esperienze di famiglie a chilometri zero, ma c’è ancora paura, soprattutto da parte di noi preti, di perdere il controllo sulle cose, sulle persone. Perdere il potere. Sono paure prive di fondamento: si pensa e si sogna insieme».

Marco Bello


Dai ribelli della Sierra Leone ai buddhisti delle baraccopoli thailandesi

Un’Angela a Bangkok

«Non sono una scrittrice», esordisce suor Angela. Ma di cose da ?raccontare ne ha davvero tante. «È vedere l’opera di Dio in queste donne emarginate uno dei doni più grandi che Lui mi ha fatto».
Suor Maria Angela Bertelli è missionaria saveriana. Dopo un periodo ad Harlem (New York), viene inviata in Sierra Leone. Qui, nel 1995, è rapita dai ribelli del Ruf (Rivolutionary United Front). Tornata in libertà, le sue superiore la destinano a una missione che non si sarebbe aspettata.
«Da 16 anni sono in Thailandia. Quando dovemmo lasciare a forza la Sierra Leone mi mandarono nel paese asiatico. Avevo 40 anni. Non è il mio posto, pensai, si sono sbagliate. Ma poi piano piano…».
A un certo punto, suor Angela chiede un permesso speciale: vuole lavorare in una baraccopoli di Bangkok, capitale del paese. «Per una serie di vicissitudini avevo bisogno di uno stacco. Ci sono arrivata molto prostrata, da tante cose. Non è mai stata in crisi la vocazione ma forse il modo di fare missione.
Nella baraccopoli non ero né più pulita né più sporca di loro, né migliore né peggiore. Ma da questo fango di periferia sono rinata, non so neanche io perché».

Dio non esiste

Suor Angela racconta la complessità nel portare il Vangelo in una realtà come quella Thai, dove c’è il buddhismo Theravada che non riconosce Dio. «Come fai a parlare di uno che non esiste? Come glielo fai incontrare? Come si fa con un linguaggio che non veicoli il nostro mondo, il modo in cui noi comprendiamo Dio?», sono le domande che si pone la missionaria.
«Non potendo usare questo linguaggio perché è ambiguo, non resta che l’azione, il gesto. Non rimane che te stessa nuda e cruda davanti a questa realtà. Una realtà che è a volte una vergogna». Nella baraccopoli suor Angela, che è pure infermiera, fa riferimento a una comunità del Pime e si mette al servizio.
«Ho cominciato a lavorare nella parrocchia. Aiutavo i bambini a fare la fisioterapia, soprattutto i malati di Aids in fase terminale, che è forse peggiore della lebbra. Non mi era mai capitato. Erano davvero rifiutati quando li portavano in ospedale…».
La gente inizia a identificarla come «colei che cura i malati» e a cercarla per gli interventi più strani.
È il 2005, la Caritas di Brescia vuole far partire un progetto per bambini disabili: «La casa degli angeli», ispirato dalla capitale, Bangkok, che significa «la città degli angeli». Chiedono a suor Angela se vuole occuparsene. «Io ho un permesso di un anno, dissi loro, e mi mancano solo alcuni mesi».
«Ho visto di nuovo l’opera di Dio. La casa si è riempita di bambini disabili. Come li scegli i bimbi? Non li scelgo, vengono loro. Se posso fare qualcosa li accolgo, altrimenti li indirizzo da un’altra parte».

Il Vangelo ?incarnato

Nella cultura in cui si trova Angela, quando un bimbo è disabile si tratta della maledizione per il male che aveva già fatto in una precedente vita, oppure la mamma ha commesso dei peccati e ora li sta pagando. Lui si è già reincarnato tante volte e deve avere la possibilità di annullare il karma negativo. Per questi motivi molto spesso le mamme abbandonano i figli disabili fin da subito, e questo è tollerato a livello sociale. Le mamme che li tengono, spesso sono emarginate e subiscono violenza dai mariti.
«Come si può fare? In fondo Gesù era come un extraterrestre anche in mezzo ai suoi. Chi lo capiva? Il primo miracolo che ha fatto e la prima predica ha diviso la gente in due gruppi: chi era contro e lo voleva far fuori e chi lo osannava. La contraddizione salta sempre fuori quando si vive il Vangelo».
Ma giorno dopo giorno suor Angela arriva a vedere il Vangelo incarnato. «I bimbi non sono mai stati il problema, anzi sono stati Gesù presente in mezzo a noi. Erano la benzina per il mio motore, mi davano energia. Bimbi che prima non sorridevano arrivavano a sorridere. Quando sono venuta via, su 15 di loro, sei non avevano neppure papà e mamma, erano stati abbandonati o erano orfani. Ma le mamme degli altri, pian piano, con Vangelo alla mano, hanno accettato di prendersi cura anche di loro. Questo non sarebbe potuto succedere se non ci fosse stato il Vangelo come lievito. Tutte le mattine appena alzati ci trovavamo insieme un momento per commentare il Vangelo del giorno. Ero uno specchio della vita delle mamme. Ci sono voluti quattro o cinque anni affinché le mamme tirassero fuori i problemi più brutti. Questo incontro faceva loro bene, perché si rasserenavano e faceva prendere loro la vita in un altro modo. Ma ha fatto un bene incredibile anche a me. Il mio “essere madre”, si rispecchiava nel loro essere madri. Come facevano queste donne, in un contesto buddhista, a non aver abbandonato il bimbo in orfanotrofio?».
Dopo averla visitata, le superiore permettono ad Angela di continuare quest’opera, ma non possono darle un aiuto. «A me andava bene così. Sono rimasta alla Casa degli angeli 5 anni».

Allora Dio c’è

«Cosa c’è nel cuore di queste donne, perché non accettano la propria cultura e non abbandonano questi bimbi? Ma allora lo spirito di Dio è già lì. Il Vangelo è già vissuto anche dalle mamme buddhiste, senza che lo sappiano. E quando dico loro che amano Dio, loro ti guardano e ti dicono: cosa facciamo? Quando lavate il culetto del bambino, state lodando Dio.
Dio vi guarda con stima, siete uscite dalle sue mani. Chi vi fa sentire una nullità, incapaci, viene dal demonio, allora non dategli corda.
Vedere l’opera di Dio in queste donne povere, emarginate, è uno dei doni più grandi che Dio mi ha fatto».
Continua suor Angela con una riflessione su essere donna in missione.
«Missione per la donna passa attraverso la convivenza, ovvero vivere il nostro ruolo facendoci piccole, senza autorità: questo ci avvicina molto alle persone che non se lo aspettano.
Dov’è la parte maschile? Le nostre frustrazioni sono di non essere comprese in questo lavoro, usate come bassa manovalanza nella chiesa. Vogliamo servire ma non vogliamo asservirci.
Vale nella famiglia come nella chiesa: Dio li creò maschio e femmina affinché insieme fossero a sua immagine. Se una gamba è zoppa e l’altra è troppo forte, viene male alla schiena, alla testa, ci si sbilancia e si casca. Aiutiamoci, ci deve essere la buona volontà da entrambe le parti».

Ma.Bel.




Taiwan: nell’isola «bella» un parroco africano


Dopo quasi tre anni di paziente studio della lingua e della cultura cinese, padre Mathews Owuor, keniano, e padre Eugenio Boatella, spagnolo, iniziano il loro servizio missionario «in Cina» prendendo la responsabilità della parrocchia del Sacro Cuore nella città di Hsinchu.

Il momento è finalmente arrivato. La nostra comunità sta per compiere tre anni di presenza nella diocesi di Hsinchu, a Taiwan, un tempo conosciuta come isola di Formosa: l’isola «bella». Siamo arrivati in tre, dopo un periodo di discernimento e studio, per capire se questo piccolo paese del Pacifico potesse diventare la terza presenza dei Missionari della Consolata nel continente asiatico.

Il Capitolo generale del 2011 aveva chiesto che l’Istituto, prevalentemente orientato al lavoro di evangelizzazione in Africa e America Meridionale, si aprisse all’Asia con decisione. Gli obiettivi erano due: creare tra i missionari una maggiore consapevolezza e una conoscenza più profonda della missione in Asia e operare una nuova apertura che, dopo la Corea (1988) e la Mongolia (2003), fosse il segno tangibile dell’assunzione di questo impegno da parte dell’Istituto.

Il lavoro di discernimento, portato avanti dalla Direzione generale insieme ai missionari già presenti nel continente, aveva sin da subito suggerito Taiwan come una delle possibili mete; questo per tre ragioni principali:

1) l’importanza, per un Istituto come il nostro, di avere una qualche apertura verso il mondo cinese, in modo da esporsi alla cultura, impararne la lingua, conoscerne le caratteristiche principali;
2) rimanere compatti e non distanziarsi troppo dalle altre presenze, per avere la possibilità di incontrarsi periodicamente;
3) la relativa facilità di accesso e la positiva accoglienza da parte del governo e della Chiesa locale.

La scelta di Hsinchu

Le due visite fatte dal sottoscritto insieme all’allora consigliere generale per l’Asia, padre Ugo Pozzoli, nel luglio 2013 e maggio 2014 avevano offerto nuovi elementi capaci di far pendere definitivamente il piatto della bilancia a favore della scelta di Taiwan. Determinante era stato l’incontro con mons. John Baptist Lee, vescovo della diocesi di Hsinchu dove poi ci siamo diretti e attualmente lavoriamo.

Hsinchu si trova molto vicina alla capitale Taipei. È una cittadina industriale che vive sui proventi dell’industria tessile e di quella della tecnologia. Ospita una grande quantità di migranti provenienti da moltissimi altri paesi del Sud Est asiatico, in particolare Filippine, Vietnam e Thailandia, ma anche da alcuni paesi dell’America Latina. Durante il periodo di studi della lingua cinese ci siamo avvicinati a questo mondo complesso e bisognoso di «consolazione» rappresentato dai lavoratori stranieri.

La chiesa locale ha anche un grande bisogno di clero, fattore che ha contribuito in maniera risolutiva alla scelta di Hsinchu come nostra meta. Il vescovo ci ha ospitati presso l’episcopato per tutto il tempo del nostro inserimento nella realtà di Taiwan, garantendoci accompagnamento e incoraggiamento nella prima, arida fase di apprendistato nella nuova realtà. I primi due anni e mezzo di permanenza sono stati infatti dedicati allo studio intensivo del cinese mandarino, senza la conoscenza del quale si è praticamente bloccati in ogni attività pastorale. Eravamo in due: padre Mathews Odhiambo, keniano, e il sottoscritto, spagnolo. Personalmente avevo già fatto la fatica di imparare un idioma complesso come il coreano e adesso mi trovavo davanti a questa nuova domanda: sarei stato capace di iniziare un lavoro pastorale efficace con la conoscenza del cinese che avevo maturato fino a quel momento? Dove, soprattutto, il vescovo ci avrebbe chiesto di iniziare la nostra missione «sul campo»? Con padre Mathews, sovente ci chiedevamo quale sarebbe potuta essere, al termine dei nostri primi due anni in Taiwan la nostra responsabilità pastorale. Forse una parrocchia in qualche città della diocesi? O in una zona rurale dove vivono i nativi? Saremmo stati capaci, col nostro cinese così limitato, ad affrontare una tale responsabilità?

Esterno della chiesa costruita secondo lo stile di un palazzo tradizionale nella città di Hsinchu.

La parrocchia del Sacro Cuore di Gesù

Alcuni di questi dubbi si sono sciolti quando il vescovo Lee mi ha chiamato per dirmi: «Ho già pensato quale sarà la parrocchia per voi missionari della Consolata. È la parrocchia dei Gesuiti, quella del Sacro Cuore. Loro stanno per consegnare la parrocchia alla diocesi e così ho pensato a voi!». Che sorpresa! Non lo avremmo mai immaginato. La conoscevamo già, perché è una di quelle che avevamo visitato con padre Ugo durante il nostro secondo viaggio di esplorazione prima di fare la scelta di aprire una missione in Taiwan. È una chiesa molto significativa nella diocesi di Hsinchu, e il vescovo l’ha anche designata come santuario per i pellegrinaggi. Eravamo rimasti allora colpiti dalla forma particolare di questa chiesa, unica per la sua bellezza, costruita 45 anni fa ispirandosi all’architettura dei palazzi cinesi.

A gennaio di quest’anno, terminati i nostri primi due anni di studio del mandarino, il vescovo ci ha inviato in questa parrocchia come assistenti fino a oggi, 30 di luglio, giorno in cui ne abbiamo assunto la completa responsabilità. Fino a oggi padre Mathews e io abbiamo vissuto e lavorato insieme con la comunità dei Gesuiti (quattro padri anziani e un fratello), e questo ci ha permesso di conoscere a poco a poco le persone e la vita della comunità.

Il lavoro pastorale e missionario della diocesi di Hsinchu fu assegnato fin dal 1952 alla Compagnia di Gesù. Molti dei padri espulsi dalla Cina comunista vennero qui e cominciarono un gran lavoro missionario che diede come frutto la costruzione delle attuali parrocchie di questa città. E tra queste la nostra, la parrocchia del Sacro Cuore. Ovviamente i Gesuiti godono del rispetto e dell’ammirazione di tutti i fedeli della diocesi per il loro impegno di evangelizzazione. E questo vale anche per l’ultimo parroco, il padre Sun di 93 anni nato nella Cina continentale, e per il suo vice parroco, il padre Arturo, ottantenne colombiano, che hanno guidato questa comunità con grande visione, facendola crescere in 10 anni sia come numero che come qualità di fede. I fedeli sono una novantina e sono attivi in vari gruppi parrocchiali, come la Legio Mariae, la catechesi domenicale dei bambini, il coro, il gruppo di preghiera «Taizé», lo studio della Bibbia e dei documenti del Vaticano II, il gruppo anziani, il gruppo di formazione di evangelizzatori e la catechesi battesimale.

Certo, questo numero di fedeli è veramente piccolo a confronto delle chiese di altri paesi. Ma noi guardiamo a questo piccolo gregge con tanta speranza. Saranno loro che ci aiuteranno a entrare in questa cultura e con loro potremo arrivare a quelli «di fuori», che ancora non conoscono il Vangelo, e così realizzare il primo obiettivo della nostra missione.

Passaggio del testimone

Oggi, 30 luglio, finalmente è stato passato il testimone. Il nostro vescovo Lee ha presieduto la cerimonia di consegna della parrocchia, dai Gesuiti ai missionari della Consolata. Per questa occasione sono venuti dalla Corea il nostro superiore regionale, padre Tamrat Defar, e padre Gian Paolo Lamberto, il quale ci ha anche predicato il ritiro annuale la settimana precedente a questa cerimonia.

È stato un momento emozionante per tutti, specialmente per i padri gesuiti che dopo tanti anni lasciano questa comunità parrocchiale tanto amata. Il provinciale dei Gesuiti ha ricordato ai fedeli che la parrocchia non è qualcosa dei Gesuiti, o del vescovo o della Consolata, ma di Gesù, che dona questa comunità alla Chiesa.

Da oggi padre Mathews è parroco, e si assume la responsabilità di questa comunità. Potete immaginarvi le sfide che ha davanti, tra cui forse la più grande è quella di una lingua che non si finisce mai di imparare, anche se lui già se la cava molto bene. Questa parrocchia per noi non è solamente la prima opportunità di realizzare il nostro servizio pastorale a Taiwan, ma è anche la sede della nostra comunità, formata per ora da quattro padri (Mathews Odhiambo, Gilberto Da Silva, il sottoscritto Eugenio Boatella, e Jasper Kirimi – foto a sinistra). La diocesi ha ristrutturato per noi un secondo piano dell’edificio, trasformando cinque uffici e un salone nella nostra attuale residenza, che diventa così sede e punto di riferimento della nostra presenza nella bella isola di Taiwan.

Oserei quindi dire che questo è un momento storico della nostra presenza in Asia. È un passo importantissimo per la nostra famiglia missionaria, per il suo desiderio di aprirsi con decisione all’Asia. Oggi siamo già con un piede in mezzo al popolo cinese. Che il Padrone della Missione ci assista in questo lungo cammino in cui oggi ci ha fatto fare un gran passo in avanti.

Eugenio Boatella




Cento anni di Consolazione


Cento anni fa i primi missionari della Consolata, guidati da padre Gaudenzio Barlassina, arrivarono in Etiopia mimetizzati da commercianti di macchine da cucire. Si realizzò così il sogno del beato Giuseppe Allamano che aveva fondato i suoi missionari proprio per quel paese. Ma, oltre alla vecchia «Singer», nel cuore portavano un bene più prezioso: la consolazione di Maria Consolata (in apertura: onorata da bambini orfani, in una foto d’epoca evidentemente organizzata per ringraziare i benefattori).

La consolazione era vissuta e praticata nella semplicità di vita quotidiana e si traduceva anche nell’attenzione affettuosa ai più piccoli, come mostrano le due foto qui di seguito che parlano da sole.

 

Arrivati in Etiopia, i primi missionari e missionarie della Consolata si adattarono alla vita del posto, diventando presto, suore comprese, esperti cavallerizzi, visto che il cavallo o il mulo era il mezzo più semplice e diffuso per muoversi su un terreno montuoso e privo di strade.

A conclusione della lunga e faticosa giornata, alla luce della lucerna a petrolio, nella quiete della notte restava il tempo per compilare il diario, scrivere alla famiglia, approfondire la lingua locale…

 




I perdenti 24: Don Jerzy Popieluszko


Don Jerzy (Giorgio) Popieluszko nacque il 14 di settembre 1947 a Okopy, provincia di Bialystok, in Polonia. Dopo gli studi teologici fu ordinato sacerdote dal cardinale Stefan Wyszynsky il 28 maggio 1972 a Varsavia. Destinato alla parrocchia di San Stanislao Kostka, oltre al lavoro parrocchiale, cominciò a svolgere il suo ministero tra gli operai organizzando conferenze e incontri di preghiera aperti a tutti. Durante le giornate visitava gli ammalati e assisteva i poveri e gli emarginati della società polacca. Insieme a don Teofilo Bogucki celebrava delle messe mensili nelle cui omelie sviluppava ampie riflessioni commentando anche la drammatica situazione che in quegli anni viveva la sua amata patria.

Il 19 ottobre 1984 di ritorno da un servizio pastorale venne rapito nei pressi di Torum da tre funzionari del ministero dell’Interno che lo pestarono a sangue e infine lo uccisero. La sua tomba, che oggi si trova accanto alla chiesa di San Stanislao Kostka a Varsavia, è meta continua di pellegrinaggi di fedeli provenienti da tutta la Polonia e dal mondo intero.

Il 14 giugno 1987 il suo conterraneo papa Giovanni Paolo II, durante una visita in Polonia, ha pregato lungamente sulla sua tomba. Il 6 giugno 2010 è stato beatificato da Benedetto XVI.

Caro padre Jerzy, vorrei iniziare la nostra chiacchierata con una domanda un po’ scomoda: è vero che avevi un carattere piuttosto pepato, o sbaglio?

Sì, è vero. A 19 anni mi accusavano di avere un carattere e un atteggiamento «ribelle», nonostante fossi (credo) un buon seminarista. Certo per un prete nella Polonia comunista di quel tempo non era proprio un bel biglietto da visita. Pensa che durante il servizio militare (obbligatorio allora anche per i chierici studenti di teologia) le provarono tutte con lo scopo di «farmi cambiare idea», ma nonostante il continuo lavaggio del cervello a cui fui sottoposto non riuscirono a spegnere la mia vocazione né a piegare la mia ferma volontà di diventare sacerdote.

Fosti ordinato da quella splendida figura dell’Episcopato polacco che fu il cardinale Stefan Wyszy?ski, vero?

Venni ordinato sacerdote nel 1972 dal cardinal Wyszy?ski, il quale per alcuni anni mi incaricò di seguire la pastorale giovanile in diverse parrocchie della diocesi di Varsavia. Il fatto di dedicarmi totalmente ai giovani, di mettermi a totale disposizione soprattutto degli studenti universitari, avrei scoperto più avanti, lasciò una traccia indelebile nel loro animo negli anni della loro formazione e alla fine riuscii anche a stabilire con molti di essi un «filo diretto», che con il passare del tempo avrebbe dato i suoi frutti.

Insomma sia pur restando un prete scomodo e di poche parole, ti riscaldavi e ti trasformavi in testimone cristallino del Vangelo quando venivi a contatto con i giovani. Avevi la rara qualità di stabilire subito con loro un dialogo franco e leale che andava dritto al cuore. 

Per questo mio modo di fare, nel giugno 1980 venni destinato alla parrocchia di san Stanislao Kostka come coordinatore della pastorale giovanile della zona sul cui territorio era impiantata la grande acciaieria «Huta Warszawa».

Don Jerzy Popie?uszko accompagna il vescovo Zbigniew Kraszewski nella visita delle acciaierie di Huta Warszawa, maggio 1981

E fu proprio lì che la tua vita sacerdotale prese una direzione ben precisa.

Il 28 agosto di quell’anno il primate di Polonia cardinal Wyszy?ski, mi chiese di andare dagli operai dell’acciaieria in sciopero che chiedevano un sacerdote per la messa: di colpo mi trovai catapultato nella realtà dei metalmeccanici polacchi e dopo qualche tempo divenni il cappellano del sindacato Solidarno??.

La Provvidenza ti aveva dunque spalancato i vasti orizzonti dell’effervescente mondo operaio della tua terra.

Oltre a svolgere il lavoro parrocchiale mi ritrovai di colpo gomito a gomito con gli operai metalmeccanici, che con le loro richieste non solo salariali ma anche di una maggiore democrazia nel paese, erano l’autentica spina nel fianco del regime comunista polacco.

Quindi che strategia pastorale mettesti in atto per far fronte a questa nuova realtà?~

Incominciai organizzando conferenze, incontri di preghiera, assistendo con la mia presenza le famiglie degli ammalati cronici, facendo visita alle famiglie che avevano un loro congiunto in carcere e a quelle dei perseguitati politici. Insieme al mio parroco iniziai a celebrare mensilmente un’Eucaristia per l’amata patria polacca, che arrivò ad avere oltre un migliaio di persone: operai, intellettuali, artisti e anche gente lontana dalla fede. 

Questo tuo andare «verso le periferie», il diventare «ponte» con tutte le categorie di persone della tua parrocchia non fece venire qualche sospetto alle autorità comuniste nei tuoi confronti?

Certamente, mi tenevano d’occhio, me ne accorsi subito perché di colpo aumentarono le telefonate anonime con frasi minacciose più o meno velate al mio indirizzo, venne persino gettato un ordigno esplosivo nella mia camera da letto, per fortuna mentre non ero in casa.

E gli operai dell’acciaieria «Huta Warszawa» e il sindacato Solidarno??, come reagirono a queste provocazioni del regime nei tuoi confronti?

Ci fu una stupenda risposta corale da parte degli operai che si organizzarono fra loro per offrirmi una scorta composta tutta da metalmeccanici volontari, che mi accompagnasse nei miei vari spostamenti.

Però eri anche spiato e seguito in ogni tuo movimento da persone di ben altro genere.

Ogni volta che mi muovevo da casa ero pedinato e ogni mio discorso, comprese le omelie, veniva registrato. Agenti in borghese si celavano tra quanti ascoltavano le mie prediche. Purtroppo (e questo mi fu causa di una profonda amarezza) tra i miei più fidati collaboratori, un sacerdote e ben quattro laici, sarebbero risultati informatori della polizia!

Eppure non una tua sola parola, e neppure un tuo singolo gesto, veniva preso come un invito alla ribellione alle autorità dello stato o una incitazione alla violenza.

Nelle mie omelie mi limitavo a chiedere per il popolo polacco il rispetto elementare delle libertà civili e, dopo la sua soppressione, il ripristino del sindacato libero Solidarno??. In più affermavo continuamente che, poiché ci era stata tolta la libertà di parola, era più che mai necessario ascoltare la voce del nostro cuore e della nostra coscienza per vivere nella verità dei figli di Dio e non nelle menzogne imposte dal regime comunista.

Con molta astuzia avevi elaborato per le tue omelie un linguaggio che arrivava dritto alle coscienze, secondo il detto evangelico «chi ha orecchie per intendere… intenda!».

Difatti non concludevo mai le «messe per la patria» senza chiedere ai fedeli di pregare «per coloro che sono venuti qui per dovere professionale», mettendo così in forte imbarazzo gli agenti del servizio di sicurezza che erano presenti al solo scopo di registrare le mie omelie.

In ogni caso con il passare del tempo sei stato sottoposto ad angherie di ogni genere…

Visto che la mia predicazione era chiara ed efficace e il mio ascendente andava sempre più aumentando tra la gente, venni arrestato in più riprese, interrogato per ben tredici volte dalla polizia, poi fui sottoposto ad una continua sorveglianza. Il cardinale Józef Glemp per alleviare un poco questa situazione mi propose di «cambiare aria» e di trasferirmi per qualche tempo a Roma. Pur apprezzando la proposta rifiutai, perché dentro di me sentivo che come pastore non potevo abbandonare il mio gregge. Il mio posto era con i miei operai, con le loro famiglie e con la mia gente nella amata e benedetta terra di Polonia.

Altra immagine di don Jerzy Popie?uszko con il vescovo Zbigniew Kraszewski nelleaccaierie di Huta Warszawa, Maggio 1981

Don Jerzy durante la sua ultima celebrazione religiosa del 19 ottobre 1984 invitò a chiedere al Signore di essere liberi dalla paura, dal terrore, ma soprattutto dal desiderio di vendetta: «Dobbiamo vincere il male con il bene e mantenere intatta la nostra dignità di uomini, per questo non possiamo fare uso della violenza». Alcune ore dopo venne sequestrato da tre membri del servizio di sicurezza polacco: lo ritroveranno «incaprettato», il successivo 30 ottobre, nel lago di Wloclawek e scopriranno che gli avevano rotto la mandibola e sfondato il cranio a manganellate.

«Infondeva coraggio ai fedeli, non sobillava rivoluzioni», affermò il Cardinale Glemp, Arcivescovo di Varsavia, riconoscendo che don Jerzy non aveva «mai oltrepassato le sue competenze di sacerdote e neppure ridotto la Chiesa e il suo messaggio di salvezza a strumento di lotta politica». La gente di Polonia lo aveva già capito da un pezzo: sia il mezzo milione di persone che partecipò al suo funerale, sia i venti milioni di pellegrini che in questi anni si sono inginocchiati davanti alla sua tomba. La Chiesa Universale lo ha proclamato Beato nel 2010, alla presenza della sua anziana mamma.

Don Mario Bandera




I Perdenti 23. Il Samurai cristiano Justus Takayama Ukon


Con un profondo senso di fierezza la piccola e vivace comunità cattolica giapponese (ma si può dire dell’intera opinione pubblica della nazione del Sol Levante) ha vissuto lo scorso 7 febbraio nel palazzetto dello sport di Osaka la beatificazione di Giusto Takayama, primo samurai cristiano ad assurgere alla gloria degli altari. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con lui.

Innanzitutto, come devo chiamarti?

Chiamami Justus (Giusto), il nome che mi onoro di portare dal battesimo e che ha caratterizzato tutta la mia esistenza.

Raccontaci in breve la tua vita, origine, casato, stato sociale…

Sono nato con il nome Hikogoro Shigetomo tra il 1552 e il 1553 nel castello di Takayama, nei pressi di Nara, figlio di Takayama Zusho divenuto poi signore del castello di Sawa. Takayama è il nome di famiglia che deriva dal territorio di nostra proprietà feudale. Il mio casato era parte della classe dei nobili, ovvero  dei daimy?, signori di un castello e delle relative proprietà. Essi occupavano un posto importante nella scala sociale del Giappone di quel tempo. Venivano subito dopo gli shogun (signori di più territori ai cui i diversi daimy? erano fedeli alleati mettendo a loro disposizione un esercito e combattenti professionisti: i samurai). Il Giappone non era ancora uno stato unificato e i diversi shogun erano spesso in guerra tra loro per allargare le loro aree di influenza

Come avvenne la tua conversione al cristianesimo?

Mio padre nel 1563 era stato incaricato dal suo shogun di giudicare un missionario gesuita, padre Gaspar Videla, che stava annunciando il Vangelo proprio a Kyoto, la futura città imperiale. Ascoltandolo, rimase così impressionato che volle diventare cristiano, si fece battezzare e prese il nome di Dario. Non solo, mio padre convinse anche altri due giudici che divennero cristiani e, una volta tornato al suo castello accompagnato da un catechista, fece istruire e battezzare molti dei suoi soldati, sua moglie e i suoi figli, tra cui c’ero io, il primogenito. Era verso la fine del 1563 e avevo circa dodici anni. Da quel momento mio padre divenne un protettore dei cristiani.

Ma subito dopo scegliesti la vita militare.

Per me, figlio ed erede di un importante daimy?, era una vocazione naturale quella di diventare un samurai, un guerriero sempre pronto a difendere la famiglia, la legalità e il suo signore, lo shogun.

Hai partecipato a guerre e duelli? C’è qualche avvenimento che ricordi in modo particolare?

I daimy? erano spesso in conflitto tra loro. Sì, ho partecipato a guerre e combattimenti, distinguendomi per il mio valore. L’episodio che ha segnato la mia vita è stato il duello con il figlio di un amico di mio padre nel 1571. Avevo vent’anni. Dopo la morte di suo padre era venuto a contrasto col mio e, secondo la tradizione, dovetti accettare di battermi a duello per risolvere la questione. Fui ferito gravemente, ma uccisi il mio avversario. Nel periodo che seguì questo triste evento, approfittai della forzata convalescenza per riflettere a fondo sulla mia vita, e come fu per sant’Ignazio di Loyola così fu per me. Mi convinsi che pur rimanendo un samurai dovevo mettere la mia abilità nel maneggiare le armi al servizio dei più deboli, degli orfani e delle vedove.

È vero che giungesti anche alla conclusione che non dovevi più usare la forza per risolvere i conflitti?

Nel 1573 la mia famiglia ricevette un nuovo feudo e ne divenni il daimy?, perché mio padre era ormai troppo vecchio. Due anni dopo presi Giusta, una cristiana, in moglie ed ebbi tre figli (due morti ancora bambini) e una figlia. Una famiglia è una buona ragione per vivere in pace. Ma in quei tempi non era facile stare fuori dalle guerre.

Nel 1578 un daimy? nostro vicino si era ribellato al nostro shogun e si era accampato davanti al nostro castello, prendendo in ostaggio mia sorella e mio figlio e minacciando i cristiani. Feci allora un gesto impensabile per uno del mio rango: rinunciai ai miei diritti feudali e mi presentai disarmato nel campo del nostro nemico invitandolo a trovare un’intesa di pace invece di far scorrere inutilmente del sangue e gettare nel lutto e nello sconforto molte famiglie. Presentandomi disarmato all’avversario, rinunciai a ciò che ero e alle mie capacità guerriere, affidandomi completamente a Dio.

In questo modo mettevi in gioco la tua reputazione di samurai e il tuo onore.

È vero, ma cominciavo a dare testimonianza del Vangelo fra la mia gente, lasciando intravedere come fosse possibile vivere fino in fondo il messaggio di amore e di pace che Cristo era venuto a portare nel mondo e che dopo più di millecinquecento anni era finalmente approdato anche nella mia terra.

La questione fu risolta senza spargimento di sangue e il mio shogun mi riconfermò la sua fiducia e il feudo, permettendomi così di continuare a sostenere la nostra comunità cristiana.

Per questo cominciasti anche a impegnarti perché la fede cristiana attecchisse nel tuo paese in forma stabile.

Avevo la piena fiducia del mio shogun di cui ero diventato uno dei generali più importanti. Feci costruire una chiesa nella stessa città imperiale di Kyoto e un seminario ad Azuchi, sul lago Biwa, per la formazione di missionari e catechisti giapponesi. La maggioranza dei seminaristi provenivano dalle famiglie del mio feudo. Tra loro mi piace ricordare Paolo Miki e i suoi compagni che in seguito subirono il martirio nel 1597 (canonizzati poi nel 1862).

La tipica cerimonia giapponese del tè dove si rafforzano le relazioni fra i partecipanti e si approfondiscono i legami di amicizia fu da te utilizzata per fare evangelizzazione.

Per noi bere il tè non è un atto superficiale. È una cerimonia che con il suo rituale ha un fascino intrinseco che aiuta ad approfondire i legami di amicizia e di fraternità. Sulla dimensione orizzontale delle relazioni fra esseri umani, io inserii la dimensione verticale che aiutava a elevarsi a Dio e a vivere in amicizia e comunione in Lui.

Si può dire che l’attività che svolgesti come catechista e missionario fra la tua gente fu molto positiva per la fede cattolica in Giappone?

Grazie agli sforzi che mettemmo in atto in quegli anni, furono battezzate alcune migliaia di persone. La mia posizione di favore con lo shogun, continuata anche nel primo periodo di Toyotomi Hideyoshi, andato al potere nel 1583, aumentava la mia influenza tra i nobili, diversi dei quali accettarono di diventare cristiani. Ma Toyotomi, divenuto sempre più potente fino a riuscire a unificare tutto il Giappone sotto la sua autorità, cominciò a temere i cristiani e nel 1587 emise un editto che ne proibiva la religione nel paese e conteneva l’ordine di espulsione dei missionari stranieri e l’esilio per i catechisti nativi.

È vero che ti fu richiesto di abbandonare la fede cattolica?

Sì certo, ma contrariamente a quanto fecero altri nobili, preferii rinunciare al mio feudo e subire l’esilio piuttosto che abiurare. Dopo un periodo difficile di mendicità, trovai rifugio con la mia famiglia presso un amico nell’isola di Shodoshima. Toyotomi venne a saperlo e mi fece incarcerare. Furono tempi duri, ma nel 1592 volle riconciliarsi con me in una cerimonia pubblica. Non mi fu restituito il mio feudo, ma ero libero di muovermi e ne approfittai per continuare a sostenere le comunità cristiane sparse in varie parti del Giappone.

I governanti del Giappone vedendo la nuova fede conquistare sempre nuovi fedeli diventarono più ostili verso i cristiani e inasprirono la persecuzione.

Nel 1597 ci fu una nuova recrudescenza della persecuzione. A Nagasaki furono martirizzati in 26. Morto improvvisamente Toyotomi, il successore fu peggio di lui. La persecuzione verso i cristiani fu capillare e intensa. Si voleva sradicare quello che loro chiamavano «la mala pianta» o «la religione perversa». Imprigionare, condannare a morte o esiliare i cristiani era diventato un dovere patrio per chi era al potere in Giappone in quel tempo.


Il 14 febbraio del 1614, Justus Takayama e i suoi famigliari furono catturati e trasferiti a Nagasaki in attesa di essere giustiziati insieme ai missionari che erano stati radunati là. Dopo mesi di carcere, l’8 novembre 1614, Justus e 300 dei suoi compagni furono condannati all’esilio e caricati su una giunca diretta a Manila, nelle Filippine. L’espulsione e la lenta navigazione sulla nave carica all’inverosimile fecero ulteriormente progredire Justus nella fede. Proprio per tutte le sofferenze e le difficoltà patite, l’ultimo anno della sua vita fu decisivo per trasformarlo in un «vero martire», come lo venerano i cristiani giapponesi. Durante il periodo in carcere egli aveva nutrito la speranza di condividere la sorte dei martiri di Nagasaki. Era certo che sarebbe stato ucciso e aveva aspettato la fine con grande serenità. La navigazione verso le Filippine e l’esilio a Manila furono il tempo in cui Dio gli fece capire la differenza tra il desiderio attivo del martirio e l’essere esposto passivamente a condizioni che solo lentamente conducono alla morte. Justus comprese che Dio gli chiedeva l’offerta della vita, nella forma del «martirio prolungato» dell’esilio. Pur accolto con tutti gli onori dagli Spagnoli, sfinito dalla prigionia e dalla lunga navigazione morì a Manila il 3 febbraio 1615, quaranta giorni dopo il suo arrivo nelle Filippine.

La Chiesa lo ha elevato alla gloria degli altari riconoscendolo Beato e Martire il 7 febbraio 2017. Ho avuto la gioia di essere presente a quell’avvenimento di grazia con una piccola delegazione della chiesa di Novara.

Don Mario Bandera

La Chiesa in Giappone fa risplendere la luce della fede

La storia della Chiesa in Giappone inizia il 15 agosto 1551 quando san Francesco Saverio insieme ad altri due gesuiti mise piede nel paese. Immediatamente ne diede notizia a sant’Ignazio di Loiola con numerose lettere che iniziarono a far conoscere al continente europeo la complessa realtà del grande paese del Sol Levante. Per alcuni anni i missionari cattolici non furono più di quattro o cinque, il loro campo di apostolato abbastanza limitato, per cui i risultati furono piuttosto scarsi. Nel 1563 si ebbe un primo risultato importante della loro azione missionaria quando a Kyoto alcuni personaggi influenti della società giapponese di quel tempo (tra i quali il padre del samurai Giusto Takayama) si fecero battezzare diventando così il primo nucleo della nascente comunità cattolica del Giappone. Nello stesso anno si ebbe la conversione al cristianesimo di Omura Sumitada, signore del territorio di Kyushu, che portò al battesimo di gran parte dei suoi sudditi. Da quel momento iniziò un periodo intenso di conversioni in cui molti giapponesi chiedevano il battesimo e di entrare a far parte della Chiesa Cattolica.
In quegli anni il generale Hideyoshi portò a compimento l’unificazione del grande arcipelago giapponese composto da più di trecento isole, in un primo momento si mostrò ben disposto verso i missionari (che nel frattempo erano diventati una trentina tra gesuiti e francescani) ma cambiò idea subito dopo, quando una nave spagnola fece naufragio sulle coste del Giappone e il comandante del galeone alle autorità nipponiche intervenute al salvataggio, disse che il Re di Spagna quando voleva annettersi un territorio mandava avanti i missionari a preparare il terreno. Questa frase vera o falsa che fosse, mandò su tutte le furie Hideyoshi che diede ordine di distruggere le chiese, espellere i missionari stranieri e catturare e mettere a morte tutti i cristiani giapponesi ovunque essi fossero. Col passare degli anni le cose migliorarono, basti pensare che nel 1601 la città di Nagasaki contava circa quarantamila abitanti quasi tutti cattolici, ed era divenuta sede episcopale con il gesuita Luigi Cerqueira nominato primo vescovo residenziale del Giappone. Nel frattempo i cristiani avevano raggiunto il bel traguardo di trecentomila battezzati, si erano costruiti diversi collegi e due seminari che dopo pochi anni “sfornarono” i primi sette sacerdoti autoctoni. Ma su questa stupefacente primavera missionaria, si abbatté subito dopo una violenta persecuzione che segnò in modo indelebile la nascente comunità cristiana, venne infatti emesso un editto che proscriveva la religione cristiana da tutto il territorio nipponico; si misero in atto forme violenti e spettacolari di condanne a morte come le crocifissioni lungo le strade di maggior comunicazione. Di fronte a questa inaudita violenza tutti rimanevano meravigliata dalla forza d’animo e dal coraggio con cui i cristiani andavano incontro alla morte. Nel 1623 il Giappone si chiuse completamente al commercio estero isolandosi dal mondo, nessun straniero poteva vivere sul suolo giapponese e tutti i tentativi diplomatici che le potenze europee misero in atto per superare questa situazione andarono a vuoto. Questa situazione durò alcuni secoli fino al 1854 quando l’ammiraglio statunitense Perry, latore di una lettera del presidente degli Stati Uniti per le autorità giapponesi in cui si chiedeva di ampliare i commerci fra i due paesi, forzò il blocco ed approdò sul suolo giapponese. L’iniziativa ebbe successo e si stabilì che nel porto di Nagasaki potessero attraccare navi provenienti da ogni parte del mondo, riservando anche uno spazio per una “cittadella” aperta ai marinai delle diverse nazionalità. Su questo terreno venne edificata una piccola chiesa per il servizio spirituale ai marittimi cristiani, per questa incombenza pastorale venne incaricato il sacerdote francese Jean de la Petit, il quale fu protagonista e testimone di un avvenimento che ha del miracoloso. Infatti, un pomeriggio mentre era in chiesa a pregare venne raggiunto da un gruppo di giapponesi che gli posero tre domande: “Sei sposato? Il tuo capo è a Roma? La Mamma dov’è?”. Al che padre Jean, rispose: sono un prete cattolico per cui devo obbedienza ai miei superiori, primo fra tutti al Papa di Roma, non sono sposato e additando la statua della Madonna che gli era arrivata dalla Francia poche settimane prima disse loro: “ecco Maria, la mamma di Gesù”. In quel momento accadde qualcosa di inaspettato, i visitatori si inginocchiarono e dissero: “il nostro cuore batte come il tuo!”. Padre Jean li abbracciò ad uno ad uno, rendendosi conto che aveva di fronte il resto del piccolo gregge che aveva tramandato la fede cattolica di generazione in generazione, vivendo nelle catacombe per quasi duecentocinquant’anni senza l’assistenza di nessun sacerdote, sostenuti con la Grazia di un unico sacramento, il battesimo!
Oggi il Giappone che conta circa 125 milioni di abitanti, quasi tutti Shintornisti, va fiero della storia della sua Chiesa, costellata di tanti martiri e che pur nell’esiguità del numero attuale: i cristiani sono circa l’uno per cento della popolazione, ovvero un milione e duecentomila e di questi quanti si dichiarano cattolici sono circa ottocentomila persone. L’immagine evangelica del lievito nella pasta non può essere più calzante, l’essere in comunione con questa chiesa che ha tanto sofferto, dovrebbe rendere la nostra chiesa orgogliosa di questa cooperazione. (m.b.)