Nel mese missionario proponiamo una riflessione sulle differenze fra cooperazione e missione, ma anche sullo stimolo reciproco che hanno rappresentato l’una per l’altra nel corso degli ultimi cinquant’anni. Tentiamo di fare il punto sulla situazione attuale.
Tanta parte del mio lavoro come responsabile dell’Ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus è lavoro di traduzione. Non solo e non tanto da una lingua a un’altra, ma soprattutto da un linguaggio a un altro. Si tratta cioè di tradurre nel linguaggio della cooperazione allo sviluppo concetti missionari e, in quanto missionari, profondamente e autenticamente cristiani.
Con una battuta che suscita sorrisi nei missionari più spiritosi e alzate di sopracciglia in quelli più austeri, mi trovo spesso a dire che il mio incarico più delicato è tradurre in «sviluppese» concetti espressi in «pretesco», cercando di far emergere nel modo più chiaro possibile che i nostri missionari fanno cooperazione già da molto prima della fondazione della Onlus (2001) o del riconoscimento come Ong (2007). Solo che, mentre alcuni la fanno conoscendo il «ciclo di progetto» e il suo linguaggio, altri la fanno chiamando le cose con un altro nome.
Così, progetti che arrivano sulla mia scrivania con un titolo come «Promozione della donna», vengono reindirizzati ai donatori con il titolo «Empowerment femminile». «Pace, perdono e riconciliazione» diventa «Gestione e risoluzione del conflitto», «aiuto alle mamme incinte e ai loro bambini», si riformula in «miglioramento della salute materna e infantile».
Le attività sono le stesse, ma le parole rimandano a valori non completamente sovrapponibili.
Fra il linguaggio dello sviluppo e quello della missione c’è, sì, un’ampia intersezione di concetti simili, se non identici benché detti con parole diverse, ma anche un confine di intraducibilità che non può – e nemmeno deve – essere forzato.
Cooperazione: una parola, due significati
Nella maggioranza dei casi, all’orecchio di un missionario cattolico la parola «cooperazione» arriva come l’abbreviazione dell’espressione «cooperazione missionaria fra le Chiese».
Per un operatore della cooperazione fuori dal mondo ecclesiale, viceversa, la stessa parola sottintende l’espressione «cooperazione allo sviluppo» o «cooperazione internazionale».
Il fatto che per un religioso la cooperazione sia prima di tutto missionaria, significa che la vede come un modo per realizzare la missione della Chiesa, che – si legge nel decreto Ad Gentes del Concilio Vaticano II del 1965@ -, a sua volta, è la crescita «nella storia della missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri».
L’annuncio della buona novella è l’evangelizzazione, e la cooperazione missionaria ne è uno degli strumenti, non il fine.
Già nel 1990, in una Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione fra i popoli@, emergeva una preoccupazione: «Spesso», recita la nota, «l’attenzione è assorbita dalle esigenze tecniche dei progetti a scapito dell’ispirazione cristiana che deve essere sostenuta in modo costante». Detto in modo più rozzo ma immediato, la Cei raccomanda ai laici cristiani che vanno in missione di ricordare sempre che scavare un pozzo non è il fine ultimo del loro mandato. Il pozzo è solo lo strumento. Sono stati mandati a scavare un pozzo perché la povertà dei fratelli privi di acqua grida vendetta al cospetto di Dio, e contraddice il messaggio di salvezza e liberazione che suo Figlio ha portato agli uomini a costo della sua stessa vita, un messaggio di cui è nostro dovere di cristiani farci portatori, anche – ma non solo – attraverso le opere concrete.
La stessa nota sottolinea, richiamando l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis del 1987, che «gli insuccessi degli ultimi decenni negli sforzi di accrescere il benessere dei popoli mostrano che lo sviluppo non si può basare su una semplice accumulazione di beni e di servizi». Lo sviluppo autentico, per la Chiesa, è lo sviluppo integrale, «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Populorum progressio), anche della sua sfera spirituale e morale.
Se per i cristiani la cooperazione è uno degli strumenti per continuare la missione del Cristo che parte da Dio e si irradia nella relazione fra le Chiese locali; per il mondo non ecclesiale è, invece, una relazione che parte dalle comunità umane definite a partire dalla loro organizzazione statale, e che ha come obiettivo lo sviluppo, pur con tutte le declinazioni e riformulazioni che il concetto ha attraversato nell’ultimo cinquantennio.
Non potrebbe essere più chiara la direzione divergente delle spinte che muovono queste due idee di cooperazione.
Dalla teoria alla pratica: la cooperazione come punto di incontro
Queste due visioni della cooperazione sono posizioni irriducibili l’una all’altra, dal punto di vista filosofico. Ma questa irriducibilità non ha impedito che si sia trovato un punto di mediazione nel campo del fare, del trovare soluzioni a problemi condivisi.
Per realizzare il raccordo, è stato fondamentale l’incontro fra religiosi innovatori, a volte addirittura rivoluzionari, da un lato, e volontari laici, dall’altro. La parola «laico» in questo caso significa il contrario di quello che potrebbe sembrare a un lettore esterno al mondo ecclesiale: non rimanda al laicismo ma al laicato, il complesso dei fedeli che non appartiene al clero.
Un esercizio interessante per dare la misura di questo incontro è prendere la lista delle Ong riconosciute dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e scavare un po’ nella sezione Chi siamo dei rispettivi siti. Il risultato è abbastanza illuminante: su 217 organizzazioni, una su tre circa ha per fondatore, ispiratore o dirigente, un religioso, e quasi una su cinque è vicina al mondo missionario. Alcune Ong sono nate per sostenere il lavoro di uno specifico missionario, di un Istituto o di una Congregazione, altre sono emanazione di un Centro missionario diocesano, altre sono talmente missionarie di ispirazione che inseriscono la parola anche nel nome.
Gli anni Sessanta e Settanta sono stati una grande incubatrice per queste realtà: erano gli anni della decolonizzazione, delle crisi in Biafra e in Congo, delle campagne di Raoul Follereau; la Chiesa affrontava il cambiamento epocale del Concilio Vaticano II e assisteva al sorgere, in America Latina, della teologia della liberazione.
In Italia erano anni drammatici, di scontri politici e sociali, di forti ineguaglianze, evidenti in particolare nelle grandi città.
La Focsiv, che federa gli organismi italiani di ispirazione cristiana (Ong e non), è nata nel 1972 e ad oggi raggruppa 86 organismi.
Negli anni Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta l’incontro fra missione e cooperazione allo sviluppo era ormai una realtà consolidata e strutturata grazie all’impegno di tanti missionari e al coinvolgimento dei volontari laici cristiani: l’invio di questi ultimi in missione era regolare, i riconoscimenti dello status di Ong da parte del ministero degli Esteri sono cominciati ad arrivare, la disponibilità di fondi – sia pubblici che privati – ha dato un’ulteriore spinta, e le campagne di sensibilizzazione in Italia sono state numerose e molto partecipate.
Anche la nostra rivista, che parla di cooperazione e di sviluppo sin dagli anni Settanta, ha inserito per gran parte del decennio 1980 – 1989 l’argomento fra i temi fissi trattati nelle rubriche. La lettura degli articoli sulla cooperazione di quegli anni è un tuffo più nel futuro che nel passato, tanto raffinata era già l’analisi delle cause delle diseguaglianze e tanto forte era il richiamo, oggi molto di moda, al cambiamento negli stili di vita.
La nota della Cei su laici, missione e cooperazione citata sopra è arrivata nel 1990 proprio per mettere ordine in questa relazione tanto vivace e animata da rischiare di diventare caotica. La Cei infatti, oltre al richiamo a non perdere di vista l’ispirazione cristiana, insisteva sull’importanza di migliorare la preparazione sia spirituale che professionale dei volontari ed esortava a evitare permanenze troppo brevi e mal programmate. La cooperazione missionaria non è una parentesi, un periodo circoscritto nella vita dei cristiani: è una scelta di vita che continua anche al rientro dalle missioni.
Cooperazione e missione oggi
L’ultimo ventennio ha visto un’impennata nella professionalizzazione della cooperazione. È nata la figura del cooperante, sono sorti corsi di studi a livello universitario, la gestione del ciclo di progetto si è fatta più complessa, l’obbligo di trasparenza nella gestione dei fondi è oggi, giustamente, un imperativo.
Quanto questo processo sia legato, in positivo, a un bisogno di affrontare in modo rigoroso una crescente complessità del mondo o, in negativo, agli obiettivi non raggiunti – e agli errori – di cinquant’anni di cooperazione internazionale, è un dibattito aperto.
Il dato di fatto è che le organizzazioni di origine missionaria, come tutte le altre, si sono attrezzate e dotate di personale formato e contribuiscono a quella parte della missione che, per brevità, si può definire sociale.
I fondi dei donatori pubblici non costruiscono chiese né comprano Bibbie per i catechisti (ci sono donatori cattolici per questo); ma certamente possono essere un sostegno fondamentale per scavare un pozzo e dare acqua pulita a un dispensario, formare infermieri, dare assistenza a migranti in fuga da un paese sull’orlo del disastro che arrivano stremati e disperati nel paese confinante.
Da questo punto di vista, il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo continua a godere di ottima salute una volta che ci si accorda su uno spazio comune in cui una può essere funzionale alla realizzazione degli obiettivi dell’altra senza snaturarla. Si può dire, per semplificare, che la missione continua a «ospitare» la cooperazione allo sviluppo nella parte sociale della cooperazione missionaria e che la cooperazione allo sviluppo ricambia «ospitando» i missionari in tutti i suoi settori, a patto che oltre al collarino ecclesiastico indossino lo stetoscopio del medico, il casco antinfortunistico dell’ingegnere, il grembiule del maestro di scuola.
Senza avere una struttura professionalizzata che lo affianchi per gli aspetti tecnici, per il singolo missionario diventa impossibile realizzare interventi complessi come quelli previsti da un progetto di cooperazione allo sviluppo istituzionale. Il progetto, senza un aiuto adeguato, rischia di essere percepito dal missionario come un male necessario, uno strumento di cui non si può fare a meno ma che porta via tempo al resto. E per un missionario, il resto, spesso, è il grosso: «Ecco, Chiara», mi ha detto una volta il padre responsabile di una impresa sociale del settore alimentare gestita dalla Consolata in un paese africano, «con il progetto che ci aiuterai a scrivere potremo finalmente aumentare la produzione; per il resto, con i proventi delle vendite già manteniamo la biblioteca, facciamo i corsi di alfabetizzazione per i nostri lavoratori, contribuiamo all’allevamento di polli delle loro mogli. Poi, a tempo perso, diciamo messa, facciamo le confessioni, prepariamo i catecumeni… Ogni tanto riusciamo anche a stare in silenzio, pregare un po’ e dormire».
In questi anni di lavoro nell’ufficio progetti mi sono trovata spesso a scherzare con i missionari con cui lavoro sul fatto che è una lotta impari cercare di far appassionare a un quadro logico e a un cronogramma qualcuno (il missionario) che ha per logica il Verbo e per orizzonte temporale la vita eterna.
Al di là delle battute, però, probabilmente il punto è proprio questo: il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo è stato ed è proficuo proprio perché sono due attività non completamente sovrapponibili: negli anni, oltre a non capirsi mai del tutto e, a volte, a criticarsi, si sono anche ascoltate e ciascuna ha fatto a se stessa delle domande che non si sarebbe mai fatta se l’altra non l’avesse stimolata. E non smette di sorprendermi quanto le domande che i missionari della Consolata si fanno da oltre un secolo, ispirandosi al loro fondatore, Giuseppe Allamano, – «stiamo capendo i segni dei tempi? Stiamo davvero facendo uomini e non beneficiari, assistiti, bisognosi?» – somiglino alle domande che si fa il mondo dello sviluppo.
Chiara Giovetti
Kenya: Ritorno alle origini della missione
Testo e foto di padre Jaime Carlos Patias |
La visita a Tuthu, in Kenya, la prima storica missione nella vita dei missionari della Consolata, serve da
ispirazione per rinnovare e reinventare lo stile delle loro presenze nel mondo.
In Kenya per una sessione di consiglio, la direzione generale dell’Istituto si reca in visita a Tuthu, provincia di Murang’a, nella regione centrale di quella nazione che è il primo amore dei missionari della Consolata. Questa piccola località, a 140 km da Nairobi, sui monti dell’Aberdare a oltre 2.500 metri, fu la destinazione finale dei primi quattro missionari della Consolata inviati in Africa dal beato Giuseppe Allamano.
I padri Tommaso Gay (31 anni) e Filippo Perlo (29), e i giovani fratelli missionari Luigi Falda (19) e Celeste Lusso (18) arrivarono in Kenya l’8 maggio 1902. A Nairobi, incontrarono Monsignor Allgeyer, superiore dei missionari dello Spirito Santo, che suggerì loro di recarsi tra il popolo kikuyu, in risposta all’invito del chief (capo) Karuri wa Gekure che voleva una scuola nel suo villaggio di Tuthu. Iniziò così l’evangelizzazione cattolica nel cuore del Kenya.
Nel villaggio di Karuri
La strada che porta a Tuthu si snoda tra verdissime piantagioni di tè distese sulle ripide colline che caratterizzano la zona, all’orizzonte le montagne dell’Aberdare che i primi missionari dovettero attraversare a piedi, partendo da Naivasha (dove arrivava la ferrovia) con un viaggio di due giorni accompagnati da portatori (per tutto il materiale necessario a impiantare la missione) e soffrendo le basse temperature di notte (a oltre duemila metri e a fine giugno, il periodo più freddo dell’anno).
Le difficoltà degli inizi, ci fanno comprendere l’insistenza dell’Allamano sull’importanza della preparazione e il motivo per cui voleva i suoi missionari «santi in modo superlativo», zelanti, disposti a sacrificare la vita, perché preferiva la qualità, al numero. «Prima santi, poi missionari», ripeteva spesso, sottolineando la santità come valore prioritario.
L’evangelizzazione e la promozione umana era il metodo proposto dal Fondatore e fu applicato puntualmente dai suoi missionari. Per prima cosa i missionari si dedicarono allo studio della lingua kikuyu e, dopo neppure un anno, iniziarono una piccola scuola in una capanna offerta da Karuri. Visitavano sistematicamente la gente nei villaggi con una particolare attenzione alla cura dei malati e ai bambini orfani o abbandonati. Lungimiranti e intraprendenti, portarono semi nuovi per l’agricoltura e installarono una segheria per le varie costruzioni necessarie per lo sviluppo delle missioni.
Gli errori commessi erano compresi e perdonati dalla gente che vedeva la buona volontà e la retta intenzione dei missionari dediti unicamente al servizio della popolazione che il Signore aveva loro affidato.
Una croce nella foresta
Dal 1903 la missione di Tuthu ebbe la presenza delle Suore Vincenzine (quelle fondate da san Giuseppe Cottolengo), che lavorarono in Kenya a fianco dei missionari della Consolata per più di 20 anni. Una croce (un tempo di legno) con il nome di suor Giordana rimane nella foresta a pochi chilometri da Tuthu, a perenne memoria della loro presenza e del servizio per la gente.
La loro partenza da Tuthu nel 1909 diede un’ulteriore spinta al processo per la fondazione dell’Istituto delle suore missionarie della Consolata avvenuta nel 1910.
Appena arrivati a Tuthu, i missionari celebrarono la prima messa di ringraziamento, il 29 giugno 1902, ai piedi di un mugumo, albero sacro della tradizione kikuyu. Per ricordare tale evento e proprio sul luogo della celebrazione fu poi costruita la cappella della memoria. La struttura in metallo è adornata da pareti in vetro colorato. A fianco, al posto dell’albero, c’è una stele con una grande croce, su cui è scritta la data di arrivo, i nomi dei quattro missionari e il motto: «Annunceranno la mia gloria alle nazioni» (Is 66, 19). Due portici con i misteri del santo Rosario partono da entrambi i lati della cappella e si estendono lungo la piazza come per accogliere in un abbraccio i pellegrini che visitano quel luogo sacro da cui si è irradiato il dono delle fede.
Il battesimo del chief Karuri e della sua ultima moglie (scelta dopo aver onorevolmente sistemato le altre) con i nomi di Giuseppe e Consolata, suggellò un processo di avvicinamento e reciproca fiducia che con il tempo avrebbe trasformato Tuthu in un centro di irradiazione del cristianesimo in altre regioni fino a raggiungere il Nord del Kenya. Da Murang’a i missionari della Consolata raggiunsero Nyeri, Nanyuki, Isiolo, Meru e, più tardi, Embu. Oggi, la vitalità delle diverse comunità cristiane continua a dare un contributo decisivo alla società attraverso l’educazione, i centri sanitari e molte altre attività di carattere sociale ed economico.
Messa di ringraziamento
Il 2 marzo 2019, dopo 117 anni, la direzione generale celebra l’eucaristia nello stesso luogo. È presente anche padre Luigi Brambilla, attuale parroco del santuario della Consolata di Tuthu da cui sono nate ben altre 31 parrocchie nella sola diocesi di Murang’a.
Il superiore generale, padre Stefano Camerlengo, presiede l’eucarestia e nell’omelia ricorda che «questa è una visita storica, in quanto non capita spesso che la direzione generale al completo si rechi in una regione e tanto meno visiti una nostra comunità locale. Soprattutto perché la missione di Tuthu rappresenta l’inizio della nostra missione in terra africana. Non possiamo, come missionari della Consolata dimenticare questo, perché un popolo senza memoria non può vivere – insiste padre Stefano -. Lo stesso vale per un istituto: la memoria storica è garanzia per il futuro».
Durante l’Eucaristia sono richiamate le diverse situazioni di sofferenza e conflitto dove l’istituto è presente come in Venezuela, nella Repubblica Democratica del Congo e in Costa d’Avorio. Con la mente e la preghiera la direzione generale ricorda tutti i missionari che sono passati da Tuthu e tutti quelli che hanno evangelizzato il Kenya tra i popoli nomadi, i contadini delle campagne e gli abitanti delle città.
«Sotto la croce preghiamo per trovare la forza e il coraggio di reinventare lo stile missionario delle nostre comunità, consapevoli che guardando al passato si costruisce il futuro attraverso uno sforzo quotidiano, convinti che il meglio per il nostro istituto e per la missione deve ancora venire», conclude il padre generale.
L’atmosfera di sacralità che circonda i luoghi della memoria di Tuthu, fa sorgere spontaneamente suggestioni ed emozioni. Il consigliere generale per l’Africa, padre Godfrey Msumange, ricorda che «qui siamo nelle nostre radici. Mi piace immaginare 117 anni fa. Mi metto nella pelle dei primi missionari. Certamente erano decisi, coraggiosi, determinati e pieni di zelo missionario. In mezzo a mille sfide, animati dalla fede e amore di Dio, hanno superato tutto. Quanti sacrifici», esclama baba Godfrey. «Proprio per questo mi piace dire che il loro vero nome è passione missionaria, è amore, è coraggio, è dono. Sì, verso il Signore ma soprattutto verso i fratelli e sorelle desiderosi di conoscere il Signore».
Padre Mino Francesco Vaccari, da tanti anni missionario in Kenya, è arrivato dalla missione di Rumuruti per unirsi alla comunità. In un momento di condivisione, durante la preghiera delle lodi, dal profondo della sua esperienza, con emozione, ci confida che «questo posto è molto importante per l’Istituto e la storia della missione in Kenya, quindi dobbiamo tenerlo come il centro di irradiazione della fede. È la prima volta che incontro tutta la direzione generale riunita così. Sembra di essere al tempo degli Apostoli che erano uniti come in una sola famiglia. Sentire la vicinanza della direzione generale è una benedizione per me e per tutti».
Prendendo lo spunto da quella confidenza, padre Stefano aggiunge che «l’esempio dei primi missionari indica chiaramente che non siamo solo delle comunità per la missione, ma comunità in missione. Siamo strumenti dello Spirito, l’unico che muove i cuori ed è capace di trasformare le persone e la storia. Fare missione è ascoltare il cuore della gente… è trasmettere l’esperienza della tenerezza di Dio e della compassione di Gesù soprattutto a chi è debole e ai margini».
Parole sagge che traggono dall’esperienza di Tuthu insegnamenti per l’oggi della missione. Secondo il consigliere generale per l’Europa, padre Antonio Rovelli, «la memoria non deve diventare un semplice contenitore di ricordi ma, come Tuthu ci insegna, deve essere qualcosa che si custodisce a partire dal futuro. Il ricordo dell’eroismo dei primi missionari deve rivitalizzare la vita dei missionari della Consolata oggi e dare un rinnovato impulso al coraggio e all’entusiasmo per l’evangelizzazione e custodire la memoria di Tuthu significa farci tutti responsabili del nostro passato per gettarci in un movimento proteso in avanti verso altre tappe della missione universale». Al termine della visita, il superiore generale esprime un augurio per tutte le nostre comunità sparse nel mondo: «L’esempio dei primi quattro missionari di Tuthu ci sia di stimolo per reinventare l’arte del vivere insieme attraverso un esodo continuo da sé e i seguenti atteggiamenti fondamentali: l’accoglienza, il dialogo, la fraternità e la corresponsabilità in missione».
L’Istituto nato nel 1901 ai piedi della Madonna Consolata a Torino, in Italia, ha più di cento anni, e rimane fedele al carisma ereditato dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Seguendo le orme dei pionieri nella missione di Tuthu, continua a raggiungere nuovi popoli e culture. Prova di questo è l’inizio di una nuova presenza in Madagascar. I missionari dell’Allamano oggi sono 950 dei quali 463 sono africani. Sono presenti in 28 paesi in Africa, America, Asia ed Europa. La Consolata è la protagonista di tutto questo con il suo silenzio, il suo ascolto, la sua donazione.
Jaime Carlos Patias
Consigliere generale per l’America
Tuthu: umile inizio di una grande missione
«E tu Tuthu non sei il più piccolo insignificante villaggio del Kikuyu perché da te è iniziato l’annuncio di salvezza a tante genti…». Sono milioni i cristiani che in Kenya, devono a questo villaggio l’origine della loro fede: dalle zone poco a Nord di Nairobi fino ai confini dell’Etiopia e della Somalia.
Anche un fiume maestoso parte da una sorgente piccola e modesta: è l’inizio, è la nascita.
I cristiani che vengono in visita e in preghiera trovano il luogo ideale: bellezza della natura, tanta pace e silenzio, la bella chiesa, la cappella della memoria, il chiostro del rosario, la grotta di Lourdes, la cappella dell’adorazione. Poi intorno, posti suggestivi nella foresta. Il luogo dove i missionari impiantarono una storica segheria, o il posto del martirio del catechista Aloisio Kamau dove abbiamo eretto una croce a ricordo, meta di pellegrini e preghiere.
Qui storia e geografia si uniscono a fare di Tuthu un posto veramente suggestivo, testimone della grandezza del Fondatore e dei primi missionari.
Non deve succedere che perdiamo questa storia e questa testimonianza. Nelle dovute proporzioni, sarebbe come se Assisi rimanesse senza Francescani! Torino e Tuthu dovrebbero gemellarsi: la radice dell’istituto e la radice delle nostre missioni.
La porta della chiesa
Fu voluta da padre Tommaso Biasizzo che costruì l’attuale chiesa. Si rivolse a fratel Filippo Abbati, autore di altari, porte, tabernacoli intagliati in legno, sparsi in diverse nostre missioni «storiche».
Fratel Filippo chiese a me di disegnargli i «cartoni» con i soggetti suggeriti da padre Biasizzo.
Nel pannello in alto a sinistra sono rappresentati i simboli dei sacrifici kikuyu generalmente offerti sotto un mugumo (un maestoso ficus) considerato albero sacro. Su quello di destra, i simboli della nuova fede: la Croce e la Madonna Consolata.
Nei pannelli di mezzo è rappresentato l’incontro dei missionari, scesi dalle motagne dell’Aberdare, con il capo Karuri wa Gakure. In basso a destra è inciso il logo di quel tempo dei missionari della Consolata e, a sinistra, un simbolo del Kenya.
padre Luigino Brambilla
parroco della parrocchia santuario della Consolata a Tuthu
Sulle vie d’Etiopia con le scarpe da corsa
Testo di Luca Lorusso, foto di Domenico Brusa (AfMC)
Trentanove anni di missione tra Kenya ed Etiopia, raccontati con semplicità e gratitudine. Tante persone incontrate e amate tra le loro povere abitazioni. Tanti ragazzi istruiti nelle scuole della Consolata. Tanti amici musulmani, ortodossi e protestanti. Tanti chilometri fatti di corsa per tenersi in forma e contemplare le meraviglie del creato.
«Ad Addis Abeba, in Etiopia, sono stato 13 anni, dal 1997 al 2010. Mi è piaciuto quel periodo perché vicino a noi c’erano i rifugiati dall’Eritrea. Inizialmente vivevano sotto le tende dell’Unhcr. Dato che sono dovuti rimanere lì diversi anni, alla fine si sono fatti la capanna.
Ho conosciuto diversi bambini di quel campo perché la nostra casa era proprio lì attaccata. Parlavano tigrino. Alcuni bimbi venivano nel nostro campo sportivo a giocare. Qualcuno era cattolico e frequentava la chiesa. La maggioranza era ortodossa. C’era qualche musulmano. Alla fine entravo nel campo senza problemi.
Gli ultimi anni, con alcuni ragazzini di 12-13 anni abbiamo fatto un gruppo per la corsa: venivano a chiamarmi e andavamo a correre. Facevamo tre o quattro chilometri. Era interessante, perché c’era la gente che batteva le mani, ci dava i nomi dei campioni etiopici».
Nato nel 1940 in Valle d’Aosta, fratel Vincenzo Clerici si è laureato in Fisica a Torino e ha insegnato all’Istituto tecnico commerciale di Chieri fino al 1970. Poi la missione l’ha chiamato, e lui ha risposto.
Fratel Vincenzo, come sei arrivato in missione?
«Quando ero giovane, negli anni ‘60, Giovanni XXIII e Paolo VI parlavano dei giovani che lasciavano la loro patria con spirito missionario. Io mi sentivo uno di loro. Desideravo fare il missionario anche se non come religioso. Quando mi è venuta l’idea delle missioni sono andato all’ufficio della diocesi, e lì mi hanno detto: “Chiedi ai missionari della Consolata”. Così nel 1970 sono andato in Kenya grazie a padre Giovanni De Marchi. Dice: “Tu sei insegnante e in Kenya c’è il boom delle scuole. Puoi lavorare come insegnante e vivere in missione”. Così sono andato a Mugoiri, vicino a Marang’a, dove c’erano alcuni padri anziani che anni prima erano stati internati nei campi di concentramento in Sudafrica.
Ho fatto le cosiddette scuole Harambee (termine che in Kenya significa “insieme”; si usa quando è necessario uno sforzo comune per realizzare un obiettivo, ndr). Ho fatto prima un contratto di due anni e poi un altro di tre anni».
Come hai maturato la decisione di diventare fratello?
«Finiti quei cinque anni, ho fatto l’aggregazione all’istituto: ero laico, ma membro dei missionari della Consolata. A quel punto sono andato a insegnare matematica e fisica a Sagana dove c’era una scuola tecnica molto ben attrezzata. Lì ho incontrato i fratelli della Consolata. Erano cinque. Mi sono trovato bene con loro, ed è stato lì che mi è venuta la vocazione. “Perché non essere anche io fratello? Facciamo lo stesso lavoro, stessa vita, stesso orario”.
Il postulato l’ho fatto a Sagana mentre insegnavo. Per il noviziato sono tornato in Italia, un anno alla Certosa di Pesio con padre Peyron alla fine degli anni ‘70, e poi un anno a Bedizzole. Dopo questi due anni sono tornato a Sagana per un altro anno».
Nel 1981, hai ricevuto la nuova destinazione in Etiopia.
«L’Etiopia è un paese molto diverso dal Kenya, la vita è più semplice. Anche lì insegnavo in una scuola tecnica a Meki, e poi provvedevo i materiali per la falegnameria. Caricavo fino a 7 quintali di legna sul camioncino. Facevo 100 km con le ruote davanti che rimanevano quasi sollevate».
Poi sei tornato in Kenya per un altro breve periodo.
«Quando abbiamo ceduto Meki alla diocesi, alla fine del 1988 sono tornato in Kenya per tre anni. C’erano alcuni fratelli kenioti a Langata che si specializzavano in qualche mestiere».
E quando sei tornato in Etiopia, dove sei stato?
«Nel 1992 sono stato ad Addis Abeba e poi ad Asella, nella casa “etsanat masaderia”, la casa dei bambini: c’erano orfani e alcuni handicappati. Era un bel gruppo.
Dopo Asella sono stato a Gambo per tre anni, fino al 1997. Anche lì facevo commissioni varie e mi interessavo un po’ della scuola, anche se non insegnavo più.
Gambo è vicino alla foresta, è un posto isolato. Per cercare libri per la scuola facevo quasi 40 km. Dopo Gambo, sono stato ad Addis Abeba per 13 anni, al nostro seminario di filosofia e nella procura della casa regionale».
È il periodo in cui correvi con i ragazzi del campo dei rifugiati?
«Sì, mi è piaciuto quel periodo».
E dopo Addis Abeba, sei arrivato a Modjo.
«Sì, nel 2010. Modjo è una cittadina di 50mila abitanti dove si respira aria di campagna. Nella strada davanti alla missione vediamo passare quasi solo calessi tirati da cavalli. Sono un po’ sgangherati, ma quelli sono i taxi.
Le case sono ancora tradizionali: casette a un solo piano con un pezzetto di terreno davanti.
Vicino a Modjo c’è la “città dei container” che arrivano da Gibuti. C’è la dogana, quindi ci sono centinaia di container fermi. Di lì passa l’autostrada che va da Addis a Nazareth (Adama in Oromo). Una grossa città a 20 km da noi».
Com’è la comunità di Modjo?
«I cattolici sono pochi: alcune famiglie. Poi ci sono ragazzini adolescenti ortodossi che ci frequentano. La chiesa è una bella struttura costruita da padre Zordan. Il cardinale ha voluto che diventasse anche un santuario dedicato alla Consolata.
Quando sono arrivato a Modjo c’era ancora il seminario minore. L’ultimo anno di secondaria. Lì facevo un po’ di ripetizioni la sera. Adesso il seminario è stato riaperto dopo un periodo di chiusura. Io faccio l’economo della missione. Dopo una vita, non lavoro più con le scuole».
Com’è l’economia della città?
«Fuori dalla città ci sono cinque fabbriche di pellami, di solito gestite da indiani o pachistani. Ci lavorano molti giovani. Altra attività molto diffusa è il commercio: il mercato, i negozietti. Altro impiego è quello della dogana. Poi a Modjo ci sono almeno cinque banche e molti distributori di diesel e benzina perché la città è un luogo di passaggio, sia da Gibuti che dal Sud le strade s’incrociano a Modjo per arrivare ad Addis Abeba.
Fuori dalla città ci sono villaggi tipici tradizionali nei quali le persone lavorano la terra. Diversi giovani di Modjo lavorano ad Addis Abeba o a Nazareth e tornano nei week end».
Come si presenta il territorio?
«Modjo è in una zona semiarida. La città è piatta, si trova nella Rift Valley. Attorno ci sono colline sulle quali viene coltivato grano e teff, un cereale locale.
Noi lavoriamo con la gente della città. Ma abbiamo tre cappelle fuori. Una a 4 km in zona rurale, una in una piccola cittadina a 15 km e la terza è a 11 km sulle colline. In quest’ultima operano tre famiglie. In due di queste cappelle c’erano due asili informali. Uno gestito da una suora, l’altro da una maestra. Ma il governo centrale ha chiesto di renderli degli asili formali, di tre anni, con il personale. Quindi l’attività è stata ridotta a semplice accoglienza il sabato e la domenica».
In Etiopia, su 108 milioni di abitanti, i cattolici sono pochi: intorno agli 800mila. Quasi tutti gli altri sono musulmani (37 milioni), ortodossi (47 milioni) o protestanti (20 milioni).
«Penso che nella nostra parrocchia siano elencate un centinaio di persone sul registro dei battesimi. Ci sono una ventina di adolescenti. Poi qualche famiglia con i bambini piccoli. La domenica ci sono una cinquantina di persone a messa. Le celebrazioni qui sono fatte con il rito orientale, perché Modjo è sotto la diocesi di Addis Abeba, mentre pochi chilometri più in là, a Meki, c’è il rito latino».
Come sono le relazioni con i musulmani?
«Le persone non hanno nessun problema. La convivenza è buona. I musulmani sono gentili: c’è un negoziante in città che mi fa sempre lo sconto. Vicino alla missione vive una famiglia della quale sono molto amico. La mamma è originaria di Gambo, ha tre bambini ed è moglie di un musulmano. Qualcuno della sua famiglia è cristiano. Qualche volta vado a prendere il caffè da loro. Quello tradizionale ci vuole un’ora per prepararlo: prendono i grani, li lavano, li abbrustoliscono, poi li pestano nel mortaio e intanto fanno bollire l’acqua. Due o tre amiche della signora, che incontro quando vado da lei, hanno tutte la croce appesa al collo. Sono ortodosse e non hanno problemi a indossarla. Stanno assieme, chiacchierano, si aiutano».
Che lingua si parla a Modjo?
«In Etiopia si parlano ottanta lingue. In città da noi sanno tutti l’amarico, però molti sono Oromo. In campagna la maggioranza sono Oromo. Gli Amara sono ortodossi. Gli Oromo dell’Ovest, invece, sono per lo più protestanti. Mentre gli Oromo dell’Est sono per la gran parte musulmani.
C’è un problema politico che riguarda gli Oromo, ci sono quelli che vogliono l’indipendenza da Addis Abeba, quelli che vedono male il programma di sviluppo del governo che fa molti contratti con la Cina».
Si sente il problema dell’emigrazione in Etiopia?
«In Etiopia i giovani hanno come obiettivo di andare all’estero, negli Usa specialmente, anche perché durante il marxismo gli Usa facilitavano gli esuli. Oggi molti hanno parenti negli Usa o in Canada.
Altri emigrano nella penisola arabica e in Libano. In particolare ragazze che vanno a fare le collaboratrici domestiche.
C’è un’organizzazione che procura l’alloggio e paga il viaggio. Le donne restituiscono l’anticipo ricevuto con i primi stipendi presi nel paese. Conosco una ragazza, mamma di due bambini, che è di Gambo e ora sta a Beirut. Lavora in una famiglia cristiana. I bambini e il marito sono a Gambo, e lei manda aiuti».
Qual è l’aspetto che ti piace di più del popolo Etiope?
«A Modjo ero andato a una festa patronale di una chiesa ortodossa in una zona di campagna. La chiesa è bella, su una collina. Cento metri più in basso ci sono grotte scavate nel tufo dove vivono dei monaci. A quella festa vanno migliaia di persone.
Quando sono arrivato a sei chilometri di distanza, ho iniziato a vedere la strada piena di auto parcheggiate. Allora ho lasciato lì l’auto e ho fatto un’ora e mezza di strada a piedi. C’era con me un ragazzino, sua cugina di nome Marta e un’altra ragazzina, Ghennet. Avevano 12 anni. Quando siamo arrivati alle grotte dei monaci, lì c’erano dei ragazzi che raccoglievano la sabbia perché consideravano quella come terra benedetta.
Al ritorno, i ragazzi erano stanchi e io non ricordavo neppure bene dove fosse l’auto. A un certo punto il ragazzo è andato avanti a cercare acqua perché sentiva sete. Dopo un altro po’, a causa della folla, ho perso di vista Marta. Siamo rimasti solo io e Ghennet. Quando siamo arrivati alla macchina, Marta non c’era. Ero in ansia per lei. Dopo un po’, una coppia si è avvicinata e mi ha detto: “La ragazzina sta arrivando”. Io non li conoscevo. Non erano neppure di Modjo. Però mi hanno visto lì ad aspettare e hanno capito.
Ecco. Gli etiopici sono così, sono gentili. È gente aperta».
C’è un brano biblico che ti accompagna in modo particolare nella tua missione?
«Mi piacciono i Salmi. In particolare il 63:
“O Dio, tu sei il mio Dio, / all’aurora ti cerco, / di te ha sete l’anima mia, / a te anela la mia carne, / come terra deserta, / arida, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho cercato, / per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita, / le mie labbra diranno la tua lode.
Così ti benedirò finché io viva, / nel tuo nome alzerò le mie mani”».
Luca Lorusso
Una visita ai monaci ortodossi
«Le chiese ortodosse si trovano spesso su cocuzzoli di montagna, con piccoli villaggi nelle vicinanze. La chiesa di Tekle Haymanot, 60 km a Nord Est della capitale, si trova su un piccolo ripiano a metà di una valle molto scoscesa, nel distretto di Bereh. Il posto è legato alla storia della Chiesa etiopica perché il santo Tekle Haymanot (nome che significa Pianta della fede) è stato riformatore del monachesimo nel XIII secolo e fondatore del monastero Debre Libanos.
Attorno alla chiesa si estendono campi sassosi dove si coltiva il grano. Ci sono un piccolo villaggio, una sorgente di acqua cui si attribuiscono proprietà curative, e un gruppo di capanne abitate dagli studenti della chiesa (quelli che noi chiameremmo “seminaristi”), qui soprannominati kollò tamari, da tamari, studente, e kollò, grano abbrustolito, perché hanno la tradizione di elemosinare nelle case il cereale.
A pochi minuti dal villaggio sulla ripida costa della montagna, vivono, in alcune grotte, dei monaci eremiti. C’è anche una piccola chiesa rupestre, scavata a mano nel tufo della montagna e dedicata a San Michele.
Facemmo una visita a quella chiesa il giorno della festa di Tekle Haymanot. Vedemmo un giovane monaco di pochissime parole. Non rispose subito alla nostra richiesta di visitare le grotte, ma fece capire che era possibile. Prima di tutto bisognava togliersi le scarpe, come usano i fedeli nei luoghi sacri. Poi, con mia sorpresa, il monaco ci condusse ai piedi della ripida scarpata che avevamo appena salito, e ci portò all’imbocco di una grotta scavata a mano. Feci presente che non avevamo niente per illuminare il tunnel, ma rispose che non era necessario. Ci fece prendere per mano come a formare una catena e iniziò a salire nel buio più completo.
Il cunicolo aveva a tratti delle impennate brusche, dove avevi l’impressione di cadere nel vuoto. Dopo un tempo che parve molto più lungo del reale arrivammo ad alcuni scalini scavati nella roccia. Qui il monaco ci fece fermare e andò ad aprire una porta. Finalmente vedemmo di nuovo la luce del giorno e ci accorgemmo di essere arrivati a pochi metri dalla chiesa di San Michele.
In seguito un altro monaco mi spiegò che il cunicolo rappresenta l’inferno (Sheol). Quando esci e ti trovi nella luce, sei come alla porta del Paradiso».
Essere auguri, non fare gli auguri
Testo e foto di Stefano Camerlengo
Tornato in Kenya in occasione della Settimana Santa per partecipare all’assemblea dei missionari subito dopo Pasqua, ho avuto la gioia di un’esperienza bellissima nel Nord del paese, nella diocesi di Maralal, andando a celebrare il triduo pasquale nella prima missione del territorio, Baragoi, fondata nel 1952.
Giovedì Santo
Il Giovedì Santo insieme a Patrick, l’autista della comunità della casa regionale di Nairobi, iniziamo il viaggio: Nairobi – Baragoi, 640 km. Un viaggio dal sapore antico, di missione vera, con un pezzo della strada asfaltata, opera dei soliti cinesi, un’altra parte in cantiere e l’ultimo tratto ancora da sistemare. Un viaggio impegnativo. Prima tappa alla missione di Rumuruti e incontro con padre Mino Vaccari, un missionario quasi novantenne che rimane sempre presente nonostante le burrasche della vita.
Terminata la colazione e il dialogo con il missionario, via per la strada verso Maralal dove siamo attesi alla casa del vescovo, mons. Virgilio Pante. Con lui consumiamo un fraterno pasto e dopo i saluti via di nuovo verso Baragoi, ballando al suon di musica cadenzata dalla strada piena di pietre e corrugazioni varie. Finalmente alle 16.30 arriviamo alla missione di Baragoi, una delle presenze dell’Imc più antiche.
Siamo accolti dalla musica proveniente dalla chiesa strapiena di gente che innalza canti di gloria al Signore nel ricordo del giorno dell’Eucarestia. Una Messa semplice, senza troppe cose, ma sentita e partecipata e soprattutto cantata da tutti. Certamente devo riconoscere l’emozione provata all’intenso ricordo dei bei momenti vissuti in brousse con la gente nella foresta del Congo (allora Zaire), quando più giovane vivevo in una missione di frontiera.
Venerdì Santo
La giornata nella cittadina inizia con una visita a un panificio, creato dai nostri missionari e affidato a due giovani intraprendenti. Una casa dignitosa costruita per accompagnare il progetto. Un pane viene venduto a 25 scellini (circa 25 centesimi al chilo). Non è molto, anzi è quasi niente, ma è prezioso perché qui da tempo non piove, la fame è già presente e la crisi si avvicina. Terminata la visita andiamo a benedire un grande gruppo di persone, per lo più donne e bambini, che sfidando il calore e il sole proibitivi s’incamminano verso una collina simbolica recitando il Rosario e tornano facendo la Via Crucis, il tutto percorrendo diversi km, precisamente 7 di andata e 7 di ritorno, con un clima che definire solo caldo è un gioco, infatti solo ieri c’erano circa 32 gradi all’interno della casa e 43 fuori.
La camminata ha voluto essere una testimonianza della fede, una manifestazione della preghiera al Dio della vita che per amore muore in croce.
Personalmente non oso prendere parte alla camminata, segno della vecchiaia che arriva, a causa del caldo eccessivo e soprattutto del sole che non ha pietà, ma benedico con tutte le mie forze questa gente che nonostante tutto, sfidando il caldo eccessivo, la mancanza di pioggia che attanaglia la regione da mesi, vuole liberamente e con calma, camminare insieme la Via Crucis di Gesù per rendergli gloria e lasciarsi riempire dalla sua grazia.
Anche se non sono andato con loro mi sento parte di questa gente semplice che, già da ieri sera, al mio arrivo mi ha adottato come uno di loro e con me vogliono vivere il mistero pasquale.
Verso le ore 13.30 tutto il gruppo della camminata ritorna alla chiesa parrocchiale. Una breve pausa per rifocillarsi, bere dell’acqua e riposare un pochino e poi inizia la seconda celebrazione della giornata, quella della liturgia della croce. La gente aumenta a vista d’occhio e alla fine la chiesa si trova totalmente piena. La cerimonia si svolge con attenzione e semplicità, senza troppi fronzoli guardando all’essenziale dello spirito della liturgia del Venerdì Santo che non vuole partole inutili e che concentra tutto il messaggio attorno ai tre segni: la Parola, la Croce, la Comunione.
Sabato Santo
Inizia con le confessioni, dalle 9.00 circa fino alle 12.00. Una fila ininterrotta di persone, grandi e piccole, con ordine e rispetto, molto ben preparati si avvicinano per la confessione individuale e la relativa penitenza proprio per prepararsi bene alla celebrazione pasquale.
Nel pomeriggio si parte per iniziare le celebrazioni pasquali in quasi tutte le cappelle sparse sul territorio. Con padre Matthew Kirema, il parroco, affrontiamo la pista più difficile e problematica, mentre padre Roberto Sibilia va in altri villaggi. Dopo 6 o 7 km siamo costretti a fermarci perché la Land Rover, di soli 22 anni di vita, inizia a fare capricci e ci obbliga ad una sosta forzata. Fortunatamente siamo in zona dove c’è connessione e possiamo chiamare un giovane meccanico che con una rapidità sorprendente ci raggiunge e in pochi minuti ripara il guasto.
Si riparte e vengo lasciato sotto un albero nel villaggio di Soit Ngiro. Un villaggio particolare di Samburu, incollato sulla collina, vicino al letto di un fiume che da tempo non conosce acqua. In questo villaggio vivono più o meno 30/40 famiglie, isolate dal resto del mondo.
Arriviamo e l’accoglienza è subito una festa, soprattutto da parte dei bambini e delle donne; gli uomini rimangono in disparte sotto un albero a dialogare tra loro, come se niente fosse. Anche la mia cappella è un albero molto grande e ombroso che lascia passare una dolce arietta che rinfresca l’ambiente, e ce n’è bisogno. La partecipazione è sentita e attenta, le mamme devono seguire la messa e le parole del padre (in kiswahili, con cui avevo già dimestichezza in Congo), e allo stesso tempo devono accudire il bambino che portano in braccio e quello più grande, che gli scorrazza attorno. È proprio vero qui è tutto in mano alle donne. Povera Africa senza le donne.
In una parte del villaggio scorgo un movimento particolare, curiosamente vado a guardare e trovo una festa per la casa nuova che una famiglia sta preparando. Alcune donne stanno conficcando i pali per la manyatta, altre trasportano materiale, gli uomini all’ombra stanno guardando dopo aver terminato la festa di benedizione per la nuova casa e bevuto alla faccia… del malocchio, ma anche delle donne! Terminata la messa e la visita al villaggio con il catechista, una sua bambina, un giovane e una mamma anziana, iniziamo a piedi la via del rientro per arrivare alla via principale e ritrovarci con padre Matthew che dopo averci lasciato ha proseguito per altri due villaggi più lontani. Percorriamo il tratto di diversi chilometri e alla fine stanchi ma contenti ci ritroviamo con il padre per fare ritorno alla missione già a notte avanzata.
Appena arrivato, via di corsa alla cappella Huruma, situata alla periferia Sud della cittadina di Baragoi, in una zona abitata prevalentemente da Turkana, dove un bel gruppo di cristiani ci sta aspettando per la veglia pasquale. Termino stremato, senza forza né voce, ma contento di aver potuto servire il Signore in questo angolo dimenticato di mondo, dove non solo il calore è un problema, ma soprattutto la mancanza d’acqua. Sono ormai le 23.30 passate, mi siedo in casa, bevo quasi un litro d’acqua contento di aver passato una Pasqua speciale, con della gente semplice e senza troppe pretese, dove tutto è dono da accogliere e da celebrare, anche la fatica di vivere.
Domenica di Pasqua
Arriviamo così alla domenica di Pasqua. Di primo mattino arriva il mio accompagnatore per raggiungere due centri, relativamente vicini alla missione, precisamente Logetei e Nachola.
La prima comunità è quella di Nachola, gente buona e accogliente. Un centro situato su una collinetta da dove si può dominare tutta la valle. Una valle dai contorni infiniti, con una bellezza surreale perché ti dà l’impressione di essere fuori dal mondo, proiettato quasi sulla luna. La cappella è bella e bene areata, uno spettacolo poter celebrare animati dai canti e dalla partecipazione attiva della gente. Terminiamo cantando e lodando Iddio per questa nuova Pasqua che ci fa vivere.
A Logetei, la cappella è più antica e caldissima. Qui ci sono una quarantina di adulti e giovani che sono pronti per ricevere il battesimo e la cresima. Siamo già arrivati alle ore 11.30 circa, il sole è forte su nel cielo, e la cerimonia inizia con canti e festa grande. I giovani sfilano vicino all’altare esibendo i loro nomi da cristiani, consapevoli del grande passo che stanno facendo. Terminiamo la celebrazione e stanchi e contenti ci avviamo verso casa, con la gioia dell’operaio che anche oggi qualche cosa ha potuto realizzare per la gloria del Suo nome.
Qualche riflessione
Pensando alla Pasqua e alla tradizione degli auguri, vivendo quest’anno il triduo con queste persone semplici ho pensato che poteva essere l’occasione per tentare di «essere auguri» più che pensare di «fare gli auguri»!
Anziché fare gli auguri, essere auguri, farsi augurio per gli altri, non chiedendo cosa mi possono donare, ma impegnandosi a portare qualcosa per rendere la Pasqua e la vita più bella, più umana. Come insegna il Nuovo Testamento, per il quale la felicità non è un’utopia, ma una possibilità concreta alla portata di tutti. Infatti, la felicità per Gesù, non consiste in quel che si riceve, ma in quel che si è capaci di donare: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Se la felicità dipende da quel che si riceve, si rischia di consumare l’esistenza sempre amareggiati, perché gli altri non hanno saputo rispondere ai bisogni, ai desideri per i quali si è atteso invano una risposta. Ma se la felicità consiste invece in quel che si dona, questa può essere possibile, immediata e piena; anzi, più si dà e più si è felici, perché il Padre non si lascia vincere in generosità, e regala vita a chi dona amore: «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più» (Mc 4,24; Lc 12,31).
Essere un augurio per gli altri significa fare della generosità il distintivo che rende riconoscibili. Come il Cristo risuscitato, che ogni volta che si manifesta ai suoi discepoli dice loro: «Pace a voi» (Gv 20, 19.21.26). Il suo non è un augurio, ma un dono. La pace può essere un dono solo quando è espressione di tutta la vita della persona, altrimenti è solo un suono. Chi dona pace non solo comunica gioia, ma arricchisce la propria: «Perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,4). La pace, l’ebraico shalòm, nel mondo semitico ha un significato molto più ampio di quello conosciuto in Occidente, infatti include tutto quel che di buono e bello rende appagata la persona, dalla pienezza di salute all’amore, dal lavoro al benessere: la felicità. Per questo in quella cultura, come in quella africana in genere, il saluto augurale, non è mai espresso solo verbalmente, ma sempre accompagnato da un dono, che può essere un dolce, una bevanda, un frutto, per contribuire alla felicità e alla gioia di chi riceve il saluto. Per questo quando Gesù dona pace, regala felicità, e quel che aveva promesso non rimane un augurio, ma diventa realtà, affinché «la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11; 16,24). I Vangeli invitano a essere portatori di questa pace: «In qualunque casa entriate, prima di tutto dite: “Pace a questa casa!”», (Lc 10,5) affinché questa raggiunga tutti gli uomini.
Ringrazio di cuore e saluto fraternamente padre Matthew e padre Roberto, i due confratelli che da tempo sono auguri per questa gente, in mezzo a questo popolo.
Coraggio e avanti in Domino!
Stefano Camerlengo
superiore generale IMC
Kenya: qualche informazione per capire
l Kenya è situato nella regione centrorientale dell’Africa, a cavallo dell’equatore. Ricopre una superficie di 582.546 km2 e ha oggi una popolazione di 52.051.295 abitanti (stima al 5/5/2019 del Population Clock). È caratterizzato da 44 gruppi etnico-linguistici tra cui i Kikuyu e i Luo (le due etnie più numerose), gli Akamba, i Meru, i Masai, i Samburu, i Turkana, i Borana, ecc. comprese anche le due «tribù» dei Wazungu (cioè quelli che noi diciamo i «Bianchi») e degli Asiatici. Le lingue ufficiali sono lo swahili e l’inglese.
Per quanto riguarda le religioni: i keniani sono per il 47% cristiani protestanti, per il 25% cattolici, per il 12% di chiese indipendenti africane, per l’11% musulmani e per il 5% sono tradizionali, atei o di altre religioni (dal censimento del 2009).
Il Kenya è un paese indipendente dal 1963 ed è una repubblica presidenziale la cui capitale è Nairobi.
La moneta è lo scellino e i prodotti principali sono il caffè, il tè, il granoturco, fiori e ortaggi per esportazione e il bestiame.
Le malattie più diffuse sono la malaria, l’amebiasi, la bilharziosi, la tubercolosi e, in questi ultimi anni, l’Aids. La mortalità infantile è passata da 119 su 1000 nati vivi nel 1960 a 37 su 1000 nel 2017 (in Italia 3 su 1000); la vita media si aggira intorno ai 64 anni (fine 2017 – Italia 82) e l’analfabetismo (sopra i 15 anni) è circa del 22% nel 2015.
Dalla diocesi di Marsabit alla nascita della diocesi di Maralal
La diocesi di Marsabit, alla sua creazione nel 1964, si estendeva nel Nord del Kenya dal Lago Turkana fin quasi alla Somalia, in quello che durante la colonia era il territorio (inaccessibile ai missionari) a Nord delle diocesi di Nyeri e del Meru e abitata dalle popolazioni Samburu, Turkana, Rendille, El Molo, Gabbra, Borana e Somali. Aveva una superficie di circa 100.000 km2 con una popolazione allora stimata a poco più di 170mila persone.
L’evangelizzazione del territorio ha avuto inizio nel 1952 ad opera dei missionari della Consolata con l’apertura della missione di Baragoi. Nel 1964 è stata creata la diocesi di Marsabit formata dall’omonimo distretto e da quello Samburu (ora i distretti si chiamano county, contea). Esistevano allora 12 parrocchie/missioni in tutto per una popolazione di 180mila persone e 615 cattolici (dati del 1969). Il primo vescovo è stato mons. Carlo Cavallera, trasferito da Nyeri. Nel 1981 gli è succeduto un altro missionario della Consolata, mons. Ambrogio Ravasi, tutt’ora vivente e ritirato nel santuario mariano di Marsabit.
Nel giugno 2001 la grande diocesi è stata divisa in due: il distretto di Marsabit (78mila km2, 175mila abitanti, 20mila cattolici e 10 parrocchie/missioni) è rimasto con il vescovo Ravasi ed è stata creata la diocesi di Maralal (21mila km2, 144mila abitanti, 24mila cattolici e 12 parrocchie/missioni) nel distretto Samburu con il nuovo vescovo mons. Virgilio Pante.
I dati più recenti delle due diocesi
(fonte Annuario pontificio 2017)
Marsabit: il vescovo Ravasi ha dato le dimissioni nel 2006 per raggiunti limiti di età e mons. Peter Kihara, missionario della Consolata keniano, nel novembre dello stesso anno è stato installato come nuovo vescovo, trasferito dalla diocesi di Murang’a. Ci sono 386mila abitanti, 45.579 cattolici, 13 missioni, 20 preti locali e 13 missionari. La diocesi è caratterizzata da una popolazione a maggioranza islamica.
Maralal: 255mila abitanti, 76.797 cattolici, 14 missioni, 19 preti diocesani e 13 missionari. Nativo della diocesi è il vice superiore generale dei missionari della Consolata, padre James Lengarin.
Situazione attuale
Dalla metà degli anni ‘90 sia il distretto del Marsabit che quello Samburu, soprattutto, sono diventate aree piuttosto pericolose a causa dell’acuirsi delle tradizionali razzie di bestiame tra i vari gruppi etnici. La presenza dei guerriglieri/predoni shifta nel Marsabit, quella dei predoni ngorokos nel Samburu e l’interesse di trafficanti di bestiame sia verso Nairobi che verso i paesi della penisola arabica, ha aggravato la situazione. Per questo il governo ha concesso ai capi dei villaggi di tenere armi leggere e, da quel momento, molta gente tiene un fucile nella capanna.
Nel 1996, durante la campagna elettorale nel Samburu, alcuni candidati al Parlamento hanno alimentato le rivalità tra le varie etnie, sfociate poi in gravi razzie e scontri a stento domati dall’esercito, svantaggiato sui locali che conoscono meglio il territorio. Ci sono stati decine di morti e molte persone sono state costrette a raccogliersi in grandi campi di rifugiati, soprattutto attorno a Baragoi, o a fuggire nella periferia di Maralal. La situazione ora sembra calma, anche se la presenza diffusa di armi leggere continua a favorire il banditismo.
In questi ultimi anni si è avuto anche un crescendo delle tensioni etniche tra Turkana e Samburu e anche con i Pokot, che vivono nella Rift Valley, ai confini Sud del Samburu. Queste tensioni hanno avuto anche gravi ripercussioni nel vicino Laikipia dove c’è la missione di Rumuruti. Tutto questo ha ovviamente aumentato la povertà e l’incertezza per il futuro.
Le due contee (Marsabit e Samburu), inoltre, hanno ampie zone desertiche e sono periodicamente colpite da gravi crisi di siccità. Anche ora sono già passate due stagioni delle piogge (ottobre-novembre e marzo-aprile) senza che sia piovuto a sufficienza e nella sola contea Samburu sono oltre 90mila le persone a grave rischio di fame.
È anche evidente il problema dei giovani, che costituiscono oltre il 50 per cento della popolazione. Finite le scuole elementari e medie (primaries), non sanno cosa fare. Le scuole secondarie sono concentrate nei centri principali (Maralal, Baragoi, Wamba) e quindi distanti dai villaggi dove gran parte della popolazione vive. Sono tutte residenziali e costose (trasporto, uniformi, libri, materiale didattico, effetti personali e tasse scolastiche richiedono dai 600 agli oltre 1.000 euro all’anno) e, quindi, per molti continuare gli studi è un miraggio. E finita la scuola è difficile trovare un lavoro nella regione.
Molti stanno vivendo anche un periodo di confusione a causa del pullulare di sètte religiose. I giovani, quindi, rappresentano la grande sfida della società keniana e di conseguenza delle parrocchie della diocesi, che spesso sono l’unico punto di riferimento della gioventù anche fuori dalla scuola.
(a cura della redazione)
Solalinde: Questo è il Regno di Dio
Testo di Luca Lorusso |
Le relazioni (divine) che promuovono la vita invece della morte
Solalinde: Questo è il Regno di Dio
L’«antiregno» è semplice da descrivere: il sospetto su Dio, il male procurato agli
altri, la violazione del creato, l’autocondanna alla disperazione. Più complicato è dire cosa il Regno è e cosa suggerisce al mondo odierno complesso e segnato da violenza. Padre Alejandro Solalinde ci offre la sua sintesi usando la parola chiave relazione e partendo dalla sua fede ed esperienza di lotta accanto ai poveri.
«La condizione perché Dio regni su di noi è che nessuno regni sull’altro», scrive padre Alejandro Solalinde. E il motivo per scegliere di far regnare Dio su di noi è che il suo è un Regno di gratuità, pace, giustizia, perdono, accoglienza. È un Regno d’amore al centro del quale c’è la promozione delle relazioni che danno vita: la relazione fondativa tra Dio e l’uomo, quella tra l’uomo e gli altri uomini e quella tra l’uomo e il resto del creato.
Padre Alejando è un prete sorridente ed energico di 74 anni. È noto per essere un sacerdote messicano in prima linea nell’emergenza umanitaria che riguarda i migranti sudamericani diretti negli Usa e transitanti sul suolo del suo paese. Avere a che fare con i migranti non significa solo contrastare i discorsi d’odio di Trump ma, molto più concretamente, fronteggiare le organizzazioni criminali che con i migranti fanno affari d’oro.
Per il suo impegno, padre Alejandro è, allo stesso tempo, candidato al Nobel per la pace e «ricercato» dai narcos con una cospicua taglia sulla sua testa. Nonostante questo, appare un uomo sereno, umile e mite. A chi glielo fa notare risponde: «Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del Regno di Dio. Io non sono solo»1, e ribadisce la stessa idea nel suo libro, come un caposaldo della sua speranza: «Nessuno può sentirsi solo con un’amicizia come quella di Gesù».
Libro sorprendente e coraggioso
Padre Alejandro Solalinde ci offre un libro sorprendente. Sorprendente perché insiste su Dio e sul suo sogno d’amore per l’umanità e il creato, mentre da un uomo «di lotta» come lui ci si potrebbe aspettare un testo tutto concentrato sulla denuncia dura e pura (come ce ne sono molti) nei confronti delle potenti strutture di peccato che generano le sofferenze delle quali si occupa. Non manca la denuncia, e padre Solalinde le dedica un intero capitolo, il terzo, intitolato «L’antiregno». Ma non è il centro del suo pensiero. È forse il movente, ma non l’orizzonte del suo scritto.
Padre Solalinde ci offre un libro sorprendente e anche coraggioso. Coraggioso perché indica il Regno di Dio come suo centro d’interesse principale, e la prassi «fallimentare» del Gesù crocifisso come strada da seguire per realizzarlo. Superare l’antiregno in direzione del Regno di Dio si può solo attraverso relazioni improntate al dono totale di sé, alla misericordia, all’accoglienza di tutti. Anche all’accoglienza dei violenti e dei potenti, di quell’1% che domina il mondo, perché mai nessuno è escluso dal desiderio di Dio di averlo dalla sua parte: «Ai giorni nostri sono invitati alla tavola di Gesù anche quell’1% di magnati che si accaparrano le ricchezze del mondo […]. Da soli non potranno arrivare allo spazio della fede in Dio, Padre di tutti e tutte. Bisogna avvicinarli, amarli, metterli in discussione, invitarli! […] Anche un “tossico” del denaro e del potere è salvabile!».
L’idea giusta di Dio
«Siamo nati nel sistema capitalista, una condizione che impone il denaro come valore supremo; solo dopo viene Dio e infine la gente. Il Dio della vita è stato espulso dall’economia e rinchiuso nei templi. Ogni giorno aumentano i poveri e cresce la diseguaglianza. Quel che è peggio è che stiamo accogliendo tutto questo come normale. E non manca chi attribuisce a Dio queste ingiustizie, assicurando che questa è la sua volontà. […] In tale voragine di idee, le cupole del potere economico impongono come verità indiscutibili la loro versione di ciò che noi “dobbiamo” vedere e credere».
Nel solco della letteratura profetica, padre Solalinde si preoccupa di ristabilire la giusta immagine di Dio, quella di cui l’uomo può nutrirsi per trovare la salvezza. Il suo Dio non è quello usato da alcuni per giustificare le ingiustizie, ma quello che offre tutto se stesso per il bene dell’umanità. Se al centro ci fosse Dio con il suo Regno, l’uomo vivrebbe nella pienezza. «La crisi del mondo attuale, e in particolar modo del mio Messico, è in fondo una crisi di relazioni interpersonali: tra persone fisiche e persone giuridiche, tra persone umane e persone divine. […] Qual è il riferimento affidabile che ci permetterà di uscire da questa crisi generalizzata? A partire dalla fede cristiana che professo, io propongo il Regno di Dio […]. Non per niente questo è il tema centrale dell’insegnamento del giovane Maestro di Nazareth. Nei Vangeli troviamo più di novanta occorrenze di “Regno di Dio” o “Regno dei cieli”. […] Gesù non predica se stesso, parla della sovranità di Dio». Gesù realizzò nella sua persona la sovranità di Dio inaugurando l’esperienza più inclusiva e aperta che sia esistita nella storia dell’umanità. «Bisogna credere nel Regno e allo stesso tempo esserne operatori efficaci, affinché sia davvero l’amore divino a governare […], a partire dalla lettura dei segni dei tempi e dall’accompagnamento pastorale degli ultimi, degli esclusi».
Una vita radicalmente cambiata
Il Regno di Dio non è un’utopia. È una realtà già vivente e operante che cresce con la crescita della sua conoscenza da parte dell’uomo. Una realtà bella anche perché si prende carico della condizione contraddittoria e fragile dell’uomo. Sono belle le parole del sacerdote messicano sul «rilievo umano», cioè sulla storia particolare, personale di ciascun operatore del Regno: «Chiamo “rilievo umano” la storia di ogni persona […]. Nessuno può cancellare il passato! E neppure può ignorarlo […]. Quello che invece possiamo fare è assumerlo, impararne la lezione, leggerlo entro una nuova narrazione positiva, accettarlo. […] Il Dio rivelato da Gesù Cristo si carica del nostro passato e lo redime, invitandoci a un presente equilibrato e a scrivere una nuova storia personale d’amore. […] Gesù ci accetta come siamo, incondizionatamente, [anche] se siamo stati assassini o carnefici […]. Dio chiama tutti alla santità, ma lo farà sempre a partire dal “rilievo” di ciascuno». La via della realizzazione del Regno è la storia individuale di ognuno, nel momento in cui si mette in relazione vitale con Dio Trinità, con gli altri e con il creato. Come la storia di ogni singolo è segnata dalle storie degli altri e del mondo, anche la storia degli altri e del mondo è segnata dalla storia di quel singolo.
Questo, per Solalinde, è il Regno di Dio: una vita donata, una vita radicalmente cambiata in Gesù.
Luca Lorusso
Note:
1- Paolo Moiola, Un salto nel buio, MC, ottobre 2017, p. 51.
In Kenya dal 1972. Diventa vescovo della nascente diocesi di Maralal nel 2001. Nella chiesa abbandonata di Kawap, segnata dal conflitto tra Samburu e Turkana, comprende quale stile dare al suo mandato: dialogo e riconciliazione. Tra battute di spirito e aneddoti, la chiacchierata con monsignor Pante sulla sua vita missionaria prende quasi il gusto di racconti biblici.
È il 26 novembre 2015. Papa Francesco celebra la messa nel campus dell’Università di Nairobi, Kenya. Sul capo porta una mitria di pelle di capra fatta dalle mani di una donna samburu. Gli è stata donata in aprile, a Roma, dal vescovo della diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, zona abitata da comunità di pastori. Quel vescovo è monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, la donna samburu è Lydia Letipila, di Baragoi.
Incontriamo mons. Pante nella redazione di MC. È impossibile non accorgersi del suo arrivo: la sua voce risuona allegra mentre narra storie e aneddoti con un marcato accento trentino. Gli chiediamo di poterle raccogliere per trasmetterle ai nostri lettori, e lui inizia proprio dalla mitria.
Racconta che quando l’ha data al pontefice, Francesco l’ha annusata e ha detto: «Questa non è pecora, ma capra!», e che lui gli ha risposto: «È vero, ma anche le capre sono parte del gregge».
In Kenya, a novembre, mons. Virgilio ha occasione di parlare due volte con il Papa. Racconta: «All’arrivo all’aeroporto, “Ti avevo regalato una mitria, dov’è?”. “Domani la vedrai durante la Messa”. “Bravo, sei promosso”», e aggiunge: «Tutti mi guardavano. Non si parla così a un Papa. Alla partenza, all’aeroporto gli ho detto ancora: “Guardati la salute e riposati anche. E poi la mitria usala, non solo in Kenya”. “Tranquillo”, mi ha risposto», e conclude: «Sono stato un po’ sfacciato? No, mi sentivo come davanti a un papà buono. All’inizio della messa, io ero vicino all’altare, Francesco mi ha fatto l’occhiolino e il vescovo accanto a me se n’è accorto, invidioso!».
Da Belluno a Maralal
Nato nel 1946 a Lamon, Belluno, padre Virgilio Pante arriva in Kenya nel 1972. Inizialmente nella diocesi di Nyeri, dove studia la lingua kikuyu. Poi, nel ‘73, nella diocesi di Marsabit, al Nord, dove c’è bisogno di un sacerdote.
Dopo 29 anni, nell’ottobre del 2001, diventerà vescovo della nascente diocesi di Maralal, staccata da quella di Marsabit.
La popolazione, ancora oggi, è composta da pastori seminomadi: «Samburu, Turkana, qualche Pokot», ci dice. «Nei centri più grossi, sugli altopiani dove si può fare un po’ di agricoltura, la gente è stanziale. Mentre nelle zone più basse si muove nella savana seguendo le piogge».
La diocesi si estende su un territorio di 21mila km2 (come il Veneto e la Valle d’Aosta messi insieme). Conta 260-280mila abitanti, di cui 60-70mila cattolici. «Il resto sono protestanti, pochi musulmani. Quasi l’80% sono Samburu, quasi il 20% Turkana, il resto Pokot, Kikuyu, Meru, Luo e qualche commerciante somalo».
Uno stile semplice e profondo
Parla molto, mons. Virgilio, ma senza parole di troppo o troppo di circostanza. Il tono è gioviale, spesso ironico. Quando entra nel nostro ufficio per l’intervista, fa finta di essere lui a domandare a noi se possiamo dedicargli un po’ di tempo, e ci chiede il permesso.
Indossa una polo nera sulla quale spicca un crocefisso color acciaio appeso a una semplice catenella.
Il missionario della Consolata non ha difficoltà a parlare di sé e della missione che il Signore gli ha affidato 40 anni fa, e lo fa con la stessa semplicità comunicata dal suo aspetto: facendo trasparire la profondità della sua esperienza attraverso immagini quotidiane che riguardano pastori, mercati, studenti, polvere. Una realtà precisa, una realtà salvata.
Ha barba e capelli bianchi che fanno da cornice a un volto dai tratti marcati e dalla pelle scurita dal sole. Le rughe dei suoi 72 anni agli angoli degli occhi sono un fascio di linee che fanno convergere il nostro sguardo sul suo: azzurro e intenso.
L’arrivo in Kenya
Appena arrivato in Kenya, nel 1972, padre Virgilio compra una moto. «Di seconda mano», ci tiene a sottolineare, e, dopo sei mesi a Nyeri, parte per il Nord, per un mese di vacanza nella diocesi di Marsabit, tra Samburu, Turkana, Borana. «Ho visto le giraffe, i guerrieri, gli elefanti. Quando sono tornato indietro, innamorato del Nord, il superiore, padre Pietro Baudena, viene a Nyeri a trovarmi e dice: “Tu l’hai fatta grossa, da solo con la moto, nel deserto… Ti devo dare un castigo: adesso torna lassù e stacci”». Mons. Pante, sorride: «Bel castigo, eh? Nel Marsabit c’era padre Giuseppe Inverardi. Era stato spostato al santuario della Consolata a Nairobi, e il vescovo di Marsabit, mons. Cavallera, voleva un sostituto. Padre Baudena ha continuato: “Abbiamo sentito parlare di un certo Pante, che è andato su da solo, in moto, eccetera, che è tornato intero… e allora sono venuto a chiederti la tua disponibilità”». Padre Virgilio arriva nella diocesi di Marsabit nel marzo del ‘73: «Sono andato al Nord per una monellata!», conclude sornione.
Marsabit-Londra e ritorno
Il modo di mons. Pante di raccontare la sua biografia ha qualcosa di biblico, somigliante a un racconto dei patriarchi. I dati di tempo e di luogo sono circostanziati, riguardano la sua persona, ma quello che viene fuori è un grande affresco pieno di simboli, in una visione di salvezza.
È l’affresco di una porzione di mondo e di pochi decenni di missione punteggiato di nomi di confratelli conosciuti e amati.
Nel 1979 padre Virgilio apre il seminario diocesano per i preti locali. Vuole realizzare il progetto al quale si è sentito chiamato: contribuire alla crescita di una chiesa autoctona che prenda, un po’ per volta, a camminare sulle proprie gambe rendendo «superflui» i missionari arrivati da fuori. «Ho iniziato con due seminaristi. Oggi, nella diocesi di Maralal, abbiamo circa una ventina di sacerdoti africani su 32 in totale». Padre Virgilio, però, non rimane sempre nel suo Kenya. «Nel 1987, dopo che era stato ordinato il primo prete samburu, mi hanno detto di andare a cercare vocazioni in Irlanda e Inghilterra».
Questa volta il mandato gli sembra un castigo vero, non come quello del ‘73. «Quando sei là in Africa, hai tanta soddisfazione, poi ti mandano a cercare vocazioni. È come annaffiare l’asfalto: cosa cresce? Sono stato tre anni a Dublino e quattro a Londra. Lì ho avuto tempo per aggiornarmi, leggere, girare nelle scuole e predicare nelle chiese. Sono andato all’università per un master di antropologia. Nel ‘94 viene padre Piero Trabucco, allora superiore generale: “Pante, quante vocazioni hai trovato?”. “Padre, per essere sincero, zero. Anzi, le dirò che sto perdendo la mia”».
E così, nel 1994, padre Virgilio torna in Kenya, ma non nel suo Nord: «Padre Canzian, superiore del Kenya, mi dice: “Andrai sul lago Vittoria, a Kisumu, tra i Luo”. Sono stato a Chiga, per due anni. Poi sono stato vice superiore del Kenya, a Nairobi, per cinque anni. Infine, nel 2001, il nunzio apostolico, Giovanni Tonucci, mi chiama: “Sarai il primo vescovo della nuova diocesi di Maralal. Ora non dirmi che non sei all’altezza, che non sei capace, che non sei preparato. Perché nessuno lo è. S’impara. E non dirmi che hai bisogno di una settimana per fare discernimento. No, no. Devi rispondermi adesso. Sappi che se dici di no rattristi il Santo Padre”, Giovanni Paolo II. Allora ho risposto: “E beh, allora va bene!”».
Ministero della riconciliazione
La neonata diocesi di Maralal che lo aspetta ha 12 «missioni», in gran parte con sacerdoti europei. Padre Virgilio, prima della consacrazione, deve scegliere un motto e uno stemma. Allora parte con la moto in cerca d’ispirazione e visita ogni angolo di quel territorio. «E sono rimasto colpito da Kawap, vicino Baragoi. Ho visto la chiesa abbandonata, la scuola distrutta. Lì andavo a celebrare la messa una volta. E ho chiesto cosa fosse successo. “Le battaglie tribali tra i Samburu e i Turkana, per via del bestiame. Il villaggio è stato distrutto e abbandonato”. Mi veniva da piangere e ho detto un Padre Nostro a voce alta: bisognava pregare di nuovo in quella chiesa».
È lì che il missionario capisce quale sarà il tema e lo stile del suo mandato: la riconciliazione. «Se la Chiesa costruisce solo chiese, scuole, istituzioni, e dopo ci sono le guerre che distruggono tutto, sono milioni buttati all’aria. Bisogna puntare sulle persone più che sulle strutture, e fare la pace. Allora ho scelto come motto una frase di san Paolo, seconda lettera ai Corinti: “Dio ci ha affidato il ministero della riconciliazione”. E come stemma? Ho preso Isaia 11: “Quando arriverà il salvatore, porterà la pace, le persone useranno la spada non per uccidere ma per arare il campo, gli animali vivranno insieme, anche il leone, il lupo, l’agnello. Il bambino giocherà con la vipera e non verrà morsicato”. Un leone sdraiato insieme a un agnello. Ecco lo stemma. E dietro di loro il monte Kenya, il monte di Dio».
Dialogo, scuola, commercio
Padre Virgilio viene ordinato vescovo il 6 ottobre del 2001 a Maralal. Esattamente tre mesi dopo, nel parco nazionale Samburu, una leonessa adotta un cucciolo di gazzella e stanno assieme per due settimane. «Perciò la gente diceva: “Vedi un po’ cosa è successo. Padre Pante è uno stregone. Quello che ha detto si è avverato”. E mi hanno promesso: “Vescovo, vedrai che d’ora in poi faremo così anche noi. Samburu, Turkana, Pokot staremo insieme, non ci faremo più la guerra”».
Dall’inizio del suo episcopato mons. Pante punta quindi sulla riconciliazione. La Chiesa di Maralal inizia a offrire tre strumenti: occasioni di incontro e dialogo tra tribù, la scuola, il mercato.
Innanzitutto organizza incontri di preghiera e di discussione tra gli anziani dei vari gruppi.
«Le diverse tribù vivono mescolate durante il giorno, ma poi la sera ciascuno va nel suo villaggio. La lingua è diversa. I Samburu sono circoncisi, sia maschi che femmine, mentre i Turkana no. Vivono da tempo insieme, ma poi ci sono scontri, soprattutto per il bestiame. I giovani, per dimostrare che sono forti, una volta uccidevano i leoni, adesso invece rubano, ad esempio le vacche, e uccidono le persone: si mettono un braccialetto per ogni nemico ucciso come segno di valore».
Oltre agli incontri, la Chiesa offre la scuola, «perché l’ignoranza fa molto per la guerra, e l’analfabetismo nella nostra zona è al 75%. Noi puntiamo sulla scuola convitto. Li chiamo “dormitori della pace”. Bambini dei Pokot che dormono, mangiano, giocano insieme ai bambini dei Samburu».
Il terzo strumento per la riconciliazione è il commercio: «Abbiamo incoraggiato i mercati intertribali. I Pokot hanno pecore e capre buone e sane. I Samburu fagioli, patate, tabacco, coperte, zucchero, sale. E scambiano. Una regola è che al mercato nessuno può portare il fucile. Purtroppo tutti hanno il fucile. Al mercato però non si portano le armi. Il mercato crea relazione. Ho visto un cambiamento enorme negli ultimi anni. Quindici anni fa era inconcepibile un mercato così: se tu, Samburu di Porò, vedevi un Pokot, gli sparavi, come si spara a una gazzella. Si sparava a vista. Oggi invece un Pokot può entrare a Porò, fare il mercato, andare al dispensario per le medicine. All’inizio tutti mi prendevano in giro: “Ma lasciali stare i Pokot che sono come i babbuini, selvatici. Lasciali perdere, sono solo capaci di fare la guerra”. E io dicevo loro: “Volete vincere il nemico? Ci sono due strade: o lo combatti con le armi – ma, scusa, sono più forti di noi i Pokot -, oppure te lo fai amico. Se tu fai amico il tuo nemico, l’hai vinto, no?”».
Contro la politica dell’odio
«Ultimamente tra Samburu e Pokot c’è una buona relazione. Tra Samburu e Turkana, a Baragoi, invece c’è ancora un po’ di attrito», mons. Pante si prende il volto tra le mani in un gesto a metà tra la tristezza e la certezza della pace possibile. «Lì c’è di mezzo anche la politica. Per esempio ultimamente sono state rubate un migliaio di vacche. Che fine fanno? Le portano giù, nella valle di Suguta, e poi qualcuno va a prenderle con i camion per venderle a Nairobi. Non è più rubare due o tre capre per mangiare o comprarsi la moglie. C’è di mezzo anche la politica. Comunque», aggiunge per dare forza alla speranza che vuole comunicare, «la gente capisce che la guerra non porta niente di buono». E a questo proposito mons. Pante fa l’esempio di due ex parlamentari della sua diocesi, apertamente razzisti e sostenitori dei conflitti tribali, che alle ultime elezioni sono stati battuti da due donne favorevoli al dialogo e alla pace. «Uno era un giovane deputato di Maralal, conosciuto perché incitava i Samburu a combattere contro i Turkana, l’altro distribuiva addirittura le armi. Ma la gente è stufa di guerra».
Una Chiesa in transizione
Monsignor Pante ci parla anche del cambiamento che sta avvenendo nella Chiesa: la chiesa locale cresce, non solo nel numero, ma soprattutto nella responsabilità. Per illustrarci quanto dice, ci parla dell’ospedale di Wamba: «Abbiamo iniziato dando tutto gratis. Adesso però non ci sono più bianchi e nemmeno le offerte dall’Europa. La gente si aspetta ancora di essere aiutata al 100 per cento, però adesso bisogna dirle: “Non ci sono più i bianchi e i soldi che arrivano dall’estero. Dovete aiutare voi. Se venite all’ospedale dovete pagare qualcosa, no?, altrimenti le medicine chi le compra, chi paga le infermiere?”. C’è questa crisi, non solo per l’ospedale di Wamba. In generale cerchiamo di dire: “La Chiesa siete voi, i missionari hanno fatto il loro lavoro, sono vecchi decrepiti, non ce ne sono più, la chiesa è vostra”. Il clero c’è, vocazioni ce ne sono. Però, per la parte economica, la gente oggi deve contribuire. Io tra tre o quattro anni lascerò perché arriverò ai 75. Il prossimo vescovo probabilmente sarà africano. Che non debba dire: “Ecco, il mio predecessore vi dava tutto gratis, adesso io sono in difficoltà, i missionari vi hanno educato male”. No. Non vogliamo questo. I preti africani hanno un altro approccio. Quando la gente vede un prete con la pelle nera, dice: “Beh, questo è come noi, dobbiamo aiutarlo. Non ha la benzina per andare a dire la messa, diamogli la benzina. Cosa mangia?”, allora vedi che all’offertorio portano farina, fagioli, galline. È bello. Questo con noi non succedeva. Si aspettavano che fossimo noi ad aiutare loro. Adesso la cosa cambia. C’è un cambiamento positivo. La Chiesa inizia a sostenersi da sola».
Il carisma della Consolata
La prossima estate mons. Pante ordinerà un nuovo sacerdote locale. Più avanti, «se Dio vuole», altri tre. Anche la provenienza del clero locale è segno del cammino di riconciliazione nella diocesi di Maralal. Sono preti samburu, turkana, pokot, kikuyu. Ci sono giovani locali che diventano anche missionari. Il vice superiore generale dei missionari della Consolata, ad esempio, è un Samburu, padre James Lengarin.
Parlando dei suoi confratelli missionari, mons. Pante conclude con una riflessione sulla Consolata: «Il carisma della Consolata, la consolazione, è portare Gesù prima di tutto. Portare un Gesù che guariva le folle, che dava da mangiare. Noi lavoriamo ancora così. La Consolata è la fondatrice della diocesi di Marsabit da cui poi Maralal è stata staccata. Però adesso il nostro tempo finisce. Abbiamo solo quattro centri che presto saranno consegnati al clero diocesano. E noi andremo in un altro posto. Andremo ad aprire altre missioni, cominciando da zero altrove. Il nostro carisma è cominciare da zero, non stare lì sempre. È incominciare e poi andare, muoversi».
Per finire mons. Pante torna al 1972, come per chiudere un cerchio: «Agli esercizi spirituali del 1972 a Nyeri eravamo 80 sacerdoti: tutti bianchi. Adesso, vai a fare gli esercizi spirituali: sono tutti africani, eccetto cinque o sei vecchietti europei. Ecco come è cambiata la missione in quarant’anni. Ecco, i missionari della Consolata africani sono il nostro futuro. I primi saranno gli ultimi, gli ultimi primi».
Affascina di più il
sole o la luna? Meglio il sole che illumina il giorno o la luna che rischiara
la notte? L’Africa di ieri gradisce soprattutto l’astro del giorno e assai meno
il pianeta della notte. All’alba si esce per zappare il campo, condurre pecore
e capre al pascolo, raggiungere il mercato. Al tramonto ci si rifugia in casa
attorno al fuoco, compresi i mariti un po’ brilli di ritorno dall’osteria.
Non fa eccezione il Tanzania, anche
perché la tenebra è il tempo dei ladri, del leopardo e della iena, nonché degli
stregoni con i loro traffici loschi.
E, tuttavia, i primi missionari
della Consolata misero piede in Tanganyika/Tanzania proprio di notte, alle ore
21 del 21 aprile 1919. Però, il giorno successivo, eccoli nel sole glorioso,
pronti a «rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte e
dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Luca 1, 78-79).
Da Dar Es Salaam, «porto della
pace», iniziò l’avventura missionaria dei nuovi arrivati: i padri Giovanni Ciravegna, Giacomo Cavallo, Gaudenzio Panelatti
e Domenico Vignoli. Missionari
italiani, ma provenienti dal Kenya.
Perché dal Kenya? Perché dal Kenya ci «fu un atto di
carità che noi missionari della Consolata abbiamo compiuto», scrisse monsignor
Filippo Perlo, vicario apostolico in quel paese, sul numero di agosto del 1922
di «La Consolata».
Perlo aveva ricevuto un appello da
parte di Thomas Spreiter, vicario apostolico in Tanganyika, di rimpiazzare con
i missionari della Consolata i Missionari Benedettini tedeschi, costretti ad
abbandonare la colonia del Tanganyika dopo la sconfitta della Germania nella
Prima guerra mondiale.
Perlo spiegò quell’«atto di carità»
precisando: «Pare una contraddizione che siano dei poveri a fare la carità,
mentre questo sarebbe un naturale affare dei ricchi. Dobbiamo arrabattarci per
far fronte alle esigenze presenti senza riuscirci. Ciò nonostante troviamo del
personale per “imprestare” ad altri»1.
Imprestare? Il termine non centrava
in pieno il valore del gesto dei missionari, perché la loro «carità» non sarà ad tempus, bensì totale. E dura tuttora a 100 anni di distanza.
I protagonisti di questa storia sono i missionari della Consolata: padri,
fratelli e suore, con i fedeli, i catechisti, i religiosi, i sacerdoti e i
vescovi del Tanzania. Una storia che inizia 100 anni fa, quasi per caso. Come
tutte le belle storie. E poi prende corpo e si consolida. Fino ad arrivare a
oggi, tempo nel quale i missionari tanzaniani partono per i cinque continenti.
Arrivati da
pochi giorni a Dar Es Salaam, la capitale, il 4 maggio 1919 i quattro
missionari partirono alla volta della cittadina di Iringa: il primo tratto in
treno fino a Kilosa e poi in carovana con 60 portatori, soprattutto pedibus calcantibus fra sassi e
acquitrini. «Partiamo a cuor contento – scrisse padre Ciravegna -, risoluti con
l’aiuto di Dio di assecondare con tutte le nostre forze la divina grazia
nell’opera di resurrezione morale delle missioni, prive da tempo dei loro
pastori»2.
Giunsero a Iringa il 19 maggio, dove si fermarono alcuni
giorni. Ogni sera, all’ora dell’Ave Maria, lodavano la Consolata. Poi si
stabilirono nelle missioni di Tosamaganga e Madibira, «ereditate» dai
missionari Benedettini. Missioni distanti da Iringa, rispettivamente, 20 e 150
chilometri.
Tosamaganga sorge su un territorio collinoso e roccioso,
popolato dai Wahehe, gruppo etnico che vanta l’eroe nazionale del Tanzania, il
sultano Mkwawa.
Costui per due anni aveva eluso la caccia dei tedeschi
decisi di conquistare il Tanganyika. Nel 1898, probabilmente tradito da uno dei
suoi, il sultano si era suicidato per non essere preda dei nemici invasori. I
tedeschi gli avevano mozzato la testa e l’avevano portata come trofeo in
Germania. Decenni dopo, il nipote Adam Sapi Mkwawa, presidente del parlamento
del Tanzania, sarebbe andato a riprendere il teschio del nonno.
Adam, musulmano e padre di 10 figli avuti da una sola
moglie, è ricordato oggi come amico dei missionari della Consolata, come anche
il padre Sapi Mkwawa.
Madibira è terra dei Wasangu, Wabena e Wahehe, tre gruppi
etnici che vivono in armonia e si esprimono in un buon swahili. Intelligenti,
estroversi, coltivatori di mais, riso e arachidi, i madibiresi non disdegnano
di cacciare il bufalo e l’elefante. I loro nemici sono la zanzara e la mosca
tzetze, che stermina pecore e vacche.
I quattro missionari (due a Tosamaganga e due a Madibira)
si misero subito all’opera, ossia «al grande bucato per ripulire le missioni»,
per dirla con l’arguto padre Ciravegna3.
In termini più prosaici e concreti: i missionari
ripararono dispensari medici, aule scolastiche, abitazioni e chiese; chiamarono
a raccolta catechisti, cristiani e catecumeni; riaprirono i registri dei
battesimi e dei matrimoni. Il tutto fra dubbi e difficoltà.
«Però, a poco a poco, numerosi cristiani sperduti
ritornarono al Pastore. La campanella della missione riprese a suonare nel
giorno del Signore, e, di nuovo, la preghiera saliva al Padre che è nei cieli»4.
Onore a monsignor Cagliero
Il risultato di tanta evangelizzazione fu la creazione,
nel 1922, della Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsignor Francesco
Cagliero, pure lui proveniente dal Kenya, ma non più «imprestato».
Nel 1923 il personale missionario si arricchì di nuovi padri,
alcuni fratelli coadiutori e diverse suore. Uomini e donne, zelanti e
gagliardi, che consentirono la riapertura delle missioni di Bihawana e
Padangani fra i Wagogo, e non solo.
Però attenti alla salute! Al riguardo, le raccomandazioni
di monsignor Cagliero sono pertinenti e fraterne. Per esempio: obbligo di usare
la zanzariera, perché «siamo tutti più o meno malarici»; coltivare l’orto per
procurarsi frutta e verdura; «il cibo sia conveniente, abbondante e pulito». E
poi: «Mi dicono che all’Iringa vi sono i migliori scrittori dell’Istituto.
Perciò mano alla penna. Scriviamo articoli, relazioni, lettere per farci
conoscere e avere sussidi»5.
Nel 1939, dopo 20 anni di missione, la situazione era la
seguente: cattolici 14.211, catecumeni 1.519, studenti della scuola elementare
5.151, studenti della Central
School 107, scuole magistrali per ragazze
28, allievi delle scuole professionali 21.
Degna di nota è la Secondary School di Tosamaganga (tutt’oggi in esercizio). Padre Francesco Sciolla vi dediò 40 anni, portandola alle soglie di università.
Ma «l’evento più avvenimento» risale al 1932: la
fondazione dell’Istituto delle suore missionarie di Santa Teresa di Gesù
Bambino, religiose tanzaniane, dette «Teresine». Secondo la cultura africana,
una donna non è tale se non diventa madre di figli. Ebbene era ipotizzabile,
nel 1932, che alcune donne rinunciassero volontariamente alla maternità per
essere «suore»? Non lo era, a meno che non ci fosse «lo zampino dello Spirito
Santo».
Onore al coraggio evangelico di monsignor Cagliero,
fondatore delle Teresine, oggi circa 400, operanti anche in Italia.
Però che peccato che questo missionario pioniere se ne sia andato così fretta. Aveva 60 anni quando trovò la morte, il 22 ottobre 1935, in un incidente d’auto. Prima di partire per il safari (viaggio, ndr), monsignor Cagliero disse: «Quando sarò di ritorno, vivo o morto, suonate le campane»6. E le suonarono. A morto.
In residenza coatta
Le campane suonarono ancora il 1 aprile 1936, ma questa
volta a festa: la Prefettura apostolica di Iringa, quel giorno, ebbe un nuovo
pastore. Si chiama Attilio Beltramino, di 35 anni. E, manco a farlo apposta,
anch’egli veniva dal Kenya, come i «quattro dell’Ave Maria» e il compianto
monsignor Cagliero.
Ora, però, non si parli più di «prestito», bensì di
«investimento». Investire nell’annunciare «la consolazione del Signore»
attraverso nuovi missionari e missionarie. Lo si fece aprendo le parrocchie di
Kaning’ombe nel 1937, di Ilula, Pawaga e Mtandika nel 1939. Nomi ostici per il
lettore italiano, che dicono e non dicono. Ma per il missionario significano
lacrime e sangue.
E, come se questo non bastasse, ecco la stramaledetta
Seconda guerra mondiale. L’Italia si ritrova contro la Gran Bretagna.
Il 16 giugno 1940 in Tanganyika scattò il rastrellamento. «Tutti i nemici stranieri italiani» della Prefettura apostolica di Iringa (missionari e missionarie) dovettero subito ritrovarsi a Tosamaganga. La deportazione era quasi certa.
Sennonché intervenne monsignor Edgar Maranta, missionario
cappuccino, vicario apostolico di Dar Es Salaam e amico della Consolata.
Parlava la lingua di Dante, ma non era italiano, bensì svizzero.
Circa «i nemici italiani» dichiarò: «Sui missionari della
Consolata garantisco io. Signori di sua maestà la Regina, vi do la mia parola
d’onore: i missionari staranno ai vostri patti, ma voi non allontanateli dalle
loro sedi»7. E così fu.
L’intesa raggiunta venne formalizzata sulla «parola
d’onore» del vicario svizzero. Ma era da sottoscrivere da ciascun missionario
italiano ogni sei mesi. Altre clausole dell’accordo erano: proibito
allontanarsi dalla missione oltre un miglio; vietati gli spostamenti di
personale; censura di ogni lettera spedita e ricevuta; nessun discorso politico
con la gente locale.
Le limitazioni non erano una bazzecola. Meglio, comunque,
«la residenza coatta» che la deportazione in qualche landa di sua maestà la
Regina, come avvenne per i missionari della Consolata del Kenya, confinati in
Sudafrica.
Coraggio e strategia
A peste, fame et bello: tutti i missionari conoscevano queste parole latine. Le avevano pure
cantate in chiesa. Soprattutto avevano sperimentato sulla loro pelle le
conseguenze della peste, della fame e della guerra. E non potevano che
concludere: libera nos Domine.
Tuttavia non si scoraggiarono, nonostante i momentanei
fallimenti.
La missione esige costante coraggio e sempre nuove
strategie di crescita umana e religiosa. Non fa eccezione il Tanganyika dei
missionari della Consolata, i quali nella conferenza di Tosamaganga del 22-26
aprile 1937 stabilirono:
1. Azione pastorale. Far crescere le comunità con iniziative appropriate, quali: formazione
dei catechisti, spina dorsale della evangelizzazione; durante la Settimana
Santa esercizi spirituali anche per i fedeli; avviare l’Azione cattolica.
2. Scuola. È un
obiettivo da cui non si può deflettere. Fare sì che le scuole di missione siano
riconosciute dall’Amministrazione britannica, anche per ottenere un sussidio
per lo stipendio dei maestri.
3. Attenzione alla cultura, incominciando dallo studio degli idiomi locali, oltre
che dello swahili. Raccogliere informazioni sugli usi e costumi del paese, sul
fenomeno della poligamia e della circoncisione8. Dare vita ad una «biblioteca di famiglia», archiviando
documenti e schedando riviste e libri.
4. Africanizzazione. Termine sconosciuto nel 1937. Il progetto è far crescere la chiesa
locale con preti e suore autoctoni. Si prospetta la fondazione di «fratelli
religiosi» tanzaniani. Ma pare un’utopia.
5. Promozione umana. Oltre a Tosamaganga «cittadella di Dio», anche altrove operano
strutture di promozione umana, ma con scarsa incidenza. Occorre qualificare i
dispensari medici, aprire scuole di economia domestica e centri di formazione
umana e religiosa.
6. Ecumenismo. Il Concilio
ecumenico Vaticano II è ancora nell’iperuranio. I cattolici e i protestanti si
contendono il campo con corse sfrenate. Chi primo arriva, comanda. Urge un
rapporto di amicizia e buon vicinato.
7. Amministrazione. Un
missionario aprì un conto personale in banca senza permesso. «Dovetti
rimproverare questi sotterfugi di amministrazione», intervenne monsignor
Beltramino9. Quindi: trasparenza economica.
Grazie ai campi di… tabacco
«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e
tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (Matteo 6, 33). Ma è pure sacrosanto
il detto: aiutati che il ciel ti aiuta.
I missionari vivevano nella povertà, la quale non sempre
è «perfetta letizia». Però non si piangevano addosso. Per disporre di qualche
soldo in più, qualcuno prospettò la coltivazione di tabacco.
La prima prova del 1941 fu una delusione. La seconda
dell’anno successivo destò speranze. Però il terreno disponibile era scarso e
da disboscare. E poi: guai a cercare un terreno migliore altrove, «sconfinando
oltre il miglio», imposto dagli inglesi durante la guerra maledetta!
Sbocciò la pace, e la musica cambiò. L’evangelico «tutto
il resto in aggiunta» prese consistenza proprio grazie al tabacco.
Fuori metafora: il 13 gennaio 1948 Lord Chesham,
anglicano, ma amico dei missionari della Consolata, abbracciò la fede
cattolica. Chesham era un anziano e ricco inglese che donò ai missionari due
vasti appezzamenti di terra a Makalala e a Ulete.
Si riprese a coltivare tabacco con successo. I campi di
tabacco non sono «sani», perché il fumo uccide: questo col senno di poi.
Tuttavia, grazie ai proventi del tabacco (come pure a quelli del mais, riso,
arachidi, piretro, ecc.), i missionari poterono finalmente costruire scuole a
norma, ambulatori efficienti e chiese capaci, senza più stendere il cappello
per elemosinare quattrini. Il modello era, ed è, il missionario Paolo di Tarso,
il quale affermava: «Alle necessità mie e di quanti erano con me hanno
provveduto queste mie mani. In tutti i modi ho dimostrato che, lavorando, si
devono soccorrere i poveri» (Atti degli Apostoli 20, 34-35). L’apostolo Paolo
era un tessitore di tende e stuoie.
«Suo padre è musulmano»
Nel frattempo la Prefettura apostolica di Iringa divenne
«Vicariato apostolico». In termini più accessibili: ora Attilio Beltramino non
è solo «monsignore», ma anche «vescovo».
L’insediamento del nuovo presule avvenne il 27 maggio 1948. Il suo motto era: In Deo meo transgrediar murum (Salmi 17, 30), cioè: «Con il mio Dio scavalcherò il muro».
Un motto che sa di battaglia in ogni angolo del mondo,
Italia compresa. Un motto contro le schedature dei rom, le chiusure dei porti
ai migranti, i reticolati tra paese e paese. Abbasso «i muri della vergogna»,
come quello tra Messico e Stati Uniti voluto da Donald Trump.
Con «sua eccellenza» monsignor Beltramino, la chiesa
locale di Iringa crebbe, specie in qualità.
Un «salto di qualità» lo si ebbe, nel 1945, con
l’ordinazione al sacerdozio del primo tanzaniano, padre Titus Fumbe.
Un altro salto di qualità (o «traguardo vittorioso», come
scrisse padre Alessandro Di Martino) fu la nascita nel 1949 dell’Istituto
religioso dei Fratelli africani. Come per la fondazione delle «Suore Teresine»,
valeva l’espressione evangelica «farsi eunuco a motivo del regno dei cieli»,
con l’aggiunta (non di poco conto): «Chi può capire capisca» (Matteo 19, 12).
Perché si trattava di un pugno nella pancia della cultura africana.
Ma il salto forse «più qualitativo» non era ancora
avvenuto. Nel seminario di Tosamaganga studia un certo Mario Abdallah Mgulunde.
Sì, Abdallah, figlio di un musulmano. E come non guardarlo con sospetto.
Però Mario Abdallah superò tutti gli esami. Nel 1963 è sacerdos in aeternum. Poi partì
per Roma per laurearsi in Diritto canonico.
«Cari superiori, scusate! Questo non è troppo? Che farà
poi questo nero di genitore islamico?». Chi vivrà vedrà.
Tre passi indietro
A questo punto, la storia dei 100 anni dei missionari
della Consolata in Tanganyika-Tanzania ha compiuto un balzo in avanti
eccessivo. Quindi si torni indietro, per ricordare tre eventi significativi.
• Indipendenza del paese
La magica ora dell’indipendenza del Tanganyika scoccò a
mezzanotte tra l’8 e il 9 dicembre 1961. Si ammainò la bandiera dell’Impero
Britannico, mentre le stelle si compiacevano di quella inedita del Tanganyika
indipendente. Il nuovo stendardo armonizzava il nero del volto dei cittadini
con l’azzurro dell’Oceano Indiano, il verde della foresta con il giallo
dell’oro delle miniere.
Fu una indipendenza pacifica. Il che non è poco, se si
pensa alla indipendenza «insanguinata» di tanti altri paesi africani.
I missionari della Consolata, in tutte le loro sedi,
salutarono l’evento anche con il fragore beneaugurante dei mortaretti.
• Concilio Ecumenico Vaticano II
Per
la Chiesa cattolica fu l’evento più innovativo del XX secolo. Si svolse a Roma
dal 1962 al 1965 con tutti i vescovi del mondo.
Papa Giovanni XXIII (oggi santo), nel discorso di apertura del Concilio,
11 ottobre 1962, dettò le nuove regole del «gioco» dichiarando: «La Chiesa si è
sempre opposta agli errori. Ora tuttavia preferisce usare la medicina della
misericordia piuttosto che quella della severità. Essa ritiene di venire
incontro ai bisogni di oggi, mostrando la validità della sua dottrina,
piuttosto che rinnovando condanne». Da quel momento i pastori luterani e i
parroci cattolici non si sarebbero contesi più la piazza con corse sfrenate,
onde arrivare primi. Questo fu un grande traguardo del Concilio.
• Da un vescovo all’altro
Al Concilio Vaticano II partecipò anche il vescovo
Attilio Beltramino. Aveva già le valigie pronte per l’ultima assise, il cui
inizio era previsto per il 28 ottobre 1965. Ma il 3 ottobre morì. Aveva 64
anni. Lo sconcerto fu inimmaginabile.
Fedele al suo motto «con il mio Dio scavalcherò il muro»,
il vescovo Attilio si era donato alla Chiesa di Iringa anima e corpo per 30
anni. Missionario instancabile, religioso fedele, vescovo paterno quanto
risoluto.
Dopo una pausa di assestamento, ecco un mhehe (etnia Hehe, ndr) di
Tosamaganga a indossare la mitria. Ed è proprio lui, Mario Abdallah Mgulunde,
il primo vescovo africano di Iringa, consacrato il 15 febbraio 1970. Una
«eccellenza» giovane per una Chiesa ormai adulta.
Alla consacrazione episcopale di Mgulunde partecipò pure
il giornalista Beppe Del Colle, il quale mi confidò: «Quando il vescovo si
prostrò per terra per le Litanie dei Santi, notai che le sue scarpe erano
bucate…». Data l’emozione, il neo vescovo aveva sbagliato scarpe. Ma le calze
erano rigorosamente rosse.
Il cerchio si allarga
Già nel 1968 la diocesi di Iringa era troppo estesa, e
venne smembrata. Nacque la diocesi di Njombe. Sette missionari passarono armi e
bagagli alla nuova diocesi. Erano tutti sereni, eccetto quando dovevano
affrontare un viaggio.
«La notte precedente un safari non chiudo occhio, perché vivo in
anticipo l’incubo di quelle strade a strapiombo, che nella stagione delle piogge
sembrano lastricate di sapone. Tu non guidi l’auto, ma è l’auto che guida te
dove assolutamente non vuoi», mi confidò una volta padre Luis Arrieta Zubia,
spagnolo.
Ecco un’altra bella novità. A partire dagli anni ‘70, ai
missionari italiani si aggiunsero gli spagnoli e i portoghesi, i colombiani e i
brasiliani. Idem per le missionarie delle Consolata.
Inoltre trovarono spazio i missionari Fidei donum provenienti
da Agrigento, Bologna e Spalato in Croazia10. E, fra le
suore, anche le Religiose Camaldolesi.
Il cerchio missionario si allargò pure geograficamente.
Così nel 1973 sorsero le missioni di Ubungo e Kigamboni nella diocesi di Dar Es
Salaam. Kigamboni era a maggioranza islamica.
Nel 1986 e negli anni successivi i missionari si
insediarono a Heka e Sanza (diocesi di Singida), poi a Manda (diocesi di
Dodoma). Siamo nella Rift Valley dei Wagogo, una regione flagellata da una
siccità endemica. Gente più povera e meno istruita dei Wahehe di Iringa o dei
Wabena di Njombe.
«Manda è una missione di frontiera, di prima
evangelizzazione, come erano quelle di 60 anni fa – mi raccontò nel 2017 suor
Maria Loreta -. I cristiani sono pochi e per di più divisi in sètte. Molti,
inoltre, sono i seguaci delle religioni tradizionali, in balia della
stregoneria. Non poche ragazze a 14 anni sono già incinte. I divorzi sono
all’ordine del giorno. Ma non ci perdiamo d’animo»11.
Da Manda a Sanza
Tempo fa a Manda fui ospite di padre Toni Zanette, da 51
anni in Tanzania. Con lui visitai alcuni villaggi e, tra un luogo e l’altro,
raccolsi le sue riflessioni. «Ho girato questa zona in lungo e in largo,
dicendo a tutti: la religione di Gesù Cristo non è un imbroglio, ma rivela la
politica di Dio per costruire una società giusta e approdare allo sviluppo
vero».
«E la gente ti ha creduto?», domandai. «Non lo so –
rispose -. Fra i Wagogo il cristianesimo è ancora un fattore nuovo, ma
l’interesse sta crescendo».
A pranzo padre Toni mi offrì i funghi. E citò il detto
africano: «Oggi piove, ma i funghi non li trovi domani». Per dire che a Manda
bisogna saper attendere.
Nel pomeriggio andai con lui nella cappella di un
villaggio per alcuni battesimi. Ad un tratto avvertii un mormorio: stava
entrando una capra al guinzaglio di un musulmano. Silenzio assoluto. Il nuovo
arrivato ne approfittò per dire: «Padre Toni, sono qui per ringraziarti. Tu ci
hai portato l’acqua scavando 10 pozzi in questa terra desertica. Accetta il
dono di questa capra».
Applauso di tutti, mentre la capra acconsentiva al
passaggio di proprietà con un garrulo belato.
Il primo keniano
«Oggi lavoro a Sanza, a 50 chilometri da Manda –
esordisce padre Isaac Mbuba -. Mi si permetta di notare: i primi missionari
della Consolata in Tanzania erano bianchi e venivano dal Kenya, mentre io sono
il primo missionario della Consolata nero, proveniente pure dal Kenya».
Seguì la risata mia e sua. Eravamo in cucina,
sorseggiando il tè.
Padre Isaac oggi ha 65 anni ed è in Tanzania da 34. Agli
inizi avvertì un’aria di sospetto nei suoi confronti, perché proveniva dal
Kenya capitalista di Jomo Kenyatta, mentre in Tanzania vigeva il socialismo di
Julius Nyerere. Ma non ci badò.
Lavorò in varie parrocchie. A Kigamboni incontrò un vento
di perplessità, «perché ero il primo parroco nero, mentre tutti i precedenti
erano bianchi». Inoltre c’era tensione fra i musulmani in maggioranza e i
cristiani in minoranza. «Però la Consolata mi ha dato saggezza per non
schierarmi contro nessuno».
La conversazione toccò l’argomento scottante dei soldi.
«Noi africani dobbiamo impegnarci maggiormente con iniziative concrete, per
essere economicamente autosufficienti», rileva il missionario.
Faccio notare: «Oggi l’evangelizzazione non è più in mano
ai missionari europei, bensì a quelli africani. Padre Isaac, dopo 34 anni di
Tanzania, quali sono le tue raccomandazioni ai confratelli africani?».
«Le raccomandazioni sono tre:
• la prima, maggiore attenzione ai catechisti, che sono i
primi evangelizzatori del paese; senza catechisti la chiesa è morta;
• la seconda, maggiore collaborazione con i laici; i
laici fanno crescere la chiesa, non solo i padri; spesso noi preti siamo
separati dalla gente, i laici no;
• la terza, che non è una raccomandazione, bensì una
dichiarazione: ringrazio il Signore per essere missionario e missionario della
Consolata».
Epilogo
A Iringa ho completato il dossier sul Centenario dei
missionari della Consolata in Tanzania. Poco fa ho sostato davanti al monumento
dell’Indipendenza della nazione, con la sua fiaccola.
Anche i missionari della Consolata, in preparazione al loro Centenario, hanno accesa una fiaccola, che è passata in pellegrinaggio in tutti i loro centri di evangelizzazione. Ennesima luce per illuminare e consolare.
21 aprile 1919 – I primi missionari della Consolata approdano in Tanganyika. Si stabiliscono a Tosamaganga e Madibira.
1922 – Nasce la Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsgnor Francesco Cagliero.
1932 – Fondazione dell’Istituto delle Suore Missionarie di S. Teresa di Gesù Bambino, dette «Teresine».
22 ottobre 1935 – Monsignor Cagliero muore in un incidente stradale. Ha 60 anni. Gli succede monsignor Attilio Beltramino.
22-26 aprile 1937 – Conferenza programmatica di Tosamaganga su: pastorale, scuola, attenzione alla cultura e altro.
16 giugno 1940 – I missionari sono costretti alla «residenza coatta» durante la Seconda guerra mondiale.
1948 – Si coltiva tabacco. Con i proventi si costruiscono scuole, dispensari e chiese.
27 maggio 1948 – Monsignor Attilio Beltramino è nominato vescovo di Iringa, il primo.
1949 – Fondazione dell’Istituto religioso dei Fratelli Africani da parte di mons. Beltramino.
9 dicembre 1961 – Indipendenza del Tanganyika.
26 aprile 1964 – Il Tanganyika diventa Tanzania con l’unione di Zanzibar.
28 ottobre 1965 – Il vescovo Beltramino muore di infarto. Ha 64 anni.
A partire dal 1968 – Ai missionari italiani si aggiungono quegli spagnoli, portoghesi, kenyani, congolesi, colombiani, ecc.
15 febbraio 1970 – Padre Mario Abdallah Mgulunde è consacrato vescovo di Iringa. È il primo tanzaniano.
A partire dal 1973 – I missionari operano anche a Dar Es Salaam, Singida, Morogoro, Dodoma, oltre che a Njombe (1968).
1997 – Centenario della diocesi di Iringa. Il cuore delle celebrazioni sono Tosamaganga e Madibira, missioni della Consolata.
2011 – Padre Salutaris Massawe è eletto superiore dei missionari della Consolata in Tanzania. È il primo tanzaniano.
I missionari della
Consolata in Tanzania sono 54, di cui 17 tanzaniani, 15 italiani e gli altri di
varie nazionalità. Complessivamente i missionari della Consolata tanzaniani nel
mondo sono 66.
Per decenni i missionari della Consolata in Tanzania sono stati tutti
italiani. Ma, a partire dal 1970, si sono aggiunti missionari di altre
nazionalità. E chi è stato il primo tanzaniano?
Mi chiamo Evaristo Chengula. Sono
nato a Mdabulo, diocesi di Iringa. Non ho specificato la data di nascita,
perché non la so. Comunque, secondo il registro dei battesimi, sono nato l’1
gennaio 1941.
In
famiglia eravamo in sette, fra fratelli e sorelle, oggi rimasti in quattro. Una
sorella è suor Albertina, delle suore Teresine fondate da monsignor Francesco
Cagliero, al quale è dedicata anche una scuola secondaria a Tosamaganga.
Con
i genitori vissi poco tempo, perché già all’età di quattro anni entrai nell’utawani
della missione di Mdabulo.
L’utawani
era un sistema di educazione dei ragazzi e delle ragazze, ideato e promosso dai
missionari della Consolata. Scopo primario: frequentare la scuola elementare. I
ragazzi non potevano farlo abitando in famiglia, lontani dai centri scolastici.
Io ero il più piccolo dell’utawani di Mdabulo.
Oltre
che nell’istruzione scolastica, venivamo formati nella fede cattolica vivendo
insieme nella missione, che ci garantiva gratis vitto, alloggio e divisa
scolastica. Dopo la scuola, lavoravamo nei campi, essendo il lavoro parte
integrante del sistema educativo dell’utawani. Ogni nove mesi ritornavamo in
famiglia per le vacanze.
Nell’utawani di Mdabulo si contavano circa 200 ragazzi e 300 ragazze. Tutti felici12. Noi
ex ragazzi dell’utawani degli anni 1950-1960, se ci capita di incontrarci,
ricordiamo con gioia e riconoscenza quel tempo, e ognuno dice all’altro
scherzando: «Amico, non ti sei ancora stancato di pregare?».
Veramente
la preghiera era tanta, sotto la direzione di padre Paolo Gianinetto,
responsabile dell’utawani e parroco di Mdabulo.
Poiché
rimasi orfano in tenera età, la missione fu la mia casa.
Sei solo un ragazzo!
Avevo
11 anni quando dissi a padre Gianinetto: «Baba (babbo), io voglio diventare
sacerdote».
«Figlio
mio, tu sei solo un bambino!». «Anche tu lo eri quando hai rivelato il
proposito di farti prete», risposi senza paura.
Da
quel giorno padre Gianinetto è stato per me un vero papà.
Dopo
la quarta elementare, il missionario mi accompagnò a Tosamaganga. Qui incontrai
il rettore del seminario, padre Vincenzo Ramello, il quale mi squadrò da capo a
piedi e, indicando qualcosa con la mano, esclamò: «Vedi quei libri di filosofia
e teologia? Piccolo come sei, sarai capace di imparare tutte le cose scritte in
quei volumi?».
«Come
le hai imparate tu, le imparerò anch’io», risposi senza scompormi.
Poi,
notando sopra la scrivania del padre un calice per la Messa, dissi a me stesso:
«Anch’io un giorno alzerò un calice come questo».
Però
non volevo diventare «solo prete», bensì «prete e missionario della Consolata»,
perché ero attratto dalla loro vita, padri, fratelli e suore. Programmavano e
lavoravano insieme, mangiavano, giocavano e ridevano insieme. Le «discussioni»
non mancavano, ed erano pure aspre. Ma si ritrovava l’accordo e la pace.
Ero
già avanti negli studi del seminario, allorché rivelai al vescovo Attilio
Beltramino la mia vocazione missionaria. «Prima diventa prete diocesano, poi si
vedrà!», rispose secco.
Missionario in Congo
Nel
1970 venni ordinato sacerdote e quasi subito diventai missionario della
Consolata, il primo del Tanzania.
Per
sei anni mi occupai dei giovani di Iringa in parrocchia e nella Secondary
School. Poi fui mandato a Roma a studiare Spiritualità. Ritornato in Tanzania,
fui professore e «padre spirituale» nel seminario teologico maggiore di
Peramiho. Dovevo starci un anno, ma la permanenza si protrasse a cinque anni.
Partii
per il Congo (Rdc) negli anni ‘80, nella diocesi si Wamba, dove si parla
swahili. Un swahili assai diverso da quello del Tanzania. Conclusione: non ci capivamo.
Si
parla pure francese. Ma il mio francese rassomigliava a un vecchio camion in
salita, che arranca, sbuffa e sembra implorare: «Vieni a darmi una spinta! O,
meglio, spegni il motore».
Quando
padre Giuseppe Inverardi13,
superiore generale, venne in visita al Congo, manifestai il mio disagio. Al che
lui rispose: «Come missionario, non sei in Congo per parlare le lingue, ma per
testimoniare il Vangelo con la tua vita». Un messaggio che mi porto nel cuore
tutt’oggi.
In
Congo dovevo restare tre anni, ma ne trascorsi dieci. Le difficoltà erano
ingenti, politicamente e socialmente. Tuttavia la vita comunitaria era la stessa
che mi attirò, tempo addietro, a entrare nell’Istituto della Consolata.
Ora vescovo
Ritornato
in Tanzania, nel 1997 fui consacrato vescovo di Mbeya. Ma non ho mai scordato
di «essere della Consolata». Raggiunti i 75 anni di età, nel 2016 presentai le
canoniche dimissioni. Ma sono ancora in attività.
Ho
scritto questa testimonianza per il Centenario dei missionari della Consolata
in Tanzania.
In
conclusione, sottolineo l’«eredità» lasciataci dal fondatore, il beato Giuseppe
Allamano, che diceva: «Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un
seminario, ma una famiglia. Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme,
prepararvi assieme per poi lavorare assieme per tutta la vita»14.
I
giovani, se avvertiranno questo spirito di famiglia, busseranno sempre alla
nostra porta per stare con noi missionari.
Se
entri in una congregazione che non è famiglia, ne uscirai prestissimo. I voti
di povertà, castità e obbedienza si tramuteranno in un giogo opprimente, in un
carico insopportabile.
Al
contrario, in un Istituto-famiglia, il giogo è veramente dolce e il carico
leggero (cfr. Matteo 11, 30). E la gioia regnerà sovrana in quella casa.
Mons. Evaristo Chengula, missionario della Consolata, vescovo di Mbeya (Tanzania)
Nota: mons. Evaristo Chengula è andato alla Casa
del Padre lo scorso 21 novembre 2018. Lo apprendiamo, non senza emozione,
mentre stiamo lavorando a questo dossier.
I «fratelli coadiutori» sono stati fondamentali in questi primi 100 anni di
vita dei missionari della Consolata in Tanzania. Grazie alla loro fraternità e
al loro essere missionari al servizio degli altri, hanno dato un contributo che
ha reso possibile questa fantastica e solida avventura. Vediamo alcune storie.
I missionari della Consolata, al
maschile, sono «sacerdoti» e «fratelli coadiutori». Nell’immaginario collettivo
il coadiutore è spesso considerato una figura di serie B. Però il fondatore,
beato Giuseppe Allamano, si indignava quando sentiva dire: «Oh, sei solo un
coadiutore!»15.
I
fratelli sono protagonisti della missione come i padri, e anche di più. Certo,
non dicono Messa, non confessano. Ma sono fratelli! Attraverso la loro
fraternità, servono Dio e il prossimo con generosità, umiltà e competenza.
L’Allamano
ebbe il coraggio di dire: «Anche se solo coadiutore missionario, in Paradiso
sarà sopra gli altri sacerdoti»16.
Michele e Felice
I
primi fratelli missionari della Consolata giunsero in Tanganyika nel dicembre del
1922. Si chiamavano Michele Mauro e Felice Crespi.
Ero
a Madibira, il 22 Agosto 1973, allorché padre Rambaldo Olivo, parroco della
missione, mi comunicò la morte di fratel Michele Mauro.
Padre
Rambaldo era baldo di nome e di fatto. Sbrigativo come un faccendiere, roccioso
come le montagne del suo Friuli, insofferente come un rivoluzionario… ma quel
pomeriggio Rambaldo, allorché mi disse «fratel Michele è mancato», scoppiò in
un pianto dirotto.
Fratel
Michele Mauro trascorse in missione 51 anni, segando e piallando assi,
inchiodando, incollando e intarsiando scaffali, vetrine, armadi e comò di ogni
foggia. Nonché migliaia e migliaia di sgabelli, sedie, tavole e tavolini.
Fu
il falegname di tutte le parrocchie della diocesi di Iringa. Falegname come
Giuseppe, quello di Nazaret.
A
Madibira scorre un fiumiciattolo. La popolazione vi si tuffa anche per lavarsi.
Lo stesso fanno i missionari, ma pompando l’acqua in casa attraverso un motore
a diesel.
Una
notte una forte pioggia fece tracimare il torrente, che sommerse e arrestò la
pompa. E noi, missionari, ci trovammo in mutande a fare il bagno nel
fiumiciattolo, mentre i bambini nascosti fra gli arbusti ridevano divertiti nel
vedere quei bianchi in costume semiadamitico.
Dopo
15 giorni di attesa, arrivò fratel Felice Crespi. Smontò la pompa, pulì il
motore, e noi ritornammo a fare la doccia in casa.
Fratel
Felice è della provincia di Milano. Da ragazzo venne a Torino, conobbe i
missionari della Consolata e si unì a loro come fratello coadiutore. A Torino
imparò il piemontese e dimenticò il lombardo.
Ascoltarlo
di sera, alla luce tremolante della lampada a petrolio, era affascinante, a
dispetto dell’incessante ronda delle pestifere zanzare.
«Dalle
carovane con i portatori siamo alle carovane con carri tirati da diverse paia
di buoi – raccontava -. C’era di tutto su quei carri: vino da messa, chiodi,
pentole, attrezzi di falegnameria, meccanica, sartoria ecc. La carovana
procedeva di notte, perché il calore del giorno fiaccava i buoi. In testa e in
coda ardeva una lanterna, per tener lontano il leopardo. Io recitavo il
rosario, dato che non avevo avuto tempo durante il giorno…».
Negli
anni 1965-1970 arrivarono i gruppi elettrogeni: si accendevano solo per saldare
e per mangiare un boccone alla sera in compagnia, prima di andare a letto.
Fratel Felice ne curava la manutenzione, avvalendosi di manuali in inglese,
lingua che non sapeva. Ma, leggi e rileggi, l’inglese gli divenne meno ostico.
Conciava
pure pelli per confezionare scarpe e scarponi. Un giorno uno spruzzo d’acido
finì nei suoi occhi, e quasi lo accecò. Ma continuò a montare e smontare
motori, aiutato dai suoi operai. Con le sue mani esperte, divenute dure come
l’acciaio, riusciva a controllare ingranaggi e bulloni.
Al
termine di quei racconti serali, mentre la luce della lampada si affievoliva,
fratel Felice era solito chiedere: «Domani mattina la Messa è sempre alle
6,30?».
E tanti altri…
Ricordo
anche Angelo Invitti, il mago del tornio. Poiché i pezzi meccanici di ricambio
erano spesso irreperibili in Tanzania, Angelo li fabbricava lui stesso
lavorando con precisione al tornio.
Lavorava
e insegnava meccanica. Al termine del lavoro e della scuola, c’era ancora
un’ora di religione per ricordare che Dio è misericordia.
Fratelli
missionari come Modesto Zeni, con un nasone da proboscide. Ma che «fiuto
finissimo» nella sua vita! Costruì la cattedrale di Kihesa (Iringa), un po’
chiesa, un po’ pagoda e un po’ moschea, per dire che la casa di Dio è di tutti.
Eresse,
nella rotonda principale di Iringa, il monumento all’indipendenza della nazione
con la fiaccola che arde. Ed era pure il designatore degli arbitri nelle
partite di calcio della città. Tanto era accetto a tutti.
Fratelli
missionari come Gianfranco Bonaudo, imponente, extra large dalla testa ai
piedi. Soprattutto costruttore. Ristrutturò e ampliò il Consolata Hospital di
Ikonda (Njombe), sperduto fra le montagne dell’Ukinga. Un’eccellenza sanitaria
in Tanzania con 400 posti letto. Gli ammalati vi accorrono da ogni angolo del
paese, persino da Zanzibar.
Terminati
i lavori, fratel Gianfranco commentò: «Sono felice di aver messo in piedi un
ospedale dove i bambini e i poveri non pagano».
Fratelli
missionari della Consolata a decine e decine. Di loro il Beato Giuseppe
Allamano soleva dire: «Voi siete i miei beniamini».
Nel paradiso terrestre, le suore aprono la «Stella del mattino». Un
ospedale per i dimenticati, che è diventato un’eccellenza nella Sanità.
Professori e studenti, preti e catechisti, utilizzano il centro missionario di
Bunju, il «volto nuovo della missione». Una rivista per dire la verità: Andate.
Aiuta a capire chi è il tuo prossimo. Oggi e domani, strada facendo «annunciate
che il regno dei cieli è vicino» (Matteo 10, 7). Annunciarlo a chi? Ai giovani
a rischio, per esempio.
Una scuola per bocciati
Così le missionarie della Consolata nel 1999 aprirono il
Centro di formazione Stella del mattino.
Sorge in una vallata da eden. Questo paradiso terrestre
si estende fino al villaggio di Ilamba, diocesi di Iringa. Paradiso solo
terrestre, perché i ragazzi non hanno futuro. Frequentano la scuola, ma sono
stati bocciati.
Parecchi hanno cercato lavoro a Dar Es Salaam. Ma sono
finiti tra coetanei dediti al furto, allo spaccio di droga, e le ragazze alla
prostituzione. Sono tornati al villaggio per morire di Aids.
«Apriamo una Secondary
School per i bocciati», si dissero allora
suor Cecilia, keniana, suor Artura, brasiliana, d’accordo con tutte le altre
consorelle. Ieri era un sogno fumoso, oggi una realtà palpabile. E i bocciati
di ieri, oggi emergano fra i migliori.
Studiano e lavorano per una vita diversa, iniziando dalla
«polenta quotidiana»: coltivano campi e orti, allevano capre e maiali, spaccano
legna. Oltre 200 ragazzi e ragazze insieme: cattolici, luterani e musulmani.
È in atto un cambiamento culturale. Si sta scardinando
«la mentalità che l’uomo è sempre quello che comanda e deve essere servito,
mentre la donna deve solo obbedire e servire»17.
È spuntata davvero una nuova stella sul firmamento di
Ilamba e dintorni.
Una stella polare
Oggi e domani, strada facendo «guarite gli infermi»
(Matteo 10, 8).
L’attenzione agli ammalati è una «stella polare»
nell’evangelizzazione missionaria. Lo conferma anche il Consolata Hospital Ikonda, diocesi di Njombe.
Però quanta fatica, pure psicologica! I luterani,
numerosi in quella regione, ostacolarono l’ospedale in tutti i modi. Eravamo
nel 1964-65, quando l’ecumenismo era una chimera.
L’ospedale nacque nel 1968, con l’applauso di Julius
Nyerere, presidente della nazione, che inaugurò la struttura con 60 posti
letto.
Oggi i posti letto rasentano i 400, senza contare i bimbi
nati prematuri e le donne in attesa di partorire. Le corsie sono dieci, tre le
sale operatorie, due le sale parto, un laboratorio ortopedico, il
«delicatissimo» reparto per sieropositivi (Aids), la ricca farmacia, la tac, la
risonanza magnetica.
Realtà che in Italia sono normali, come il caffè al bar.
Ma a Ikonda, dove i denari li maneggi con il contagocce, dove le strade sono
più insidiose dei serpenti, dove l’elettricità costante è solo una speranza
remota (e quindi, per rendere efficienti le sale operatorie, necessiti di
costose turbine che i fulmini mettono a ko
a ogni piè sospinto), non sono realtà scontate. Allora l’ospedale di Ikonda
cade e si rialza ogni mattina. Il suo sviluppo ricorda il detto africano: il
maestoso baobab è stato una foglia seminata dal vento.
«Perché avete costruito l’ospedale fuori dal mondo –
chiesi a padre Sandro Nava, direttore della struttura -. Altrove, gli ammalati
lo raggiungerebbero con maggiore facilità e minore spesa, non ti pare?».
Il missionario mi guardò stupito, come se avessi scoperto
l’acqua calda. Poi rispose: «Certo, un ospedale a Makambako o Njombe sarebbe
più comodo e, per noi, più redditizio. Però sarebbe un ospedale per gente di
città, non per poveri sperduti su queste vallate come pecore senza pastore. Un
ospedale così sarebbe ancora un ospedale missionario?».
Lasciai padre Sandro e sostai nell’ingresso, dove
campeggia la scritta: «Il bene va fatto bene». È l’impegno dell’ospedale di
Ikonda, alla scuola del Beato Giuseppe Allamano.
Un centro per… centrare
Oggi e domani, strada facendo «insegnate tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo 28, 20). Qui entra in azione il Consolata Mission Centre di Bunju, a 35 chilometri da Dar Es Salaam.
Sul pavimento della sua chiesa spicca la data «2008»,
l’anno in cui il Centro aprì i battenti: la porta istoriata a fisarmonica della
stessa chiesa; le porte del salone-conferenze a onde marine; quelle ariose
della sala da pranzo; l’ingresso delle camere degli ospiti.
Al Consolata Mission Centre dormono 80 persone, 250
siedono davanti alla tradizionale polenta e 300 partecipano a dibattiti con il
cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam, o con altri relatori.
Costoro intrattengono l’uditorio con dibattiti, scritti e immagini in power point.
Il Centro è «un faro che illumina presente e futuro».
Tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o raccolti in
movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti.
Tantissimi i giovani, a prezzi scontatissimi.
Il Centro è «il volto nuovo della missione», che ha
aperto i suoi cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, musulmani.
Non mancano ecologisti, operatori di giustizia e pace, politici.
Il Centro è «esigente», anche economicamente, con i
prezzi in costante ascesa e 14 lavoratori da retribuire ogni mese. Qui
risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese,
chiedono un anticipo di stipendio, perché sono alla fame. Ma nell’Africa che
canta e danza, non bastono i tamburi e le nacchere. Bisogna studiare, pensare e
«formarsi». Guerre, carestie e Aids sono emergenze crudeli. Ma passano.
La «formazione» è prevenzione contro ogni miseria. I
missionari della Consolata ne sono convinti, e hanno inventato il Consolata
Mission Centre, un Centro per «centrare» la vita.
Chi è stato «prossimo»?
Oggi e domani, strada facendo domandatevi: chi è stato
«prossimo» del bisognoso? (cfr. Luca 10, 36 ).
È la domanda che Enendeni (Andate), rivista in lingua swahili, pone a tutti. Vi scrivono anche i missionari della Consolata del Tanzania presenti in Venezuela, Colombia, Brasile, Mozambico, ecc. Affrontando i temi dell’emarginazione e dello sfruttamento.
Chi è «prossimo» degli abbandonati nei suddetti (e altri)
paesi, compreso il Tanzania?
Un giorno a Dar Es Salaam incontrai un giovane.
Trascinava un sacco pieno di bottiglie di plastica, nella speranza di ricavare
qualche soldo. Ebbi l’ardire di chiedergli: «Guadagni abbastanza con questo
lavoro?». Dopo un istante, l’interessato rispose: «Tanti soldi dei tanzaniani
vengono spesi dal governo per parate militari, balli e canti nelle feste
nazionali, o per acquistare aerei per passeggeri benestanti, mentre io raccolgo
bottiglie di plastica».
Quando si voltò per proseguire per la sua strada, sulla
t-shirt lacera che indossava lessi: «Dio aiuta»18. Ma Dio esige soprattutto giustizia e dignità per tutti, specialmente
per i poveri. Per Enendeni è un dovere morale ribadirlo.
La rivista rilancia pure la voce coraggiosa dei
«Cristiani Professionisti del Tanzania», che hanno dichiarato: «In Tanzania c’è
il sospetto fondato sul cattivo uso del denaro da parte dello stato, il
sospetto di furto di voti nelle elezioni e di corruzione nelle commissioni
elettorali. I giovani vengono plagiati con false promesse. Il prodotto interno
lordo annuo cresce del 7 per cento, però esiste un abisso tra ricchi e
poveri…»19.
Qui il lettore italiano replica subito: «Nel nostro paese
le cose non vanno meglio».
Già, ma con una differenza: in Italia puoi parlare, in
Tanzania meno, molto meno.
Mentre «il prossimo», incappato nei briganti della
politica che l’hanno spogliato di tutto, non trova nemmeno il conforto di «un
buon samaritano».
(2) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Carteggio di un prestito per il Regno, Tanganyika 1919-1935, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1987, p. 45.
(3) Alessandro Di Martino, ivi, p. 51.
(4) I missionari della Consolata nella Diocesi di Iringa, 1919-1969 (a cura di padre Riccardo Ossola), Tosamaganga 1969, p. 2 (ciclostilato).
(5) Alessandro Di Martino, op. cit., pp. 73-74.
(6) Ivi, p. 262.
(7) Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno (I Missionari della Consolata nel Tanganyika-Tanzania: 1936, 1964, 1969), Edizioni Missioni Consolata, Roma 1995, pp. 50-51.
(8) Circa l’iniziazione femminile dei Wahehe, pregevole è la documentazione fotografica raccolta da padre Alessandro Di Martino. Inoltre c’è il catechismo in kihehe di padre Egidio Crema, che scrisse anche la monografia Wahehe, un popolo bantu, Emi, Bologna 1987 (con traduzione in inglese di padre Marco Bagnarol).
(9) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno, op.cit., p. 26.
(10) I Missionari «Fidei donum» sono nati in seguito all’omonima enciclica di Pio XII, del 1957, che esortava le diocesi ad essere missionarie inviando alcuni loro sacerdoti.
(11) Enendeni, Machi/Aprili 2017. «Enendeni» (Andate) è la rivista missionaria prodotta dai Missionari della Consolata in Tanzania.
(12) L’utawani era presente in numerosi centri dei Missionari della Consolata: da Tosamaganga a Madibira, da Wasa a Kipengere ecc. Il termine utawani deriva da mtawa, persona consacrata a Dio e che vive in comunità.
(13) Padre Giuseppe Inverardi, Superiore generale dei Missionari della Consolata per 12 anni, oggi opera in Tanzania nel Consolata Mission Centre di Bunju, Dar Es Salaam.
(14) Giuseppe Allamano, Così vi voglio, Emi, Bologna 2007, p. 187.
(15) Il Fondatore e i Fratelli, Edizioni Missioni Consolata, Roma 2014, p. 18.
(16) Ivi.
(17) «I care» Tanzania (Storie di vita donata), p. 87.
(18) Cfr. Enendeni, Mei/Juni 2017, p. 4.
(19) Cfr. Enendeni, Novemba/Desemba 2016, p. 18.
Centocinquant’anni di evangelizzazione in Tanzania
Non reportage da Bagamoyo, ma racconto per ricordare la celebrazione dei 150 anni della evangelizzazione del Tanzania.
Testo di Marianna Micheluzzi – foto padre Francesco Bernardi
Manca circa una mezzora (sono le 9, 30 del mattino) all’inizio della grande celebrazione all’aperto nella enorme spianata di Bagamoyo, che guarda di rimpetto l’oceano. Proprio quello stesso oceano che, nel lontano 1868, consentì a padre Antornine Horner, un tedesco, missionario della Congregazione del Santo Spirito, di raggiungere la terra ferma provenendo da Zanzibar.
E noi siamo fermi, sotto un cielo azzurro e un sole cocente, a pochi metri dalla croce commemorativa che ricorda, appunto, la prima missione, la più antica, di Tanzania, fondata un secolo e mezzo fa.
Una folla enorme, coloratissima e molto varia, anche per le fogge originali degli abiti, in particolare quelli femminili, comincia ad accalcarsi. Ci sono uomini e donne di tutte le età. Anziani, bambini e giovani. E ci sono pure i giovanissimi. Quelli, adolescenti, amanti dell’hip hop, che le mamme hanno tirato giù dal letto perché ci fossero anche loro alla festa. Si prevede una presenza di pubblico intorno alle circa 250 mila persone. L’evento, importante per il paese, era stato pubblicizzato a sufficienza in anticipo e nelle parrocchie e dai media. In particolare dalla radio, che arriva quasi ovunque, e ne ha dato notizia circa un mese prima.
Così il popolo di Tanzania, il popolo cattolico, che non vuole mancare all’appuntamento, c’è. C’è tutto e si fa sentire. È una festa, una festa grande. Qui si amano i raduni festosi dove, dopo l’ascolto è possibile anche cantare e ballare in segno di gioia condivisa. Non mancherà il rullo dei tamburi e neppure il suono del corno secondo la tradizione (anche biblica).
La gioia del Vangelo di cui si racconterà questa mattina ha cambiato, infatti, con la presenza missionaria, la vita di moltissime persone. È avvenuto nelle città e nelle campagne. Il Vangelo con le sue parabole, con i suoi insegnamenti mirati, ha accompagnato la gente nei momenti felici e pure in quelli un po’ meno felici. Il Vangelo è stato un autentico volano di promozione umana e sociale, e quindi di sviluppo. Nel paese e per il paese. Un paese dove c’è ovviamente ancora tantissimo da fare ma che, per la più parte, dati alla mano, ha iniziato da tempo ormai un buon cammino. E di certo lo continuerà.
Risultati di grazia
Un percorso, quello della presenza missionaria cattolica, le cui tappe fondamentali traccerà questa mattina agevolmente l’oratore, e cioè padre Faustine Kamugisha, sacerdote cattolico della diocesi di Bukoba, noto negli ambienti cattolici e non solo, incaricato della celebrazione dalla Tec, la Conferenza episcopale del Tanzania. Padre Kamugisha, tra l’altro, ha scritto un libro che ha proprio per titolo: «I 150 anni di Evangelizzazione del Tanzania: la gioia del Vangelo». Un testo che ci dirà molto altro ancora sull’impegno missionario in Tanzania in quanto redatto da un tanzaniano, che ha scelto per la sua vita la strada del sacerdozio.
Ecco alcuni dati per comprendere l’impegno della Chiesa cattolica in Tanzania, che emergono dagli allegati acclusi al programma della celebrazione.
La Conferenza episcopale del Tanzania (Tec) comprende attualmente ben 34 Diocesi. Di strada, dagli inizi, possiamo dire che se ne è fatta davvero tanta anche se tanta altra ne resta ancora da fare.
235 Scuole secondarie sono oggi il numero di istituti gestiti direttamente dalla Tec.
75 sono, invece, i centri di formazione professionale, molto utili per la gioventù e perciò molto frequentati.
4 sono le Università cattoliche a pieno titolo.
55 sono gli Ospedali, sempre afferenti alla Tec così come 94 i Centri sanitari e 338 i Dispensari. Degli ospedali del Tanzania merita, per la sua eccellenza, d’essere ricordato in particolare l’ospedale di Ikonda, retto e gestito dai missionari della Consolata di Torino. Con un reparto apposito, unico nel territorio, dove sono ospitati i malati di Aids, purtroppo ancora dolente piaga d’Africa.
Tutto questo, uomini, cifre, risultati, è opera delle Missioni cattoliche, che tanto hanno dato in termini di accompagnamento e crescita alla popolazione locale. Popolazione che, di rimando, ha sempre ricambiato (va detto) e ricambia con riconoscenza e generosità. Il Tanzania, infatti, è uno dei paesi dell’Africa che, con il Kenya, conta tra l’altro un buon numero di vocazioni sacerdotali. Lo stesso dicasi per le vocazioni al femminile. E va anche ricordato l’impulso dato alla nascita di congregazioni locali.
Assieme alla presenza certa del presidente del Tanzania, John Pombe Magufuli, ai ministri locali e agli ambasciatori esteri, compreso quello italiano, nella concelebrazione lo spazio dell’omelia sarà riservato al presidente dell’assemblea. E cioè al cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi, in rappresentanza di Papa Francesco.
Bagamoyo, dalla schiavitù alla libertà
Bagamoyo sappiamo che, storicamente, come città fu fondata alla fine del ‘700 (XVIII sec.) ma in precedenza, già nel 1400, era un territorio oggetto dell’occupazione araba (lo ricorda moltissimo infatti, ancora oggi, nelle sue architetture) e, purtroppo, fu porto di transito nei secoli successivi, quando divenne dominio dell’Oman (1750). Un porto idoneo al trasferimento degli schiavi nelle terre d’Arabia e dell’Asia. Schiavi che altro non erano che uomini e donne e bambini, rastrellati in paesi dell’Africa occidentale, nei numerosi villaggi rurali, trasferiti successivamente a Bagamoyo, imprigionati poi in una fortezza e infine venduti. Un Museo in Bagamoyo ne ricorda l’immane tragedia. La parola Bagamoyo significa nella lingua locale: «Uccidi il tuo cuore». Ovvero: «Perdi ogni speranza».
I missionari cattolici, quando arrivarono, costruirono il «Villaggio della libertà», dove poter ospitare appunto quegli schiavi che riuscivano a riscattare. Fu un’iniziativa che, in qualche modo, concorse poi a dare forza, gradualmente negli anni, al movimento abolizionista della schiavitù.
A ricordare i 150 di Missione cattolica, sempre in Bagamoyo, c’è anche un gigantesco baobab cresciuto in centocinquanta anni (1868-2018), che è ancora lì maestoso nel cortile della missione. E che merita d’essere visitato. Come lo merita anche il cimitero locale, che ricorda, con delle lapidi, i 50 missionari morti giovanissimi per malaria o altre malattie tropicali. Cosa che accadeva sovente, specie agli inizi della missione, perché non esisteva conoscenza adeguata di queste malattie, né tanto meno rimedi idonei a guarire chi ne fosse colpito.
Resta il fatto che il seme piantato da tanti missionari e missionarie, che si sono avvicendati negli anni in terra di Tanzania, ha dato senza dubbio i suoi frutti, se oggi il paese può guardare innanzi, agli anni che verranno, con una certa fiducia e un discreto ottimismo.
Non sappiamo se padre Faustine Kamugisha oppure il cardinale Njue citeranno Nyerere, il grande presidente cattolico, il padre dell’Ushamàa, che tanto ha dato al suo Paese e alla sua gente, privilegiando da subito per il suo popolo quali priorità urgenti: il lavoro, l’istruzione, la salute, perché si potesse vivere tutti, ma proprio tutti, un’esistenza dignitosa.
E lo ha fatto, Nyerere, non va dimenticato, giorno dopo giorno, affiancando e condividendo sempre, in tutti gli anni della sua presidenza, il lavoro dei tanti missionari.
Il prossimo appuntamento in Tanzania, dopo quello odierno, sarà quello che celebrerà, tra pochi mesi, il giubileo di 100 anni dell’arrivo dei missionari della Consolata, nel 1919.
Testo di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)
Ricordi personalissimi di 25 anni in Corea del Sud
La testimonianza di padre Paolo Lamberto dalla Corea
Padre Paolo Lamberto è partito per l’Estremo Oriente che era ancora sacerdote di primo pelo. Si è trovato in un mondo affascinante ed enigmatico che gli ha conquistato il cuore ma ha anche preso il meglio delle sue energie. Là ha imparato ad affidarsi all’unica forza che non si esaurisce mai.
Avete presente le case con i tetti ondulati e i paesaggi di quei quadri orientali in bianco e nero dove le nuvole danno il senso della profondità e tutto emana un senso di equilibrio e di pace? Ecco, questo era più o meno quello che mi aspettavo di vedere quando sono atterrato a Seul il 23 settembre del 1992. E invece, a perdita d’occhio, palazzi, palazzi e palazzi. Una foresta di cemento e traffico da far paura.
Apprendista missionario in Corea
Ad aspettarmi all’aeroporto insieme ai miei due confratelli c’era Monica. È stata la prima persona coreana che ho incontrato. Poi ho conosciuto altre due Monica e, siccome facevo fatica a ricordarne i nomi coreani, le chiamavo con nome del luogo in cui abitavano: Monica di Yokkok, di Pupyong, di Mansok. Tutte ci hanno aiutato moltissimo. E poi ricordo Jacinta, la prima presidente del gruppo dei nostri amici, piena di vita. E come dimenticare Rufina, sempre fedele ai nostri incontri ma anche per i servizi più umili? Ha avuto una vita difficile, ma anche adesso nei suoi ottant’anni, è sempre allegra e pronta ad aiutare.
Monica di Mansok è già in paradiso. Viveva a Mansok Dong, un quartiere povero della città di Inchon. I padri Diego (Cazzolato, italiano) e Luiz (Emer, brasiliano) vivevano là e lei, pur essendo un po’ disabile, li aiutava a trovare i più poveri del quartiere o i cristiani non praticanti.
Anche io ho vissuto là in tempi diversi. Qualche volta, in inverno, quando stavamo via per qualche giorno, Monica accendeva per noi il rudimentale riscaldamento a carbone della nostra casetta. Mi ricordo di quando venivano i topi in cucina e al mattino trovavamo i segni dei loro incisivi nel sapone. La cappella era un sottotetto dove si poteva stare solo seduti.
I bambini del quartiere ci visitavano spesso e c’era una bella cooperazione con i volontari di un doposcuola per i bambini svantaggiati del quartiere.
Tra le vecchiette che visitavamo ce n’era una che ci raccontava sempre di quando era scappata dalla Corea del Nord poco prima che scoppiasse la guerra.
Ricordo anche con molto affetto e gratitudine gli insegnanti di coreano che hanno faticato a insegnarmi la loro lingua per quasi due anni. Dopo un anno, appena sono stato in grado di leggere il testo della messa da solo, ho cominciato ad andare in parrocchia tutti i fine settimana. Il mio primo parroco, un sacerdote coreano, si chiamava Kim Venanzio. Mi ha insegnato molte cose sulla cultura coreana, ma mi ha anche fatto mangiare i cibi più strani che abbia incontrato nella vita: dal cane alle ginocchia di bue, da una razza, che eufemisticamente potremmo dire che sa di acido urico, a tutto ciò che si trova nel mare, a parte gli scogli.
Nella sua parrocchia ho cominciato a confessare in coreano. Un’anziana signora veniva e mi diceva: «Padre, ho saltato una messa». Ma io che non sapevo distinguere bene le sfumature della pronuncia capivo: «Padre, durante la messa mi sono mangiata una grossa pera». E un’altra: «Padre, mi sono mangiata l’orecchio» (cioè, ci sento poco). Tra me e me rimuginavo sulle strane abitudini alimentari delle nonnette coreane.
Il bello della vita comune
Padre Rafael Del Blanco, argentino, è stato uno tra i primi otto missionari arrivati qui. Intelligente e di gran cuore, era molto impulsivo, e spesso, testa e cuore non viaggiavano sullo stesso binario. Una volta ha comperato 200.000 won (circa 200 €) di pesce da un venditore ambulante. Gli abbiamo detto: «Ma Rafael, tu non mangi pesce, e qui ce n’è per 6 mesi». E lui: «Ma era un’occasione».
Con padre Benjamin (Martinez Solano, colombiano) ho vissuto per qualche anno. Una volta sono andato a trovarlo quando il nostro centro di dialogo interreligioso era ancora a Okkiltong, e con lui c’era un monaco buddista nostro amico. E lui mi ha detto: «Dai, andiamo al karaoke». E così ci siamo andati, io in clergyman e il monaco col suo abito grigio. E la gente guardava stupita lo spettacolo di un prete cattolico e di un monaco buddista che cantavano insieme in coreano. Quante discussioni teologiche ho avuto con padre Luiz Emer, ma stranamente sulle cose pratiche eravamo sempre d’accordo.
Padre Paco (Francisco López, spagnolo) veniva invece da un altro pianeta. Ci siamo aiutati molto e anche voluti molto bene. Ma una volta mi sono arrabbiato davvero con lui. Era di nuovo in ritardo per un incontro che dovevamo fare insieme. Non erano due volte, non dieci, ma sempre, e ogni volta erano almeno 30 minuti. Quanti rosari mi ha fatto dire quell’uomo. Così quel giorno non sono andato all’incontro e ho tagliato ogni comunicazione con lui. «Non ne posso più», mi sono detto, ma pregando in cappella dopo cena, ho letto queste parole: «Non lasciate che nessuna radice cattiva cresca in mezzo a voi» (Eb 12,15). Mi sono reso conto che quelle parole erano proprio per me, così quella notte l’ho chiamato al telefono, vivevamo in due comunità diverse, l’ho svegliato e ci siamo riconciliati.
Un aspetto simpatico della nostra comunità sono le vacanze estive che quasi tutti gli anni facciamo insieme. Per me le più memorabili sono state le prime, pochi giorni dopo essere arrivato in Corea. Andammo al Soraksan National Park. Io mi aspettavo qualcosa come le Alpi, dove tu cammini fino ai 3.000 metri e poi sei solo a contemplare la natura. Ma no. Prima di salire in montagna abbiamo fatto la coda per comprare il biglietto, poi la salita e poi gente dappertutto, un bar, venditori di magliette e cibi vari. Addirittura, sulla cima dell’Ulsanbawi (una punta rocciosa alta circa 800 metri) un signore vendeva medaglie ricordo per chi era riuscito a fare tutti gli 888 scalini fino in cima. Ma la cosa più simpatica è stata che, il giorno prima di partire, siccome andavamo in montagna, padre Paco aveva raccomandato a padre Antonio (Domenech del Rio, spagnolo) e a me, appena arrivati, di portarci vestiti pesanti. Così noi due abbiamo riempito gli zaini con maglioni e giacconi come se dovessimo scalare l’Himalaya. Ma quello era il Soraksan a fine settembre e faceva un caldo boia. Un altro anno siamo andati sulle montagne del Jirisan (nel Sud della Corea tra i 1.600 e 1.900 metri di altezza). Avevamo comprato una succosa anguria da 9 kg e qualcuno aveva suggerito di andare a mangiarla in cima a qualche montagnola. Indovinate chi è stato il fortunato prescelto dalla sorte per portare l’anguria fino su? Arrivati in cima, però, nessuno aveva voglia di anguria, ed è toccato ancora a me riportarla giù.
Anche le ultime vacanze insieme sono state speciali. Avevamo preparato giochi, birra e stuzzichini per animare la prima sera, ma senza neanche accorgercene abbiamo cominciato a parlare tra noi spontaneamente e liberamente come vecchi amici che si ritrovano dopo anni, ed è stato solo verso le 2 del mattino che ci siamo allegramente resi conto che era ora di andare a nanna.
Corea, tra gioie e fatiche
Alla fine della scuola di lingua, il Signore aveva preparato per me una sorpresa e un’altra chiamata. Avevo messo tutte le mie energie nello studio del coreano ma dopo un anno e mezzo mi ritrovavo senza forze e non riuscivo più a concentrarmi. Mi ci è voluto un bel po’ a riprendermi, ma ogni due mesi rimanevo vuoto di energie per una settimana.
Dal 2000 sono stato incaricato della formazione dei nostri seminaristi coreani. Anche quello è stato un tempo bello, aiutando ognuno a crescere nella fede e nel nostro carisma missionario secondo la sua personalità. E ora i miei cinque seminaristi sono diventati sacerdoti e annunciano il Vangelo in tre continenti: Pietro Han Kyoung Ho in Corea, Martino Han Gyeong Ho in Mozambico, Giuseppe Kim Moonjung in Rd Congo, Benigno Lee Dong Uk in Kenya e Giuseppe Kim Myeong Ho in Colombia.
Alla fine del 2004 ero mentalmente esaurito. Sono dovuto tornare in Italia per un po’ per rimettermi in forma. Sono tornato nel 2005 e da allora non sono più riuscito a fare molte attività. A volte mi sentivo inutile. A volte mi pareva che non ci fosse futuro per me. Ho detto allora a Gesù: «Ero pronto a darti tutto, anche le cose più dure e difficili, ma questo è umiliante. Così non servo a niente! Ma se lo vuoi Tu allora lo voglio anch’io». Così, ciò che da un punto di vista materiale sembrava un tempo di non produttività, dal punto di vista spirituale mi ha aiutato a fare grandi progressi. Ora vedo che se offro immediatamente a Dio non solo le cose buone, ma anche quello che mi fa male, per amore suo ovviamente, tutto diventa sopportabile e ne seguono pace, serenità e gioia.
Ho imparato a cucinare per servire i confratelli della mia piccola comunità, di solito siamo in 2 o 3, e cerco di tenere allegro tutto il nostro gruppo della Corea.
Poi, l’anno scorso, sono andato a Taiwan a predicare gli esercizi spirituali ai nostri quattro confratelli che lavorano lì. Pensavo che mi sarei esaurito nel giro di tre giorni. E invece è andato tutto bene e per sette mesi il Signore mi ha concesso energia come da più di vent’anni non ne avevo avuta. Il Signore mi ha aperto una finestra di speranza per un lavoro missionario più fruttuoso, e gliene sono veramente grato. Ma adesso so che la cosa più importante è quello che Lui vuole, e voglio continuare a seguirlo con allegria, capiti quel che capiti.
Mentre ero in Corea ho perso entrambi i miei genitori. Prima mio papà nel ’93 e poi mia mamma nel 2005. Perlomeno sono riuscito a vedere mia mamma prima che morisse, anche se già non poteva né parlare né capire. Nella camera mortuaria, mentre aspettavamo che fosse messa nella cassa, eravamo alcuni familiari, e con lei lì presente tutti abbiamo sperimentato una grande pace e unità. E non solo, sentivamo come una pioggia di grazie su tutta la famiglia, e in me una grande gioia del tutto innaturale e inspiegabile. La cosa è durata tre mesi e mi sono ritrovato a dirle: «Grazie mamma ma adesso basta grazie».
Pastorale della pastasciutta
Nel 2012, per un progetto di urbanizzazione del governo siamo stati costretti a muovere la nostra comunità di dialogo interreligioso da Okkiltong a Tejon, una città 160 km a Sud. Padre Diego Cazzolato (il veterano del nostro gruppo) e io abbiamo vissuto per vari mesi in un appartamentino di 45 m2 mentre seguivamo la costruzione della nuova casa. Ma a fine anno, dopo neanche tre mesi di vita nella nuova casa, sono stato trasferito a Tongduchon con padre Tamrat (Defar, etiope). La cosa in realtà si è poi rivelata molto provvidenziale. Ci siamo molto aiutati e sostenuti a vicenda nella pastorale dei lavoratori stranieri. Ci sono stati momenti in cui dicevamo: «Beh, noi non siamo poi così speciali, ma il Signore sta radunando intorno a noi tanta brava gente che fa tanto buon lavoro. Il Signore ci sta usando come catalizzatori per la missione». Durante quei 3 anni insieme abbiamo sviluppato la «pastorale della pastasciutta». Con la scusa della cucina italiana abbiamo invitato a casa ogni tipo di persone, e in un ambiente caldo e familiare abbiamo parlato di problemi pastorali, di religione e di ogni altra cosa con preti, suore, cattolici, protestanti, non cristiani, nigeriani, filippini, latinos e coreani. E poi qualche sabato pomeriggio, Tamrat e io camminavamo insieme per un’ora fino a una montagna vicina, prendevamo una frittata e una brocca di vino di riso, e poi tornavamo a piedi, parlando di tutto.
E adesso bisogna proprio che vi parli della messa. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono detto: «Ma cosa faccio qui? Vale la pena stare qui o fare questa vita? Sono utile a qualcosa?», oppure: «Dai, impacchetta tutto e torna a casa». Solo la messa mi ha aiutato, giorno per giorno, a trovare forza e soprattutto significato per andare avanti in questa missione.
Ecco, questi sono alcuni ricordi «a caso» dei miei primi 25 anni in Corea, ma il ricordo più importante è: «Se il Signore non fosse stato con noi, tutto quello che siamo e facciamo ora, sarebbe stato impossibile».
Giovanni Paolo Lamberto
I giovani coreani
Di quali giovani parlare? Qui le cose cambiano rapidamente: chissà che tipo di giovani avremo fra 10 anni? Chi ha più di 50 anni quando era giovane ha dato tutto per il «miracolo economico» della Corea. I 40enni sono gli eroi della lotta contro la dittatura militare. I 30enni hanno avuto la vita più facile: la nazione era diventata ricca e le famiglie molto piccole. I 20enni hanno avuto la vita ancora più comoda ma adesso fanno fatica a trovare un lavoro e spesso rimandano matrimonio e figli perché l’economia non tira più come prima. Chi ha meno di 20 anni è sicuramente cresciuto con un telefonino in tasca e il computer davanti al naso.
Però c’è un’esperienza che li accomuna tutti, e per quanto ne so, lo stesso capita per i paesi di cultura confuciana (Cina, Giappone, Taiwan, Singapore, Hong Kong): la scuola.
In Corea, fino all’asilo i bambini possono fare quello che vogliono, nessuno li rimprovera. Ma dalla 1ª elementare vengono «intruppati» nel sistema e da quel momento è solo studiare, studiare e studiare. E fare tutto il possibile per essere ai primi posti. Qui l’educazione è intesa come: «L’allievo è un contenitore vuoto che deve essere riempito dal maestro». E la scuola normale non basta. Appena finito si va alle cosidette Accademie per approfondire inglese, matematica, piano, tae kwon do (taekwondo, un’arte marziale) ecc. È normale per uno studente coreano uscire di casa al mattino alle 7 e ritornare alla sera alle 10 o alle 11.
Molti anni fa, durante le mie prime esperienze di confessione in coreano, ho capito che quando mi parlavano in modo comprensibile erano peccati normali, quando invece parlavano difficile, con molti vocaboli di origine cinese, erano cose grosse. Un giorno è venuta una ragazza e mi ha detto: «Io sono ko sam». Per stare sul sicuro le ho raccomandato: «Quella roba non farla mai più». Che cantonata. Anche il più sprovveduto dei coreani sa benissimo che ko sam vuol semplicemente dire: «Sto frequentando il terzo anno delle superiori e mi preparo all’esame di entrata all’università per cui non esco di casa, non vado con gli amici, non vado a messa, e dal mattino alla sera è solo studio». Dal mattino alla sera è un eufemismo: sulle pareti di molte scuole c’è questa scritta: «Più di 4 e non ce la fai». Cioè: «Se dormi più di 4 ore per notte quando prepari questo esame non ce la farai a passarlo».
Questo esame determina tutta la tua vita futura, chi sarai, quanto guadagnerai, che amici avrai. Accedere a una università di prestigio è come entrare in un club esclusivo, e, indipendentemente dai risultati e dalle materie scelte, i membri della stessa università si aiutano tra loro, ti assumono nella loro ditta, ti aiutano a far carriera.
Pressione e competitività, a cui si è aggiunto di recente il fenomeno del bullismo, sono spesso causa di un grande numero di suicidi tra i giovani. Senza dimenticare che i giovani che escono da queste scuole saranno poi i dirigenti della Samsung, Lg, Kia, Hyundai, ecc. E che questi giovani, così legati alla loro terra e cultura, diventeranno quegli imprenditori che non esiteranno un attimo a trapiantare la loro piccola azienda, se qui non sarà più competitiva, in Cina, Indonesia o America Latina.
Vincenzo, missionario oblato di Maria Immacolata, italiano che lavora molto nel sociale, mi ha parlato dell’emergenza nascosta di almeno 200.000 ragazzi scappati di casa e mi ha descritto i cambiamenti avvenuti col tempo. All’inizio c’è stata la generazione del «doposcuola»: ragazzi poveri che avevano bisogno di essere aiutati con lo studio per uscire dalla povertà. Quando la società si è arricchita è arrivata la generazione del «rifugio»: ragazzini che magari scappavano di casa per conflitti familiari, ma ancora capaci di ascoltare l’autorità e di farsi aiutare. Solo cercavano un rifugio (shelter in inglese) dove poter stare.
Adesso c’è la generazione del «telefonino»: per loro è importante solo il momento presente. Perché studiare o sforzarsi di migliorare? Vivo adesso e il mio orizzonte è quello che posso godere in questo momento. Sì, questa è l’emergenza, ma non è lontanissima dal sentire del giovane medio.
I giovani coreani amano lo sport: il baseball, lo sport più popolare, riempie gli stadi. Vanno alla grande le bands di teenagers che cantano e ballano, per non parlare delle telenovelas e dei film locali. Questi cantanti e attori sono popolarissimi anche nel resto dell’Asia, tanto che è stata coniata una nuova parola: Hallyu, cioè l’onda culturale coreana che si spande per l’Asia. E non dimentichiamo il karaoke (qui si chiama norepang), uno dei divertimenti più popolari in Corea. In questo momento quello che corrisponde alle nostre pizzerie sono i ristorantini di pollo fritto e birra, sempre pieni di giovani universitari.
In Italia tutti sono orgogliosi di sfoggiare la tintarella. Le ragazze coreane invece no. La sfida è essere più bianche delle altre. E allora quando splende il sole tutte in giro con l’ombrellino o un cappello a larghissime tese. E poi creme sbiancanti e creme antisolari. La bellezza qua è un valore importante, quindi le vedrete sempre truccate in modo impeccabile. Dal resto dell’Asia vengono in Corea per comperare i cosmetici locali che sono molto rinomati. E non parliamo della chirurgia plastica: molte volte il regalo dei 18 anni o per aver passato l’esame di ammissione all’università è proprio un ritocchino al naso, al mento o agli occhi.
E in Chiesa? Purtroppo, adesso sembra di essere in Europa: i giovani sono molto rari. Fino al 2000 non era così. Ma poi la denatalità (che è più alta di quella italiana: 9 nati ogni mille abitanti in Italia; solo 8 in Corea), il benessere, o forse «la notte della cultura occidentale» sono arrivate anche qui. Sta di fatto che dal 2000 le vocazioni religiose, una volta abbondanti, sono crollate drammaticamente, e anche quelle per il sacerdozio diocesano stanno mostrando segni di crisi. Ma mai disperare, i coreani possono essere tutto e il contrario di tutto, questo popolo ha fatto stupire il mondo in più di una circostanza, e sono sicuro che i nostri giovani ci stupiranno nuovamente.
Bolivia, il 5° Congresso Missionario Americano (CAM 5) /2
Testo e foto dal CAM 5 di Jaime C. Patias e Geraldo Martins |
La Chiesa di essere “decisamente missionaria”, non autoreferenziale, ma impegnata “per trasformare le strutture di morte e di corruzione, che sono all’origine di così tante violenze”.
CAM 5: essere una chiesa decisamente missionaria
11 luglio 2019 – Il presidente della Conferenza Episcopale della Bolivia, Mons. Ricardo Ernesto Centellas Guzman è stato molto chiaro nel parlare delle sfide della Chiesa, alla sessione di apertura dei lavori del 5° Congresso Missionario Americano (CAM 5) tenuta il mercoledì, 11 luglio, al Collegio Don Bosco, a Santa Cruz de la Sierra in Bolívia. Il vescovo ha sottolineato la sfida per la Chiesa di essere “decisamente missionaria”, non autoreferenziale, ma impegnata “per trasformare le strutture di morte e di corruzione, che sono all’origine di così tante violenze”.
Mons. Ricardo ha ricordato in particolare la difficile situazione vissuta nella Nicaragua e nella Venezuela. “Le esperienze della Nicaragua e del Venezuela nel nostro Continente Americano non possono essere ripetute”, ha detto tra gli applausi dei 2.500 delegati al Congresso provenienti da 24 paesi del Continente. “Dobbiamo lavorare affinché politiche dei Governi che gestiscono lo sviluppo umano promuovano e sostengano i diritti umani e costituzionali nelle nostre società in qualsiasi circostanza”, ha aggiunto il vescovo.
Il presidente della Conferenza ha poi esortato i partecipanti del Congresso a impegnarsi per rendere la Chiesa più misericordiosa, audace nella testimonianza e nel farsi una Chiesa povera per i poveri. “[Sia] una Chiesa che cammina con la sua gente e non che usa la sua gente, centrata sul servizio umile e non sul potere e sull’ambizione che uccide il cuore umano”, ha concluso Mons. Ricardo.
Condividere i missionari
L’inviato speciale del Papa Francisco al CAM 5, il Cardinale Fernando Filoni, ha richiamato l’attenzione sulla necessità di rispondere alla carenza di vocazioni missionarie con “una generosa volontà di condividere missionari con le Chiese più povere … Lasciarci guidare “da un amore profondo e generoso
al servizio delle comunità più svantaggiate per proclamare il Vangelo”.
Il Cardinale ha sottolineato come la generosità dei missionari che hanno annunciato il Vangelo in America nel passato continua ancora adesso. “In molte parti dell’America, c’è bisogno di autentici ministri del Vangelo. Tutti dobbiamo la nostra fede, all’impegno generoso dei missionari che sono venuti prima di noi e non credo che questa generosità si sia esaurita “, ha osservato.
Filoni ha anche detto che il Papa Francesco vuole che tutta la Chiesa si ponga in uno stato di missione permanente. “Preghiamo perché Dio invii evangelizzatori e missionari felici ed entusiasti di portare il nome del Signore alle periferie in vista di un mondo più giusto”, ha aggiunto.
Perché la missione e quale il suo contenuto?
Secondo il presidente delle Pontificie Opere Missionarie (PP.OO.MM), l’arcivescovo Giampietro Dal Toso, la missione dipende dalla risposta a queste due domande. “La missione della Chiesa nasce dalla stessa vita di Dio. Il Padre, il creatore, che ha mandato suo Figlio, e ora vuole chiamarci ad essere suoi collaboratori nella missione salvifica”, ha spiegato. “Il primo atteggiamento a cui desidero invitarvi all’inizio di questo Congresso è quello che suggerisce Papa Francesco: guardiamo a Gesù, il missionario del Padre, con un cuore aperto, lasciandoci contemplare da Lui”.
L’arcivescovo ha poi ribadito che lo Spirito Santo è il protagonista della missione e che “l’ardore, la creatività, la fedeltà alla missione rimangono vivi solo quando rinnoviamo la decisione di avere fiducia nello Spirito Santo”.
Il presidente delle PP.OO.MM ha aggiunto che Gesù Cristo, morto e risorto, è il contenuto della missione e che la croce non è solo un simbolo, “ma una realtà viva e presente in mezzo a noi. Cristo, morto e risorto, è allo stesso tempo soggetto e oggetto della nostra missione. L’annuncio del Cristo morto e risorto è il cuore della missione, è il kerygma. Non possiamo parlare di missione senza fare riferimento a questo nucleo della nostra fede”, ha spiegato Dal Toso.
“Se la fede come virtù, non si nutre del contenuto della fede, diventa sentimentalismo. Cioè se la fede intesa come contenuto dottrinale non è nutrita da una esperienza di fede viva, diventa ideologia. La fede come atteggiamento descrive l’abbandono di se stesso a Dio da parte del credente. La fede come contenuto mostra chi è questo Dio in cui crediamo, che è il Dio che ha rivelato se stesso “.
Alla fine del suo intervento, Mons. Giampietro Dal Toso ha sollecitato la platea dei missionari con diverse domande, particolarmente provocatoria e radicale è stata quest’ ultima: “Perché dovremmo rafforzare la dimensione missionaria e in modo particolare, la missione ad gentes?