Antropologi e missionari. Tanti mondi, un’unica terra

testi di Stefania Raspo, Francesco Remotti, Paolo Moiola |


Indice interattivo:

L’incontro con gli altri Uomini diversi da noi

La missionaria: Da un mito all’altro, dalla «civiltà» al «progresso».

L’Antropologo: A proposito di missionari e antropologi

Fonti bibliografiche.
Hanno firmato questo dossier

Un Yatiri – come vengono chiamati alcuni guaritori tra gli Aymara – mentre utilizza foglie di coca per leggere il futuro a El Alto, città che sovrasta la capitale La Paz. / Foto di Jorge Bernal – AFP.


L’incontro con gli altri

Uomini diversi da noi

Due categorie – i missionari e gli antropologi – che parrebbero molto lontane. Invece, è vero il contrario. Si sono spesso incrociate. Spesso hanno compiuto gli stessi errori. Sempre hanno avuto dilemmi su come comportarsi davanti a
«uomini diversi da noi».

Quando l’antropologia muoveva i suoi primi passi come ambito di studio con un suo proprio statuto scientifico, nella seconda metà dell’800, i missionari già da tempo andavano nei paesi di missione dei vari continenti per incontrare e convertire popoli non cristiani. I «nuovi» antropologi iniziarono a frequentare quegli stessi luoghi per studiare culture e organizzazione sociale dei popoli visitati. In un caso e nell’altro, si trattava di incontrare «uomini diversi da noi», per riprendere il titolo (italiano) di un libro dell’antropologo britannico John Beattie. A quel tempo, e per qualche decennio, gli sbagli furono molti: imperialismo, dominazione coloniale, monopolio culturale dell’Occidente, individuazione di culture superiori e culture inferiori. C’era tutto questo.

«Gli antichi Greci – scrive Beattie – credevano che tutti i popoli di stirpe non ellenica fossero barbari, selvaggi incivili. Sarebbe stato del tutto fuori posto trattarli come individui veri e propri. E anche oggi in nazioni notevolmente progredite troviamo gente che considera popoli di razza, nazione e cultura diversa in modi non molto dissimili da quelli citati, soprattutto se il colore della loro pelle è diverso oppure se essi si differenziano per fede religiosa o credo politico»1.

Per quanto riguarda i portatori di altre fedi religiose come i missionari, lo studioso inglese concede: «Nessuno sa meglio degli antropologi sociali quanto abbiano contribuito al benessere delle popolazioni africane molte migliaia di missionari di tutte le confessioni, che dedicarono la loro vita a tale scopo. Tuttavia, […] il loro messaggio non è sempre stato capito, e spesso gli effetti prodotti […] sono stati quelli di sconvolgere le istituzioni tradizionali, sia quelle moralmente innocue, sia quelle moralmente riprovevoli da un punto di vista cristiano».

Riconoscere uno sconvolgimento delle istituzioni tradizionali vuole intendere che l’opera dei missionari e quella degli antropologi sono inconciliabili? «I missionari – ammette Beattie – sono stati in grado di fare la loro antropologia. [Essi] hanno il vantaggio di un soggiorno prolungato in una singola comunità e, di solito, di una buona conoscenza della lingua indigena. Alcuni degli studi più profondi delle istituzioni e dei modi di pensiero indigeni sono dovuti a missionari». Verso gli uni e gli altri è durissimo Alfonso Maria Di Nola, uno dei più famosi antropologi italiani (1926-1997), che vede «una prepotenza e una violenza immorale dell’uomo occidentale che si autodimensiona come unica realtà di cultura e nega la comprensione di ogni altro uomo come portatore di diversità e di alienità. La quale violenza e prepotenza – consolidate negli studiosi occidentali anche più eminenti da una colposa pigrizia a uscire eroicamente dal proprio guscio culturale e alimentata dal terrore di scoprire le dimensioni altre ed aliene, quasi fossero attentati alla propria sicurezza – è stata una delle cause di tragica incomprensione fra uomini e ha fondato i diritti all’aggressione, all’imperialismo, al colonialismo»2.

Uscì certamente dal suo guscio – non senza scandalo – padre Silvano Sabatini (1922-2014), 40 anni tra gli indigeni dell’Amazzonia. La sua – ha scritto Antonino Colajanni, antropologo de La Sapienza – è stata una magnifica storia di missionario «che si pone alla prova, che si trasforma con l’esperienza del contatto interculturale»3

Padre Sabatini – scrive ancora Colajanni – «passa rapidamente dallo “scandalo” per la nudità degli indios di fronte all’altare di Cristo alla comprensione dei loro diversi valori, del loro diverso senso del pudore. Coglie immediatamente un tratto della cultura indigena, quella sorta di “teologia ambientale” che li fa sentire come parte del mondo naturale (e soprannaturale, a quello collegato) e non come dominatori della natura».

Padre Sabatini «identifica da subito un compito ineludibile per il missionario come per l’antropologo: quello di “dar voce” direttamente all’indigeno, perché racconti la sua verità, il suo punto di vista, non quello che i bianchi vogliono sentirsi dire».

Un rivoluzionario, padre Silvano Sabatini. Un antropologo de facto. Un missionario antitetico agli evangelici che danni enormi hanno fatto e stanno facendo in giro per il mondo. Un missionario di quelli che fanno tanto «arrabbiare» (eufemismo) i cattolici tradizionalisti, quelli che ogni giorno criticano papa Francesco4

«C’è un’incapacità che si è istituzionalizzata nella nostra società. Si tratta dell’incapacità di confronto. Ci riferiamo al confronto con le esperienze culturali distanti dalla nostra. […] A livello ideologico generale si sono istituzionalizzate forme di razzismo ed etnocentrismo»5.

Queste riflessioni del sociologo francese Gérard Leclerc risalgono al 1973. Si pensava descrivessero situazioni se non superate almeno attenuate. Invece, sono tornate e stanno tornando a farsi largo in modo prepotente, ovunque nel mondo. Il lavoro di missionari e antropologi dovrebbe contribuire a contenere questa tendenza.

Da tempo, papa Francesco sembra lavorare in questa direzione. Nel messaggio diffuso lo scorso 9 giugno per la giornata missionaria mondiale 2019, si legge: «Noi non facciamo proselitismo». A febbraio di quest’anno, nell’esortazione apostolica postsinodale Querida Amazonia, ha scritto: «In un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione» (n. 108). Infine, lo scorso marzo, in un messaggio rivolto ai cattolici cinesi, papa Francesco ha precisato che essi «devono promuovere il Vangelo, ma senza fare proselitismo». Tutte testimonianze che aiutano a inquadrare il ruolo dei missionari e a «superare l’incapacità del confronto».

Paolo Moiola

  • (1) (2) (5) John Beattie, Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973..
  • (3) Antonino Colajanni, introduzione a Il prete e l’antropologo di Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Ediesse, Roma 2011, pag. 11-23.
  • (4) Paolo Moiola, Tribalista ed ecologista, in «Amazzonie», dossier Missioni Consolata, gennaio-febbraio 2020.

Bolivia – © Pablo Andrés Rivero


La missionaria

Da un mito all’altro, dalla «civiltà» al «progresso»

Il missionario propone una religione, l’antropologo difende la libertà di essere quello che si è. Il racconto di una persona in cui missione e antropologia riescono a convivere. Arricchendosi a vicenda.

Sono una missionaria, ma anche un’antropologa. La vocazione e lo studio dell’antropologia si sono intrecciate già da molto tempo, da quando ero una studentessa universitaria di filosofia che, ad un certo punto, ha sentito la chiamata di Dio. A quel tempo dovetti scegliere un’area di studio per il secondo biennio. Io scelsi l’orientamento socio-antropologico, perché lo sentivo più in sintonia con l’apertura del cuore verso il mondo intero.

Donna indigena / Foto Tjabeljan.

All’università venivano presentati come contrapposti l’atteggiamento missionario, descritto come volontà di proporre-imporre una religione, e quello antropologico, descritto invece come volontà di difendere la libertà di essere quello che si è, per dirla in parole molto povere. La cosa mi colpiva, ma dentro di me non ho mai preso posizione. O forse sì…

Dopo la mia formazione e consacrazione religiosa, fui destinata alla missione in Bolivia, dove – con somma gioia – arrivai il primo febbraio del 2013. Da allora vivo con il popolo contadino di lingua quechua, nel dipartimento di Potosí: la gente ha conservato una forte identità indigena, e molte tradizioni continuano a essere vigenti, anche nelle nuove generazioni. Dopo alcuni anni, ecco che l’antropologia di nuovo bussa alla mia vita: mi viene proposto lo studio a distanza della disciplina, che comporta un’immersione continua nella realtà quechua e, allo stesso tempo, una riflessione teorica da incarnare nella vita quotidiana.

Questa esperienza mi porta ad affermare che non c’è contrapposizione tra missione e antropologia: le due situazioni s’illuminano a vicenda. Da estirpare, piuttosto, sono alcuni pregiudizi che possono accompagnare sia l’antropologa, sia la missionaria che convivono in me.

Iniziamo con la missione e la sua relazione con la colonia, che ha prodotto conseguenze fino al giorno d’oggi. L’espansione della Chiesa cattolica – e in generale del cristianesimo – a livello planetario si è servita di un mezzo non neutro, come è l’espansione coloniale dei paesi europei: dapprima in America, con gli imperi spagnoli e portoghesi, poi in Asia, Africa e Oceania. Alla base del colonialismo c’era una giustificazione molto semplice: noi siamo i più «bravi», siamo i civilizzati, che portano la civilizzazione ai primitivi. D’altra parte, la nostra missione, in questo caso come cristiani, era quella di fare uscire dall’errore gli infedeli perché abbracciassero la verità di Cristo per potersi salvare. Poi, è arrivato il Concilio Vaticano II, il quale ci ha spiegato che ci si può salvare anche fuori dalla Chiesa. Nel frattempo, il mito dei «portatori di civiltà» si è trasformato nel mito contemporaneo del «progresso». Sicuramente, chi ha frequentato le medie e superiori negli anni Ottanta e Novanta avrà studiato quelli che si chiamavano (e spesso ancora si chiamano) «i paesi in via di sviluppo».

Particolare di una statua lignea di Cristo. / Foto haaijk.nl

Graficamente parlando, l’idea è che i vari popoli si trovino su una retta, sulla quale stiamo progredendo, chi un po’ più avanti, chi un po’ più indietro (= in via di sviluppo). In quell’epoca (seconda metà del Novecento) la Chiesa missionaria ha tradotto questa idea con opere, grandi e piccole, per lo sviluppo di aree povere, costruendo scuole, ospedali, e chi più ne ha, ne metta.

Attualmente, il «mito del progresso continuo» è ormai stato sfatato dalle crisi economiche mondiali e dal disastro ecologico. Cosa resta di tutto questo, allora? Un sottile, subdolo senso di superiorità: «Io, come missionaria, ne so di più di questa povera gente…», e si agisce di conseguenza.

Come la missione, anche l’antropologia non è esente da pregiudizi o forse da errori di prospettiva. L’antropologa che è in me apprezza e valorizza le espressioni culturali dei vari popoli, e in modo speciale del mio caro popolo andino. Una posizione molto positiva che però rischia di farmi scivolare nel «romanticismo», come ci ha detto una volta un nostro professore di antropologia. Le culture non sono perfette, sono in cammino, come lo sono gli esseri umani che le creano giorno dopo giorno. La cultura, per di più, non è qualcosa di statico, che vive asetticamente nell’«iperuranio», in un Paradiso incontaminato, come direbbe Platone. La cultura è estremamente dinamica, non perfetta, ma perfettibile, in continua negoziazione con altre culture, dando e ricevendo in prestito, appropriandosi di elementi altrui e trasformandosi per poter continuare ad essere ciò che è profondamente: un progetto di vita, di vita buona, per il gruppo che la crea e la ricrea continuamente. Molte volte gli antropologi si presentano come dei «conservazionisti», cioè delle persone che operano per la salvaguardia della cultura così come è, in una certa staticità.

Veduta della Iglesia La Merced, a Sucre. / Foto di Kent MacElwee.

Cosa significa tutto questo dentro di me?

Caratterialmente, a pelle, anch’io apprezzo tanto le culture come sommamente buone, e vorrei che si conservassero così, soprattutto quelle native, che tanto hanno mantenuto della sapienza ancestrale. Allo stesso tempo, come missionaria sono chiamata ad annunciare Cristo, forse con categorie occidentali, perché da lì vengo e da lì viene anche il cristianesimo. Non voglio cambiare la gente, ma il mio desiderio è che conoscano Gesù come un Dio d’amore, e non castigatore. Dove trovare la soluzione?

Credo fermamente che il dialogo sia la strada giusta. Un dialogo tessuto nel quotidiano, nelle relazioni tra vicini, e non un monologo da una cattedra. Il popolo andino ha una spiritualità millenaria molto ricca: imparo da loro e posso anche offrire la mia semplice esperienza. In un incontro di missionarie della Consolata che lavorano con popoli nativi abbiamo pensato di chiamarlo «dialogo interspirituale».

Non si tratta di qualcosa di cerebrale, è piuttosto quel discorrere sereno e semplice, nel quale far trasparire la bellezza di una fede nel Dio che è amore, e scoprire che Lui si è già rivelato vicino e presente nella vita della gente. L’antropologia, permettendomi di entrare, in punta di piedi, nella cultura quechua, mi aiuta a trovare le parole giuste, le metafore che toccano il cuore, per poter condividere la mia esperienza, e allo stesso tempo mi aiuta a comprendere il sentire e la spiritualità del mondo andino. La fede in quel Gesù per il quale ho scommesso tutta la vita e mi manda in missione, è il senso del mio stare qui e del mio camminare con la gente.

Stefania Raspo

Indigeno seduto sui gradini in Plaza Mayor, a La Paz / Foto di Rogerio Camboim Silva de Almeida.


L’Antropologo

A proposito di missionari e antropologi

Ci sono stati i missionari «coloniali» e i missionari «conciliari». C’è stato il tempo delle «razze» e il tempo delle «culture». Queste, a loro volta, potevano entrare in contrasto con concetti quali «sviluppo» e «progresso». Un antropologo racconta i cambiamenti intervenuti.

Da tempo nutro un autentico interesse nei confronti dei modi con cui i missionari rappresentano se stessi e la loro attività in un mondo sempre più coinvolgente e interconnesso.

Pochi anni fa ero stato interpellato perché esponessi alcune mie riflessioni sull’argomento per Missione Oggi, la rivista dei missionari saveriani. Il titolo di quel modesto contributo – «I missionari visti da un antropologo» – non deve trarre in inganno: esso non significa «i missionari in generale», ma certe figure di missionari che un antropologo, o aspirante tale, ha incontrato nella sua ricerca sul campo. Quel contributo conteneva alcune precisazioni, che riproduco come punto di partenza del mio intervento1.

Nonostante sia stato sempre ben consapevole del ruolo storico svolto dai missionari nei diversi continenti, non ho mai affrontato questo tema a livello generale e neppure nei contesti di mia diretta conoscenza (intendo dire soprattutto il Nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo). L’obiettivo della mia ricerca tra i Banande (o Nande) del Nord Kivu riguardava in effetti non già la situazione «attuale», bensì ciò che a partire dalla situazione attuale si poteva recuperare della loro cultura prima delle trasformazioni indotte dalla colonizzazione e dall’attività missionaria.

Le mie considerazioni iniziali nascono quindi non da studi appositi, bensì soltanto da esperienze e frequentazioni con i missionari incontrati durante l’arco temporale delle mie ricerche tra i Banande, tra il 1976 e il 2013.

Nel contributo citato avevo messo in luce due tipi di missionari, in cui mi ero imbattuto fin dall’inizio della mia esperienza: i coloniali e i conciliari.

Un verdissimo scorcio di Masisi, nella provincia del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo. / Foto Teseum.

Il primo tipo: i missionari coloniali

Il primo tipo era rappresentato da missionari anziani – per lo più belgi e olandesi – i quali erano approdati in quella parte del Congo durante il periodo coloniale. Ciò che colpiva il mio sguardo esterno erano in particolar modo i dispositivi di separazione rispetto alla gente: le case dei missionari chiuse, accuratamente recintate, vigilate e custodite non solo dal personale di guardia, di giorno e di notte, ma anche da cani, addestrati a latrare minacciosamente nei confronti dei neri. L’atteggiamento di questi missionari nei confronti di catechisti e di preti indigeni era inoltre improntato a un rigoroso senso gerarchico: i missionari, detentori – per la loro stessa origine europea – della verità evangelica, erano senza alcun dubbio i superiori, mentre catechisti e preti indigeni (a prescindere dal loro curriculum) erano gli inferiori. Del resto, la cultura europea in cui i vecchi missionari coloniali si erano formati era fortemente segnata da un’impostazione razzistica o quanto meno razziologica: nell’Europa di allora, tra Ottocento e Novecento, le razze erano ritenute da tutti come dati di fatto, e l’antropologia di cui i missionari coloniali erano portatori era un sapere fortemente biologizzante, che poneva le razze a fondamento di ogni altra considerazione. Non v’è dunque da meravigliarsi che il razzismo fosse un tratto normale del loro comportamento, indiscusso e quasi naturale.

Ho potuto conoscere di persona alcuni di questi missionari coloniali.

Vilacaya (Potosí, Bolivia): le Wataqaminas, come sono chiamate le donne protagoniste di un’antica cerimonia quechua. / Foto di Stefania Raspo.

Il secondo tipo: i missionari conciliari

Negli anni Settanta, la scena cominciava a essere occupata da un secondo tipo di missionari. Erano i missionari che si riferivano esplicitamente al Concilio Vaticano II (1962-1965): scomparsi i cani dai cortili delle missioni, anche le razze erano ormai divenute un concetto desueto. Al posto delle razze si parlava di culture.

Almeno per quanto riguarda i missionari di questo secondo tipo da me incontrati, la cultura, pur ammessa, era però in gran parte soverchiata dall’economia, ossia dalla preoccupazione per i problemi materiali della comunità locale. Una parola svettava su tutte le altre: «sviluppo» (maendeleo nel kiswahili parlato in quella zona). Molte attività dei missionari erano dirette appunto allo sviluppo, e la cultura (la cultura locale, ma anche la cultura più in generale) era in gran parte sacrificata all’economia. Evidentemente, alle spalle non c’era soltanto il Concilio Vaticano II; c’erano anche gli echi delle rivendicazioni che i movimenti giovanili e solidaristici avevano «portato avanti» (come si usava dire allora) anche in un’ottica internazionale. Per questo secondo tipo di missionari il Vangelo significava fare del bene, in primo luogo ai poveri, alle popolazioni del sottosviluppo. La domanda che essi si ponevano era dunque la seguente: è più importante mantenere i loro usi e costumi, la loro cultura o non piuttosto favorire lo «sviluppo», insegnare loro la strada del «progresso»?

Nei pressi dell’ospedale cittadino di Beni, nel Nord Kivu, Congo Rd. / Foto di Vincent Tremeau – World Bank Photo.

Soldi invece di capre

Vorrei portare un esempio in cui sono rimasto coinvolto. Uno dei temi su cui mi ero concentrato fin dall’inizio delle mie ricerche sul campo era il cosiddetto compenso matrimoniale (omutahyo in kinande), secondo il quale il futuro sposo raccoglieva dieci capre dalla sua famiglia per offrirle in maniera cadenzata e ritualmente programmata alla famiglia della sposa: si trattava, dunque, di un processo rituale che si svolgeva nel tempo e che impegnava in diversi modi le due famiglie, così da creare legami di «alleanza» sempre più stretti (Remotti 1993: cap. II). La ricostruzione di questo lungo e complesso processo rituale si scontrò con il fatto che – su suggerimento e per impulso degli stessi missionari – esso veniva ormai in gran parte sostituito dalla moneta. Ricordo di avere discusso con alcuni di questi missionari, i quali consideravano l’omutahyo non solo un residuo del passato, un costume puramente tradizionale, senza più alcun vero significato culturale, ma un’istituzione cha faceva da ostacolo al progresso economico e sociale. Perché perdere tempo ed energie per raccogliere le dieci capre e consegnarle con un ritmo ritualizzato ed estenuante, visto che con la moneta il problema del compenso – se proprio si doveva mantenere questa idea – poteva essere risolto in un batter d’occhio?

Anche questo cambiamento (soldi invece di capre) rientrava nel progresso, nello sviluppo: la monetarizzazione era condizione e segno dell’accesso alla modernità.

Teologia e tecnologia

Pure i Banande avevano diritto di lasciare alle spalle il sottosviluppo, la stagnazione e accedere al mondo moderno. L’impegno dei missionari consisteva ovviamente nel tentativo di impedire che questo avvenisse sotto l’egida del più brutale capitalismo o all’insegna di movimenti di sinistra. Sotto questo profilo, l’acquisizione delle innovazioni tecnologiche appariva come un passo necessario e inevitabile, da compiere però nell’ambito della Chiesa e della parrocchia. In sintesi, mi sia consentito citare questo brano:

«Da parte di alcuni [missionari] vi era persino l’idea di dover competere con i movimenti di sinistra: la sfida era coinvolgere la popolazione in progetti, in cui coabitassero temi evangelici, come la solidarietà, l’acquisizione di un maggiore benessere, grazie a processi di sviluppo locale, la valorizzazione dell’associazionismo indigeno. Teologia e tecnologia andavano a braccetto: il Dio evangelico era dispensatore di turbine, con cui si alimentavano alcuni piccoli mulini e si portavano luce e corrente elettrica nei villaggi e nelle case» (Remotti 2017: 50).

Una barca tradizionale al lavoro sul lago Kivu nella provincia omonima. / Foto di Abel Kavanagh – Monusco.

Il Dio dei cristiani, gli dèi degli altri

Il Dio evangelico era pur sempre il Dio che nel Primo Testamento ebbe a dire di sé: «Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso». Quindi, «non avrai altri dèi oltre a me» (Esodo 20, 5; Deuteronomio 5, 7). Nel capitolo IV di Contro l’identità ho riportato l’episodio della reprimenda a cui fu sottoposto un vecchio giudice, nonché decano dei catechisti della parrocchia, allorché i missionari vennero a sapere che costui venerava sì in chiesa il Dio dei cristiani, ma nel contempo continuava a fare sacrifici agli avalimu, gli spiriti della tradizione: «Anche noi – mi diceva K. – abbiamo i nostri avalimu» (Remotti 1996: 40).

Questo vecchio giudice non intravedeva alcun problema di coesistenza tra il Dio dei cristiani – giunto dalle loro parti negli anni Quaranta del Novecento (un Dio senza dubbio importante, a giudicare dal potere degli europei e dalle risorse di cui anche i missionari disponevano) – e le loro divinità. Perché mai si sarebbe dovuto scegliere? Per questo vecchio saggio non c’era alcun motivo di rifiutare il Dio arrivato con gli altri, da lontano e dotato di tutti i beni di cui gli europei facevano sfoggio. Del resto, non era forse sufficiente che altri credessero in una loro divinità per ammetterne l’esistenza? Perché mai, in base a quali motivi, ricorrendo a quali criteri si dovrebbe negare l’esistenza delle divinità altrui? E se queste argomentazioni rendevano conto del fatto che i Banande non opposero alcuna resistenza all’arrivo della divinità dei Bianchi, perché mai esse non dovevano valere per gli spiriti e le divinità locali? «Anche noi abbiamo i nostri avalimu» aveva dunque il significato di una richiesta di riconoscimento: il vecchio giudice non chiedeva che gli europei (missionari o laici che fossero) partecipassero ai loro culti e ai loro sacrifici; chiedeva soltanto che si riconoscesse il diritto, da parte dei Banande, di venerare tanto il nuovo Dio (quello della chiesa costruita in mattoni), quanto gli avalimu, gli spiriti a cui erano dedicate minuscole capanne sparse qua e là sulle colline.

Per i missionari – anche per i missionari del secondo tipo, quelli che si ponevano esplicitamente nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II – la coesistenza invocata dal vecchio giudice era del tutto inammissibile. Nonostante la sua età avanzata e la sua autorevolezza, il vecchio giudice fu sottoposto a una dura lezione di monoteismo e, beninteso, non di un monoteismo generico, bensì del monoteismo forgiato da ciò che Jan Assmann (famoso egittologo tedesco, ndr) ha chiamato la «distinzione mosaica», ovvero il principio secondo cui il «nostro» Dio non è soltanto un Dio unico, ma è anche l’unico «vero» Dio: gli altri sono idoli, falsi dèi, con cui non si può convivere e che, anzi, occorre distruggere (Assmann 2011: 15, 25).

Una venditrice congolese si reca al mercato di Goma con un carico di «sambaza», piccoli pesci del lago Kivu. / Foto di Abel Kavanagh – Monusco.

I missionari e il diffondersi del dubbio

L’episodio del vecchio giudice avvenne nel 1976, proprio all’inizio della mia esperienza tra i Banande. Vent’anni dopo, nel 1996, incontrai a Kinshasa un gruppetto di giovani missionari: erano i missionari della Consolata. Anche per questi missionari il riferimento al Concilio Vaticano II era d’obbligo. Ciò che però mi aveva colpito, rispetto ai missionari del primo e del secondo tipo, era l’emergere di un – per me inatteso – spirito critico, anzi di un atteggiamento di dubbio. Dalle conversazioni avute con loro mi sembrava che lo spirito critico e il dubbio si rivolgessero sostanzialmente a due concetti: l’inculturazione e lo sviluppo. Ricordo anche che alcuni di loro chiedevano a me, in quanto antropologo, cosa esattamente fosse e come si dovesse intendere l’inculturazione, «quasi che i documenti del Concilio non fossero più del tutto convincenti» o del tutto chiari (Remotti 2017: 50).

Mi sia consentito proseguire nella citazione: «Rimasi colpito da questa loro esitazione e perplessità. Mi resi poi conto che per loro era molto problematico distinguere nella cultura nativa ciò che doveva essere considerato compatibile con il messaggio evangelico e quindi mantenuto, e ciò che doveva essere scartato. Ai loro occhi, e alla loro profonda sensibilità, balzavano i drammi che – magari senza saperlo, senza preavviso – si generavano con l’inculturazione».

Non diedi alcuna lezione. Mi rendevo conto che il concetto di inculturazione emerso dai documenti del Concilio e quello di impiego comune nelle scienze sociali non erano la stessa cosa. Soprattutto, però, mi rendevo conto che i dubbi e le perplessità di quei giovani missionari erano rivolti anche alla seconda nozione a cui ho accennato: «Essi ormai vedevano anche i guasti di ogni genere (sociale, culturale, economico) che spesso si producevano in nome dello “sviluppo”». La sensazione di avere a che fare ormai con un terzo tipo di missionari – se si accetta questa tipologia improvvisata, fondata soltanto sull’esperienza personale – era alquanto vivida e veniva confermata da quanto mi disse uno di quei missionari, il quale viveva presso un gruppo di pigmei. Riassumo in questo modo le sue parole: «Intendo la mia missione solo come una testimonianza; non impartisco ordini né suggerimenti; cerco di vivere come loro e secondo i dettami del Vangelo». Quel giovane missionario mi faceva anche capire che «”loro”, i pigmei, gli erano umanamente grati» di ciò. In questo modo, «era riuscito a farsi considerare un amico, un compagno. Nulla di più». Ma forse non c’è proprio bisogno «di più». Quel «nulla di più» in realtà «è tanto»: è niente di meno che condivisione di umanità, di una qualche forma di umanità.

Uno scolaro di una scuola elementare nei pressi di Goma, capoluogo del Nord Kivu. / Foto di Federico Scoppa – GPE.

La fede nel «progresso»: dall’esaltazione al ripensamento

Missionari e antropologi hanno molte cose in comune: tra queste il fatto di essere eredi di certezze, le quali si possono riassumere nella credenza di un progresso universale. Ovviamente, qui mi riferisco ai primordi dell’antropologia, allorché tra Ottocento e Novecento essa riteneva di poter collocare le società che andava studiando nei diversi continenti in una serie graduata di stadi di progresso, di forme di umanità sempre più perfezionate, culminanti nella civiltà contemporanea. E per quanto riguarda i missionari, che cos’è se non un’idea di progresso incessante quella contenuta nel concetto di plantatio ecclesiae? Come ci ricorda padre Mario Menin (2016: 13, 24-25), l’espressione, risalente agli Atti degli Apostoli e alle Epistole paoline, si ritrova nei padri della Chiesa (Agostino), nella teologia scolastica (Tommaso d’Aquino), per riapparire – infine – nella missiologia moderna, la quale «nella prima metà del secolo scorso ne fa una “bandiera di guerra” per definire il fine delle “missioni estere”». «Nel contesto coloniale», sottolinea ancora Menin (2016: 16), «missione» assume le sembianze ora di un’opera civilizzatrice di popoli «primitivi» e «selvaggi», ora di «conquista» di nuove terre a Cristo, attraverso la sconfitta e la sostituzione delle altre religioni e, più tardi, delle ideologie anticristiane, come il comunismo e l’ateismo.

Un secondo punto di convergenza tra antropologi e missionari può essere intravisto nel successivo abbandono, sia pure in tempi diversi, della fede nel progresso universale. Il rapporto tra gli antropologi e le società indigene non è più mediato dall’idea di progresso: è invece la «cultura» ciò che conferisce dignità di studio a società pur illetterate, prive di scrittura, dotate di una cultura materiale e di una tecnologia assai meno elaborate di quella occidentale. Perché la cultura (antropologicamente intesa) è sufficiente a conferire dignità di studio? Perché gli antropologi intravedono idee, valori, persino sistemi di idee e di significati, forme di pensiero profonde e raffinate nelle lingue e nelle pratiche sociali, nei rituali e nelle mitologie, nei saperi scientifici indigeni e nelle strutture politiche, nelle concezioni cosmologiche e filosofiche come nel pensiero giudiziario e così via. In altre parole, l’uso del concetto antropologico di cultura induce a scovare e a riconoscere un significato intrinseco ai sistemi sociali e culturali, e ciò del tutto a prescindere dalla posizione attribuita alle singole società in una ipotetica e ormai rinnegata scala evolutiva. Se la credenza nel progresso collocava inevitabilmente gli antropologi su un piano superiore di civiltà e gli indigeni su un piano inferiore, il concetto di cultura pone invece indigeni e antropologi sullo stesso piano, su un piano di parità e di dialogo. Addirittura costringe gli antropologi ad apprendere i segreti e le particolarità culturali delle società che essi studiano: molti antropologi hanno paragonato l’apprendimento, a cui sono professionalmente costretti sul campo, a quello del bambino che deve apprendere lingua e norme culturali del proprio gruppo.

Il Concilio Vaticano II e il nuovo missionario «ad gentes»

Nei documenti del Concilio Vaticano II possiamo cogliere assai bene il ruolo svolto dal concetto di cultura nell’impostare in maniera innovativa l’attività missionaria. Mario Menin sottolinea giustamente questo punto, allorché afferma: «Un’altra novità di Ad gentes», il decreto approvato quasi all’unanimità dal Concilio e promulgato da Paolo VI nel dicembre 1965, «è l’importanza data alle culture» (2016: 38). A questo proposito egli cita «uno dei passaggi più belli» (contenuto nel par. 11), quello in cui si afferma che occorre conoscere gli uomini in mezzo ai quali si vive e intrecciare con essi «un dialogo sincero e paziente» in modo tale da conoscere «quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli». Nello stesso paragrafo 11 le ricchezze elargite da Dio sono identificate con i «germi del Verbo» che si trovano nascosti nelle diverse culture umane: essi contribuiscono a costituire in maniera determinante il «patrimonio culturale» dei vari popoli (par. 21), nonché «tutta la bellezza delle loro tradizioni» (par. 22).

Per questo motivo coloro che si recano nei luoghi di missione – siano essi sacerdoti, religiosi, suore o laici – debbono «stimare molto il patrimonio, le lingue ed i costumi» delle società locali e a tale scopo occorre che essi siano «singolarmente preparati e formati» attraverso gli studi sia di missiologia sia delle scienze che forniscono «una conoscenza generale dei popoli, delle culture e delle religioni», una conoscenza che non sia orientata esclusivamente verso il passato, bensì soprattutto verso il presente (par. 26). Non solo, ma il decreto raccomanda un ulteriore approfondimento di conoscenza: una volta giunti sul terreno della missione, occorre impegnarsi per conoscere a fondo «la storia, le strutture sociali e le consuetudini dei vari popoli». Come si può notare, l’acquisizione del concetto di cultura induce a completare la figura del missionario con una vera e propria preparazione antropologica ed etnologica: egli non sarà soltanto un etnologo, perché – come vedremo – il suo compito non è solo conoscitivo; ma per svolgere il suo compito, il missionario dovrà comunque conoscere a fondo la cultura della società presso cui intende recarsi. E così, in veste di studioso, egli dovrà indagare e venire a conoscenza delle «idee più profonde» che le società «in base alle loro tradizioni, hanno già intorno a Dio, al mondo, all’uomo» (par. 26). È veramente notevole l’apertura che il decreto Ad gentes dimostra per gli aspetti più preziosi e in un certo senso più intimi e segreti di una cultura. Senza alcun dubbio è il concetto di cultura – fatto valere a proposito di coloro che un tempo venivano definiti «primitivi» e «selvaggi» – ciò che induce a trovare in loro e a valorizzare idee di ordine teologico, cosmologico, antropologico. La cultura presa in considerazione dal decreto Ad gentes e attribuita alle popolazioni del mondo è in effetti ricca e complessa: non è più la cultura povera ed elementare di coloro che dovevano essere spinti, a forza, sulla strada del «progresso».

Vilacaya (Potosí, Bolivia): le Wataqaminas, come sono chiamate le donne protagoniste di un’antica cerimonia quechua. / Foto di Stefania Raspo.

I dissidi tra evangelizzazione e culture

Come si è detto, il missionario di Ad gentes non è però soltanto colui che conosce da vicino e intimamente la cultura della società presso cui opera. Egli deve compiere all’interno della cultura un minuzioso lavoro di selezione. In un articolo di alcuni anni fa – a cui rimando per eventuali approfondimenti (Remotti 2011) – ho proposto alcuni brani, che qui riproduco in maniera sintetica:

1) nella Costituzione sulla sacra liturgia (Constitutio de sacra liturgia) «Sacrosanctum Concilium» (1963) si stabilisce di distinguere ciò che «nei costumi dei popoli… è indissolubilmente legato a superstizioni ed errori» e ciò che invece non lo è. Ciò che non è superstizione ed errore, la Chiesa «lo considera con benevolenza», «lo conserva inalterato» e «lo ammette nella liturgia stessa» (par. 37 – Denzinger 2003: 4037);

2) nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Constitutio dogmatica de Ecclesia) «Lumen Gentium» (1964) si ribadisce la distinzione tra ciò che nelle culture umane può essere conservato e ciò che va rifiutato. «Le capacità, le risorse e le consuetudini di vita dei popoli», che sono conservate in quanto «buone», vengono – inoltre – purificate, consolidate, elevate (par. 13 – Denzinger 2003: 4133).

Dieci anni dopo il Concilio Vaticano II, Paolo VI emana l’esortazione apostolica (Adhortatio apostolica) «Evangelii nuntiandi» (1975) in cui si precisa ulteriormente il rapporto tra evangelizzazione e cultura. In questo testo decisivo appaiono evidenti l’importanza e l’imprescindibilità della cultura sotto il profilo antropologico, come quando si afferma che gli uomini risultano sempre «profondamente legati a una cultura (sua certa cultura imbuti sunt)», di cui evidentemente non possono fare a meno, a tal punto che la stessa «costruzione del Regno», secondo i dettami del Vangelo cristiano, «non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane» (par. 20 – Denzinger 2003: 4577).

E tuttavia vi è un discidium inter Evangelium et culturam, una rottura, che si spiega con il fatto che il Vangelo e l’evangelizzazione «non si identificano con la cultura e sono indipendenti rispetto a tutte le culture».

L’evangelizzazione non può fare a meno di calarsi nelle culture, di diventare essa stessa cultura, ma la sua prerogativa è quella di «penetrare» profondamente in tutte le culture e «impregnarle», senza con ciò «asservirsi ad alcuna». Anzi, il Vangelo ha una forza dirompente nei confronti delle culture esistenti: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere (evertere) mediante la forza del Vangelo (Evangelii potentia) i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono «in contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza» (par. 19 – Denzinger 2003: 4575).

Donna e figlioletto all’ospedale di Beni, Nord Kivu, durante l’epidemia di ebola. / Foto di Vincent Tremeau – World Bank

La verità cristiana e il fine ultimo

È su questo sfondo tematico che occorre interpretare il concetto di inculturazione. Nell’enciclica Redemptoris Missio del 1990, Giovanni Paolo II intende tutta l’attività missionaria come avente lo scopo di inserire la Chiesa «nelle culture dei popoli», di provvedere dunque al «radicamento del cristianesimo nelle varie culture» (1991: § 52). Paolo VI in un discorso a Kampala aveva parlato di una vera e propria «incubazione» della verità cristiana nelle culture altrui. «Proseguendo nella metafora», possiamo dunque dire che «i missionari (parte attiva) sono coloro che penetrano nelle culture e le inseminano, facendo in modo che il germe attecchisca e si sviluppi in armonia con il Vangelo e con la chiesa universale» (Remotti 2011: 56).

Il fine è pur sempre quello chiarito in maniera indiscutibile nell’Ad gentes, ossia entrare nelle culture, separare ciò che è compatibile con il messaggio evangelico da ciò che non è compatibile, al fine di costruire «l’uomo nuovo», come era stato predicato nelle lettere di san Paolo e come ritorna più volte nell’enciclica citata (par. 8, 11, 12, 21).

Nell’Ad gentes si afferma in modo inequivoco che la costruzione dell’umanità nuova è non soltanto «compito imprescindibile» della Chiesa, ma anche suo «sacrosanto diritto».

Leggiamo in Ad gentes (par. 8): «“Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15). E poiché chi non crede è già condannato (Gv 3, 18), è evidente che le parole di Cristo sono insieme parole di condanna e di grazia, di morte e di vita. Soltanto facendo morire ciò che è vecchio possiamo pervenire al rinnovamento della vita.

E ancora: «La ragione dell’attività missionaria discende dalla volontà di Dio, il quale «vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità. Vi è infatti un solo Dio, ed un solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, uomo anche lui, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2, 4-6), e «non esiste in nessun altro salvezza» (At 4, 12). È dunque necessario che tutti si convertano al Cristo conosciuto attraverso la predicazione della Chiesa, ed a lui e alla Chiesa, suo corpo, siano incorporati attraverso il battesimo (par. 7).

I missionari che avevano rimbrottato il vecchio giudice seguivano esattamente queste linee dell’Ad gentes. Conoscevano le culture indigene, ma di fronte al «piano divino nel mondo e nella storia», di cui «l’attività missionaria non è altro che la manifestazione, cioè l’epifania e la realizzazione» (par. 9), le culture – come il vecchio giudice catechista – devono recedere: devono lasciarsi trasformare in un campo da inseminare.

Vangelo ed evangelizzazione: alcuni dilemmi

A me pare di trovarmi in un altro momento storico rispetto al Concilio Vaticano II. Come pure sostiene Mario Menin nel suo libro, «a cinquant’anni dalla fine del concilio (1965), la missione è molto cambiata» (Menin 2016: 121). L’idea della plantatio ecclesiae – così evidente, a mio parere, in tutta la prima parte dell’Ad gentes, dove in effetti si parla espressamente di plantatio Ecclesiae in populis (par. 6) – è stata in gran parte accantonata: la nuova idea di missione conosce la «svolta antropologica […] della teologia del Novecento» e l’inculturazione o l’inreligionizzazione sono concepite quali procedure di un’attività missionaria che «accetta il mondo, le religioni e le culture come interlocutori» (Menin 2016: 122). Le cose ovviamente non sono così semplici: alla base vi è pur sempre il «tormentato rapporto Vangelo-culture» (2016: 139).

Se le culture diventano protagoniste o coprotagoniste, se alle culture indigene si riconosce un ruolo attivo, che ne è del Vangelo? Possono ancora il Vangelo e la conseguente evangelizzazione essere considerati come fattori indipendenti, come manifestazione di una verità assoluta, che prescinde dai contesti storici e culturali, oppure Vangelo ed evangelizzazione sono anch’essi manifestazioni e realizzazioni culturali dell’umanità?

Una famiglia attraversa l’acqua che ha invaso la sede stradale nel territorio di Masisi, provincia del Nord Kivu, Congo Rd. / Foto Teseum.

Vangelo e culture, una distanza che si riduce

Le relazioni tenute al Convegno dei missionari e missionarie della Consolata (Roma, 14-18 ottobre 2019) non sono giunte dichiaratamente a questi esiti. Tuttavia, l’insistenza sui temi del dialogo e della condivisione; dell’incontro e dell’apertura; del convivere anziché del convertire; della necessità dell’apprendimento dalla cultura di coloro che coltivano altre credenze; della valorizzazione dei loro saperi e della loro peculiare e intrinseca spiritualità; della compenetrazione reciproca; dell’armonizzazione intima e paritaria tra Vangelo e saggezza indigena; delle opportunità di sintesi tra cristianesimo e religioni sconosciute e senza nome; dell’interculturalità come linguaggio polifonico; dell’ascolto del pensiero altrui provvedendo a una sospensione (epoché) dei propri criteri di giudizio e delle proprie convinzioni; del considerare e rendere gli indigeni protagonisti dell’attività missionaria; del ricercare un percorso condiviso così da non convivere solamente e limitarsi a stare insieme, bensì camminare insieme; del ricercare insieme, umilmente e fattivamente, forme più proponibili di umanità; del progettare insieme, in forma collaborativa, un futuro migliore per l’umanità – l’insistenza su questi temi fa capire che il discidium tra Vangelo e cultura, che per Paolo VI era «senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (Evangelii nuntiandi, par. 20 – Denzinger 2003: 4578), tende ad attenuarsi.

La distanza tra Vangelo e cultura appare assai meno accentuata: non sono più le culture a dover essere evangelizzate (§ 2); è anche il vangelo che potrebbe presentarsi come una cultura: una cultura a cui si vuole essere fedeli e tuttavia una cultura umana in mezzo ad altre culture umane.

Molti missionari nelle loro relazioni hanno posto in luce come la convivenza e l’interazione con le culture indigene abbiano plasmato la loro esistenza, abbiano mutato in senso positivo le loro convinzioni di partenza. Non ho mai sentito nessuno esprimere a tal proposito la preoccupazione avanzata da Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio, il quale metteva in guardia circa «i pericoli di alterazione che si sono a volte verificati», con la rinuncia alla «propria identità culturale», coincidente con il Vangelo e la verità cristiana (par. 53). Allo stesso modo, in nessuna relazione a cui ho assistito mi pare sia emersa la convinzione, presente invece nella stessa enciclica, secondo cui le culture umane, in quanto prodotte dall’uomo, sono inevitabilmente «segnate dal peccato» (par. 54): una definizione negativa e svalutativa delle culture umane, le quali hanno manifestamente bisogno di un programma di salvazione dal peccato per essere utili all’umanità. Al contrario, ho sentito dire che Dio è presente in quei luoghi, nelle loro culture, nelle loro forme di umanità.

Che fare (se rimane un po’ di tempo)?

Nelle relazioni ho avvertito un senso di urgenza. Il riferimento costante all’enciclica di papa Francesco Laudato si’, alla visione di un’ecologia integrale, al tema di un’interconnessione tra le culture umane e tra la cultura e la natura, esprimeva la necessità di dare luogo a una visione comune e condivisa, un sapere alla cui costruzione contribuiscano tanto il Vangelo quanto molte altre culture e religioni. Il mito del progresso, con cui un tempo missionari e antropologi pretendevano di indicare la via di salvezza per l’intera umanità, si è tramutato nello spettacolo immondo di una terra devastata, dove è in pericolo l’umanità stessa, oltre che molte altre specie naturali. Su questi temi molte società frequentate dai missionari e indagate dagli antropologi hanno da tempo richiamato l’attenzione di noi occidentali, noi «popolo della merce» dalla vista corta, accecati dalla nostra avidità, come lo sciamano yanomami Davi Kopenawa ci ha apostrofati (Kopenawa e Albert 2018).

Non è più tempo di divisioni. Se ancora rimane un po’ di tempo, è bene che lo impieghiamo a costruire davvero una «nuova umanità», recuperando saggezza e lungimiranza da ogni parte esse possano provenire: dai testi sacri delle religioni più importanti, tanto quanto dalle culture più lontane e dalle religioni senza nome e notorietà. A questa impresa reputo che si sentano chiamati sia gli antropologi, allorché concepiscono la loro professione come un salvataggio conoscitivo delle forme di umanità più diverse (anche le più problematiche e inquietanti), sia i missionari, i quali con la loro presenza nei luoghi più lontani e più difficili intendono dimostrare che la collaborazione tra esseri umani è possibile e perseguibile, nonostante le differenze culturali e nonostante i conflitti, le lacerazioni, le degradazioni. Forse proprio questa è l’idea di missione più condivisa, quale è emersa dal Convegno, ossia un comune e partecipato impegno antropo-poietico (Remotti 2013), proprio quando si assiste ai disastri umani e naturali di un «incivilimento» forsennato.

Fratel Antonio Soffientini, missionario comboniano, ha affermato che prima i missionari camminavano insieme ai civilizzatori, ora invece camminano insieme alle vittime della civiltà. Anche per questo, mi sembra di poter dire che antropologi e missionari si ricongiungono su una stessa sponda. Abbandonati i miti e le certezze di un tempo, si ritrovano infine nella stessa barca, insieme a coloro che, costretti a fuggire dalle loro terre, si ostinano disperatamente a spingere lo sguardo verso un futuro migliore.

Francesco Remotti

Una donna con un bimbo sulle spalle al mercato di Mweso, territorio di Masisi, Nord Kivu, Congo Rd. / Foto di Alexis Huguet – AFP.


Fonti bibliografiche

  • Francesco Remotti, Etnografia Nande, Il Segnalibro, Torino 1993.
  • Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996.
  • Francesco Remotti, Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari 2004.
  • Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008.
  • Francesco Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Roma-Bari 2013.
  • Mario Menin, Missione, Cittadella Editrice, Assisi (Perugia) 2016.
  • Davi Kopenawa – Bruce Albert, La caduta del cielo, Nottetempo, Milano 2018.
  • John Beattie, Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973.
  • Gérard Leclerc, Antropologia e colonialismo. L’Occidente a confronto, Jaka Book, Milano 1973.
  • Alfonso Maria Di Nola, Antropologia religiosa, Vallecchi Editore, Firenze 1974.
  • Silvano Sabatini – Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo. Tra gli indios dell’Amazzonia, Ediesse, Roma 2011.

La Paz, Bolivia, marzo 2020 / foto Marcelo Perez Del Carpio / Anadolu Agency


Hanno firmato questo dossier:

Francesco Remotti – Antropologo e professore universitario, tra i vari incarichi ricoperti è stato direttore del dipartimento di Scienze antropologiche dell’Università di Torino. Si è occupato soprattutto di Africa equatoriale. Ha condotto ricerche in Congo Rd presso la popolazione Nande. È autore di numerosi libri tra cui i più recenti sono: Per un’antropologia inattuale (2014), Somiglianze. Una via per la convivenza (2019).

Stefania Raspo – Missionaria della Consolata, quarantatreenne, piemontese di nascita, boliviana di adozione. Dal 2013 vive a Vilacaya, nel dipartimento di Potosí, in Bolivia, in una regione contadina di lingua quechua. Laureata in filosofia e in teologia, sta studiando antropologia con un corso a distanza dell’Università cattolica boliviana.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.




Apprendista «coreano»

testo di Stephano Nabgaa Babangenge |


Ho imparato a essere missionario inserendomi come assistente parroco nella vita pastorale della comunità cristiana di Eunhaeng-dong.

Mi chiamo Stephano Nabgaa Babangenge, nativo di Wamba nel Nord della Repubblica democratica del Congo. Sono diventato sacerdote dei missionari della Consolata nel 2014 e subito dopo inviato alle nostre missioni in Corea del Sud.

Dopo aver concluso, almeno a livello scolastico, i tre anni di studio della lingua, avevo bisogno di entrare in profondità sia nella cultura coreana che nella Chiesa locale che ammiravo anche se un po’ da lontano. Presto fatto. Il mio superiore ne ha parlato con il vescovo John Baptist della diocesi di Incheon, nella quale abbiamo la nostra casa di Yeogkok-dong, e mi ha mandato come viceparroco alla parrocchia di Eunhaeng-dong, una cittadina a Est di Incheon. Qui, per due anni ho goduto la bellezza del vivere in una Chiesa cattolica molto diversa da quella a cui ero abituato in Congo e la gioia dell’incontro con il popolo coreano per quel che riguarda il cibo, la cultura, la lingua e tanto altro.

Il numero di cose che ho imparato è semplicemente sorprendente. Pur con le mie difficoltà di comunicazione, ho apprezzato quanto le persone siano state pazienti e pronte ad ascoltare. Questo mi ha incoraggiato a continuare a imparare sempre di più e meglio. Oggi ho maggior confidenza nel parlare, mi sento più a mio agio nel capire e più sicuro anche nel celebrare la messa e predicare.

Viceparroco

Vivendo nella parrocchia, sono stato coinvolto in tutte le attività: messe quotidiane (con l’omelia), confessioni, visite ai malati e unzione degli infermi, benedizioni varie (macchine, uffici, acqua, case…), adorazioni mensili, incontri della Legio Mariae, degli studenti e insegnanti della scuola secondaria, dei seminaristi e visite alle famiglie.

Inoltre, essendo incaricato di curare i chierichetti, i bambini della Sunday school e la gioventù, ho preso parte in tutte le loro attività come le messe settimanali, incontri di formazione, campeggi, gite, ritiri, giochi. Tutto ciò mi ha aiutato a conoscere la struttura, l’organizzazione e i vari modi di essere della Chiesa coreana. Allo stesso tempo ha contribuito ad allargare la mia conoscenza, comprensione e rispetto della cultura e del popolo. È una bellissima esperienza che ogni missionario in Corea dovrebbe fare.

Molto positiva anche la condivisione di vita con il parroco e altri preti diocesani della nostra unità pastorale, una decina, durante gli incontri mensili nei quali si discutevano delle nostre attività pastorali e della vita di tutta la Chiesa nella circoscrizione.

È stato un tempo per imparare, osservare e inserirmi nel contesto. Anche qui mi sono sentito amato e considerato, non dicendo nulla, ma semplicemente essendo presente.

Coinvolgimento dei Miei confratelli

La mia presenza nella parrocchia è diventata anche motivo di una bella collaborazione tra la stessa e i missionari della Consolata, che sono stati coinvolti in svariate attività di animazione missionaria e pastorale della comunità. Questo ha fatto sì che molte persone siano venute a conoscerci meglio e ora partecipino alle nostre attività di animazione missionaria, al nostro programma di ritiri annuali, di esperienze nelle nostre missioni in Africa o America Latina e, ovviamente, le sostengano.

Prospettive future?

Quest’anno celebriamo il trentesimo anniversario della venuta dei missionari della Consolata nella Corea del Sud. Sono orgoglioso di essere parte di questa storia. Sogno un’attività missionaria centrata nella collaborazione con la Chiesa locale.

In questi due anni vissuti in una comunità locale ho potuto capire quanto sia importante coinvolgersi direttamente e collaborare dal di dentro. Collaborazione con la Chiesa e il clero locale, imparando come le cose si fanno e come la società si sta muovendo, è una delle cose cruciali raccomandate dal beato Giuseppe Allamano a tutti i suoi missionari. Questo ci aiuta anche a comprendere il cuore della gente e della società coreana, vecchi, giovani e anche bambini.

Stephano Nabgaa Babangenge




Amazzonie, riflessioni post Sinodo panamazzonico

Testi di: Gaetano Mazzoleni, Paolo Moiola, Jaime C. Patias. A cura di: Paolo Moiola |



Dopo un lungo e tormentato percorso storico

Un sinodo sull’Amazzonia, finalmente

Questo sinodo era un’esigenza storica. Non è nato all’improvviso, ma da un lungo percorso della Chiesa e del papato. Un missionario e antropologo con una lunghissima esperienza nell’Amazzonia commenta il documento finale (senza trascurare qualche puntatina polemica verso i critici).

Dopo oltre cent’anni dall’enciclica Lacrimabili statu di san Pio X sulle condizioni disumane dei popoli amazzonici, finalmente è stato realizzato un sinodo sulla Panamazzonia e sui suoi abitanti. Questa affermazione potrebbe meravigliare molti lettori, ma molto di più ha sorpreso qualche manipolo di cattolici – si potrebbe dire – «più papisti del papa», che hanno fatto di tutto per ostacolare e disturbare la realizzazione di questo sinodo speciale. Ma andiamo con ordine.

Diversi gli invasori, identici i risultati

La prima domanda da porsi è: perché un sinodo speciale sull’Amazzonia? La risposta è duplice: la prima legata all’attualità ambientale, la seconda alla preoccupazione della Chiesa per i più deboli.

Nei mesi scorsi i mass media ci hanno inondato di pessime notizie ambientali. Da un lato, la fascia equatoriale del mondo, in cui si trovano realtà come il bacino amazzonico, il bacino del Congo e la zona del Sud Est asiatico, aree che hanno registrato preoccupanti segni di distruzione da parte dell’uomo (con probabili ripercussioni sui cambiamenti climatici globali). Dall’altro, i mesi di giugno e luglio sono stati caratterizzati da notizie allarmanti sulla foresta amazzonica in fiamme.

Le problematiche della regione amazzonica erano già state affrontate dalla Chiesa con la bolla di Benedetto XIV Immensa Pastorum Principis del 20 dicembre 1741, la bolla di Urbano VIII del 22 aprile del 1639 Commissum nobis e, ancora più indietro nel tempo, la bolla Pastorale Officium di papa Paolo III, datata 29 maggio 1537.

La citata enciclica di San Pio X, Lacrimabili statu, datata 7 giugno 1912, aveva come oggetto la tutela dei diritti umani e naturali degli amerindi amazzonici. Ai tempi, queste popolazioni erano oggetto di indicibili soprusi. Era l’epoca dello sfruttamento del caucciù (fine secolo XIX – prima metà del secolo XX), un periodo storico corrispondente all’inizio dell’industria automobilistica nel mondo occidentale. Il ciclo del caucciù si sarebbe concluso con l’arrivo dei derivati del petrolio, dopo la seconda guerra mondiale.

Denunciando quelle situazioni disumane, san Pio X si dimostrò un papa antesignano rispetto alla sensibilità per le condizioni dei popoli indigeni e dell’Amazzonia. Dopo oltre 100 anni da quella denuncia, l’esperienza dimostra che sono cambiati gli invasori, ma i fatti si ripetono: conquista, occupazione, distruzioni, profitto, oro, morti e sempre le stesse persone che perdono.

Questi due elementi – il progressivo degrado della situazione ambientale e la condizione delle popolazioni autoctone amerindie – indicavano alla Chiesa la necessità di fare qualcosa.

Così, quando papa Francesco ha parlato per la prima volta della necessità di un sinodo sull’Amazzonia, la mia prima reazione è stata un’esclamazione di gioia: «Finalmente. Era ora!». Non solamente perché lo consideravo giusto, utile o una novità assoluta, ma per la sua esigenza storica.

Una Chiesa che ascolta

foto Paolo Moiola

Scorrendo le pagine del Documento finale del Sinodo speciale, uscito a fine ottobre, mi pare esplicito l’invito a riflettere su diverse problematiche: ambientali, ecologiche, antropologiche ed ecclesiali.

La Chiesa «in uscita» si mette in «ascolto» del grido di aiuto dell’Amazzonia e delle popolazioni indigene che l’abitano per riflettere su come annunziare, vivere, celebrare il messaggio evangelico ed essere Chiesa radunata dall’Eucaristia. Riascoltando le voci dell’Amazzonia, il sinodo speciale invita tutte le persone di buona volontà, nello spirito di Francesco d’Assisi, a prendersi cura della «casa comune», a praticare la solidarietà con i più poveri che devono recuperare la loro dignità di persone, di figli di Dio e la loro identità culturale. «Cristo indica l’Amazzonia»: con questa affermazione di san Paolo VI comincia il primo capitolo (numeri 5 – 19) del Documento finale. È un grido che viene da lontano: dalla Lacrimabili statu di san Pio X, attraversa tutto l’arco temporale e di pensiero del Concilio Vaticano II e arriva fino ai nostri giorni.

Per la Chiesa latinoamericana il percorso verso l’Amazzonia e i suoi abitanti si è snodato attraverso gli incontri della Conferenza episcopale latinoamericana (Celam): Medellìn (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992), Aparecida (2007), ma anche e forse soprattutto i molteplici incontri promossi dal «Dipartimento di Missioni» (Demis) dello stesso Celam con la guida del papa.

Dalla connessione all’alleanza

«Connessione» è un’ulteriore prospettiva essenziale del Documento finale perché presenta la stretta unione tra il grido della terra e quello dei poveri con la denuncia della distruzione del creato, dello sterminio del mondo naturale, della minaccia alla vita umana di coloro che abitano quei territori, ma anche con l’annuncio e la testimonianza della buona notizia di Gesù.

La connessione si fa alleanza quando si parla di Chiesa e popoli indigeni: Chiesa alleata del mondo amazzonico. Cristo, indicandoci l’Amazzonia, ci segnala le grandi sfide globali, la crisi socio-ambientale, il dramma delle migrazioni forzate e la convivenza tra culture e religioni differenti. L’ascolto dell’Amazzonia è un invito per la Chiesa alla conversione integrale perché ne riconosce il suo messaggio di vita: la voce e il canto dell’Amazzonia che diventa nello stesso tempo un grido di tutto il territorio e dei suoi abitanti. Dall’ascolto sorge la proposta di nuovi cammini di conversione pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

© Vatican Media

Il percorso di una conversione pastorale (20 – 40) riguarda tutti i battezzati chiamati a costruire una Chiesa samaritana, misericordiosa e solidale. Una Chiesa missionaria impegnata nel dialogo ecumenico, interreligioso e culturale con volto e cuore indigeno o contadino (caboclo, ribereño, colono, afrodiscendente, …), migrante e giovane. Alla Chiesa della Panamazzonia è chiesto di diventare essa stessa missionaria. L’ascolto della Panamazzonia si trasforma – inoltre – in una conversione culturale (41 – 64).

Alleandosi con i popoli amazzonici la Chiesa si sente in dovere di rispettare e far rispettare i loro valori, le loro culture e il loro stile di vita come risultato di una forza vitale di adattamento storico. La Chiesa difende i diritti dei popoli amazzonici e denuncia tutti gli attacchi contro la vita delle loro comunità, il loro ambiente, con molteplici forme di sfruttamento.

Questa presa di posizione implica un’apertura sincera all’altro visto come fratello da cui si può imparare – ce lo dimostra la millenaria esperienza di adattamento dei popoli amerindi – e non come mezzo di cui servirsi a nostro beneficio. Per la Chiesa la difesa della «vita» e dei diritti dei popoli amerindi è un principio evangelico. L’alleanza tra popoli indigeni e Chiesa si realizza nell’ottica della fraternità, si manifesta in una sempre maggiore inculturazione della fede nella vita dei popoli amazzonici. In un’atmosfera di fraternità la Chiesa deve svolgere la missione di evangelizzare, il che non ha nulla a che vedere con il proselitismo, rifiutando al tempo stesso ogni forma di «evangelizzazione di stile coloniale».

I nuovi cammini di conversione ecologica (65 – 85) indicano che lo sfruttamento illimitato della «casa comune e dei suoi abitanti» deve essere fermato. Un’ecologia integrale non è un cammino tra i tanti che la Chiesa può scegliere per il suo futuro e quello di questo territorio, ma è l’unica via possibile e urgente; non esiste altro percorso praticabile per salvare la regione e i popoli indigeni. I cambiamenti nel sistema economico mondiale e la solidarietà globale sono urgenti e necessari.

Anche se la Chiesa non ha il potere di cambiare immediatamente e ovunque i modelli di sviluppo distruttivi e predatori, essa segnala e mostra da che lato sta. Il fondamento è la dottrina sociale della Chiesa, che implica espressamente l’ecologia. Deve impegnarsi per uno sviluppo equo, solidale e sostenibile con una denuncia coraggiosa dello scempio prodotto dall’estrattivismo.

L’introduzione del «peccato ecologico»

Nel porre in rilievo nuovi cammini di sviluppo «amichevoli» verso la casa comune, la Chiesa fa un’opzione chiara per la difesa della vita, della terra (territorio) e delle culture originarie amazzoniche (78).

In tale luce si comprende il «peccato ecologico» (82): ogni azione o omissione contro Dio, il prossimo, la comunità e l’ambiente. Tra le proposte concrete, spicca quella di un fondo mondiale per coprire parte dei bilanci delle comunità amazzoniche e la creazione di un osservatorio socio-ambientale pastorale che lavori in alleanza con i vari attori ecclesiali nel Continente – a partire dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – e con i rappresentanti delle etnie native.

Nell’orizzonte di comunione e partecipazione si devono cercare nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministerialità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico (86-119). La Chiesa ha bisogno di nuove esperienze sinodali, di un nuovo cammino fatto insieme, di una cultura del dialogo e dell’ascolto per rispondere alle sfide pastorali. In particolare, nel documento si sottolinea a questo riguardo la corresponsabilità dei laici.

Il volto femminile

Un’intera sezione del Documento è poi dedicata alla «presenza e all’ora della donna», al volto femminile della Chiesa amazzonica. Il ruolo straordinario dell’evangelizzazione al femminile viene riconosciuto con forza chiedendo la possibilità che anche le donne possano accedere ai ministeri di lettorato, accolitato e di dirigente di comunità.

Il testo del Documento finale è il risultato dello «scambio aperto, libero e rispettoso» svoltosi nelle tre settimane di lavori del Sinodo, per raccontare le sfide e le potenzialità dell’Amazzonia, «cuore biologico» del mondo, un cuore esteso su 9 paesi e abitato da oltre 33 milioni di persone, di cui circa 2,5 milioni di indigeni. Questa regione, seconda area più vulnerabile al mondo (dopo l’Artico) a causa dell’uomo, si trova «in una corsa sfrenata verso la morte» e ciò esige urgentemente una nuova direzione che consenta di salvarla, pena un impatto catastrofico su tutto il pianeta.

foto Paolo Moiola

Amazzonia, «locus theologicus»

Questo, per sommi capi, il contenuto del documento finale di un sinodo benedetto, anche se arrivato molto tardi.

Penso di poterlo affermare sulla base dei miei 45 anni trascorsi nella regione amazzonica. Una regione dove, durante la stagione delle piogge (invierno), i fiumi si gonfiano, straripano e mandano a farsi benedire tutti i confini stabiliti «politicamente». Durante questa stagione i confini cambiano. È la legge della Panamazzonia, diversa dalla legge degli stati.

Come è diversa quella che dice: «I fiumi uniscono, non dividono». Diretta conseguenza di un altro principio: «Chi proibisce agli uccelli dell’altra sponda di venire a questa e viceversa? O chi impedisce ai pesci di questo lato del fiume di passare liberamente e tranquillamente all’altro?». Questa è saggezza e filosofia panamazzonica o, se si preferisce, «pensiero mistico religioso» di quell’area.

Qualcuno si è scandalizzato per espressioni come «buon vivere» o, ancora di più, «Pacha Mama» (madre terra). Eppure, un noto salmo biblico recita: «Venite ammirate le opere del Signore: ha fatto cose stupende sulla terra» (come, per esempio, il bacino e la selva amazzonica). In effetti, ci vuole così poco per riconoscere la foresta panamazzonica come un «locus theologicus»: basta viverci dentro.

Gaetano Mazzoleni

foto Paolo Moiola

 


Il documento finale del sinodo, una lettura laica:

L’Amazzonia, cuore biologico del mondo

Come l’Instrumentum laboris, anche il documento finale del Sinodo panamazzonico ha tra i propri meriti la chiarezza delle posizioni. Almeno quando parla della situazione politica, ambientale e antropologica.

Link ai documenti del Sinodo:

La situazione dell’Amazzonia, cuore biologico della Terra, è drammatica. Sono necessari – ricorda nei passaggi iniziali il documento finale del Sinodo – dei cambi radicali e urgenti nonché una nuova direzione che permetta di salvarla (2 – questi numeri si riferiscono al documento finale).

Nella regione amazzonica coesiste una realtà plurietnica e multiculturale, dato che, oltre ai popoli originari, esistono popolazioni meticce nate dall’incontro tra popoli diversi (8). I popoli indigeni hanno come orizzonte il «buon vivere», che significa vivere in armonia non soltanto con se stessi e con gli altri esseri umani, ma anche con la natura e con l’essere supremo (9).

Questa realtà plurietnica, pluriculturale e plurireligiosa richiede un’apertura al dialogo, riconoscendo la molteplicità degli interlocutori: oltre ai popoli indigeni, quelli rivieraschi, i contadini, gli afrodiscendenti, le organizzazioni della società civile, i movimenti sociali popolari, lo stato (23). Senza dimenticare le altre chiese cristiane e denominazioni religiose, anche se le relazioni tra cattolici e pentecostali, carismatici ed evangelici non sono facili (24). Va poi precisato che, in Amazzonia, il dialogo interreligioso si rivolge specialmente alle religioni indigene e ai culti afro. Queste tradizioni meritano di essere conosciute, comprese nelle loro espressioni e nelle loro relazioni con la foresta e la madre terra (25).

Nella foresta non soltanto la vegetazione è in connessione, ma anche i popoli sono collegati in una rete di alleanze che porta vantaggi per tutti. Grazie a questo sistema di interrelazioni e interdipendenze il pur fragile equilibrio dell’Amazzonia si è preservato nel tempo (43).

La visione indigena e quella occidentale

Il pensiero dei popoli indigeni offre una visione integrale della realtà, una visione capace di comprendere le molteplici connessioni esistenti tra tutti gli elementi del creato. Questo contrasta con la corrente dominante del pensiero occidentale che, per comprendere la realtà, tende a frammentarla, senza riuscire ad articolare una visione complessiva e unitaria. Oltre a ciò, nei popoli indigeni s’incontrano anche altri valori come la reciprocità, la solidarietà, il senso di comunità, l’eguaglianza (44).

L’avidità per la terra è alla radice dei conflitti che portano all’etnocidio, così come all’assassinio e alla criminalizzazione dei movimenti sociali e dei suoi dirigenti. La demarcazione e la protezione delle terre indigene è un obbligo degli stati nazionali e dei loro rispettivi governi. Senza dubbio, buona parte dei territori indigeni sono sprovvisti di protezione e quelli già demarcati (per esempio, la terra degli Yanomami) sono invasi a causa dell’estrattivismo minerario e forestale, dei grandi progetti infrastrutturali, delle coltivazioni illecite (in primis, la coca) e dei latifondi che promuovono le monocolture e l’allevamento estensivo (45).

Come spiega molto bene la Laudato si’, l’«ecologia integrale» ha il suo fondamento nel fatto che tutto è in connessione. Questo significa che ecologia e giustizia sociale sono intrinsecamente unite (66). Una delle cause principali della distruzione dell’Amazzonia è il cosiddetto «estrattivismo predatorio» che risponde alla logica dell’avarizia, propria del paradigma tecnocratico dominante (67).

foto Paolo Moiola

La visione indigena e quella occidentale

Risulta scandaloso che si criminalizzino i leader indigeni e le comunità per il solo fatto di reclamare i propri diritti. In questi ultimi anni, la regione amazzonica ha visto un continuo incre-
mento dello sfruttamento delle risorse naturali (legname, petrolio, oro e molto altro) e lo sviluppo di megaprogetti infrastrutturali (dighe, centrali elettriche, strade). Tutto questo si è tradotto in pressioni dirette sui territori ancestrali senza la possibilità per gli indigeni di ottenere giustizia (69).

È evidente che l’intervento dell’uomo ha perso il suo carattere «amichevole», per assumere un’attitudine vorace e predatoria che tende a sfruttare le risorse naturali disponibili fino al loro esaurimento (71). Molte attività estrattive, come le miniere su grande scala (quelle illegali in particolare, si pensi all’estrazione dell’oro), riducono in maniera sostanziale il valore della vita in Amazzonia. In effetti, si appropriano della vita dei popoli e dei beni comuni della terra, concentrando potere economico e politico nelle mani di pochi. A peggiorare le cose, molti di questi progetti distruttivi si realizzano nel nome del progresso e sono appoggiati o permessi dai governi locali, nazionali e stranieri (72).

Il futuro dell’Amazzonia è riposto nelle mani di tutti noi. Esso dipende principalmente dall’abbandono immediato del modello di sviluppo attuale che distrugge la foresta, non porta benessere e pone in pericolo l’immenso tesoro naturale amazzonico e i suoi guardiani (73).

La Chiesa riconosce la conoscenza tradizionale dei popoli indigeni rispetto alla biodiversità, una conoscenza viva e sempre in marcia. Il furto di essa è chiamata biopirateria, una forma di violenza contro queste popolazioni (76).

Nel nuovo modello sostenibile e inclusivo diventa una necessità urgente lo sviluppo di politiche energetiche che riducano drasticamente l’emissione di biossido di carbonio (CO2) e degli altri gas legati al cambiamento climatico. Inoltre, va assicurato l’accesso all’acqua potabile, che è un diritto umano fondamentale (77).

La difesa della vita dell’Amazzonia e dei suoi popoli necessita di una profonda conversione personale, sociale e strutturale (81). Occorre adottare comportamenti responsabili che rispettino e valorizzino i popoli dell’Amazzonia, le loro tradizioni e conoscenze, proteggendo la loro terra e cambiando i nostri modi di vivere. Dobbiamo ridurre il consumo eccessivo e la produzione di rifiuti solidi, stimolando il riuso e il riciclaggio. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e dall’uso delle plastiche. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini alimentari, visto l’eccessivo consumo di carne e pesce. Dobbiamo attivarci nella semina di alberi. Dobbiamo cercare alternative sostenibili nell’agricoltura, nel campo energetico e nella mobilità. Dobbiamo promuovere a tutti i livelli l’educazione all’ecologia integrale (84).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Valorizzare la donna e le lingue autoctone

La saggezza dei popoli ancestrali afferma che la madre terra ha un volto femminile. Sia nel mondo indigeno che in quello occidentale la donna è la persona che lavora in una molteplicità di campi (101). Eppure, nella vita quotidiana le donne sono vittime di violenza fisica, morale e religiosa. La Chiesa si schiera in difesa dei loro diritti e le riconosce come protagoniste e guardiane della creazione e della casa comune (102).

Avviandosi alla conclusione, il Documento finale ricorda che la Chiesa cattolica deve dare una risposta alla richiesta delle comunità amazzoniche di adattare la liturgia valorizzando la cosmovisione, le tradizioni, i simboli e i riti originari nelle loro dimensioni trascendenti, comunitarie ed ecologiche (116). E tutto va fatto usando le lingue proprie dei popoli che abitano l’Amazzonia (118).

Paolo Moiola

© Vatican Media


Scheda


Contro il sinodo e contro papa Francesco: Tribalista ed ecologista

Il Sinodo panamazzonico ha avuto molti avversari interni alla Chiesa cattolica. Per capirne di più, abbiamo dato un’occhiata ai loro siti.

Povero padre Corrado Dalmonego, non solo hanno messo il suo essere missionario tra virgolette («questo “missionario”»), ma ne hanno anche travisato il cognome (Dalmolego), segno – lo diciamo per inciso – non di sbadataggine ma di sciatteria. L’ambito è il sito dell’agenzia Corrispondenza Romana e la firma è quella di Cristina Siccardi, saggista torinese molto critica verso il pontificato di papa Francesco. È la stessa persona che sul medesimo sito, il 6 novembre, scriveva scandalizzata: «Il papa in persona, il 4 ottobre scorso, alla vigilia del Sinodo, ha partecipato ad una cerimonia nei giardini del Vaticano, insieme a vescovi e cardinali, guidata in parte da sciamani, dove sono stati usati degli oggetti che nulla hanno a che vedere con il Cattolicesimo, in particolare la donna nuda e incinta, la Pachamama. Papa Francesco ha anche riverito due vescovi che portavano in processione la Pachamama sulle loro spalle nella Sala del Sinodo, per essere poi collocata in un luogo d’onore. E statue di figure femminili nude in legno sono state venerate nella Basilica Vaticana, di fronte alla Tomba di San Pietro!».

Sarebbe interessante sapere il parere di Cristina Siccardi sul nudo nell’arte sacra o, senza andare lontani, sui corpi nudi della Cappella Sistina.

Corrispondenza Romana è il sito – uno di quelli ascrivibili al fondamentalismo cattolico anti papa Francesco (vedere riquadro) – che ha esultato per il gesto, definito «coraggioso», del giovane austriaco che «il 21 ottobre ha rimosso dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina (una delle sedi esterne del Sinodo, ndr) e ha gettato nel Tevere le statuette di Pachamama, la divinità pagana rappresentante la “Madre Terra” amerindia».

© Guilherme Cavalli-Cimi

Il Sinodo è una minaccia

L’offensiva contro il malcapitato padre Corrado – missionario in Amazzonia (Catrimani, Roraima, Brasile), giovane ma preparatissimo, tanto da essere chiamato come uditore al Sinodo – era iniziata già a giugno 2019 con un attacco firmato dal cileno José Antonio Ureta sempre su Corrispondenza Romana.

Ureta così descrive gli Yanomami tra i quali padre Dalmonego opera: «Gli Yanomami sono un gruppo etnico composto da 20 a 30 mila indigeni che vivono nella foresta tropicale in modo molto primitivo […]. I loro vestiti sono molto sommari e li usano a malapena come ornamento ai polsi, alle caviglie e come cintura attorno alla vita. Gli uomini della tribù generalmente hanno varie mogli, comprese adolescenti appena entrate nella pubertà. Gli uomini sono soliti consumare la pianta “epená” o virola, che contiene una sostanza allucinogena». José Antonio Ureta è membro di «Tradizione, famiglia e proprietà», un movimento nato in Brasile che lotta contro «la grave minaccia che il Sinodo sull’Amazzonia rappresenta per la civiltà occidentale» e contro «un’ecologia falsa, i cui promotori cercano di controllare la società con il pretesto di salvare l’ambiente». Lo stesso Ureta e la citata Cristina Siccardi sono tra i cento firmatari della protesta (Contra Recentia Sacrilegia) per – si legge testualmente (9 novembre) – «gli atti sacrileghi e superstiziosi commessi da Papa Francesco, il Successore di Pietro, durante il recente Sinodo sull’Amazzonia tenutosi a Roma». Le accuse dei firmatari verso il pontefice partono tutte dal suo atteggiamento definito sacrilego verso la «dea pagana Pachamama». Nell’elenco si trova anche Roberto De Mattei, storico, presidente della «Fondazione Lepanto», direttore della rivista Radici Cristiane e di Corrispondenza Romana, nonché discepolo di Plinio Corrêa de Oliveira, fondatore del movimento «Tradizione, Famiglia e Proprietà». È sul sito da lui stesso diretto che de Mattei ha attaccato il nuovo «Patto delle Catacombe», firmato il 20 ottobre nelle catacombe di Domitilla in una celebrazione presieduta dal cardinale Hummes. Il professore ha usato parole sarcastiche per descrivere l’evento, definendolo «il patto socio-cosmico dell’era di Greta Thunberg» (Corrispondenza Romana, 22 ottobre). Molti dei firmatari del documento Contra Recentia Sacrilegia sono statunitensi come statunitense è il sito National Catholic Register. È il sito che ha attaccato (Edward Pentin il 17 ottobre) duramente anche la Repam (presieduta dal cardinal Hummes) e il Cimi (guidato da dom Roque Paloschi), la prima molto impegnata nell’organizzazione del Sinodo, il secondo da anni in prima linea nell’impagabile difesa dei popoli indigeni e dell’Amazzonia.

foto Paolo Moiola

I tre vaticanisti

L’offensiva anti Sinodo e anti papa Bergoglio è proseguita sulle pagine web di alcuni vaticanisti. «Il sinodo dell’Amazzonia è passato agli archivi, ma lo “scandalo” che ne ha accompagnato il cammino è lontano dall’essere sanato», scrive Sandro Magister nel suo blog Settimo Cielo il 13 novembre. Poi parla di idolatria a causa di quella «statuetta lignea di una donna nuda e gravida». Infine, boccia il Sinodo per «l’irrilevanza, se non l’assenza, dell’annuncio cristiano e l’enfasi scriteriata data invece alla cultura e alla religiosità pagane, senza esercitare su di queste il necessario giudizio». Secondo l’autore, oggi il «populismo» di papa Francesco è focalizzato sulle tribù amazzoniche e sull’«esaltazione del “buen vivir”» (30 novembre).

In un suo precedente scritto (30 ottobre), Magister aveva individuato il vero punto nevralgico – a suo dire – del Sinodo amazzonico: «È di dominio pubblico che questo sinodo è stato ideato e organizzato precisamente con questo obiettivo primario: “aprire” all’ordinazione di “viri probati” in Amazzonia per poi estendere la novità a tutta la Chiesa».

Anche Aldo Maria Valli, vaticanista della Rai, si concentra (con una certa dose di sarcasmo verso alcuni suoi critici) sulla questione dell’ordinazione di uomini sposati (viri probati). «In seguito al molto discusso Sinodo amazzonico – scrive il 16 novembre – si sta facendo più vicina l’ipotesi non di permettere a tutti i preti di sposarsi, bensì di ordinare, in certe aree, uomini sposati, anzi anziani sposati (poveri anziani!). Ma sappiamo come vanno queste cose. E dovrebbero saperlo anche i maestrini che pretendono di darmi lezioni. Dopo che è stato aperto un pertugio, da esso può passare di tutto. Nel caso specifico, si tratta di un pertugio amazzonico, che sembra lontano da noi, ma non lo è. Serviva un pretesto, e di solito il pretesto arriva da un caso limite».

Per parte sua, Marco Tosatti, un altro vaticanista (dai toni ancora più ruvidi e perentori), la butta tutta in politica: nella lotta tra la sinistra perdente (quella del Pd, di Repubblica, di Zuppi, «cardinale in quota Pd», Tosatti dixit) e la destra vincente (quella di Salvini, Meloni, ma anche – sostiene il vaticanista – di Casa Pound, il movimento neofascista), papa Bergoglio è schierato inopinabilmente con la prima. Però, ha perso, pure sul Sinodo, anche se questo si è svolto – scrive Tosatti – «in una situazione di manipolazione altissima» (29 ottobre), su alcuni temi come i viri probati e il diaconato femminile. Ma – avverte – occorre stare vigili perché il papa è il «detentore del mazzo», un pontefice che «si scaglia contro i cattolici che non sentono e pensano esattamente come lui», un papa con una «memoria selettiva» (16 novembre) perché esprime timori per un ritorno in auge di idee naziste, ma non dice nulla della Cina, del Nicaragua e del Venezuela.

Insomma, per costoro è tutto chiaro: papa Francesco non solo è un vero cattocomunista, ma ha riportato in vita la teologia della liberazione. Magari – come ha suggerito Julio Loredo, presidente per l’Italia di Tradizione, Famiglia e Proprietà (il Giornale, 20 novembre) – nelle sue forme aggiornate: la teologia indigena e la teologia ecologica. Loredo è la stessa persona che, a febbraio 2019, con chiaro intento spregiativo aveva definito la Chiesa «tribalista ed ecologista».

Paolo Moiola

Siti contro (la giostra delle citazioni)

  • https://www.corrispondenzaromana.it
  • http://www.ncregister.com (Stati Uniti)
  • https://lanuovabq.it
  • https://anticattocomunismo.wordpress.com
  • https://www.rossoporpora.org
  • https://www.fondazionelepanto.org
  • https://www.radicicristiane.it/
  • https://www.radiospada.org/
  • https://www.radioromalibera.org/
  • https://www.marcotosatti.com/
  • http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

Quelli sopra elencati sono gli indirizzi dei principali siti contrari (o fortemente contrari) al Sinodo panamazzonico e a papa Francesco. Gli ultimi tre appartengono ad altrettanti vaticanisti: Aldo Maria Valli, Marco Tosatti e Sandro Magister. Va detto che nomi e contenuti all’interno di questi siti si ripetono spesso perché alcune persone sono presenti in vari ambiti (Roberto de Mattei su tutti) e perché la citazione reciproca è molto praticata. È giusto ed opportuno che i lettori li conoscano anche per comprendere meglio l’entità della battaglia interna che il papa argentino si trova a dover affrontare.

Pa.Mo.


© Vatican Media


Il documento finale del sinodo: una lettura missionaria

Il grido della Terra: dopo l’ascolto, l’azione

Il Sinodo è stato un successo, ma adesso viene il difficile: passare dall’ascolto all’azione. E questa dovrà sfidare «altari» e «troni». La Chiesa sarà sempre missionaria, ma in modo diverso. La «conversione» passa anche attraverso un nuovo tipo di presenza sul territorio amazzonico e al fianco dei popoli che lo abitano.

Il Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre è stato una benedizione per la Chiesa e per l’umanità. Allo stesso tempo, ha posto sul tavolo le principali sfide per la missione in un mondo globalizzato e minacciato. L’intero processo di preparazione e realizzazione di questo evento ecclesiale convocato da papa Francesco ha rafforzato la convinzione che territorialità e popoli determinano una missione che deve includere l’ecologia. Questa prospettiva aveva già acquisito slancio durante la visita del papa a Puerto Maldonado in Perù (gennaio 2018), un gesto che aveva sottolineato l’importanza di ascoltare gli indigeni e gli altri popoli.

La sfida ad «altari» e «troni»

Questo processo di ascolto del «grido dei poveri e del grido della terra» sfida «altari» e «troni» nella ricerca di nuovi modi di essere Chiesa. Il rinnovamento desiderato comporta necessariamente la conversione.

Durante l’assemblea sinodale, svoltasi dal 6 al 27 ottobre a Roma, la riflessione ha avuto come temi: la conversione pastorale, la partenza missionaria, la conversione culturale, il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale, la conversione sinodale, i nuovi ministeri, la teologia, catechesi e formazione inculturata, il riti amazzonici, la Chiesa povera, con e per i poveri. Temi che rappresentano una sfida alla missione della Chiesa e, quindi, si scontrano con «altari» al proprio interno (come raccontato a pag. 41 di questo dossier, ndr).

D’altra parte, temi come conversione integrale, conversione ecologica, modelli di sviluppo sostenibile, cura della casa comune, promozione ecologica integrale, grido dei poveri e grido della terra, interdipendenza tra tutti gli esseri, ecc., sfidano i «troni» del sistema capitalista attuale che è neoliberista e predatore.

È bene sottolineare che tutte queste domande sono interconnesse da una «spiritualità dell’ascolto» e dall’annuncio della buona novella con uno «spirito profetico».

Nel pontificato di Francesco, le basi per questo cambiamento sono state poste nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013)* e nell’enciclica Laudato si’ (2015). Allo stesso modo, il documento finale del sinodo (che dovrebbe orientare l’esortazione post sinodale) indica un passaggio dall’ascolto alla conversione integrale ponendo l’Amazzonia come «luogo teologico» simbolico per l’intera Chiesa universale.

© Vatican Media

I nuovi percorsi della Chiesa

Una lettura missionaria del documento finale aiuta a mettere in luce che il tema della missione è ben articolato in cinque percorsi (e altrettanti capitoli) di «conversione»: integrale, pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

Quando, a inizio del capitolo 2 del documento, si legge: «Una chiesa missionaria in uscita richiede da noi una conversione pastorale» (20), scorgiamo la sintonia tra il sinodo e la teologia della missione del Concilio Vaticano II e delle conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam). Infatti, al numero 21 si legge: «La Chiesa, per sua natura, è missionaria e ha la sua origine nell’“amore fontale di Dio” (AG 2). Il dinamismo missionario che scaturisce dall’amore di Dio si irradia, si espande, trabocca e si diffonde in tutto l’universo. “Siamo inseriti dal battesimo nella dinamica dell’amore attraverso l’incontro con Gesù, che dà un nuovo orizzonte alla vita” (DAp 12). Questo straripamento spinge la Chiesa alla conversione pastorale e ci trasforma in comunità viventi, lavorando in gruppi e reti al servizio dell’evangelizzazione. La missione così intesa non è opzionale, un’attività della Chiesa tra le altre, ma la sua stessa natura: la Chiesa è missione! “L’azione missionaria è il paradigma dell’intera opera della Chiesa”(EG 15)» (Doc. finale 21).

Ciò che colpisce è la convinzione che la missione appartiene a tutti, la Chiesa è missione, e quindi «ogni cristiano è una missione» di Dio nel mondo. Con ciò, la missione cessa di essere qualcosa di esterno come «ornamento» e diventa qualcosa di essenziale: «La vita è missione» (EG 273) e questo pone la Chiesa sulla soglia per entrare «nel cuore di tutti i popoli» (Doc. finale 18).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Una revisione dello stile missionario

Proponendo la conversione nei modi più diversi, il sinodo ribadisce che la «gioia del Vangelo» prima di essere diretta verso gli altri è diretta alla Chiesa stessa e ai suoi missionari. La conversione integrale si manifesta principalmente attraverso la conversione pastorale (missionaria) e sinodale. Per i missionari questa conversione richiede una seria revisione dello stile di missione che presuppone una presenza incarnata nella realtà e nella vita dei popoli. «La nostra conversione pastorale sarà samaritana, in dialogo, accompagnando le persone con volti concreti di indigeni, contadini, discendenti africani (quilombolas), migranti, giovani e abitanti delle città. Tutto ciò comporterà una spiritualità di ascolto e annuncio» (Doc. finale 20).

La conversione pastorale implica anche una prospettiva missionaria di itineranza, vicinanza e una presenza più efficace con i popoli, superando le visite sporadiche (desobrigas) e creando relazioni permanenti nella missione. Il sinodo sottolinea l’importanza di gruppi itineranti composti da diversi carismi, istituzioni e congregazioni, religiose e religiosi, laici e sacerdoti che lavorano formando una rete viaggiante (Doc. finale 39 e 40). Non bisogna più camminare da soli. La missione si svolge in una rete e in comunione ecclesiale. Il desiderio è che la Chiesa assuma in Amazzonia la sinodalità missionaria (Doc. finale 86-88).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Davanti alla realtà amazzonica

Questo sinodo è stata una cosa unica. Le numerose attività (incontri, dibattiti, celebrazioni, mostre) della «Tenda amazzonica: la casa comune» (con sede principale nella chiesa della Traspontina in via della Conciliazione, a Roma) durante l’assemblea sinodale hanno portato a Roma rappresentanti dei popoli del territorio panamazzonico per «ascoltare insieme» con Francesco, i padri e le madri sinodali. Francesco ha invitato la periferia a sedersi nel centro del cristianesimo, la «foresta amazzonica» è stata piantata nella «foresta di pietre» e la «città eterna» è stata ossigenata.

Nella missione, i protagonisti sono la realtà e i suoi popoli che, oltre ad essere valorizzati, devono anche assumersi la loro responsabilità. «Questo sinodo vuole essere un forte appello per tutti i battezzati in Amazzonia ad essere discepoli missionari. (…) Pertanto, crediamo che sia necessario generare un maggiore impulso missionario tra le vocazioni native; l’Amazzonia deve essere evangelizzata anche dai suoi abitanti» (Doc. finale 26). In questo senso, la proposta di nuovi «ministeri per uomini e donne in modo equo» (95) e l’«elaborazione di un rito amazzonico» (119) sono encomiabili.

L’ambiente e il «peccato ecologico»

© Guilherme Cavalli-Cimi

Un altro momento saliente di questo sinodo è stato quello di affermare che l’ecologia integrale e la cura della casa comune sono parti costitutive della missione della Chiesa. Pertanto, l’azione evangelizzatrice con i suoi progetti e missionari non può dimenticare la cura della vita del pianeta. In questo senso, la definizione di «peccato ecologico come azione o omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente» (Doc. finale 82) rappresenta un aggiornamento importante dell’insegnamento della Chiesa per la pratica della fede cristiana.

Decolonizzare la missione

Il sinodo per l’Amazzonia segue la linea della Conferenza di Medellin che, nel 1968, ha dato una contestualizzazione al Concilio Vaticano II in America Latina. Esso ha avuto anche il contributo di altri continenti. Questo cambio di prospettiva è importante per la «decolonizzazione» della missione e l’allontanamento dal pensiero eurocentrico. È bene ricordare che papa Francesco è un figlio del Concilio e del Sud, un fattore rilevante per «decolonizzare» la missione. L’Amazzonia ci sfida a passare dalla visione della missione come «espansione» alla missione come «incontro» senza proselitismo. «Siamo tutti invitati ad avvicinarci alle popolazioni amazzoniche su una base di uguaglianza, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del ben vivere. […] Rifiutiamo un’evangelizzazione in stile coloniale. Proclamare la buona novella di Gesù implica riconoscere i semi della Parola già presenti nelle culture» (Doc. finale 55).

Nonostante resistenze e incomprensioni, questo sinodo è un kairos, un momento tempestivo di grazia e speranza. Molto al di là del ricco documento prodotto, stiamo affrontando un processo che dovrebbe condurre a nuovi percorsi per una Chiesa divenuta molto più consapevole che, senza una conversione integrale e sinodale, non ci saranno cambiamenti reali nel suo modo di essere e di vivere la missione.

Jaime C. Patias

Firma del Patto delle Catacambe – © Guilherme Cavalli-Cimi


Dal 16 novembre 1965 al 20 ottobre 2019

Il «Patto delle catacombe» rivive e si rinnova

Nelle catacombe di Domitilla è stato firmato un nuovo patto. Per la casa comune. Per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana.

Il Concilio Vaticano II aveva ispirato, durante il suo svolgimento, un gruppo di vescovi guidati da mons. Helder Camara (1909-1999) a costruire una Chiesa servitrice e povera. Questa utopia prese forma il 16 novembre 1965, nelle Catacombe di Santa Domitilla a Roma, dove pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, quarantaquattro padri conciliari celebrarono un’eucaristia e, con un gesto profetico, firmarono l’«Alleanza della Chiesa dei poveri e dei servi», meglio noto come il «Patto delle catacombe». Molti altri vescovi si unirono successivamente al Patto. I firmatari del documento si impegnarono a vivere in condizione di povertà, a rinunciare a tutti i simboli o privilegi di potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.

Questa alleanza è stata considerata il seme della Chiesa di Francesco, che tre giorni dopo essere stato eletto successore di San Pietro, disse ai giornalisti: «Come vorrei una chiesa povera per i poveri!». Bergoglio conosceva bene la «barca» che stava cominciando a guidare. Ed è stata la sua sensibilità per «il grido dei poveri e il grido della terra» che lo ha portato a convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia, alimentato dall’enciclica Laudato si’ (2015) e dalla riaffermazione di una Chiesa che «non può dimenticare i poveri e la cura della Creato». Il pontificato di Francesco è diventato un forte richiamo alla conversione della Chiesa e dei poteri politici ed economici. È ovvio che ciò disturba coloro che, nella Chiesa, ignorano i poveri e non vogliono né perdere i loro privilegi, né mettere in discussione i potenti del mondo globalizzato che obbediscono solo ai desideri del profitto.

© Caldeira Ferreira Julio César

Una nuova alleanza per la casa comune

Sebbene non facesse parte della programmazione ufficiale del sinodo, il 20 ottobre 2019,  giornata missionaria mondiale, potrebbe anch’essa divenire una data storica, perché nella stessa sede del Patto del 1965, è stato firmato un nuovo Patto, questa volta per la casa comune: una chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana. La proposta era stata costruita nei mesi precedenti il sinodo e aveva preso forma nelle prime due settimane della sua realizzazione a Roma.

Prima dell’alba di domenica 20 ottobre, cinque pullman parcheggiati in Via dei Cavalleggeri, vicino alla sala del sinodo, aspettavano un variegato gruppo composto da vescovi sinodali, esperti, leader pastorali, indigeni e religiosi e altre persone coinvolte nelle attività della tenda «Amazzonia, casa comune». La destinazione del gruppo erano le catacombe di Santa Domitilla nel moderno quartiere Ardeatino di Roma.

Con 17 chilometri di gallerie, quattro piani e oltre 150mila tombe, queste catacombe sono tra le più grandi di Roma. Vi furono sepolti numerosi martiri del primo cristianesimo, tra cui la stessa Flavia Domitilla, nipote dell’imperatore Vespasiano che donò la terra ai cristiani, e Nereo e Aquilleo che diedero il nome alla basilica semi sotterranea costruita alla fine del IV secolo su richiesta di papa Damaso I.

Mentre il gruppo scendeva le scale verso la basilica, il silenzio e la commozione hanno preso il sopravvento. La canzone «Alla luce dei martiri della fede», del noto cantautore Antonio Cardoso, annunciava il significato di quella visita. «Torniamo qui – dice il testo – tutte le volte che è necessario. Dopo il Concilio ci siamo incontrati per camminare con i poveri e Gesù. Torniamo qui per riscattarci in Amazzonia. Cerchiamo tutte le alleanze in queste tombe alla luce dei martiri della fede». E, usando la tintura rossa estratta dal seme dell’urucum (annatto) dell’Amazzonia, tutti hanno lasciato le loro impronte digitali su un panno morbido, simbolo della memoria del Gesù martire e di coloro che, per fede in lui, hanno versato il loro sangue.

Tra martiri e profeti

Padre Oscar Beozzo ha ricordato la storia del Patto del 1965, sottolineando che allora le guide del gruppo erano l’arcivescovo Helder Camara, l’arcivescovo Leonidas Proaño, vescovo degli indigeni in Ecuador, e l’arcivescovo Enrique Angelelli, che in seguito sarà assassinato dalla dittatura militare argentina.

L’eucaristia è stata presieduta dal cardinale Claudio Hummes, presidente della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), che era accompagnato dal cardinale Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo in Perù, vicepresidente della stessa organizzazione.

Il ricordo del Patto del 1965 era rinnovato dalla stola di dom Helder usata a messa dal cardinale Hummes, che, emozionato, alla fine l’ha consegnata a dom Erwin, uno dei grandi profeti viventi dell’Amazzonia. Era presente anche una tunica di dom Helder, indossata da dom Adriano Ciocca, vescovo di São Felix do Araguaia, dove vive dom Pedro Casaldáliga, uno di coloro che hanno realizzato il patto all’estremo. Il calice e la patena usati nella messa appartenevano a padre Ezequiel Ramin, un missionario comboniano italiano, martirizzato nel 1985 a Cacoal, Rondônia, Brasile, per volere dei proprietari terrieri della regione.

© Caldeira Ferreira Julio César

Nella casa comune tutto è connesso

A differenza del primo, questo Patto per la casa comune è stata firmato da tutti i presenti (oltre 200 persone, tra cui 80 padri sinodali e due membri di altre chiese delegate fraterne nel Sinodo) con rilievo per la partecipazione degli indigeni e delle donne. Si tratta di un documento aperto che può ancora essere firmato in occasione di riunioni o attività in difesa della casa comune in tutto il mondo.

Chi firma i suoi 15 impegni rinnova l’opzione preferenziale per i poveri e si prende cura della casa comune con un’ecologia integrale in cui tutto è interconnesso (la sostenibilità della foresta, dei fiumi e del bioma amazzonico); valorizza e difende la diversità culturale, le tradizioni spirituali e lo stile di vita dei popoli amazzonici; desidera camminare ecumenicamente con altre comunità cristiane e religioni; valorizza le comunità e riconosce i ministeri; segue uno stile di vita sobrio, semplice e solidale; vuole ridurre la produzione di rifiuti e l’uso di materie plastiche, e favorire la produzione e la commercializzazione di prodotti agroecologici; difende i perseguitati e la vita dove essa è minacciata.

Saper ascoltare le voci scomode

Di fronte alle sfide ecologiche, sociali ed ecclesiali, questo nuovo Patto è una risposta alle preoccupazioni di papa Francesco che, anche alla messa di chiusura del Sinodo (il 27 ottobre), ha nuovamente ricordato: «Quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non vengono ascoltate e talvolta sono derise o messe a tacere perché scomode. Chiediamo la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa». E come afferma il Patto: «Con loro abbiamo sperimentato il potere del Vangelo che opera nei piccoli».

Jaime C. Patias

foto Paolo Moiola


Hanno firmato questo dossier:

  • Gaetano Mazzoleni. Missionario della Consolata, dopo gli studi di teologia, si è specializzato in antropologia culturale presso la Catholic University of America di Washington. Ha vissuto in Colombia dal 1965 al 2010 con un intervallo di un anno in Venezuela. Durante la sua lunga esperienza si è sempre occupato di popoli indigeni, prima come missionario, poi come missionario e antropologo.
  • Jaime C. Patias. Missionario della Consolata, giornalista, attualmente è membro della Direzione generale dell’Istituto Missioni Consolata con responsabilità sulla regione americana.
  • A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

foto Paolo Moiola




Fino al dono della vita

Testo e foto di Anair Voltolini, MdC


La parola missione, pur inflazionata nel linguaggio attuale, continua a indicare un affascinante e intenso dinamismo di vita. Anzi, il suo significato raggiunge una dimensione sempre più ampia e profonda nella vita cristiana di oggi.

Ero una ragazza di 13 anni quando scattò una prima scintilla di vocazione – il desiderio di consacrare la vita al Signore per la missione. Nata in una famiglia di fede semplice ma profonda, ho ricevuto lì e nella comunità cristiana una solida formazione umana ed evangelica che ha aperto la strada per una risposta. Le missionarie della Consolata erano presenti nel mio piccolo paese – Cafelandia nel Sud del Brasile – e con la loro testimonianza di vita consacrata missionaria e con il loro aiuto ho deciso di seguire l’avventura di andare sulle strade del mondo a condividere con altre persone e altri popoli la gioia di credere in un Dio che ci ama e che ha dato la sua vita perché tutti possano avere vita e vita in abbondanza.

Dopo gli anni di formazione e dopo la professione religiosa, l’impegno missionario si è intensificato e ha assunto connotazioni nuove ed esigenti che coinvolgono tutta la vita e per sempre.

Partire per l’Africa in missio ad gentes

Missione ad gentes è dire con la vita e annunciare con la parola il messaggio di Gesù alle genti che ancora non lo conoscono, o non hanno ancora trasformato in vita vissuta la bellezza di credere nel Dio di Gesù. È andare tra la gente dove lui è già presente ma non ancora conosciuto e rendere sempre più visibile ed effettivo il suo mistero salvifico – rivelazione e manifestazione del Dio Amore, appassionato della persona.

Essere missionaria in Mozambico, dove ora mi trovo, o in qualunque parte del mondo, implica coltivare una profonda esperienza di questo amore di Dio, alimentare un forte spirito di fede e ravvivare una sempre viva sensibilità alla brezza dello Spirito, generatore di vita nuova. Implica uno sguardo sconfinato di speranza, anche quando sembra che poco o nulla cambi attorno a te nonostante anni di servizio e dedizione. Implica una carità evangelica che cresce attorno alla Parola e all’Eucaristia, che costruisce la comunione e la fraternità universale, che porta l’evangelizzatore fino al dono della vita.

La vita missionaria, credo di poter dire, si esprime soprattutto in tre dimensioni chiare, concrete e creative: nella testimonianza di una vita profondamente evangelica, nella preghiera costante al Padre con Cristo in favore dell’umanità e nell’annuncio di Gesù Cristo, il figlio redentore, e del suo Vangelo di salvezza.

Missione è gioia

Vivere la missione richiede, a chi è chiamato e inviato, innanzi tutto una testimonianza gioiosa della sequela di Gesù come discepola missionaria del Vangelo. «Gesù vuole evangelizzatori che annunciano la buona Novella non soltanto con parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio» (EG, n. 259).

Papa Francesco nella Evangelii Gaudium, è chiaro e persistente nel presentare l’esigenza di una profonda esperienza di amore per Cristo e di sentirsi da lui intimamente amati, come fondamentale motivazione per una effettiva evangelizzazione.

Anche papa Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi è stato molto efficace nell’affermare che l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri e se crede in questi è perché sono testimoni (cf. EN n. 41).

La missione vive di una grande passione per Cristo Gesù e allo stesso tempo di una vera passione per le persone, per la gente. Non è il proselitismo trasforma il cuore della persona ma l’attrazione di una vera testimonianza di chi sa «dare ragione della propria fede e speranza» (cf. 1Ptr 3,15). Essere missionaria è esserci, essere presenza, essere con la gente.

Un dono speciale: la consolazione

Per noi missionarie e missionari della Consolata il carisma (dono di grazia specifico) che ci caratterizza è quello di evangelizzare nel segno della consolazione. Essere presenza di consolazione è prima di tutto essere segno della più grande consolazione che è Cristo Gesù. Il modo di essere tra la gente, la relazione di fraternità, la prossimità rispettosa di ogni persona e della sua cultura, la vicinanza all’altro in ogni situazione di gioia o di dolore, l’accoglienza della diversità come ricchezza, l’attenzione ai più poveri e marginalizzati, apre alle persone e ai popoli la strada che conduce all’incontro con il mistero del Regno di Dio.

Preghiera, anima dell’evangelizzazione

Una seconda dimensione missionaria che illumina e facilita il processo di evangelizzazione è la vita di preghiera dell’inviato. Ricordo sempre un principio, che ho ben impresso nel cuore: la missione non consiste soltanto nell’annunciare la Parola di Dio, cioè parlare di Dio alla gente, ma è fondamentale per l’annunciatore parlare della gente con Dio. I missionari sanno che l’opera di conversione e di salvezza non è opera loro, ma viene dallo Spirito di Dio che si muove come, quando e dove vuole.

La missione è di Dio

L’evangelizzatore è mediatore, è ponte, è al servizio della missio Dei. La missione è di Dio. Il Salvatore è Gesù. I missionari hanno un compito prezioso e fondamentale: presentare a Dio, portare davanti a Lui la realtà e la vita della gente e del mondo.

Per questo la sua è una preghiera ora di ringraziamento e di lode, ora di supplica e d’intercessione, ora di lamento e di offerta, di consegna di sé perché la vita raggiunga la sua pienezza.

La missione allarga il cuore e gli orizzonti di chi la abbraccia come suo ritmo di danza quotidiana; fluisce nel suo spirito come respiro vitale e determina ogni scelta del suo cuore. La missione implica la contemplazione.

Il nostro fondatore, Giuseppe Allamano, diceva ai suoi figli e figlie che era indispensabile per il servizio della missione che si formassero uomini e donne contemplativi, uomini e donne di una intensa preghiera. «Il nostro primo dovere – ricordatelo sempre! – non è lo sbracciarsi, ma il pregare» (Così vi voglio p. 234). Su questo punto l’Allamano era molto fermo.

Alcuni pilastri

La mia esperienza di missione tanto in Mozambico come in Brasile percorre questo nuovo processo costruito su alcuni pilastri chiave.

  • L’inserimento nelle culture con grande rispetto, a «piedi nudi e mani vuote» per riconoscere e accogliere la presenza di Dio in esse e l’attenzione a una inculturazione graduale del messaggio evangelico.
  • La formazione di una Chiesa ministeriale, in un impegno non negoziabile di collaborazione e partecipazione dei laici nella diversità di pastorali che costituiscono la comunità-comunione dei discepoli di Gesù.
  • Il dialogo ecumenico e interreligioso che unisce nella fede e nella carità, nel rispetto e nella tolleranza evangelica la diversità di religioni e di chiese.
  • La promozione e formazione integrale della persona, in particolare della donna, in modo che possa conoscere e assumere la sua dignità e vocazione nella Chiesa e nella società.
  • L’attenzione alla persona da evangelizzare e alla formazione di piccole comunità che crescono attorno alla Parola, all’Eucaristia e al servizio della carità fraterna. Sembra di poter dire che l’annuncio del Vangelo tocca il cuore della persona e diventa efficace quando è direttamente fatto a piccoli gruppi e non alle moltitudini.

Gratitudine e gioia

A conclusione di questo discorso, frutto di esperienza e di riflessione sulla missione oggi nel mondo, voglio dire la mia gratitudine e la mia gioia, prima di tutto di essere membro di un istituto missionario, con un carisma specifico di servizio alla missione ad gentes.  Poi di essere in missione in Mozambico, specificamente, in Maúa nella provincia di Niassa.  Sono qui in questa realtà missionaria per la seconda volta. Dopo aver lasciato il Mozambico per una missione diversa in altri lidi, sono tornata tra il popolo Macua, una grande etnia nel Nord del paese. È qui, tra questo popolo, in questa porzione di Chiesa, che mi è offerta l’opportunità di vivere la missione nelle dimensioni che ho cercato di presentarvi e di percepire la bellezza e la grandezza di una vocazione che investe tutto della persona.

E di viverla in una comunità missionaria internazionale, interculturale e intergenerazionale. Mi piace poter dire con chiarezza e convinzione: «Mai più la missione dei navigatori solitari, pur pieni di amore e di ardore per l’evangelizzazione».

L’Allamano così ha pensato, sognato e voluto la sua famiglia missionaria della Consolata fin dalla sua origine: un gruppo di persone consacrate al Signore per la missione per tutta la vita, con lo spirito di famiglia, che si stimano reciprocamente, dove è ben accesa la fiamma di una carità vera; dove si cammina e si guarda all’orizzonte del progetto missionario in unità d’intenti.

Missionari con Maria

Faccio mia la preghiera di papa Francesco: «Stella della nuova evangelizzazione, aiutaci a rifulgere con la testimonianza della comunione, del servizio, della fede ardente e generosa, della giustizia e dell’amore verso i poveri, perché la gioia del Vangelo arrivi fino ai confini della terra e nessuna periferia rimanga privata della sua luce» (EG n. 288).

Suor Anair Voltolini
missionaria della Consolata  in Mozambico




Missione a km0

Testo di Luca Lorusso


Una nuova forma di presenza della Chiesa

Abitare è annunciare

«Abitare in una parrocchia con i propri figli per un’esperienza di accoglienza, di annuncio del Vangelo, di corresponsabilità pastorale, per dare volto a una Chiesa fraterna e missionaria, per annunciare la gioia del Vangelo nel modo più semplice e vero: da persona a persona», è la frase che campeggia nella parte alta del blog delle Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano: https://famigliemissionariekm0.wordpress.com/

Sono famiglie che annunciano il Vangelo nella quotidianità e nella fraternità, abitando uno spazio ecclesiale, a volte con altre famiglie, con altri laici, a volte con sacerdoti, religiosi o religiose in una bella e feconda sinergia di vocazioni.

Il gruppo di Milano, che al momento è l’unico organizzato, conta già 27 esperienze, ma molte altre ne esistono e ne stanno nascendo in diverse diocesi della Chiesa italiana.

Siamo andati a conoscerne alcune.



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A Mongreno, sulla collina torinese

Ricchi di fraternità

Quattro giovani famiglie vivono gli spazi altrimenti abbandonati della chiesa di San Grato facendo esperienza di fraternità e di servizio alla Chiesa e all’evangelizzazione. Nella semplicità della loro vita quotidiana.

L’appuntamento è per l’ultimo sabato mattina di settembre alla chiesa di San Grato, immersa nel bosco della collina torinese a Est del fiume Po. Lì, in zona Mongreno, vive una fraternità di quattro famiglie, due nella canonica e due in un’altra casa poco distante di proprietà della parrocchia. Sono otto adulti tra i 30 e i 40 anni e sette bimbi tra i 6 mesi e i 7 anni, più un altro in arrivo.

Sono tutti provenienti dal mondo dello scoutismo con un grande desiderio di mettersi a disposizione: della Chiesa e degli altri. Per questo le loro settimane sono scandite da diversi servizi pastorali e dagli appuntamenti di fraternità, oltre che dagli impegni famigliari e lavorativi comuni a chiunque.

Dopo diversi minuti di salita e di tornanti, parcheggiamo l’auto a un centinaio di metri dalla destinazione, di fronte a una piccola struttura che una volta ospitava la scuola elementare di zona, e percorriamo l’ultimo tratto a piedi. L’aria d’inizio autunno è fresca, e c’è un silenzio molto piacevole.

Arriviamo al sagrato della chiesa: un terrazzo stretto tra la facciata seicentesca dell’edificio e la vegetazione che cresce sul terreno scosceso della collina. Ci guardiamo intorno: oltre alle strutture della chiesa non si vede nient’altro che bosco. Le case dei parrocchiani che abitano qui attorno sono tutte sparse per la collina, e lungo la via ne abbiamo intuito la presenza solo dai passi carrai o dalle stradine laterali che s’infilano nel verde.

Fraternità casalinga

Alla canonica di San Grato si accede da un cancello che dà su un cortile, a lato della facciata della chiesetta. Suoniamo il campanello. Viene ad aprirci Massimiliano Grasso, Max per tutti, il più giovane tra gli adulti della fraternità: 30 anni, capelli neri, folti e ricci. Bolle di sapone sparate da una pistola verde e arancio campeggiano sulla sua maglietta nera. Ci accoglie con un sorriso e ci guida alla porta della canonica, una costruzione di due piani addossata al fianco della chiesa. Lui vive al piano terra con la moglie Sara Stilo, 31 anni, e con i loro bimbi Iago, di 2 anni, ed Elia, di 6 mesi.

Entriamo in cucina, dove Sara, capelli neri a caschetto attorno a un viso che pare giovanissimo, ci saluta mentre prepara la pappa per Elia che sorride allegro nel seggiolone. La piccola stanza, che fino a tre anni fa era una saletta parrocchiale, è semplice e accogliente: dentro ci stanno una cucina ad angolo, un divano a due posti, un tavolo per quattro. Le pareti sono organizzate con pensili e mensole carichi di tutto ciò che una giovane famiglia con bimbi piccoli deve avere a portata di mano.

«Lavoriamo tutti e otto – inizia a raccontare Sara -. Io e Serena, un membro della fraternità, lavoriamo insieme. Lei è la mia referente in una cooperativa di animatori. Facciamo attività di educazione al consumo consapevole nelle scuole. Mio marito, invece, è infermiere, ma in questo momento si sta occupando più di educazione che d’infermieristica, in una comunità di ragazzi psichiatrici. Da poco segue un bambino arrivato da un orfanotrofio russo. Avevano bisogno di una figura maschile e gli hanno chiesto se voleva occuparsene lui».

Quattro giovani famiglie

Max esce nel cortile al richiamo di due voci di bimbi, e al suo posto compare Giovanni Messina, 37 anni, che abita con la moglie Enrica Ruffa al piano di sopra. Sente che parliamo di lavoro e si presenta: «Io faccio lo sviluppatore di web e app per una cooperativa. Invece mia moglie è coordinatrice di una struttura di accoglienza della diocesi di Torino che si trova qua vicino, in strada Traforo del Pino. Segue una quarantina di rifugiati provenienti dal Moi (l’ex villaggio olimpico di Torino occupato da migranti e sgomberato a più riprese negli ultimi anni, ndr). Si occupa di tutto: dalla sistemazione ai documenti, all’italiano, alla condizione sanitaria, alle borse lavoro e alla vita ordinaria».

Mentre Giovanni parla, entra in cucina Iago, seguito da suo papà Max e dall’amichetta Cecilia, di due anni come lui. Iago porta con sé un vasino che posa a terra di fronte a noi: ha imparato da poco a usarlo ed è felice di mostrarlo a tutti.

Giovanni ci spiega che Cecilia ha un fratellino, Pietro, di sei anni, e che i suoi genitori, Stefano Picco e Chiara Gaschino, sono una delle due coppie che vivono nell’altra casa della fraternità a pochi passi da qui: Stefano ha 40 anni e fa il consulente sulla sicurezza in ambito forestale, Chiara ha 37 anni e fa la maestra. In questo momento Chiara è a casa, ma Cecilia è qui perché voleva giocare con Iago.

Nella casa dove abitano Stefano e Chiara c’è un secondo alloggio nel quale stanno Serena Andrà, 34 anni, con suo marito Claudio Aseglio, 35 anni, medico anestesista, e i loro bimbi: Agnese di 7 anni, Paolo di 5 e Francesco di 2 e mezzo. Un quarto piccolino nascerà all’inizio del prossimo anno.

Amici che si spalleggiano

Dopo averci presentato per sommi capi le famiglie della fraternità, Giovanni ci illustra anche i molti servizi che la fraternità offre per la comunità di San Grato e per l’unità pastorale nella quale San Grato è inserita: «Ci occupiamo di un’ex parrocchia di collina. Quando l’ultimo parroco è andato via, la parrocchia è stata fusa con quella di Sassi, dove don Stefano Audisio, che oggi ha quasi ottant’anni, fa i salti mortali. Il nostro incarico è essere qua, aprire e chiudere la chiesa, animare le messe domenicali: abbiamo il nostro nucleo di una decina di parrocchiani affezionati, e poi amici, altre famiglie con bambini, scout che vengono per il week end.

Ci siamo ritagliati una stanza nella casa di sotto dove vivono Chiara, Stefano, Serena e Claudio: la usiamo per i momenti di preghiera della nostra fraternità e per l’ospitalità nei fine settimana. Ospitiamo soprattutto scout per il semplice motivo che dormono per terra, oppure in tenda.

Oltre a questi servizi a San Grato, diamo una mano a don Stefano anche in altri ambiti della pastorale parrocchiale: il corso prematrimoniale, ad esempio, poi il corso per i battesimi, il catechismo, un percorso per i genitori dei bimbi del catechismo. Seguiamo anche un gruppo di giovani affiancando il don. Partecipiamo al consiglio pastorale.

I parrocchiani sono molto felici che ci siamo. Se non ci fossimo noi, probabilmente questa chiesa sarebbe chiusa e la struttura in decadenza. Il bosco si prenderebbe tutto se non ci fosse qualcuno qui.

Il punto di forza della nostra esperienza – conclude – è che siamo in quattro e ci spalleggiamo. Per le messe domenicali, ad esempio, ci alterniamo».

Storia della fraternità

Dal cortile sentiamo arrivare il suono gracchiante di un walkie talkie. È Serena che ci raggiunge con Francesco, di due anni come Iago e Cecilia. I bimbi più grandi, Agnese e Paolo, non volevano venire, e sono rimasti a casa insieme a Chiara, collegati con la mamma tramite la radiolina. La casa è appena al di là del piccolo sagrato della chiesa e di una rampa di scale in discesa tra gli alberi, forse una cinquantina di metri, ed è divertente rimanere in contatto così. Mentre Francesco si ferma in cortile con Iago, Cecilia e Max, Serena entra e ci saluta.

Serena e suo marito Claudio vivono a San Grato da sette anni, a differenza delle altre tre famiglie che sono arrivate tre anni fa. Chiediamo quindi a lei di raccontarci la storia della fraternità.

«I primi a venire a Mongreno nel 2006 sono stati Paolo e Nicoletta Leombruni. San Grato era ancora parrocchia, e don Sebastiano, che aveva ricevuto come lascito testamentario la casetta qui sotto, li ha invitati a viverci perché gli dessero una mano. Loro si occupavano di pastorale famigliare.

Quando don Sebastiano è andato in pensione e la canonica è rimasta vuota, Paolo e Nicoletta hanno chiesto a Luca e Arianna Tagliano di venire a viverci per fare un’esperienza di fraternità. Era il 2008. Entrambe le famiglie sono rimaste a Mongreno fino al 2016-17. I Leombruni avevano 4 figli più un affido. I Tagliano tre figli. Noi siamo arrivati nel 2012, dopo due anni di matrimonio, mentre aspettavo Agnese».

Quando Serena e Claudio sono arrivati, hanno introdotto alcune novità. Una di queste è stata l’apertura agli esterni del triduo pasquale fino ad allora vissuto in fraternità. Un triduo «ora et labora», lo chiama lei, cioè un’occasione di preghiera e lavoro per sistemare il verde che cresce rigoglioso attorno alla chiesa. «È stato proprio durante uno di questi tridui, nel 2016, che abbiamo conosciuto Max e Sara. Loro sono rimasti colpiti dall’esperienza, allora, dato che i Tagliano stavano per andare via, abbiamo proposto loro di venire a vivere qui. Ad agosto si sono sposati, e a gennaio 2017 si sono trasferiti».

Nel frattempo anche la famiglia Leombruni ha deciso di andare altrove, e Serena e Claudio hanno iniziato a cercare altre coppie.

«In quell’estate del 2016 – interviene Giovanni -, Serena e Claudio hanno incrociato noi e Chiara e Stefano e ci hanno fatto la proposta. Noi abbiamo iniziato a venire nei week end per vedere e, pian piano, abbiamo capito che la cosa ci interessava».

«C’è stato un attimo di défaillance – confessa Serena -, non pensavamo che tutti fossero interessati. Gli spazi erano per tre famiglie, non per quattro».

«Quindi abbiamo cercato di capire se ci saremmo stati – prosegue Giovanni -. Noi eravamo già sposati e anche Chiara e Stefano, che avevano già Pietro. Quando abbiamo deciso di venire, abbiamo iniziato i lavori qui nella canonica per ricavare un secondo alloggio e, alla fine, abbiamo traslocato durante l’estate 2017. Ovviamente, in tutto questo cammino, siamo stati sempre accompagnati da don Stefano».

Questioni pratiche (ed economiche)

Dato che si parla di ristrutturazioni e di famiglie che abitano dei luoghi che non sono di loro proprietà, chiediamo qualche delucidazione sugli accordi con la parrocchia. «Il nostro alloggio, qui sopra, è fatto di due stanze, il bagno e la cucina – spiega Giovanni -. Questo di Sara e Max ha la cucina, due stanzette piccole, la camera da letto e il bagno. Le ristrutturazioni le abbiamo pagate noi dividendoci la spesa. Il contratto è un comodato d’uso gratuito per cinque anni. A nostro carico, oltre alle ristrutturazioni, abbiamo ovviamente le spese vive, le utenze di luce, acqua, gas. Poi, ogni anno, facciamo un’offerta volontaria che corrisponde all’Imu. È come se fossimo in affitto: la spesa per le ristrutturazioni è più o meno quello che avremmo speso per un affitto di cinque anni».

Coppia, famiglia, fraternità, impegno

Essendo arrivate le 12, Serena si congeda: aveva già da tempo in programma di andare con i bimbi al picnic ecologico «Un Po meno inquinato» organizzato al parco Colletta, ai piedi della collina, da diverse associazioni, tra cui Altri Modi Ets, l’impresa sociale per cui lavora Enrica.

Anche Sara e Max andranno al picnic tra poco.

La nostra attenzione è rapita dal gorgoglio che Elia emette, quasi come una ninna nanna, in braccio a Sara. Con tutta la fatica che qualsiasi coppia fa, tra le tante gioie, per costruire l’equilibrio sempre nuovo di una giovane famiglia con bimbi piccoli, domandiamo come facciano a tenere dietro anche a tutti gli impegni legati alla fraternità.

«Effettivamente è una delle fatiche – risponde Sara -. Siamo tutti molto impegnati e, tra l’altro, ci siamo resi conto che è importante coltivare anche le relazioni tra noi famiglie. L’anno scorso abbiamo iniziato una riflessione sull’equilibrio tra fraternità, famiglia e servizio. È emerso che alcuni di noi sono qua soprattutto per l’aspetto comunitario e che il servizio dovrebbe essere nel cerchio più esterno. Prima si deve essere alleati nella coppia. Poi si allarga il cerchio ai figli, poi alla fraternità, poi al servizio. Per avere delle fondamenta forti».

Il valore aggiunto

Per lasciare che Sara e Max si preparino anche loro per il pic nic ecologico, ci spostiamo fuori con Giovanni che oggi rimarrà l’unico della fraternità a San Grato. C’è un piacevole sole autunnale che ci illumina e scalda. Nel cortiletto c’è un tavolo da esterno con le sedie.

«Qual è il valore aggiunto di questa fraternità alla vostra vita di sposi?», chiediamo. «Una cosa bella che la fraternità ci offre è quella di poter fare servizio insieme, come coppia. E poi c’è una dimensione di sogno e di condivisione che ci piace. Di bisogno di camminare con altri, di poterci confrontare».

«E quali sono, invece, le difficoltà?».

«La difficoltà dell’esperienza di fraternità è che, come succede a tutti i fratelli che vivono sotto lo stesso tetto, quando ci si passa vicini, ci si può urtare. Ci sono i momenti nei quali uno si dice, chi me l’ha fatto fare? Il fatto di essere in quattro, però, a volte aiuta, perché se c’è un momento nel quale hai bisogno di chiuderti un po’ a guscio, puoi farlo senza scompensare troppo gli equilibri.

C’è poi la fatica della trasparenza continua. Qui non c’è l’anonimato condominiale, e tutto quello che fai è conosciuto dall’altro: i tuoi orari, come decidi di rimproverare i figli, come li fai giocare, cosa gli regali… Tutto è pubblico, anche le tue fatiche con il coniuge, i litigi di coppia. È un’esperienza molto sfidante.

Poi c’è anche il vantaggio di dire: “Mio figlio mi sta facendo impazzire, te lo lascio un attimo perché se no darei di matto”. Hai una rete solida vicina».

Una chiesa incarnata

Arriva il momento di andare anche per noi. Quando ci congediamo, partiamo pensando alla spontaneità dei bimbi e dei loro genitori, colti nel mezzo della loro vita quotidiana. Il clima famigliare, la semplicità dell’accoglienza e della casa, l’andirivieni di bimbi e adulti, la pappa, il caffè preparato con un piccolo in braccio, il pic nic ecologico, ci hanno dato il sentimento di trovarci in mezzo a fratelli che condividono le cose di ogni giorno senza ansie e con molta flessibilità.

È un’immagine di Chiesa in uscita che s’incarna in un tempo e in un luogo attraverso voci e vicende personali, famigliari e comunitarie precise.

Quando abbiamo domandato a Giovanni se crede che l’esperienza di fraternità che sta vivendo abbia un suo posto nella Chiesa di oggi, ha risposto: «Io penso che sia una cosa naturale. Non la vedo come una cosa strana, di rottura. È il frutto del Concilio Vaticano II. Il ruolo del laico. La ricchezza dell’essere coppia, e dell’essere fraternità. Siamo in un tempo di costruzione, di esplorazione. È una dinamica normale, sensata».

Luca Lorusso


Casa Santa Barbara, un condominio speciale ad Alba

Il bene comune si fa insieme

Siamo andati a conoscere dal vivo l’esperienza di Emanuela e Nicola Costa: una «Famiglia missionaria a km0» che vive la fraternità e l’accoglienza in uno spazio parrocchiale assieme a due giovani volontari e a tre donne africane in difficoltà.

A guardarla da fuori è un’anonima palazzina di tre piani come se ne vedono in qualsiasi città: uno scatolone intonacato di bianco con balconi e finestre disposti simmetricamente a sinistra e a destra della scala.

Dentro, però, l’anonimato non ha spazio, perché le persone che la abitano, tutte in modo temporaneo, vivono un’interessante esperienza di fraternità, accoglienza e solidarietà, sempre con le porte aperte.

Siamo ad Alba, seconda città della provincia di Cuneo per popolazione dopo il capoluogo.

La palazzina, chiamata casa Santa Barbara perché sorge nell’omonima via di un quartiere centrale piuttosto benestante della città, è una struttura di proprietà della parrocchia Cristo Re destinata all’accoglienza di donne sole in condizione di disagio.

Attualmente è abitata da tre donne africane con i loro figli che risiedono in tre alloggi distinti, da due giovani volontari, Paolo in un appartamento e Giulia in un altro (in attesa dell’arrivo anche di Miriam, altra giovane), e dalla famiglia Costa, di quattro persone, cui fa capo l’associazione «Il Campo» che gestisce l’accoglienza. Un’umanità variegata che, nella semplicità della vita quotidiana, fatta anche di documenti da tradurre, telefonate dei servizi sociali, tapparelle da aggiustare, nutre le relazioni con occasioni di gioco per i bambini, momenti condivisi di manutenzione, feste, pasti, preghiere, compiti di scuola fatti assieme.

Una parrocchia accogliente

Alla stazione di Alba viene ad accoglierci Emanuela Iacono: jeans blu, maglietta rossa, foulard variopinto di farfalle, occhiali viola e una parlantina invidiabile. Lei e il marito Nicola Costa, entrambi quarantenni, con i due figli Edoardo di undici anni e Giacomo di sette, sono arrivati ad Alba da Milano cinque anni fa per lavoro. Nicola è un esperto di sicurezza alimentare, Emanuela si occupa di comunicazione per il terzo settore.

Emanuela cammina spedita facendoci strada. Oggi è lunedì, giorno di lavoro, e avremo a disposizione poco più del tempo della pausa pranzo. Nonostante questo, prima di andare in via Santa Barbara, abbiamo in programma di conoscere don Claudio Carena, parroco di Cristo Re e vicario generale della diocesi di Alba, responsabile ultimo della casa.

Arriviamo in cinque minuti, e troviamo ad accoglierci nel suo ufficio don Claudio, 53 anni, affabile e sorridente. Nella sua parrocchia l’esperienza della casa Santa Barbara non è l’unica iniziativa sociale: «Qui in canonica, ad esempio, ospitiamo quattro famiglie e quattro persone singole – ci spiega -. È una struttura molto grande, e il mio predecessore ne ha tratto otto bilocali. Gli ospiti hanno tutti situazioni difficili. Innanzitutto economiche, ma anche di fragilità psicologica, sociale. Oggi abbiamo ospiti di tre etnie e tre religioni diverse. C’è un dialogo interreligioso di fatto in un bel clima di rispetto. Le famiglie fanno una convenzione per undici mesi rinnovabili, ma alcuni non riescono ad andarsene anche quando avrebbero la possibilità economica di farlo: c’è una coppia marocchina con due figli, ad esempio, che lavora e potrebbe pagare un affitto altrove, ma nessuno vuole dare loro il proprio appartamento…».

L’esperienza della casa Santa Barbara, dove ora vivono Emanuela e Nicola «è nata circa 20 anni fa – ci racconta don Claudio -. Una persona aveva donato una struttura alla parrocchia con l’impegno di attivare qualcosa per i poveri. Il parroco di allora, don Angelo Stella, ha costruito l’attuale condominio grazie all’istituto per il sostentamento del clero. Poi, il parroco successivo, don Valentino Vaccaneo, ne ha fatto una casa di accoglienza per donne sole, e una coppia di parrocchiani, Anna e Franco Foglino, è andata a viverci dedicando all’accoglienza 18 anni di vita con grande generosità e competenza. Quando sono arrivato io sette anni fa, mi hanno chiesto di trovare un’altra famiglia, e la provvidenza, nel 2016, ha mandato Emanuela e Nicola».

Uno spazio nel quale ricostruirsi

Salutiamo don Claudio e ci lasciamo guidare da Emanuela verso via Santa Barbara. «Accogliamo donne sole in difficoltà – ci spiega lungo la strada -. Sono donne spesso segnate da rapporti difficili con le famiglie di origine o con i compagni. L’obiettivo della casa è offrire un tempo di ripartenza verso una vita autonoma di massimo due anni. Le donne vengono segnalate dai servizi sociali o da associazioni. A ognuna chiediamo di partecipare alle spese della casa. Quando non possono ci aiutano gli enti che ce le mandano: i servizi sociali, Caritas o altri.

Noi diamo una mano a queste donne nelle cose di ogni giorno come buoni vicini di casa: stampare la pagella dei figli, scrivere il curriculum vitae, e cerchiamo di attivare reti di aiuto informali. La loro provenienza è varia. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto con noi donne dalla Romania, dalla Tunisia, dal Marocco, dalla Bulgaria, dall’Italia».

Le attuali ospiti sono tre donne africane: «Una è madre di un ragazzo di 12 anni con disabilità. Insieme a loro c’è anche la nonna. Hanno da poco avuto l’assegnazione di una casa popolare». La seconda è di origine marocchina con un bimbo piccolo: «Sta affrontando una separazione difficile. Ha bisogno di un tempo in cui seguire le pratiche legali, trovare un lavoro, e riprogettare la sua vita». La terza è una mamma originaria della Nigeria, con una bimba di dieci mesi. «È stata battezzata in parrocchia a Cristo Re. Lì ha battezzato anche la sua bimba. Era in un Cas (Centro di accoglienza straordinaria, ndr) di Alba, poi è stata spostata in un Cas di un’altra città. Quando ha ottenuto la protezione internazionale, le abbiamo proposto di tornare qui come segno di cura da parte della comunità che l’ha accompagnata al battesimo. Lei è molto contenta di essere di nuovo ad Alba dove si è ben integrata anche grazie all’aiuto di associazioni del territorio. È molto motivata a ripartire».

Condividere tempi e luoghi

Arriviamo in via Santa Barbara 4. Dietro la palazzina s’intravede un cortile. Di fronte, dall’altra parte della strada, c’è un palazzo di cinque piani, di quelli i cui alloggi negli annunci immobiliari recano la scritta «finiture di pregio».

Entriamo nell’androne sul quale si affacciano tre porte: una è del centro di ascolto Caritas della parrocchia; un’altra è di uno degli alloggi per l’accoglienza, la terza dà su un monolocale a uso comune. I volontari l’hanno sistemato due mesi fa, e ora è attrezzato con una cucina, un tavolo e alcune sedie.

Qui tutti i giovedì vengono alcuni ragazzi scout e delle parrocchie vicine a far giocare i bambini della casa. «Un altro gruppetto di giovani viene il sabato mattina a fare dei lavori manuali – ci racconta Emanuela -. Tra questi c’è anche Babatunde, arrivato in Italia qualche anno fa. Ora ha una fidanzata albese e lavora in una cantina. Viene il sabato mattina a dare una mano perché vuole restituire l’accoglienza che ha ricevuto».

Nel monolocale c’è Nicola, arrivato dal lavoro pochi minuti fa per la pausa pranzo: sta preparando gli agnolotti del plin, tipici piemontesi, e un’insalata. C’è anche Paolo, un giovane di 27 anni – «capo scout», ci tiene a dire -, che vive al piano di sopra da maggio per fare un’esperienza di accoglienza e fraternità. Paolo è già in partenza per andare al lavoro, ma fa in tempo a raccontarci dell’altra sua bella esperienza conclusa appena prima di arrivare qua: ha abitato per due anni con un altro giovane nella canonica della sua parrocchia Santa Margherita, per sperimentare la vita fuori dalla casa paterna, la convivenza e soprattutto il servizio alla parrocchia.

Oltre a Paolo, come detto, nella palazzina abita da poco anche Giulia, e un’altra giovane, Miriam, si sta avvicinando: la famiglia Costa ha, tra le sue caratteristiche, quelle della condivisione e della fraternità, sia con le donne accolte che con i giovani.

Una famiglia missionaria a km0

Emanuela e Nicola sono una scheggia albese del gruppo di «Famiglie missionarie a km0» che loro stessi hanno contribuito a creare nel 2013 nella diocesi di Milano. Un gruppo nel quale si sono radunate famiglie che, in modo indipendente l’una dall’altra e con stili diversi, avevano iniziato ad abitare con spirito missionario in canoniche, oratori o altre strutture ecclesiali. Si definiscono «famiglie missionarie», perché molte di loro hanno vissuto esperienze all’estero, anche di diversi anni, o semplicemente perché sta loro a cuore l’evangelizzazione, far conoscere Gesù a chi ancora non l’ha incontrato; «…a km0» per sottolineare la vicinanza tra la loro vita e la missione: che sia ad Alba o a Quarto Oggiaro – il quartiere milanese della parrocchia Pentecoste nella quale i Costa hanno vissuto due anni, prima di trasferirsi -, poco importa.

Desiderio di fraternità

«In questa casa ci sono dieci alloggi. Uno è questa stanza comune per stare insieme – ci dice Nicola -. Poi c’è il centro di ascolto della Caritas, l’alloggio per Paolo, quello per Giulia, e quello per noi. Tutti gli altri sono dedicati all’accoglienza».

La descrizione della destinazione degli alloggi non vuole essere un semplice elenco, vuole piuttosto mettere in luce uno degli elementi fondamentali di questa esperienza di condominio solidale: la fraternità. La casa non è solo un «rifugio» per persone in difficoltà, ma è un luogo nel quale sperimentare una forma nuova di vicinato, una modalità aperta di relazioni paritarie tra persone diverse.

«La cosa è nata dalla nostra esperienza precedente in parrocchia a Milano – ci spiega Emanuela -. È significativo che ci sia una fraternità tra famiglia e sacerdote al centro della parrocchia. Ci sembrava significativo che ci fosse una forma di fraternità anche al centro dell’esperienza di accoglienza. Cercavamo un’altra famiglia e non l’abbiamo trovata. Allora abbiamo pensato ai giovani».

«Prima che arrivassero questi nuovi giovani – aggiunge Nicola -, è stata qui Elisabetta, che oggi ha 27 anni e si è appena sposata. Lei diceva che voleva vedere le cose con i suoi occhi: “Ho un lavoro, ho il fidanzato, ma non voglio andare a convivere. Esco di casa, faccio due anni con la porta aperta. Mi metto al servizio di chi ha bisogno”». «Alla fine – aggiunge Emanuela – ha detto che essere qua non è solo fare servizio, ma rendersi conto di cosa succede nel mondo, perché ognuna delle donne ospitate ti racconta come vanno le cose a casa sua e anche la fatica di stare in Italia. Paolo e Giulia staranno qua per un anno, Miriam farà un ingresso più graduale. L’idea è che passino per questa esperienza prima delle scelte definitive della vita: è anche un’esperienza di discernimento. Si mettono al servizio, e in più provano a immaginare la loro vita futura. Per vivere la fraternità in modo più completo con loro, facciamo almeno una cena alla settimana insieme. Poi in pratica diventano anche due o tre, perché spesso passano per un saluto e alla fine si fermano a mangiare. Oltre alla cena, stiamo costruendo il modo di pregare insieme».

La quotidianità fraterna, però, per i Costa non si realizza solo con i giovani. In senso più ampio è il vivere con la porta aperta e il cuore disponibile nei confronti degli ospiti: «Vivendo insieme è più facile che s’inneschino delle dinamiche di reciprocità – continua Emanuela -. Io sono qua per aiutarti, però, se questo spazio è unico e lo abitiamo insieme, anche tu che sei ospite partecipi. Il bene comune lo costruiamo insieme. Questo è difficile, soprattutto per quelle persone che sono tanti anni che vengono aiutate. Fare quel salto di qualità: pensare “però anche io posso darmi da fare per gli altri”, è provocatorio, ma vivendo insieme viene naturale».

Il cortile si riempie

Mentre mangiamo e chiacchieriamo, arriva da scuola Edoardo, il figlio maggiore di Nicola ed Emanuela. Saluta, posa lo zaino e si siede a tavola anche lui. Partecipa volentieri a questo pranzo con uno sconosciuto: è abituato a condividere gli spazi e i tempi di casa con altri. Chiediamo però ai suoi genitori come fanno a conciliare le esigenze di coppia e di famiglia con quelle di un condominio così.

Nicola, ormai alla fine della sua pausa pranzo, risponde: «La famiglia e il servizio non sono due cose distinte. Non è come il lavoro: esco, vado in un luogo dove gli altri non possono venire, faccio le mie cose e torno. È una parte integrante della nostra vita. È una forma della vita, anche se bisogna riuscire a tenere degli spazi riservati, soprattutto per i figli». «Il nostro è un vicinato aperto – Aggiunge Emanuela -. Poi è bello che io e Nicola facciamo le cose assieme. Invece per i nostri figli è bello avere molte relazioni. Per cui capita che ci sia l’invasione di chi non vuoi nei momenti che non vuoi, ma poi hai tanto di più attorno. Loro sono contenti. Lo erano anche di vivere in parrocchia. Apprezzano molto i giovani che abitano qua, i giochi al giovedì, il fatto che vengano gli amici dei bambini accolti, che il cortile si riempia».

La terza porta della chiesa

La famiglia Costa vive nella casa Santa Barbara da tre anni. Come i loro amici della diocesi di Milano, anche loro si sono dati un tempo di cinque anni, scaduti i quali verificheranno, insieme alla parrocchia, se la loro presenza nella casa ha portato buoni frutti e se proseguire con l’esperienza oppure andare altrove. «Tre anni sono pochi. Cinque anni permettono di entrare nel vivo. È un tempo sensato. Dopo di ché ci sentiamo sostituibili».

La casa Santa Barbara non è una realtà visibile. È un condominio in mezzo ad altri condomini. Non ha insegne o frecce luminose che ne indichino la presenza. Si fa vedere solo da chi la conosce, e da chi frequenta le persone che la vivono. Non è invadente. Ma è un pezzettino di Chiesa che abita il quartiere, che sta in mezzo alle case.

«Le Famiglie missionarie a km0 sono la terza porta della Chiesa – ci dice Emanuela mentre ci salutiamo -: c’è la porta istituzionale, poi c’è la porta piccola che è quella degli istituti religiosi o della sacrestia dove entrano solo gli addetti ai lavori, e poi c’è la terza porta che è fatta da quelli che desiderano vivere la fede e una vita piena pur facendo la vita di tutti. L’impegno è quello di essere una porta d’ingresso verso il popolo di Dio. Questo è il nostro impegno: riuscire a fare da tramite».

Luca Lorusso


Dieci storie in un libro

Le Famiglie missionarie a km0 della diocesi di Milano, dal 2013 costituiscono un gruppo ormai consolidato e organizzato che oggi conta almeno 27 famiglie più altre in rete.

Le loro provenienze sono le più disparate: c’è chi viene dal mondo scout, chi da Azione cattolica, da Comunione e liberazione, dal laicato dei missionari della Consolata, dall’Operazione Mato Grosso, dalla rete delle famiglie ignaziane e da altre realtà.

Tutte si ritrovano attorno a una chiamata e a una prassi comune: essere missionari nella quotidianità, attraverso l’abitare in un quartiere, in una parrocchia, in uno spazio della Chiesa, qui in Italia. Senza bisogno di valicare frontiere. Essere missionari non a prescindere o nonostante la condizione di famiglia, ma proprio perché famiglia.

Il gruppo di Milano è il più visibile, in questo momento, nella Chiesa italiana, ed è quello che ha maturato una riflessione più articolata, ma i suoi membri non sono i soli che vivono la missione a km0. Proprio il fatto di avere iniziato a darsi un nome, a comprendersi come un volto specifico della Chiesa del nostro tempo, sta facendo loro conoscere molte altre esperienze in giro per il nostro paese, famiglie che sentono la stessa chiamata in forme simili e che stanno avviando un dialogo con le loro diocesi di appartenenza.

Gerolamo Fazzini, nell’ottica di iniziare a tirare un po’ le fila di qualcosa che sta pian piano, con i tempi dello Spirito, prendendo forma, ha raccolto in un bel volume, ben scritto e gustoso nei contenuti, dieci esperienze: sette milanesi, due piemontesi e una veneta, con una prefazione di mons. Luca Bressan, una cronologia essenziale della storia del gruppo ambrosiano, una piccola panoramica delle esperienze fuori dalla diocesi di Milano e una postfazione con un’intervista a Johnny Dotti sull’«abitare generativo».

L.L.


A colloquio con monsignor Luca Bressan

Scrivere la presenza di Gesù nel quotidiano

L’esperienza milanese delle famiglie missionarie in canonica sono una freccia che indica nuove forme di presenza della Chiesa sul territorio. La quotidianità, la fraternità, la sobrietà, l’accoglienza, sono alcuni dei suoi strumenti principali per incarnare la fede nella Chiesa e nel mondo che cambiano.

«Per me è stato un privilegio incontrare le Famiglie missionarie a km0. Io le leggo come un segno che lo Spirito ci dà per dire come incarniamo la fede oggi. Sono una realtà giovane che va aiutata a crescere e a scoprire il mistero che porta dentro. Allo stesso tempo sono un dono che interroga la Chiesa, e che mette in luce quanto essa sta cambiando».

Monsignor Luca Bressan è sacerdote della diocesi di Milano dal 1987, dal 2012 è vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale, «ovvero – ci dice -, quella parte di azione pastorale che intercetta la cultura, il mondo, la società, e quindi ne legge i cambiamenti».

È coinvolto nell’accompagnare quelle famiglie che nella sua diocesi incarnano la condizione di «Chiesa in uscita» abitando una struttura ecclesiale, e ce ne offre una lettura di ampio respiro.

Don Luca, a proposito di Chiesa che cambia, in un tuo intervento di qualche mese fa a Padova, proprio riferendoti alla Chiesa, hai parlato di «tornante storico». Ci puoi spiegare?

«Tutti ci accorgiamo che la Chiesa cambia, non solo perché i presbiteri sono meno, ma perché sono meno anche i battesimi. La Chiesa ha un’incidenza minore nella storia.

Il Concilio ci insegna che dobbiamo abitare questo cambiamento senza stancarci. Il rischio, però, è di interpretare questo “non stancarci” in modo troppo attivo: “Siamo noi che agiamo sulla riforma della Chiesa, che la mettiamo al passo con i tempi”. Invece, più che disegnare a tavolino quale sarà la forma futura della Chiesa, è molto meglio fermarsi e vedere come lo Spirito suscita vocazioni diverse, modi differenti di dire la fede.

Veniamo da un passato in cui la fede era incarnata soprattutto dalla vita religiosa, dall’esercito di suore che, accanto ai malati, agli abbandonati, ai bambini, raccontavano alla gente la gratuità dell’amore di Dio. Ecco, adesso quell’esercito di religiosi, religiose, preti, sta venendo meno, e corriamo il rischio che la Chiesa diventi “un’agenzia di servizi” a cui ricorrere per una preghiera, una prestazione.

La presenza delle Famiglie missionarie a km0 ci ricorda che è ancora possibile vivere una logica di gratuità. Avere queste famiglie non significa avere manodopera in più, ma delle persone che scrivono la presenza di Gesù nel quotidiano».

Le Famiglie missionarie a km0 sono una nuova forma di presenza della Chiesa nella società?

«Sì, noi la leggiamo in questo modo. Per questo la vogliamo accompagnare. È una freccia che ci indica nuove forme di presenza. Non in alternativa, non in sostituzione alle forme organizzate, al ministero presbiterale ad esempio, ma proprio come forma di aggiunta.

Il valore profetico che c’è in quest’esperienza è l’idea della fraternità missionaria che fa vedere come insieme si viene trasfigurati dalla fede, dal Vangelo che si vive, e quindi lo annuncia».

La fraternità è una delle caratteristiche fondanti di quest’esperienza, come si esprime?

«Questo dipende dalle situazioni. Ci sono luoghi nei quali la fraternità s’incarna in una frequenza fisica e quotidiana, ci sono luoghi in cui la famiglia abita dove una volta c’era il prete e ora il prete non c’è più, per cui la fraternità è più vincolata a momenti e orari.

C’è una fraternità quotidiana vissuta localmente che si esplicita in modi diversi. Poi c’è una fraternità più ampia che riguarda l’intera esperienza delle Famiglie missionarie a km0, che vuole essere uno spazio nel quale, ad esempio, si confrontano i tanti carismi da cui le coppie provengono: il mondo della missione, quello francescano, gli scout, Cl, famiglie legate a spiritualità più tradizionali, il mondo dei gesuiti…

Il gruppo è come una piazza in cui le differenze s’incontrano e arricchiscono tutti. L’ultima cosa che desiderano è spegnere le differenze. Infine c’è una fraternità ecclesiale di fondo che lega queste famiglie con la Chiesa».

Oltre alla fraternità, anche la quotidianità è un elemento fondamentale per questa esperienza.

«L’incarnazione avviene nel quotidiano. Il Verbo si è fatto carne in un momento determinato della storia e in un luogo determinato. Per cui, esatto, il quotidiano è una parola chiave. Il Vangelo non si vive e non si testimonia in astratto».

Quali sono i punti di forza, le criticità e le prospettive delle Famiglie missionarie a km0?

«I punti di forza sono, da una parte, l’energia spirituale, la gioia, la voglia di creare nuovi percorsi. Poi lo stile di vita famigliare, la sobrietà, la voglia di far vedere che cosa dà sapore e senso alla vita.

C’è una differenza tra ricerca del piacere e ricerca della gioia. C’è chi cerca la gioia pur vivendo in un mondo che ricerca solo i piaceri.

Le sfide stanno nel capire come innestare tutti questi elementi di novità nella presenza della Chiesa tra la gente, e come dare loro forma. La criticità sarà poi superare man mano la fase di entusiasmo e vedere come far diventare questa esperienza la normalità della vita ecclesiale, come farla diventare una figura conosciuta, una figura ministeriale».

Com’è accolta questa esperienza dalla gente e dai sacerdoti della diocesi?

«La gente in qualche caso ha espresso diffidenza, ma poi si è accorta della capacità di contagio e di annuncio che ha quest’esperienza. I preti, in parecchi casi, hanno riconosciuto in questa presenza un nuovo modo di declinare la loro missione, e anche la loro scelta celibataria. Più di un prete mi ha detto che, grazie alla famiglia missionaria, ha imparato, ad esempio, a organizzare meglio la sua vita, gli spazi di silenzio, i luoghi d’incontro con la gente».

Lo scopo del gruppo delle famiglie qual è?

«A livello diocesano è quello di istituire uno spazio di crescita anzitutto spirituale e comunionale. Ci s’incontra per nutrirci a vicenda della profondità del mistero che abitiamo e per tornare poi a immergerci in un quotidiano che richiede tante energie».

C’è una commissione in diocesi che sta redigendo delle linee guida. Cosa sono?

«L’idea è, senza affrettare i tempi, quella di consolidare l’esperienza. Scopo delle linee guida è di mettere per iscritto alcuni suoi elementi costitutivi perché ne diventino l’ossatura e le permettano di essere trasmessa e condivisa. Permettere a noi e agli altri di capire quali sono i tratti essenziali delle Famiglie missionarie a km0, così che poi possano essere declinati nelle differenti situazioni e, man mano, possano istituire una figura riconoscibile dalla diocesi.

Della commissione fanno parte alcune famiglie e alcuni elementi della Chiesa diocesana.

Però non vogliamo accelerare i tempi. Vogliamo che il processo di stesura sia la trascrizione a livello verbale del processo di consolidamento dell’esperienza che si sta vivendo a livello di corpo».

Come viene gestita la presenza di una famiglia in spazi di proprietà della Chiesa?

«Essendo un’esperienza carismatica segnata dalla gratuità, le famiglie si mantengono con il loro lavoro, come fa qualsiasi famiglia normale. Dato però che abitano in un contesto di fraternità missionaria e di collaborazione pastorale, la chiesa le ospita in modo gratuito nelle sue strutture. Il tutto basato su un contratto di comodato di cinque anni, rinnovabile, che permette a tutti di essere liberi, soprattutto alla famiglia. Il primo compito della coppia è salvaguardare, approfondire, nutrire il suo sacramento, e quindi la famiglia: la durata quinquennale serve per dare un termine e per vedere se nella famiglia, ad esempio con la crescita dei figli, sono nate nel frattempo nuove esigenze. L’idea è di non mettere a nessuno degli obblighi».

Cosa dà a te quest’esperienza?

«Io sono contentissimo. Mi accorgo di esserne nutrito. Trovo dei fratelli e delle sorelle che mi aiutano a tenere incarnata la mia fede e, allo stesso tempo, danno gioia al mio cammino. Fa parte del famoso centuplo raccontato dal Vangelo. Ritrovo dei legami famigliari che non avrei mai immaginato potessero esserci. E questo è bellissimo».

Luca Lorusso


Marco, Maida e i loro cinque figli, dalle Ande peruviane a Milano

Con la porta sempre aperta

Marco e Maida Radaelli appartengono all’Operazione Mato Grosso (Omg), presente in Ecuador, Perù, Brasile e Bolivia, fin da giovani. Prima di conoscersi hanno fatto alcune esperienze all’estero: Marco in Ecuador e Maida in Perù, e quando si sono sposati, neanche trentenni, dopo due mesi sono partiti per 10 anni in Perù.

Oggi vivono nella parrocchia di Ponte Lambro, Linate, zona Sud Est di Milano, e sono una Famiglia missionaria a km0 con i loro cinque figli, di cui le prime tre nate sulle Ande: Martina di 14 anni, Margherita (11), Beatrice (9), Daniele (2) ed Elena (1).

«Nel tornare ci eravamo chiesti quale sarebbe potuto essere il modo per vivere la missione anche qua in Italia», ci dice Maida per telefono.

Maida, ci descrivi la vostra esperienza in Perù?

«Vivevamo in una casa dell’Omg a Yungay, a 2.800 metri, in zona rurale sulle Ande, proprio ai piedi del Huascarán, la montagna più alta del Perù. Niente a che vedere con Ponte Lambro a Milano.

Avevamo una scuola di falegnameria con un internato dove c’erano 20 ragazzi scelti tra i più poveri dei villaggi vicini: vivevano insieme a noi e quindi passavamo tutta la giornata con loro.

Dopo due anni abbiamo costruito una scuola: asilo, elementari e medie. Dalle 8 alle 16 avevamo con noi 300 bambini, ai quali davamo anche da mangiare. Tutto con l’aiuto dei volontari italiani.

I professori erano peruviani, e poi c’erano volontari italiani che venivano anche solo per un mese, e davano una mano a insegnare».

Quindi il vostro lavoro in Perù era quello educativo. Non avevate un’altra fonte di reddito?

«No. Non avevamo stipendio. Vivevamo anche noi con quello che veniva mandato dall’Italia. Poi avevamo delle donazioni private di parenti o amici che utilizzavamo per cose nostre».

Che formazione avete?

«Siamo infermieri tutti e due. Ci siamo conosciuti all’università. Abbiamo lavorato come infermieri cinque anni prima di partire».

Cosa vi ha lasciato l’esperienza di condivisione continua con i ragazzi peruviani?

«Una ricchezza molto grande. Le nostre figlie hanno respirato da sempre che la nostra famiglia non è chiusa. La porta di casa era sempre aperta. È sempre stata una famiglia molto allargata. Vuoi o non vuoi, i tuoi problemi, le cose che ti sembra di non riuscire a superare, passano in secondo piano. Condividere la giornata con altre persone ti fa capire che non sei tu il centro del mondo. Le nostre figlie hanno visto con i propri occhi la povertà, materiale e non. Quando oggi diciamo: “Stai attenta a non pensare solo a te stessa”, ci capiamo. In Perù eravamo molto facilitati in tutto, perché non avevamo un lavoro che ci portava via durante il giorno, e quindi eravamo lì 24 ore su 24. Potevamo dedicarci agli altri sempre. In Italia la vita è più frenetica e ti impedisce di fare quello che vorresti: ci sono gli impegni fissi come la scuola, il lavoro, e quindi poi devi gestire il tempo che ti rimane».

Ogni tanto sentivate il bisogno di avere uno spazio solo vostro, di famiglia?

«Ce lo chiedono sempre. Certo: avevamo il nostro spazio con una piccola cucina e le nostre stanze. A volte venivano a bussare, però era sottinteso che se eravamo nel nostro spazietto, dovessero trattenersi. Poi in realtà passavamo in casa pochissimo tempo. Eravamo sempre insieme ai ragazzi».

Collaboravate con la parrocchia?

«C’erano due sacerdoti locali. Con loro avevamo anche dei momenti insieme, e una volta alla settimana uno veniva a celebrare la messa con noi e i ragazzi. C’era una strettissima collaborazione».

Com’è stato il rientro per le vostre figlie?

«Per loro l’Italia era un mondo sconosciuto e si sentono ancora peruviane. Rimpiangono spesso la vita semplice del Perù. Però quando abbiamo spiegato loro che avremmo mantenuto alcune caratteristiche della vita peruviana, che saremmo venuti a vivere in una parrocchia, hanno accettato bene».

Avevate già un posto dove andare?

«Sì, avevamo sentito l’ufficio missionario della diocesi di Milano. Inizialmente avevamo chiesto di andare in un paese e non in città, perché le nostre figlie in Perù avevano vissuto una vita molto semplice e volevamo conservare questo aspetto. Ci è stato proposto Bulciago, in Brianza, e quando siamo tornati nel 2014 siamo andati direttamente lì, in canonica, per tre anni. Nel frattempo è tornato dal Perù don Alberto Bruzzolo che ha sempre chiesto, sia in Italia che in Perù, la collaborazione di una famiglia vivendoci insieme. In diocesi è stato il primo a provare questa esperienza fin dal 2001 a Pentecoste. Quando è arrivato, conoscendoci già, ci ha chiesto di fare fraternità con lui. Allora nel 2017 ci siamo spostati qui a Ponte Lambro, in un contesto di periferia urbana totalmente diverso. Noi diciamo sempre alle nostre figlie che non importa dove si vive, importa come uno vuole spendere la sua vita: che sia con i ragazzi peruviani, in Brianza, o in città. Ne abbiamo parlato molto, e alla fine loro hanno detto che sì, l’importante è aiutare gli altri.

Qui c’è un centro d’ascolto della san Vincenzo che segue 150 famiglie. Vengono distribuiti vestiti, medicine… Anche qui i miei figli vedono la povertà».

Com’è la vita di fraternità?

«Viviamo in fraternità missionaria con don Alberto, che è parroco, e con don Emanuele Merlo, che segue la pastorale dei Rom. Siamo in una casa di due piani dentro l’oratorio: al piano terra ci siamo noi, e al piano superiore i due don. In un’altra struttura ci sono tre suore Marcelline. Anche loro hanno chiesto di lavorare nella periferia.

Abitando nella stessa casa, diciamo le lodi al mattino insieme, poi facciamo colazione per raccontarci un po’ di cose. E poi la domenica sera facciamo la compieta e un commento di un brano biblico.

Nella vita quotidiana, poi, ci sono pranzi, cene. Così come vengono. Avendo la porta sempre aperta è facile che succeda».

Lavorate?

«Mio marito sì. Io no. È stata una scelta per coltivare l’accoglienza. La mia presenza in casa è importante. Infatti, per il fatto di essere un’infermiera, a volte le persone vengono a chiedermi medicine o iniezioni… e questa cosa ci apre un mondo, perché le persone vengono e poi ti raccontano tutto di loro. Come dice una mia amica che vive anche lei in una canonica: “Noi facciamo la pastorale del caffè”.

A volte la figura del sacerdote può dare un po’ di soggezione. Invece vedere una famiglia, che è una famiglia normale, perché ha i figli, fa casino, i bambini gridano, la mamma pure, fa sentire più a casa. Don Alberto dice che conosciamo le stesse famiglie, ma da punti di vista diversi: i nostri figli vanno alle feste di compleanno, vanno a scuola… in tutte quelle parti della vita dove il don non può arrivare, noi possiamo».

Tuo marito che lavoro fa?

«Con degli amici, anche loro tornati dalla missione, ha fondato una cooperativa sociale di imbianchini e giardinieri, e gestiscono cinque isole ecologiche qua nei dintorni e in Brianza. Poi fanno un lavoro sociale con il reintegro nel lavoro di ex alcolizzati, ex drogati, persone bisognose.

Lui dice sempre che non vuole fare un lavoro che lo separi dalla vita normale».

In parrocchia che ruolo avete?

«Non abbiamo cose precise. Facciamo incontri con genitori che chiedono il battesimo. Ognuno di noi ha un gruppo di lettura del Vangelo una volta ogni 15 giorni: cioè andiamo nelle case delle persone che si rendono disponibili. Io sono anche catechista e gestiamo l’oratorio feriale e le attività dei bambini, sempre con i due don e con le suore».

Difficoltà e soddisfazioni?

«La difficoltà è quella di avere pochi momenti di intimità famigliare. A volte dici: “Ma basta! Questo campanello che suona in continuazione”. I bambini che avrebbero bisogno di attenzione, però devi dire loro di aspettare un attimo. A volte è una fatica. Usi energia togliendola alla famiglia. Ma alla fine ti dici: non è quella la cosa che mi rende più felice, pensare solo a me e alla mia famiglia. Alla fine, vivere così è una ricchezza».

L.L.


Per una parrocchia a misura di pannolino

Contagiati dalla gioia

Suor Enrica Bonino, 53 anni, accompagna il cammino delle Famiglie missionarie a km0 fin dal 2001, quando ha partecipato alla nascita della prima esperienza nella parrocchia di Pentecoste, nel quartiere di Quarto Oggiaro a Milano.

È una suora energica. Torinese di nascita e ignaziana di spiritualità. È un’ausiliatrice delle anime del purgatorio con la vocazione di accompagnare le persone attraverso i loro «purgatori», le fasi di crisi che la vita offre a tutti, verso la gioia.

Suor Enrica non esita a definire «profetica» la realtà delle famiglie missionarie che a Milano e altrove offrono un volto nuovo di Chiesa alla gente.

Suor Enrica, tu sei legata all’esperienza delle
Famiglie missionarie a km0 fin dagli inizi.

«L’esperienza è nata nel 2001 nella parrocchia Pentecoste a Quarto Oggiaro, dove vivevo. È partita dal parroco don Alberto Bruzzolo, da Marco e Marta Ragaini, una coppia con tre figli arrivata dal Chad dopo 6 anni di missione, e da me. Loro vivevano in parrocchia, io nella mia comunità e il parroco in un appartamento nel quartiere.

L’ho vissuta fino al 2006, quando sono partita per un anno in Colombia. Al mio rientro nel 2007, sono andata a Torino, e ho ripreso l’attività con le famiglie, anche se più legata alla spiritualità ignaziana. Insieme ad alcune coppie, ci siamo resi conto che è necessaria una certa cura del cammino a due, allora ho sviluppato un po’ questo aspetto: affiancare le famiglie e sostenerle in un percorso di spiritualità coniugale. Credo molto in quello che dice l’Amoris Laetitia (31): “Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa”.

Infine, nel 2012, sono tornata a Quarto Oggiaro».

Che ruolo hai nel gruppo delle Famiglie a km0?

«Sono stata coinvolta per la mia esperienza con le famiglie e perché la spiritualità ignaziana offre degli strumenti concreti: gli esercizi spirituali, una disciplina e un metodo di preghiera, un metodo per il discernimento e per le scelte.

Io non ho un ruolo specifico. Quando il gruppo ha iniziato a organizzarsi, mi sono stati chiesti degli incontri di formazione spirituale. Dopo di che ho iniziato a visitare alcune famiglie a fare telefonate, visite, confronti, in una modalità molto relazionale. L’idea è di prendersi cura l’uno dell’altro e di sensibilizzarsi reciprocamente su questa cura».

E che ruolo hanno, invece, le Famiglie missionarie a km0 nella Chiesa?

«Secondo me hanno un ruolo profetico. Entrare in una canonica e non trovarti la classica segretaria o il parroco, ma un bambino che ti chiede se giochi con lui, rivoluziona l’idea della parrocchia: offre un’immagine di semplicità, di vita quotidiana, di una chiesa a misura di pannolino, direi.

Oggi la parrocchia rischia di essere un luogo in cui si fanno delle cose, mentre è importante che sia vissuta come luogo di fraternità dove si sperimentano delle relazioni, poi si fanno anche delle cose, ma in funzione di una relazione che sia la più ampia, accogliente, aperta possibile».

La fraternità con sacerdoti o religiosi è un punto centrale per tutte le Famiglie missionarie a km0?

«Sì, però le modalità dipendono dalle situazioni: dai lavori della coppia, dalla disponibilità di tempo, dall’età dei figli, dal tipo di sacerdote. Non c’è un cliché. Un momento di preghiera insieme e uno di scambio su come va, c’è sempre. Per chi è implicato nella pastorale, lo scambio avviene anche su dove stiamo andando, cosa stiamo facendo, cosa aiuta di più la parrocchia. Ma non è detto che tutte le famiglie siano coinvolte nella pastorale allo stesso modo».

Quali sono i punti di forza di quest’esperienza per la famiglia, la parrocchia, il quartiere?

«Il punto di forza per la famiglia è la possibilità di non chiudersi in sé, nei propri problemi, nella gestione faticosa della quotidianità, di aprirsi ad altri e di coltivare un orizzonte spirituale più ampio. Perché quando sei continuamente sollecitato dagli altri, ti devi rinnovare nella motivazione che ti abita. Questo è anche il punto di fragilità, perché, a volte, essere troppo sollecitati può creare disguidi. È necessario cercare un equilibrio sempre nuovo.

Anche la comunità parrocchiale e il territorio ne hanno un beneficio, perché iniziano a vedere un volto diverso di Chiesa, la possibilità di confrontarsi con una fede più semplice, vissuta. Non è tanto una fede parlata, è una presenza accogliente.

L’altra cosa bella, per me, è che alcune Famiglie missionarie a km0 prendono contatti con altre diocesi, altre regioni, altri paesi, ad esempio la Francia, dove ci sono realtà simili: è come stare dentro un laboratorio continuo. Tutto questo crea una grande circolazione d’idee ed esperienze. Per esempio, alcuni da Milano sono andati qualche tempo fa a Padova a conoscere una comunità di famiglie ignaziane. Conoscere altri territori e stili è arricchente, dà molto entusiasmo ed è un modo per sostenersi a vivere una vita evangelica».

Il gruppo di famiglie della diocesi di Milano può aiutare altre esperienze a emergere?

«Ci sono diverse esperienze di famiglie che sperimentano fraternità differenti ma non si conoscevano tra di loro e non provengono da organizzazioni già costituite nelle diocesi. Adesso che con i convegni tenuti ogni due anni a Milano, con le trasmissioni televisive, i giornali, si inizia a vedere che c’è una realtà lombarda consistente, allora le altre realtà più isolate incominciano a venire fuori e a chiedere un confronto. Ne ho conosciute in Puglia, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria, Toscana, in Sicilia… Alcune realtà iniziano a confrontarsi con le proprie diocesi. Alcune diocesi non hanno le realtà ma i vescovi vorrebbero.

C’è un grande movimento e una grande curiosità. È un’esperienza portatrice di grande fermento.

Dove porterà non lo so. Don Luca Bressan dice, e io condivido, che dobbiamo lasciare che la cosa cresca, sostenerla con delicatezza, lasciando che le persone trovino il proprio spazio, senza codificare troppo, perché altrimenti si spegne lo spirito.

È necessaria una grande attenzione. Ed è per questo che ci sono molte telefonate: come stai? Come sta quella coppia? La vai a trovare tu, o vado io?».

È bella questa sinergia tra vocazioni differenti.

«Io credo molto nel sostegno tra vocazioni diverse. Indirettamente queste famiglie sostengono me nella scelta che ho fatto e, per quel che sono capace, a mia volta offro un sostegno, una presenza.

Io credo che la Chiesa possa essere solo così. Non può esserci una Chiesa di separati, in cui i religiosi sono da una parte, le famiglie sono dall’altra e ognuno sta chiuso nella propria casa o convento.

Mi piace la possibilità di mostrare un volto di chiesa diverso, il cui la suora, ad esempio, lavora come tutti, dà una mano in cucina se serve, può accompagnare i bambini al bagno e guardare i cartoni animati con loro. È considerata una persona come le altre. Questo è uno stile che vivo anche con la rete delle famiglie ignaziane da anni.

Lavorare per questo ideale e per questa mescolanza a me dà una grande gioia. Poi non so come andrà e chi tirerà le fila di tutto, ma anche questo a me dà una grande gioia e libertà: provo a lavorare, e poi tutto è nelle mani di Qualcun altro».

Questa esperienza è uno dei frutti che il Vaticano II continua ancora oggi a far nascere?

«Per me è un’esperienza a contagio. Sono arrivati dei missionari che hanno fatto esperienza di missione, e hanno iniziato a contagiare. È l’esperienza della semplicità che tu sperimenti solo in missione, con i più poveri, che a un certo punto trasforma la tua vita e non riesci più a vivere diversamente.

Io la vivo così, non tanto pensando ai documenti della Chiesa. Certamente è uno sviluppo del Vaticano II, certamente è in linea con il pontificato di papa Francesco e con tutti i documenti che lui ha scritto, perché uno dei punti cardine di questa esperienza è diffondere la gioia del Vangelo. Cioè far vedere che a essere cristiani si è felici, si è contenti, pur essendo incasinati. Perché i casini non li risparmia a nessuno la vita. Ma li vivi in un altro tipo di serenità, perché sai di chi sei, a chi appartieni e chi vuoi passare, chi vuoi trasmettere».

Luca Lorusso




Cari Missionari

100 anni meravigliosi!

Ordinazioni sacerdotali e pellegrinaggio internazionale a Tosamaganga, 1ª missione IMC in Tanzania

Carissimi,

quest’anno abbiamo celebrato il centenario della missione del nostro istituto in Tanzania. Abbiamo molte ragioni per ingraziare.

Ordinazioni

Anzitutto ringraziamo il Signore per il dono dell’ordinazione sacerdotale di quattro confratelli tanzaniani proprio
durante questo anno giubilare.

Prima l’ordinazione dei diaconi Tito Kimario e Emanuel Temu della diocesi di Moshi, e poi quella di altri due, i diaconi Isack Mdindile e Richard Lusaluwa della diocesi di Iringa (foto sotto). Sono i frutti nati dall’albero della fede seminato nelle varie parrocchie dai missionari in questi 100 anni di evangelizzazione in Tanzania, in particolare nella diocesi di Iringa.

Ringraziamo il Signore non solo per questi nostri confratelli, ma per tutti i figli e le figlie consacrati a Dio di questa diocesi e delle altre diocesi in Tanzania.

Nella messa di ordinazione, durante l’omelia, il vescovo di Iringa, mons. Tarcisius Ngalelekomtwa, ha insistito sul fatto che i nuovi ordinati debbano vivere la loro vocazione con coerenza e impegno, affinché questorealizzi la salvezza loro e di tutte le pecore che verranno loro affidate. Bisogna vivere la vita sacerdotale seguendo l’esempio di Gesù Cristo, il sacerdote per eccellenza. Il vescovo ha anche sottolineato che d’ora in poi tutti dobbiamo chiamare i nuovi sacerdoti «padri», perché dovranno prendersi cura della famiglia formata dai figli di Dio.

Pellegrinaggio da Mshindo a Tosamaganga con sette tappe intermedie, giovani dall’Europo insieme alal gente locale in occasione del centenario IMC in Tanzania

Il pellegrinaggio

Il giorno seguente, il 23 agosto, tutti i gruppi dei giovani provenienti dai vari centri Imc dell’Europa si sono radunati al centro Faraja (Consolazione) situato a Mgongo, dove vengono accolti bambini orfani o provenienti da famiglie in difficoltà. Là c’è stata una conferenza sulla vita e storia dei missionari della Consolata in Tanzania e sul centenario. Padre Cyprian Mvanda e il superiore regionale, padre Erasto Mgalama, hanno raccontato nel dettaglio i primi passi compiuti dai primi missionari agli albori della missione in Tanzania. I giovani europei hanno avuto l’opportunità di conoscere i bambini, giocare, ballare e cantare con loro, trascorrendo una serata meravigliosa, terminata con la cena alla quale ha partecipato anche la comunità della Faraja.

È stato fondamentale incontrarci per sentire le grandi meraviglie che Dio ha operato tramite i missionari nella regione di Iringa per essere pronti all’evento del giorno seguente: il pellegrinaggio a Tosamaganga, la primissima casa dei missionari della Consolata in Tanzania.

In strada

La mattina del 24 agosto (foto sopra), i fedeli e giovani locali insieme ai giovani dall’Europa si sono radunati presso la chiesa di Mshindo per partire in pellegrinaggio verso Tosamaganga.

Ai pellegrini si sono uniti tanti giovani e adulti delle parrocchie della Consolata in Tanzania per formare un lungo e variopinto corteo di persone che si è snodato lungo strade polverose.

È stato un pellegrinaggio colmo di gioia, preghiera, canti, musica, balli e riflessioni, con diverse tappe prima di arrivare a Tosamaganga.

Significativa è stata la penultima tappa all’orfanatrofio gestito dalle suore Teresine, una congregazione fondata da un missionario della Consolata, mons. Cagliero. Ci siamo inoltre recati al cimitero di Tosamaganga, dove riposano in pace tanti missionari che hanno speso tutta la vita per l’evangelizzazione e l’amore delle popolazioni.

A Tosamaganga

Arrivati alla parrocchia del Sacro Cuore di Gesù di Tosamaganga, siamo stati accolti calorosamente dal vicario del vescovo che ha salutato i pellegrini in tre lingue: inglese, swahili e italiano e ringraziato Dio per il lavoro fatto dai missionari dopo aver preso il posto dei Benedettini 100 anni fa.

Dopo varie celebrazioni, alla sera ci siamo trovati per un momento di presentazione dei vari gruppi che hanno anche condiviso le esperienze avute nelle parrocchie prima del pellegrinaggio e anche alcuni aspetti della propria cultura di provenienza con canti, balli e musica. Il 25 agosto nella messa presieduta da padre Erasto Mgalama abbiamo nuovamente ringraziato il Signore per il cammino fatto insieme e per le meraviglie che Dio ha compiuto tramite i missionari. Ha poi sottolineato che una missione riuscita è quella che coinvolge tutti, è quella fatta «con e per gli altri». Celebriamo i 100 anni perché i nostri primi missionari hanno saputo fare e vivere missione insieme. Il successo non è dovuto a un solo missionario, ma a tutti coloro che hanno lavorato durante questi 100 anni in Tanzania.

Ora preghiamo che questo Spirito di fare missione insieme cresca in noi, perché l’essere missionari e il fare missione siano il compito di tutti. «Umisionari ni wajibu wetu, wajibu wetu ni umisionari» (la missione è il nostro dovere/compito/impegno), così dice il motto del giubileo in Tanzania.

Il pellegrinaggio continua

Padre Erasto ringraziando i giovani dall’Europa per la loro partecipazione alle feste del giubileo, ha ricordato che il culmine delle celebrazioni è il 14 ottobre (festa nazionale in Tanzania).

Ha chiesto poi di portare i ringraziamenti alle famiglie e di raccontare l’esperienza vissuta sulle orme di tanti missionari che hanno evangelizzato il Tanzania, invitando a continuare il pellegrinaggio in Europa, diventando missionari nelle proprie comunità parrocchiali, contro l’anonimato delle nostre città e dei nostri paesi, visitando le solitudini delle case, uscendo per cercare e consolare gli smarriti e gli esclusi, accogliendo chi emigra ed è discriminato.

In questo senso, il pellegrinaggio continua, perché la missione non è finita né in Tanzania né in Europa.

padre Thomas Mushi, da Iringa, Tanzania


Ricordando con nostalgia

Caro direttore,
sono l’autore della foto di copertina di dicembre 2017. Come membro del gruppo Gomni (di cui avete scritto a luglio 2018) sono stato in Tanzania sette volte tra il 1992 e il 2008. Esperienze indimenticabili per me. Vorrei condividere questa breve storia allo scopo di far conoscere in questi tempi che le diversità tanto discusse e vituperate possono essere motivo di confronto e magari di ricupero di certi valori che noi abbiamo perso o dimenticato, come l’accoglienza, la condivisione e la fraternità.

Visita ai villaggi con suor Ponziana

Un mattino, dopo la messa, suor Ponziana mi invita ad andare a trovare i vecchi e gli ammalati. Raccolte poche cose dalla mia stanza, messi gli scarponi e preso un bastone, partiamo. È una bella giornata calda. Ci mettiamo in viaggio passando da una specie di emporio per prendere due bottiglie d’acqua per bere, una per uno.

Il percorso è un po’accidentato, con diverse colline da superare. Siamo sugli altipiani della regione di Njombe a un’altezza media di 1.800 m. I villaggi della parrocchia sono numerosi e piuttosto lontani uno dall’altro.

Partiamo spediti. Appena fuori del villaggio della parrocchia, sento una voce in lontananza che grida: «Karibu, Armando (benvenuto Armando)». Il saluto è forte, ma non vedo nessuno. In queste zone e a questa altitudine, senza i rumori tipici del mondo occidentale, il suono si propaga facilmente. Proseguendo il cammino incontriamo un gruppo di donne che vanno al lavoro nei campi trasportando gli attrezzi sulla testa. Il saluto è d’obbligo: «Kamwene, habari, mnaenda wapi?» (buon giorno – in kihehe, hai notizie? dove vai? – in kiswahili). La stretta di mano tripla dà calore all’incontro e all’immancabile scambio di informazioni, senza fretta.

Al primo gruppo di capanne ci fermiamo per salutare, anche se qui non ci sono ammalati ne vecchi. Ci offrono una gallina e io cerco di rifiutarla perché so che questa gente mangia una sola volta al giorno. Suor Ponziana mi prende per un braccio e sottovoce mi sussurra che non si può rifiutare, sarebbe un’offesa per loro.

Riprendiamo il cammino e dopo un’ora arriviamo in un villaggio con molte capanne. Sul sentiero che attraversa il villaggio un giovane sui venti anni si muove trascinando il corpo con le mani. Ha le gambe rattrappite probabilmente dalla nascita. «Weuli (buon pomeriggio – ancora in kihehe). Habari?». «Nzuri (bene)». È la risposta caratteristica della gente. Anche se la situazione non è buona, la risposta è sempre positiva.

«Vado a trovare la nonna», dice il ragazzo. Lo accompagniamo lentamente alla capanna che si trova poco lontano.

«Hodi? (permesso?)». «Karibu (benvenuto)», risponde una voce da dentro. Entriamo attraverso un’apertura in un muro di fango secco. Attraverso il denso fumo di un fuocherello vediamo una donna molto anziana seduta su un gabellino di legno a pochi centimetri da terra. Ci da la mano  dalla pelle molto sciupata e rinsecchita e ci invita a sederci. La vecchia è seduta accanto ad un fuoco formato da tre pietre disposte a triangolo. Non c’è il camino e il fuoco poco vivo crea una coltre di fumo che ristagna nel piccolo ambiente rendendo difficile il respiro.

Dopo i convenevoli, la signora ci racconta la sua storia di persona rimasta sola, con nessun parente e la difficoltà di muoversi a causa delle gambe molto ammalate. Ormai la sua vita è accanto al fuoco che, a queste altitudini, è sempre acceso giorno e notte. La sua esistenza è condizionata dall’aiuto dei vicini che non manca mai e dalla presenza del nipote handicappato che le tiene compagnia durante la giornata. Ma la cosa sorprendente è che trasmette il suo racconto con un sorriso sulle labbra, senza recriminazioni, né lamentele, come se fosse una cosa normalissima, naturale.

Io le offro delle caramelle e la suora le dà una maglietta per ripararsi dal freddo. Concludiamo la visita pregando insieme.

Riprendiamo il cammino in silenzio ripensando alla condizione di quella nonna che affronta la sua situazione difficile con serenità senza drammatizzare, con dignità e l’orgoglio di esistere.

La lebbrosa

Dopo un paio di colline e mezzora di cammino arriviamo a un piccolo insediamento, con cinque o sei capanne e poca attività, nessun movimento. La suora va diritta verso una capanna. Si ferma prima di entrare e girandosi verso di me dice: «Tu stai qui, non entrare, aspettami». Dopo un quarto d’ora, suor Ponziana esce e mi dice: «Twende (andiamo)».

La osservo mentre si pulisce le mani con l’erba alta bagnata di rugiada. Incuriosito, le chiedo perché non mi ha lasciato entrare in quella capanna. Con la testa abbassata mi risponde sommessamente: «In quella capanna c’è una persona molto ammalata, ha la lebbra».

Rimprovero suor Ponziana per quella pericolosa mancanza di igiene e le consiglio di munirsi di un disinfettante comune mentre le offro una  bottiglietta di Amuchina che abitualmente mi porto nello zainetto.

«Turudi (torniamo)», mi dice. Ci mettiamo sulla strada del ritorno, silenziosamente. Poco dopo incontriamo un gruppo di giovani donne che rientrano al villaggio. L’incontro vivacizza l’atmosfera con i saluti e le notizie che ci scambiamo. Io ne approfitto per familiarizzare con loro. Arriviamo alla missione abbastanza stanchi ed accaldati. Mi accorgo che la bottiglia dell’acqua della suora è ancora piena. «La bevo con le mie consorelle», mi dice suor Ponziana. Questa cosa mi fa ricordare l’importanza dell’acqua per questa gente. Nella parrocchia non esiste ancora un impianto di acqua potabile e utilizziamo l’acqua piovana e quella bollita per le nostre esigenze. Se è così in missione, nel villaggio è molto peggio.

«Tutaonana kesko (ci vediamo domani)», mi saluta la suora. A domani.

Armando Favaro
23/09/2019 Balangero (To)

 




Kirghizistan e Kazakistan: Una Chiesa «in germoglio»

Testo di suor Dalmazia Colombo – foto Missionarie della Consolata |


Il 2020 sarà un anno di grazia per le missionarie della Consolata perché si apriranno per loro gli immensi orizzonti dell’Asia centrale. Ben otto missionarie dall’Africa, dall’America e dall’Europa andranno a testimoniare il Vangelo in due paesi a maggioranza musulmana, il Kazakistan e il Kirghizistan, dove gli Ortodossi sono circa il 20% della popolazione e i Cattolici un’esigua minoranza.

Per quanto sembri scontato, il punto sta qui: noi siamo «per i non cristiani». Questo è il nostro carisma, il nostro dono specifico a tutta la Chiesa.

Quando il nostro Istituto fu fondato dal beato Giuseppe Allamano nel 1910, fu ai non cristiani africani che egli inviò le sue prime missionarie. Il gruppo, formato da tredici sorelle, partì per il Kenya nel 1913.

Al Kenya, nel corso degli anni si aggiunsero Tanzania, Etiopia, Somalia, Mozambico, Togo, Liberia, Guinea Bissau, Libia e Gibuti (dove siamo ancora oggi, eccetto Somalia e Togo).

Dopo la Seconda guerra mondiale l’Istituto si aprì all’America inviando missionarie in Brasile, Colombia, Argentina, Usa, Venezuela, Bolivia, paesi dove si continua a mantenere viva l’attenzione verso i non cristiani, presenti specialmente nelle periferie e fra le minoranze etniche, in zone povere e isolate.

In tutti questi paesi, le missionarie della Consolata, con le loro molteplici attività, hanno contribuito alla fondazione e/o al consolidamento delle Chiese locali, fino a sentire, in alcuni casi, esaurita la loro opera di prima evangelizzazione. Allora, è diventata prassi lasciare le parrocchie e le opere ben avviate ad altre forze apostoliche e spingersi verso nuovi orizzonti, finché, negli anni ‘90 lo sguardo ha cominciato a posarsi sull’Asia, il continente con la minore percentuale cristiana di tutto il mondo. Tale sguardo si è fermato allora sulla Mongolia.

La Mongolia

Il progetto di vita missionaria nella piccola porzione di Chiesa già presente in Mongolia (114 battezzati nel 2002, ndr) è stato elaborato in sintonia con gli elementi che i due istituti, i missionari e le missionarie della Consolata, hanno al centro del loro carisma: essere testimoni della presenza di Dio in mezzo ai poveri, divenire pellegrini che camminano con la gente, apprezzandone i valori, e dialogare con gli appartenenti alle grandi religioni.

I missionari e le missionarie della Consolata hanno raggiunto la Mongolia il 27 luglio 2003, stabilendosi nella capitale Ulaanbaatar, per imparare la lingua e penetrare nel tessuto sociale culturale e religioso del popolo, per conoscere la realtà e i bisogni della gente mediante la vicinanza, il dialogo e l’amicizia.

Il 19 settembre 2006 è stata aperta una nuova missione ad Arvaiheer, distante 420 chilometri dalla capitale. «Qui i missionari – racconta con emozione suor Gertrudes Vitorino, mozambicana, che faceva parte del gruppo – provarono l’emozione e la gioia di pronunciare il nome di Gesù e di annunciarlo in mezzo a un popolo, di religione buddista, che non aveva mai sentito parlare di Lui».

Oggi in Mongolia i cristiani sono quasi un migliaio e ad Arvaiheer si è formata una piccola comunità con 30 battezzati.

Se dai frutti si conosce la bontà dell’albero, viene spontaneo comparare lo stile di missione scelto in Mongolia a un albero buono, che ha dato frutti buoni: semplicità di vita e accoglienza, intensa preghiera, realizzazione di piccoli, ma significativi, progetti, come le docce calde pubbliche, la scuola materna informale, il doposcuola e il cammino di cura per alcolisti.

Nuove presenze in Asia

Nel 2011 la decima assemblea capitolare delle missionarie della Consolata – suprema autorità collegiale dell’Istituto -, che aveva come motto «Sospinte dallo Spirito consolatore», invitò tutte le missionarie a «lasciarsi sfidare da nuovi orizzonti missionari con lo zelo e la disponibilità delle prime sorelle». Dopo riflessioni e approfondimenti si arrivò alla decisione di studiare la possibilità di aprire nuove presenze in Asia tenendo conto di alcuni criteri:

  • L’Asia è il futuro della missione (Redemptoris Missio, N. 91).
  • Noi siamo per i non cristiani (Costituzioni MdC, art. 3).
  • La necessità di sostenere e rafforzare le poche presenze religiose in Asia.

Perché in Kirghizistan e in Kazakistan?

In fedeltà alla metodologia del fondatore, che inviò i suoi in Kenya dopo una lunga e accurata ricerca sulla possibilità di realizzare il fine dell’Istituto di «annunciare il Vangelo ai non cristiani», iniziò il cammino di raccolta di informazioni per capire dove si sarebbe potuta avviare una nostra nuova presenza in Asia.

Nelle ricerche vennero coinvolti mons. Savio Hon Thai Fai, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, e membri di altri istituti missionari già presenti in Asia.

Su consiglio di questi esperti, furono fatte ricerche in Cina, Indonesia, Bangladesh, Thailandia, Kazakistan, Kirghizistan. Nel corso del cammino, alla luce dei criteri che erano stati posti alla base della ricerca, la rosa dei paesi candidati andò assottigliandosi lasciando sul campo il Kazakistan e il Kirghizistan.

I viaggi di esplorazione

Due consigliere generali, suor Cecilia Pedroza e suor Lucia Bortolomasi, quest’ultima già missionaria in Mongolia, visitarono diverse volte le due ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Lì presero contatti con le autorità religiose e con alcuni gruppi di persone vicine alla piccola realtà di cattolici presenti in quei paesi, e valutarono che sarebbe stato possibile avviare nuove presenze secondo i criteri proposti dal Capitolo generale del 2011 e confermati nel Capitolo generale del 2017.

Filmati, power point, foto, relazioni sulle ricerche fatte furono presentati più volte a tutto l’Istituto rafforzando e confermando, da parte di tutte le missionarie, la bontà della scelta di avviare, entro il 2020, nuove presenze consolatine in Asia centrale.

Dove andremo?

Il 2 febbraio 2019 la direzione generale ha comunicato i nomi delle sorelle che partiranno nel 2020: quattro per il Kazakistan e quattro per il Kirghizistan. Sono le veterane Adriana Medina e Claudia Graciela dalla Colombia, Ivana Cavallo da Boves, Cuneo, Judith Kitoti dal Tanzania, Luisa Felipe Munguambe dal Mozambico, e le «esordienti» Adanech Mitiku Shawo dall’Etiopia, Hellen Njoki Waithera e Zippoorah Wanjiku Mwaniki dal Kenya.

L’11 marzo 2019, pochi giorni dopo l’incontro a Roma con mons. Josè Luis Mumbiela Sierra, vescovo di Almaty (Kazakistan), e padre Anthony Corcoran, gesuita e amministratore apostolico del Kirghizistan, in visita ad limina dal papa insieme ad altri otto vescovi e amministratori apostolici dell’Asia centrale, la direzione generale ha comunicato i luoghi nei quali si avvieranno le due comunità.

  • In Kazakistan, nella diocesi di Almaty, a Janashar, un paese a circa 40 chilometri dalla città più popolosa del paese, dove esiste una piccola comunità cristiana e la diocesi ha costruito la casa dove le missionarie potranno abitare, con l’aggiunta di alcuni locali per attività ancora da definire.
  • In Kirghizistan, nell’unica amministrazione apostolica, la comunità sarà a Dzalal Abad, una cittadina nella zona Sudoccidentale del paese, a 600 chilometri dalla capitale Biškek, ma relativamente vicina a Janashar.

Il 1° ottobre 2019, due delle sorelle partenti, Adriana Medina e Judith Kitoti, hanno ricevuto il mandato missionario da papa Francesco nella semplice cerimonia che ha segnato l’inizio del mese missionario speciale.

Si parte presto

Le nuove aperture sono ormai alle porte. La direzione generale, nella lettera che comunicava le ultime decisioni riguardo le aperture in Asia centrale, così concludeva: «Grazie a tutte voi sorelle, per le molteplici espressioni di appoggio e di condivisione per le nuove aperture.

Sappiamo che la costituzione delle due nuove comunità ha significato dei sacrifici e dei tagli nei paesi da cui le sorelle scelte provengono, ma sappiamo anche quanta vitalità e benedizione questa scelta verso “i non cristiani” dona al corpo dell’istituto nel cammino di rinascita.

Continuiamo ad accompagnare il processo con la preghiera, l’interesse, l’appoggio e l’affetto, perché veramente è un evento di famiglia che ci coinvolge tutte. La Consolata ci precede là e attende il nostro arrivo.

Senza il coinvolgimento di tutte e la solidarietà di tanti amici e sostenitori delle nostre missioni, le nuove aperture in Asia rimarrebbero per le missionarie della Consolata solo un sogno!

Insieme, in cordata, cercheremo di aiutare la crescita di questa chiesa che papa Francesco, nel discorso ai vescovi dell’Asia centrale ha definito “una Chiesa in germoglio”».

Suor Dalmazia Colombo


Repubblica del Kazakistan

Il Kazakistan si trova nell’Asia centrale. Per estensione è il 9° paese del mondo. Gran parte del suo territorio è pianeggiante e collinare desertico o semidesertico. Una vasta area attorno al Mar Caspio è sotto il livello del mare (-132 m). Ai confini con Kirghizistan e Cina, nel punto di incontro delle tre nazioni si innalza la maggior vetta kazaka, il Khan Tengri (6.995 m) nella catena del Tian Shan che significa Montagne Celesti.

Popolazione

Prima dell’indipendenza, nel periodo dell’Unione sovietica, la componente di popolazione kazaka era inferiore al 50% per l’entrata nel paese di molti russi, ucraini, polacchi e di altre nazionalità. In seguito al ritorno ai paesi di origine degli immigrati, la situazione è decisamente cambiata con i Kazaki che costituiscono ora il 63% della popolazione. La città più popolosa è Almaty, con 1.801.713 abitanti, capitale dello stato fino al 1997.

Tradizioni

La cultura affonda le sue radici nella natura nomade della gente e nell’Islam, che è la religione maggioritaria. Le steppe semiaride e gelide d’inverno, in primavera si trasformano in prati sconfinati ideali per la pastorizia, risorsa essenziale per il popolo kazako che ha sviluppato un’antichissima tradizione di tolleranza e di accoglienza.

La vita nomade del popolo ha sempre avuto come alleati e simbolo i cavalli, attorno ai quali si sono sviluppati usi e costumi, compresa l’abilità a cavalcare. Si dice che i kazaki siano stati gli inventori delle staffe. Sono abilissimi a scagliare le frecce mentre il cavallo galoppa. Famose le esibizioni di tali abilità nelle feste e manifestazioni anche oggi.

Chiesa cattolica

La Chiesa cattolica in Kazakistan, si è formata a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso ad opera di alcuni sacerdoti deportati dal regime sovietico che si rivolgevano soprattutto ai non kazaki. Per decenni visse nella clandestinità affidata alla trasmissione della fede a livello familiare, specialmente da nonni ai nipoti. Nel settembre del 2001, papa Giovanni Paolo II visitò la piccola comunità cattolica che con l’indipendenza aveva acquisito nuovo vigore. L’attuale organizzazione territoriale comprende tre diocesi, e una amministrazione apostolica: arcidiocesi di Astana, diocesi di Almaty e di Karaganda, amministrazione apostolica di Atyau. A queste si aggiunge l’amministrazione apostolica per i fedeli cattolici di rito bizantino in Kazakistan e nell’Asia centrale.

Grazie alla presenza missionaria nel paese, vi è una crescita di kazaki che si convertono al cattolicesimo, soprattutto nella capitale Nur-Sultan (che fino a marzo 2019 si chiamava Astana).

Da.Co.

  • Lingue ufficiali   Kazako, Russo (entrambe ufficiali)
  • Capitale            Nur-Sultan (già Astana – 1 milione di ab.)
  • Forma di governo          Repubblica semipresidenziale
  • Indipendenza da Urrs    21 dicembre 1991
  • Superficie 2.724.900 km² (9 volte l’Italia)
  • Popolazione      17.572.000 ab. (stime 2019)
  • Nome abitanti Kazaki
  • Religione          Musulmani 70%, Cristiani ortodossi 26%, Cattolici 1,14%, altre religioni o senza 3%
  • Confini Cina, Russia, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan
  • Valuta  Tenge kazako


Repubblica del Kirghizistan

Il Kirghizistan è un aspro paese dell’Asia centrale che sorge lungo la Via della Seta, l’antica carovaniera tra la Cina e il Mediterraneo a metà strada tra Medio ed Estremo Oriente. È un paese che vanta la presenza di una popolazione molto cordiale, ospitale e disponibile.

Il nome Kirghizistan deriva da una parola che significa «siamo 40». Si tratta di un riferimento ai 40 clan che in origine formavano la nazione e che si riflette sulla bandiera composta da un sole giallo con 40 raggi distanziati in modo uniforme dal centro. Oggi la popolazione è formata in gran parte da Kirghisi (65%) e Uzbeki (13%). Il resto sono Russi, Polacchi, Tedeschi e altre nazionalità, nella maggior parte figli e nipoti delle deportazioni sovietiche.

Geografia

Il territorio aspro e difficile del Kirghizistan, nel cuore dell’Asia, è un groviglio di fiumi e montagne che superano i 7.000 metri e offre una delle più belle architetture naturali del mondo con la catena montuosa del Tien Shan e l’altopiano del Pamir: il primo lo separano da Cina e Kazakistan, il secondo lo uniscono al Tagikistan. La maggior parte della popolazione vive nelle zone di pianura che occupano appena un settimo della superficie totale.

Poche sono le città, pochi i comfort, pochi i servizi sociali. I trasporti si contano su una mano. Chi sceglie di vivere in questo paese, vive esperienze fuori del tempo ed è colpito dalle usanze della vita nomade, tipica del popolo kirghiso, gente temprata per sopravvivere alla natura e per questo molto ospitale con il prossimo.

La tradizione

La popolazione dei villaggi, dedita alla pastorizia, vive nelle bellissime iurte, le classiche tende dei pastori che hanno la caratteristica di essere fresche d’estate e calde d’inverno. Sono il simbolo più antico dei villaggi e della popolazione itinerante. Il viaggiatore viene accolto nelle iurte al suono del komuzy, il tradizionale strumento a corde. Sempre nelle tende, le famiglie si riuniscono per prendere le decisioni più importanti e condividere i pasti. Pasti semplici e gustosi nei quali le pietanze principali sono il plot, composto di un misto di riso e carne, e lo shorpo, una zuppa di carne e verdure.

Chiesa cattolica in Kirghizistan

La Chiesa cattolica ha una storia recente in quanto solo nel 1997, dopo l’indipendenza, Giovanni Paolo II vi fondò una missio sui iuris. Nel 2006, Benedetto XVI elevò la circoscrizione al rango di amministrazione apostolica che comprende l’intero territorio. Dalla fondazione a oggi i cattolici sono passati da 200 a circa 500: lo 0,01% della popolazione. In Kirghizistan vi sono tre parrocchie con cinque religiosi e cinque religiose che diverranno nove con l’arrivo a Dzalal Abad delle missionarie della Consolata.

Da.Co.

  • Lingue ufficiali   Kirghisa, Russo (entrambe ufficiali)
  • Capitale            Bishkek
  • Forma di governo Repubblica parlamentare
  • Indipendenza da Urrs    31 agosto 1991
  • Superficie 199.957 km²
  • Popolazione      5.959.121 (stima 2019)
  • Nome abitanti   Kirghisi
  • Religione          Musulmani 75%, Cristiani ortodossi 20%, Cattolici 0,01%, altre religioni o senza 5%
  • Confini Cina, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan
  • Valuta  Som kirghiso




In uscita con Filippo

Teasto di Angelo Fracchia |


Si è detto per lungo tempo, e qualcuno ripete ancora oggi, che il vero fondatore del cristianesimo non sia stato Gesù di Nazaret, ma Saulo di Tarso. Il grande e imprevedibile snodo della prima generazione cristiana è stata la scelta di non chiudere le porte della propria comunità a chi non era ebreo, e il grande teorizzatore di questa scelta è stato, appunto, Saulo/Paolo.

Probabilmente erano insinuazioni diffuse già nel primo secolo d.C., se è vero che Luca, quando scrive la storia della prima comunità cristiana, si concentra principalmente su Paolo, sforzandosi però nel contempo di dimostrare che non è stato lui l’artefice dell’apertura del battesimo ai gentili (ossia agli appartenenti alle genti, vale a dire tutti coloro che non facevano parte dell’unico vero popolo, quello ebraico).

Abbiamo già visto come e con quale intensità Luca si sforzi di indicare ai suoi lettori il responsabile ultimo che ha guidato la Chiesa ad aprirsi a tutti: lo Spirito Santo.

È in questo contesto, e con questo scopo, che va letto il capitolo 8 degli Atti degli Apostoli, probabilmente meno noto di altri brani, ma non meno significativo.

Al di là dell’ortodossia religiosa

Filippo è uno dei sette diaconi, destinati, ci dice Luca, alla distribuzione dei viveri tra le vedove ellenistiche (cfr. Atti 6,1-6 e anche MC 8-9, pag. 33). «Ci dice Luca» è un inciso obbligatorio, perché in realtà di quei sette, cinque non lasciano altre tracce nello scritto lucano.

Il primo, quindi il più importante, Stefano, muore linciato per aver predicato contro il tempio (cfr. Atti 7). Il secondo che viene citato è Filippo: anche lui non viene mai presentato nell’atto di gestire le mense, il che vuol dire che i diaconi come minimo facevano anche altro. In verità, quando Stefano viene ucciso e una persecuzione disperde i fratelli in giro per il Vicino Oriente (Atti 8,4), anche Filippo parte da Gerusalemme, ma per andare a predicare.

E se lo stupore non fosse già abbastanza («Ma non doveva occuparsi del sostegno alle vedove ellenistiche»?), ci sorprende il luogo in cui si reca a predicare: va infatti in Samaria (Atti 8,5). Noi lettori moderni, quando sentiamo parlare della Samaria, rischiamo di essere fuorviati dalla parabola del «buon samaritano» (cfr. Lc 10,30-35) e da qualche altro accenno benevolo di Gesù nei loro confronti (cfr. Lc 17,11-18; Gv 4), pensandoli come brave persone e basta. In realtà la tensione tra giudei e samaritani ai tempi di Gesù è altissima da almeno due secoli. Non è un caso che persino nei vangeli ce ne siano echi:

  • in Mt 10,5 Gesù manda i discepoli a predicare, ma dice loro di non entrare nelle città dei samaritani,
  • in Lc 9,52-55 un villaggio samaritano non lascia passare Gesù che è diretto verso Gerusalemme (e Giacomo e Giovanni invocano su quel villaggio un «fuoco dal cielo»),
  • addirittura Gesù viene accusato di essere un samaritano (o un indemoniato: evidentemente si pensava che i due termini fossero in qualche modo sinonimi – cfr. Gv 8,48). Secondo la tradizione ebraica, i samaritani non sono ebrei, e possono essere disprezzati più dei pagani.

Filippo in Samaria

Eppure Filippo si incammina verso la vicina comunità eretica, dove peraltro la sua predicazione incontra un (insperato?) successo. La dinamica di questi capitoli è significativa. A volte (come nell’episodio di Pietro e Cornelio: Atti 10) le aperture che si verificano sembrano essere frutto di iniziative nettamente nelle mani dello Spirito Santo. Altre volte invece, come qui, si direbbe che a venire per prima sia la decisione umana, la quale dà vita a un frutto che evidentemente dipende dallo Spirito.

In questo capitolo di Atti, a Gerusalemme vengono a sapere che qualcosa è successo in Samaria e mandano Pietro e Giovanni a controllare (e a sgridare Filippo?): loro guardano che cosa accade, vedono che sono visibili i frutti dello Spirito, e ritornano a Gerusalemme lodando Dio per ciò che ha compiuto (Atti 8,14-17).

Anche con questi particolari, apparentemente secondari, Luca insegna che dire: «Dio e l’uomo collaborano nella costruzione del regno di Dio» non è solo un’affermazione scontata, ma è davvero un agire insieme, in una cooperazione tanto piena che non si può neppure prevedere, di volta in volta, chi compia il primo passo e chi si adegui. Sempre, comunque, Dio e l’uomo si dimostreranno corresponsabili della diffusione del Vangelo. Metterli in contrapposizione («Non faccio niente perché lascio fare a Dio»; oppure «Dio agisce esclusivamente attraverso le mie mani») non è cristiano.

Al di là dei vantaggi economici

Segue un episodio che ci può sembrare banalmente buffo e secondario, anche se in realtà è probabile che Luca lo inserisca con piena intenzione. Semplicemente, noi non siamo lettori antichi e alcuni sottintesi non risuonano in noi come risuonavano duemila anni fa.

Per noi, attentissimi al denaro al punto da calcolare con quello anche la forza d’attrazione di professioni e passatempi (una professione vale tanto quanto è pagata), i soldi devono tenersi lontani dalle scelte ideali. Ci viene persino difficile ammettere che chi si dedica a una missione venga anche nutrito dai frutti di quella missione. Per la religione, questo vale in modo ancora più pressante.

L’antichità si comportava in modo diverso: la ricchezza di un tempio era segno dell’affidabilità della sua divinità, che attirava sacrifici e donazioni anche da molto lontano. Quella ricchezza che arrivava a un tempio veniva utilizzata per retribuire i sacerdoti, per riparare le strutture sacre e per fare la carità ai mendicanti i quali, vivendo alle spalle del tempio, dimostravano che la divinità era buona, generosa e capace di aiutare. Ricevere denaro era segno che chi lo offriva riconosceva il valore e l’affidabilità di quella divinità.

Noi oggi tendiamo a vergognarci di santuari o ordini religiosi troppo ricchi, mentre nel primo secolo d.C. era un motivo di vanto, quasi una conferma che la divinità onorata e servita da quel tempio era davvero importante e influente.

Simone di Samaria

Su questo sfondo acquisisce un significato notevole l’episodio di Simone di Samaria (Atti 8,9-13.18-24). Questi era un uomo che faceva prodigi, un po’ come Gesù, e di certo era ritenuto persona importante e affidabile in campo spirituale. Lui, a sorpresa, non si contrappone all’opera di Filippo (come faranno tante autorità religiose da allora in poi e come era già accaduto a Gesù, a Pietro e a Stefano), ma si fa battezzare e cerca poi di entrare nel gruppo dirigenziale del nuovo movimento, offrendo denaro per poter gestire lo stesso potere di guarigione e di effusione dello Spirito che ha visto passare dalle mani dei discepoli.

La risposta di Pietro è durissima: accettare quel pagamento andrebbe a danno del dono di Dio, che è gratuito, e interpretare l’opera divina come compravendita implica di essere malvagi e non aver capito Dio.

Con poche parole Pietro rimarca che al cuore della comunità voluta dal Dio di Gesù c’è la comunione tra Dio e gli uomini e degli uomini tra di loro, e null’altro. La chiesa di Gesù può essere poverissima, perché a interessare a Dio è la relazione personale con gli uomini, che non dipende dalle strutture. Il Dio di Gesù non cerca riconoscimenti o potere, vuole solo donarsi gratuitamente agli uomini.

Filippo battezza Etiope

Al di là dei tabù fisici

Quindi ritorna in scena Filippo, che era rimasto un po’ in secondo piano dopo la prima evangelizzazione della Samaria. Questa volta, però, a condurre le danze è Dio. Un angelo spinge il diacono sulla strada che da Gerusalemme scende al mare di Gaza (ossia, geograficamente dalla parte opposta rispetto alla Samaria): qui trova un eunuco della regina Candace che legge, senza capirlo, un passo di Isaia (At 8,26-40).

Qui, se vogliamo, Luca gioca forse un po’ sporco. Alla corte dei re etiopi, le cui regine avevano il titolo di Candace (non il nome proprio, ma un titolo, come si usa faraone per indicare il re dell’Egitto), i funzionari regi erano definiti eunuchi, anche se ormai da secoli per servire a corte non dovevano fisicamente esserlo. Questo eunuco, se sta tornando da Gerusalemme e legge il rotolo del libro di Isaia, è probabilmente di religione ebraica: forse è andato alla città santa in pellegrinaggio. Gli eunuchi veri e propri, ossia, in genere, coloro che evidentemente non avrebbero potuto generare dei figli, non potevano far parte del popolo ebraico (cfr. Dt 23,2). Ecco perché abbiamo scritto che forse Luca qui gioca un po’ sporco: è probabile che non abbiamo a che fare con un vero eunuco ma solo un funzionario della regina etiope. In ogni caso Filippo è spinto dallo Spirito a parlargli, a spiegargli l’Antico Testamento, a fargli scoprire che esso si compie in Gesù, e a battezzarlo, vedendo scendere su di lui lo Spirito Santo. Di conseguenza siamo portati a pensare che nel Vangelo non si dà più l’impossibilità, per persone come lui – eunuco -, di entrare nella comunità dei credenti in Cristo. Tra l’altro, quasi a mettere una ciliegina sulla torta, il brano di Isaia che l’eunuco sta leggendo parla della debolezza, fragilità e svuotamento di sé del servo di Dio (At 8,32-33, che riprende Is 53,7).

Filippo, missionario degli esclusi

Filippo, protagonista di un solo capitolo degli Atti, è colui che porta il Vangelo della povertà e della fragilità a coloro che erano esclusi dal popolo ebraico, che ciò accada per ragioni fisiche o religiose, e che aiuta a cogliere che il Dio di Gesù non cerca denaro o potere.

E poi, come per magia, viene di nuovo portato dallo Spirito lontano da lì, sulla strada che da Azoto andava lungo il mare fino a Cesarea, ancora in territorio non ebraico.

Il Vangelo, insomma, non ha confini, è per tutti gli uomini aperti a farsi domande e ad accogliere la presenza di Dio, senza precondizioni fisiche, economiche o religiose. E a volere questa apertura sono stati alcuni uomini più coraggiosi, ispirati o aperti, ma, insieme, è stato lo Spirito Santo, che non sopporta vincoli. Il battesimo, ufficialmente, non è ancora aperto a tutti, ma già sono tanti gli ex pagani che fanno parte della comunità dei fratelli. La legge interverrà più tardi, con fatica, a ratificare ciò che lo Spirito ha già compiuto di slancio.

Angelo Fracchia
(continua)




Pakistan: Una chiesa piccola ma tenace

Testo di Marta Petrosillo e foto di ACS, Aiuto alla  Chiesa che soffre |


In Pakistan la chiesa è piccola e perseguitata, ma anche apprezzata da molti per le sue opere. I missionari che lavorano nel paese tra scuole, ospedali, evangelizzazione, sono persone forti, determinate e di grande fede.

«Vivo da molti anni in Pakistan. La difficile missione in questa terra islamica dà tanto valore alla mia vita paolina. Mi sento privilegiata a stare tra questi cari cristiani perseguitati. Con la loro fede e testimonianza, mi evangelizzano. Come Paoline abbiamo un compito, un ruolo, una missione apostolica significativa. Ci sentiamo e siamo riconosciute come “sorelle della Bibbia” che lavorano per raggiungere il popolo con la Parola di Dio. Un dono per la nostra vocazione, un impegno, una passione, una scelta del cuore. Lui mi ha condotta in tutti questi anni; mi ha dato gioia, amore e grazia. La sua tattica spirituale è inconfondibile: chiama alla missione attraverso non pochi sacrifici e chiede sempre distacco…». Così scriveva suor Daniela Baronchelli, figlia di San Paolo, che ha vissuto trentasette dei suoi ottantasette anni di vita – conclusasi il 23 marzo 2019 – in Pakistan.

In una terra difficile

Suor Daniela amava profondamente il Pakistan, terra difficile, a volte ostile, così come amava il popolo pachistano tutto, sia cristiano che musulmano. Al punto che, come lei stessa ci ha confidato, dal 2016 aveva scelto di non tornare più in Italia. «Oramai è questa la mia terra, e voglio essere sicura di morire qui». Oggi la sua tomba, nel cimitero cristiano di Lahore, è meta di pellegrinaggio delle tante persone che ha aiutato.

Come lei, tantissimi altri missionari hanno trascorso la loro vita nel paese asiatico, contribuendo in modo determinante all’evangelizzazione e allo sviluppo della piccola minoranza cristiana, ma anche dell’intera popolazione. Come sempre, infatti, nonostante le modeste dimensioni della comunità cattolica – appena l’1% dei 190 milioni di abitanti -, la Chiesa ha fatto molto, e continua a fare moltissimo in ambito educativo e sanitario.

Il ruolo dei missionari

I primi missionari giunsero in queste terre da Portogallo, Francia e Gran Bretagna, al seguito delle potenze coloniali. La prima chiesa cattolica in Punjab, a Lahore, fu costruita intorno al 1597 dai gesuiti provenienti dallo stato indiano di Goa, allora colonia portoghese. Più tardi, il cristianesimo fu portato principalmente dall’impero britannico, alla fine del Settecento e nell’Ottocento. Questo è evidente se si guardano i centri urbani fondati dagli inglesi, come la città portuale di Karachi dove si erge la maestosa cattedrale di San Patrizio, una delle chiese più grandi del Pakistan, oppure le chiese di Rawalpindi, dove gli inglesi si stabilirono.
Il ruolo dei missionari è stato fondamentale: molte congregazioni sono all’origine della nascita delle diverse diocesi. I cappuccini hanno dato vita a quella di Lahore, gli Oblati di Maria Immacolata al vicariato apostolico di Quetta, la Società missionaria di San Giuseppe di Mill Hill alla diocesi di Islamabad Rawalpindi.

La scuola, tra le altre cose

«Sono davvero molto grato e ho profondo rispetto per l’immensa opera compiuta dai missionari europei in Pakistan. Questi religiosi hanno giocato un ruolo determinante per lo sviluppo della nostra Chiesa», ci dice il cardinale Joseph Coutts, unico porporato del paese.

Il viso del cardinale s’illumina ricordando i tanti missionari che ha incontrato nel suo cammino, prima di sacerdote e poi di vescovo, e che hanno fatto parte della sua vita fin da prima della sua nascita: «I miei genitori sono stati sposati nel 1940 dall’allora parroco della cattedrale di St. Patrick, James Cornelius van Miltenburg, un francescano olandese poi divenuto arcivescovo di Karachi e in seguito di Hyderabad».

Molte delle scuole cattoliche del Pakistan sono nate grazie all’opera dei missionari. «Oggi le nostre scuole continuano il lavoro dei primi missionari», afferma il cardinal Coutts notando come nel paese vi siano oltre 300 istituti cattolici. A Karachi ve ne sono 56, di cui tre situati nel compound della cattedrale. E – come abbiamo potuto osservare di persona – non è raro che all’orario di uscita degli studenti, l’auto del porporato debba faticare un bel po’ per entrare dal cancello principale.

L’educazione è essenziale in un paese nel quale l’analfabetismo sfiora in alcune zone l’85%. «Le nostre scuole sono molto apprezzate, anche dai musulmani, perché insegniamo valori come la fratellanza. Nei nostri istituti hanno studiato anche ex presidenti, così come molti impiegati pubblici, militari, ambasciatori e altri funzionari».

«Libri, non mattoni»

A Youhanabad, quartiere cristiano di Lahore, vive un religioso che incarna la bellezza della chiesa pachistana. È padre Edward Thuraisingham, degli Oblati di Maria Immacolata. È giunto in Pakistan dallo Sri Lanka ormai 40 anni fa. Si è sempre dedicato ai poveri e in particolar modo all’educazione dei bambini. Padre Edward è fortemente impegnato a salvare dalla schiavitù, attraverso l’istruzione, i figli dei lavoratori delle fornaci di mattoni (vedi MC 8-9/2019 p. 20).

In queste fabbriche, intere famiglie sono costrette a lavorare per pochi euro al mese, spesso allo scopo di restituire debiti contratti con i proprietari della fornace. «Libri, non mattoni», è il motto del religioso che ha aperto ben cinque scuole per questi ragazzi e per altri bimbi orfani o appartenenti a famiglie povere. Durante una nostra visita a Lahore, padre Edward ci ha accompagnato in una di esse, poco distante da una fabbrica di mattoni. La struttura è, in realtà, una parte della stessa casa di Solomon Bhatti e di sua moglie Sabbah, che insegnano anche a leggere e a scrivere ai piccoli alunni di età compresa tra i 5 e i 15 anni. «Pensiamo a tutto noi, libri, retta scolastica e divise – ci dice padre Edward -. Se dovessero affrontare delle spese, le famiglie non li manderebbero a scuola. Anzi, in realtà non è sempre facile convincere i genitori, perché in molti preferiscono che i figli li aiutino a fabbricare mattoni». Proprio mentre parla con noi, padre Edward viene informato da uno degli insegnanti che un bambino si è presentato a scuola senza scarpe. Prontamente il sacerdote fruga nelle sue tasche per racimolare qualche rupia e provvedere ad acquistarne un paio. I vestiti del sacerdote sono logori e macchiati del fango della fabbrica, e il suo pakol, berretto tipico dell’Afghanistan e di alcune zone del Pakistan, ha probabilmente qualche anno. Ma padre Edward non se ne cura e riserva ogni singola donazione ai suoi bambini.

«L’istruzione è l’unica via per uscire dalla schiavitù delle fornaci e da un destino segnato come quello di tanti cristiani qui in Pakistan», afferma raccontando come una delle sue ex alunne, Lina, sia oggi microbiologa alla Nasa.

Ospedali missionari

Un altro fiore all’occhiello legato alla presenza dei missionari in Pakistan sono gli ospedali cattolici. A Karachi abbiamo visitato l’Holy Family Hospital, oggi considerato uno dei migliori ospedali della città. La struttura è stata fondata nel 1948 dalle Medical Mission Sisters, un ordine religioso femminile con sede a Philadelphia, Usa, in un momento in cui esistevano pochissime strutture sanitarie in Pakistan. La fondatrice delle Medical Mission Sisters, la dottoressa Anna Dengel, arrivò nel 1920 a Rawalpindi per lavorare come medico. Poi si trasferì a Karachi. Oggi l’ospedale è gestito da suor Mary.

«Suor Mary è stata un dono del cielo per noi – ci ha raccontato il cardinal Coutts -. Si dedica giorno e notte al nostro ospedale che, pur essendo una struttura cattolica, conta soltanto uno o due medici cristiani. Per il resto il personale è composto soprattutto da musulmani e da qualche indù. Noi lavoriamo così: tutti insieme. Ed è anche attraverso strutture come l’Holy Family Hospital che diffondiamo i nostri valori cristiani».

La Madre Teresa del Pakistan

Una vera e propria icona della sanità pachistana è suor Ruth Katherina Martha Pfau, nota come la Madre Teresa del Pakistan. Nata nel 1929 a Lipsia, in Germania, da genitori cristiani luterani, nel 1957 la Pfau, dopo essersi laureata in medicina, si unì all’ordine delle Figlie del Cuore di Maria a Parigi. Nel 1960 fu inviata nell’India meridionale, ma un problema con il visto la costrinse a rimanere a Karachi.

Aveva solo 31 anni suor Ruth quando, un giorno per caso, visitò il lebbrosario vicino alla stazione ferroviaria della città. Fu allora che decise di dedicare il resto della sua vita al popolo pachistano e alla battaglia contro la lebbra fino alla sua morte avvenuta il 10 agosto 2017.

In una piccola capanna del lebbrosario diede vita a un piccolo centro per le cure, poi divenuto il Centro di lebbra Marie Adelaide. Iniziò a viaggiare in tutto il paese per curare i malati di lebbra, principalmente i bambini che spesso venivano abbandonati dalle loro famiglie, oppure chiusi in piccole stanze per tutta la vita.

Grazie ai suoi continui sforzi, nel 1996 l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarò il Pakistan uno dei primi paesi in Asia ad aver controllato la lebbra. Le autorità pachistane la nominarono consigliere federale per la lebbra presso il ministero della Sanità nel 1979, e nel 1988 le concessero la cittadinanza, un fatto piuttosto raro, considerando che quasi tutti i missionari stranieri, pur essendo in Pakistan da decenni, sono costretti a rinnovare il visto ogni anno e con non poche difficoltà.

Il popolo la ama, come dimostra la cura con cui tantissimi tengono in ordine la sua tomba nel cimitero di Gora Qabaristan a Karachi, che abbiamo avuto modo di visitare. Proprio lì abbiamo incontrato delle persone che, pur non conoscendola, si recano spesso a pregare di fronte alla sua lapide. «Siamo stati anche al suo funerale – ci racconta Hamid, circa una cinquantina d’anni -, è stato emozionante, tante persone erano lì per ringraziarla». Suor Ruth ha avuto l’onore dei funerali di stato. Dietro al feretro, durante la camera ardente, uno striscione ricordava i 57 anni di servizio per sconfiggere la lebbra e risollevare le sorti degli emarginati del Pakistan, e riportava la frase: «È difficile dimenticare qualcuno che ti ha donato così tanto».

Pakistan, Sr. Daniela Baronchelli (Figlie di San paolo – Paoline), St. Paul Book Center in Karachi

Le postine di Dio

Il lavoro dei missionari non riguarda ovviamente soltanto l’ambito umanitario, ma anche la cura pastorale e l’evangelizzazione. Le Figlie di San Paolo sono le uniche a distribuire la Bibbia cattolica nel paese. Abbiamo visitato una delle loro librerie a Karachi. Nella grande metropoli pachistana il bookshop si trova nel caotico quartiere di Saddar. La cattedrale di San Patrizio non è molto distante, ma la presenza musulmana è ovunque. Uomini con abiti e copricapo islamici affollano il marciapiede di fronte alla libreria.

Le suore, oltre a libri cattolici di dottrina e spiritualità, rosari, cd e dvd su temi cristiani, vendono anche immagini sacre, cosa che dai musulmani viene considerata un peccato grave.

Come ci racconta suor Agnese Grones, missionaria del bellunese in Pakistan dal 1980, nel 2005 la polizia effettuò un raid nella libreria dopo che, dalle colonne del quotidiano nazionale «Nawa-I-Waqt», estremisti locali avevano accusato i cristiani di vendere cd contenenti caricature della morte di Maometto. Alcuni leader musulmani avevano perfino emesso una fatwa, un verdetto di condanna, contro i filmati e chiesto l’apertura di una causa per blasfemia contro le suore. Spesso i talebani fanno circolare dei biglietti con la scritta: «Chiudete o morirete». Ma, pur coscienti del pericolo, le missionarie non si danno per vinte.

«All’inizio è stato difficile – ci dice suor Agnese -, ma ora è questa casa mia. Anzi quando d’estate torno in Italia, mi rendo conto che non sono più abituata neanche al freddo delle mie montagne». Per sicurezza, le religiose vestono «alla pachistana» con il tipico abito shalwar kameez celeste e lo scialle bianco, ma tutti ovviamente sanno chi sono quando le vedono girare per le diverse basti (le grandi periferie di Karachi) per insegnare il catechismo ai bambini e spiegare alle mamme l’importanza di educare i propri figli alla fede.

In tutto il Pakistan le Paoline distribuiscono catechismi e Bibbie e hanno persino un cineforum itinerante grazie al quale proiettano ovunque film sulle vite dei santi e altri video per diffondere i valori cristiani. «Siamo coscienti del pericolo, ma è un rischio che tocca tutti i cristiani in Pakistan – ha più volte testimoniato suor Daniela Baronchelli -. Distribuire la Bibbia è una grande gioia per noi che siamo le suore della Bibbia, le postine di Dio».

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia




Missione è Gioia

Testimonianze di missionari e missionarie della Consolata

A cura di Gigi Anataloni – foto Archivio fotografico MC


Nel mese missionario straordinario.
La gioia della Missione

Stefania Raspo: Bolivia – Per sempre con la mia gente.
Accanto ai «rifugiati climatici».

Nicholas Muthoka: Italia – missione in barriera a Torino.
Camminare in mezzo alle «due città».

Mary Agnes Njeri Mwangi: dal Kenya a Roraima.
Respiri di cuore missionario.

Giorgio Marengo: Mongolia – sotto i cieli infiniti
Sussurrare il Vangelo.

José Luis Ponce de Leon: Eswatini – Missionario e vescovo.
Arrivare senza farsi annunciare.

Ramón Lázaro Esnaola: Costa d’Avorio – missionario oggi è
Essere itinerante per il Vangelo.

Rinaldo Do: Dalla Valle Camonica al cuore della RD Congo.
A servizio della pace in realtà di guerra.

Angelo Casadei: Caquetà – nel posto più bello del mondo.
La missione ti cambia e ti fa camminare.

Sandra Garay: dall’Argentina alla Mongolia
Dio è al cuore della missione.

Hanno firmato questo Dossier

 

La semplice gioia dei cristiani di Luacano, in Angola, che vedono il ritorno dei missionari dopo troppi anni di guerra e abbandono.

Nel mese missionario straordinario

La gioia della Missione

«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (EG).

Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 (EG), la scelta di papa Bergoglio appare chiarissima: l’insistenza sulla gioia. Il termine ricorre 59 volte, ha il carattere del «lieto annuncio» che dà vita alla Chiesa, e costituisce il contenuto di ogni azione evangelizzatrice (vecchia o nuova). Intende cioè riconnettere la Chiesa con l’esperienza fondamentale da cui ha origine, quella della Pasqua.

Difficile immaginare una comunità in uno smarrimento più profondo di quella dei discepoli due giorni dopo la morte di Gesù in croce. Impossibile immaginare una gioia più grande di quella provata scoprendolo risorto. Una gioia che fa persino paura, ma che mette le ali ai piedi perché venga annunciata. Se non si riprende oggi contatto con questa esperienza sorgiva e non se ne apre l’accesso a coloro ai quali ci si rivolge, qualunque iniziativa di evangelizzazione rimarrà nell’ambito delle tecniche di comunicazione pastorale, senza incidere davvero nella vita delle persone. Per questo la scelta della gioia come filo conduttore è pertinente al tema del Sinodo per l’Amazzonia.

Certo, la Chiesa tutta intera si fonda sull’esperienza pasquale, ma un conto è saperlo, un conto è metterlo in pratica. È quindi particolarmente efficace il suggerimento di Francesco che indica la gioia del Vangelo come criterio di verifica di quanto si vive. Questo vale a livello individuale, ma anche per la Chiesa nel suo insieme: il papa ce lo ricorda, con espressioni tanto sorprendenti quanto inusuali, nei paragrafi di EG dedicati a «Il piacere spirituale di essere popolo» (nn. 268-274).

Bisogna chiarire subito, a scanso di facili equivoci, lo spessore della gioia di cui egli parla: non un sentimento superficiale ed effimero di euforia o piacevolezza, è piuttosto l’atteggiamento di chi sa che la sofferenza e la morte esistono, ma li ha attraversati sperimentando che la vita è più forte. Il papa fa alcuni esempi presi dalla sua esperienza: «Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice». Qui ognuno è invitato a introdurre le proprie esperienze personali: stupisce sempre vedere persone che nelle situazioni più difficili e impensabili riescono ad accogliere, affrontare e vivere in profondità quello che sono.

Il contrario di questa gioia non è il dolore, ma «una cronica scontentezza», «un’accidia che inaridisce l’anima», un «cuore stanco di lottare» che «non ha più grinta» (n. 277 passim). Questa tristezza avvelena la vita di molte persone e soprattutto è agli antipodi di quello che Dio desidera per ogni uomo. Aver gustato la vera gioia, che è il contenuto più profondo dell’esperienza di fede, permette di smascherare l’insoddisfazione profonda di ogni chiusura in se stessi, per quanto sembri a prima vista confortevole.

Da questo punto di vista, il messaggio dell’esortazione riposa su una verità fondamentale della fede cristiana, spesso ripetuta, ma ancor più spesso incompresa o presa poco sul serio, quando non addirittura temuta per il suo carattere insopprimibilmente rivoluzionario: Dio vuole la gioia e la felicità dell’uomo, e la vuole per tutti. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore» (n. 3). Ciò richiede effettivamente un atto di fede che sfida tante consuetudini e convinzioni profonde, per lo più implicite, in particolare nel nostro disincantato mondo postmoderno.

Ma senza questa fede, qualunque annuncio evangelizzatore suonerà falso e mancherà di attrattiva. Per questo Francesco non teme di ricordare che proprio coloro che hanno la missione di evangelizzare sono i primi a rischiare di non vivere l’Evangelii gaudium. Il capitolo sulle «Tentazioni degli operatori pastorali» (nn. 76-109) è molto concreto nel dare indicazioni in questa direzione, sempre nel registro del sostegno e dell’accompagnamento spirituale.

Stefano Camerlengo,
superiore generale dei missionari della Consolata

Condividiamo in queste pagine la gioia della missione attraverso alcune testimonianze di missionari e missionarie che abbiamo un po’ obbligato a uscire dal loro riserbo.
Il missionario non è un supereroe, ma una persona normale che per amore «si mette in movimento, è spinto fuori da se stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita».
(dal messaggio di papa Francesco per la GMM 2019)


Stefania Raspo: Bolivia – Per sempre con la mia gente

Accanto ai «rifugiati climatici»

Suor Stefania Raspo, piemontese, classe 1977. È entrata tra le missionarie della Consolata nel 2001. Ha fatto la sua prima professione nel 2008. Dopo gli studi teologici a Roma, è stata destinata alla missione della Bolivia, dove vive dal 2013 con il popolo quechua.

Basilio è un personaggio un po’ speciale in Vilacaya. Quando ci trova per strada esprime sempre tutta la stima che nutre per le hermanitas (sorelline). Ma è interessante come questo uomo semplice ha interpretato la mia professione perpetua, che si è tenuta nel paesino andino il giorno della Consolata del 2016.

«Tu, hermanita Stefania», mi dice spesso, «hai voluto essere hermanita per sempre in Vilacaya». Se da una parte mi fa sorridere che Basilio abbia unito l’aggettivo «perpetua» con la mia presenza in Vilacaya, dall’altra è il più bell’augurio che mi si possa fare: poter vivere tutta la mia vita missionaria con la mia gente contadina di lingua quechua.

Sì, perché nella vocazione missionaria si mette l’accento sull’andare, ma il restare è una parte fondamentale. È vero che ho viaggiato molto e ho vissuto in vari paesi (dapprima il Brasile per il noviziato, quindi l’Argentina e poi la Bolivia). È vero che c’è tutto lo sforzo del mettere radici in una realtà, entrare in una nuova cultura e società, così come c’è l’altra faccia della moneta: il dolore dello sradicarsi per andare altrove. Il restare è la cosa più bella ed arricchente. E non è scontato. Alle volte, in quanto missionari e missionarie, non disdegniamo un certo nomadismo che non ci lascia affondare le radici in un luogo, qualunque esso sia.

Sono ormai 7 anni che vivo in Vilacaya (Bolivia), un piccolo villaggio contadino che ha mantenuto molte tradizioni millenarie del popolo andino. La gente parla quechua ed io, purtroppo, non lo domino ancora, anche se lo capisco abbastanza. Ci hanno accolte a braccia aperte, quando abbiamo aperto la comunità nel 2013, e continuano ad accoglierci e a volerci bene.

Il popolo nativo quechua di Vilacaya mi ha permesso di recuperare valori che un po’ avevo messo da parte: l’accoglienza e il saper condividere (se arriva un ospite inatteso, c’è sempre un piatto di cibo per lui), il saper chiedere permesso, perdono e il dire grazie alla Madre Terra, con cui si vive una relazione vitale. Una spiritualità semplice però profondissima. Il sapermi «sprogrammare» e accogliere il giorno così come viene, senza chiudermi in orari e tabelle di marcia.

La gente di Vilacaya (e in generale della regione di Potosì) è una vittima del cambio climatico: la desertificazione avanza, l’imprevedibilità del clima rende quasi impossibile l’agricoltura. La conseguenza è la migrazione e lo spopolamento. Ormai ci sono poche famiglie giovani, la maggior parte sono anziani o ragazzi fino ai 18 anni. Questi, finite le superiori, si mettono in marcia anche loro per cercare un’altra possibilità di vita nelle città, o all’estero. Ci ritroviamo accanto ai poveri, ai «rifugiati climatici» come dice la Laudato Si’. Quelli che pagano più degli altri le follie di un clima impazzito, alla mercé delle grandinate devastatrici, delle gelate fuori stagione, che ormai da 4 anni non danno un raccolto soddisfacente. I peccati contro la natura hanno ripercussioni forti sui poveri.

Ma se c’è una cosa che ho sperimentato in Vilacaya, è dove sta Dio: al fianco del povero. L’ho visto, l’ho sentito: lui è lì, perché i poveri sono i suoi preferiti. Allora lo stare qui è anche una profonda esperienza di Dio.

Rimane l’impegno di saperlo annunciare, con la vita e con le parole. Un Dio Amore, che non è responsabile delle pazzie del clima, come forse la visione indigena tende a credere. Un Dio che piange per i colpi inferti alla Pachamama (la Madre Terra) e si china a consolare i suoi figli. Anche attraverso di me.

Suor Stefania Raspo, mc


Nicholas Muthoka: Italia – missione in barriera a Torino

Padre Nicholas Muthoka alla Professione perpetua di Fumo Célio Joao.

Camminare in mezzo alle «due città»

Padre Nicholas Muthoka Nyamasyo, nato in Kenya nel 1981, ordinato sacerdote nel 2011, è stato responsabile del Centro di animazione missionaria in Torino e dal 2013 è nella parrocchia Maria Speranza Nostra in Barriera di Milano, quartiere multietnico di Torino, dove ora è parroco.

Al calar del sole, le strade di «barriera», quartiere Nord di Torino, si riempiono di giovani e giovani adulti in cerca di svago e anche di un po’ di soldi: chi beve sulla strada, chi chiacchiera, chi spaccia, chi si prostituisce. È un mix di gente «di ogni tribù, lingua, popolo e nazione», stavolta non radunati sul monte Sion per il banchetto di «grasse vivande, cibi succulenti e di vini raffinati» (Isaia 25,6), ma per sopravvivere. Ognuno risponde alle domande della vita a modo suo. Spesso sono storie di vita e situazioni molto difficili e depravate, tra droga, microcriminalità e miseria. E il missionario cammina in mezzo a loro salutando e facendo due chiacchiere. Anche lì c’è bisogno di salvezza, della parola buona e salvatrice di Gesù. In fondo «quei ragazzi all’angolo della strada» hanno la stessa umanità, le stesse domande, gli stessi sogni di tutti.

La percentuale dei migranti residenti nel quartiere tocca il 35%, tra disagio, povertà e disoccupazione. Tra di essi, c’è un alto numero di non cristiani: gente di altra fede, quelli che si sono allontanati dalla fede, gli agnostici e gli atei.

C’è un’altra umanità però, quella che cammina sulle strade di barriera durante il giorno. Per andare a scuola, al lavoro, al bar, a far la spesa, a messa, ecc. Un’umanità, anche questa, angosciata, affannata e distratta per le faccende della vita. Anche qui, c’è un po’ di tutto: precarietà lavorativa, solitudini, soprattutto quelle dei giovani e degli anziani, rapporti difficili nelle famiglie tra divorzi, separazioni e violenza… insomma, «due città», come le chiama l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, ambedue bisognose di salvezza.

In mezzo a tutta questa umanità, c’è lo svettante campanile di rame che troneggia: ogni ora batte come per ricordare di guardare in alto. È la chiesa, la parrocchia, con tante attività e proposte, rivolte a tutti indistintamente. Un cortile d’oratorio di medie dimensioni che spesso si presenta colorato di bambini, ragazzi, adulti e anziani, e anche questa volta «di ogni lingua, tribù, popolo e nazione». Un’altra città in mezzo alle altre due? Una mediazione tra le due?

Cosa significa la missione in quest’angolo della città di Torino, dove in 2 km2 vivono/convivono quasi 19mila abitanti?

Quasi il 30% della gente è coinvolta, in un modo o nell’altro nella vita della parrocchia, tra catechesi, carità, liturgia, giovani, il sociale.

Cos’è la missione per me in questo contesto dinamico, bello e complesso? Me lo chiedo spesso.

È camminare in mezzo agli uomini e alle donne, raccogliere le lacrime di gioia e di dolore, e depositarle sull’altare di Cristo. È ascoltare le intime speranze dei giovani e la realtà spesso dura degli adulti e cercare di illuminarle con la Parola di Cristo. È accompagnare le ginocchia vacillanti degli anziani, cercando di individuare insieme a loro il senso delle fatiche dei loro giorni e rallegrare la loro solitudine.

La missione è aprire la porta a chi bussa in cerca di un «porto sicuro»: il viandante senza casa, il povero senza riscaldamento nei duri inverni, il disperato in cerca di una buona parola.

La missione è anche la fatica di tenere insieme un tessuto sociale che rischia di strapparsi, cercando di creare un clima umano in un contesto difficile di contrapposizioni e pregiudizi tra etnie e individui attraverso iniziative che facciano risplendere la bellezza di ogni persona e di ogni popolo.

Tutto questo è annuncio della potenza della grazia di Cristo e della sua opera redentrice. Far apprezzare ai non cristiani e ai «lontani» l’amore di Cristo e la bellezza della sua famiglia, la Chiesa. Naturalmente, sostenere il cammino dei fedeli cattolici nella ricerca del volto di Dio attraverso i sacramenti, le celebrazioni liturgiche e l’ascolto della Parola, fa parte dell’impegno di ogni buon parroco e viceparroco. Infatti, è propedeutico alla missione la formazione e accompagnamento di una comunità cristiana bella e forte, un laicato che assuma anch’esso la missione dell’annuncio, per far brillare il volto bello di Cristo in mezzo agli uomini e alle donne di questo pezzettino di mondo.

Padre Nicholas Muthoka


Mary Agnes Njeri Mwangi: dal Kenya a Roraima

Respiri di cuore missionario

Suor Mary Agnes Njeri Mwangi, è missionaria della Consolata nata in Kenya. È in Roraima dal 2000, da allora presta il suo servizio nella missione del Catrimani. Vedi l’intervista «Attorno al fuoco nella casa comune» in MC 3/2019.

Arrivai a Boa Vista, in Roraima, all’estremo Nord del Brasile, nell’anno 2000, anno del giubileo. Mi sentivo una missionaria del terzo millennio, disposta a tutto per esserela ad gentes (tra le genti) e tra la gente.
Finalmente tutto quello che sognavo quando in Kenya mi ero sentita chiamata a essere missionaria della Consolata, diventava vero.
Essere missionaria nel contesto della chiesa locale di Roraima, era una grande sfida.

La lotta per i diritti e la vita dei popoli indigeni, per l’omologazione della terra indigena della Raposa Serra do Sol (ottenuta finalmente nel 2005), e l’impegno per migliorare i servizi per la salute («perché abbiano la vita, e la vita in abbondanza») specialmente per gli Yanomami, richiedevano tanto lavoro, tenacia e creatività da parte delle suore, per lanciarsi verso orizzonti di missione più ampi. E per me, le sfide che vivevo si trasformavano in domande, tante domande, aggiunte a quella più significativa che il nostro padre fondatore ci esortava a farci sempre: «Ad quid venisti?» (per quale motivo sei venuta qui?).

Con gratitudine ricordo suor Aquilina Fumagalli, arrivata a Boa Vista nel 1950, e suor Leonilde Dal Pos, nel 1953. Le due sorelle, nel tentativo di rispondere alle mie domande, mi hanno trasmesso il respiro del loro cuore missionario maturato insieme al popolo amazzonico. Le loro condivisioni animavano e sviluppavano in me la speranza.

Così, quando, appena arrivata, condividevo con loro qualche problema di relazione con la gente, suor Aquilina mi rispondeva sorridendo che non c’era niente di nuovo. Anche lei e le altre suore, all’inizio, dopo che erano appena andati via sia i benedettini che le benedettine, avevano sperimentato accoglienza e rifiuto. «L’unico mezzo che avevamo a disposizione (per vincere i cuori) era la carità».

E suor Leonilde, una suora di età avanzata e fragile, ma molto serena e gioiosa, mi spiegava come era riuscita a incarnarsi in questa realtà così difficile e complessa. Ricordava che i primi tempi aveva sofferto molto, soprattutto a causa della scarsità e della qualità del cibo, ma «davanti alle difficoltà non ho mai pensato di ritornare in Italia, perché il mio obiettivo era morire in terra di missione. Ho preferito rimanere qui, visto che c’erano tutte le opportunità per formarmi alla santità, che è lo scopo finale della vita di ogni missionaria della Consolata».

Grazie a loro mi sono inserita nella realtà dei popoli dell’Amazzonia brasiliana. Certo che quando le cose vanno bene e si vivono momenti di allegria e di consolazione è più facile essere una missionaria che annuncia la gloria di Dio incarnata, ma è il modo nel quale si vivono i momenti di scoraggiamento, dolore e fatica, che è determinante nella vita e nella missione.

Suor Leonilde mi insegnava a cercare parole di forza e ripeteva molte frasi significative. «Dio non si ripete mai nelle sue opere. Si comunica per mezzo di persone, e ogni persona ha qualcosa da seminare. Dobbiamo essere vigilanti per cogliere la grazia di Dio. Essere umili. Al tempo opportuno Dio si rivela. Per chi non sta attento invece il tempo fugge».

I 19 anni che ho trascorso finora in Amazzonia, sono di vita donata. Condividendo, ho imparato – e lo credo fortemente – che il cammino più lungo comincia sempre con un primo passo, e alle volte il primo passo è fare una domanda.

Suor Mary Agnes


Giorgio Marengo: Mongolia – sotto i cieli infiniti

Sussurrare il Vangelo

Padre Giorgio Marengo. Nato a Cuneo nel 1974, dopo il liceo classico a Torino è entrato nei missionari della Consolata. A Roma per la formazione teologica, è stato ordinato sacerdote nel 2001. Assegnato al primo gruppo diretto in Mongolia, nel 2003 ha raggiunto la sua destinazione insieme a un confratello e a tre consorelle.

Dal 2006 vive in una zona rurale a 430 km dalla capitale (Ulaanbaatar), dove in questi anni è nata una piccola comunità cristiana di cui è parroco, condividendone la responsabilità con gli altri missionari e missionarie con i quali vive. Nel 2016 ha conseguito il dottorato in missiologia alla Pontificia università urbaniana con una ricerca sull’evangelizzazione in Mongolia. Segue i primi passi di un piccolo centro per il dialogo interreligioso e la ricerca culturale che i missionari e le missionarie della Consolata hanno avviato a Kharkhorin, l’antica capitale dell’impero mongolo.

Per me essere missionario è aiutare le persone a incontrare Cristo, in particolare quelle persone che vivono in situazioni nelle quali tale incontro è obiettivamente difficile, a motivo dell’assenza della Chiesa o di una sua presenza limitata e parziale. Questo è ciò che la Chiesa chiama missione ad gentes ed è la nostra vocazione di missionari della Consolata, quella di offrire la vita a Cristo per la prima evangelizzazione laddove non ci sono altri cristiani a poterlo fare.

La Mongolia è una delle situazioni esistenziali dove – per vari motivi storico culturali – Cristo è ancora poco conosciuto. Essere al servizio di questo incontro è per me il dono più grande e ringrazio tanto il Signore di poter vivere in prima persona questa vocazione. Certamente questo è un mistero che ci supera e ci avvolge, ma è anche molto concreto, perché se Dio per raggiungerci ha scelto di farsi uomo, l’incontro con lui passa ancor oggi attraverso la nostra umanità. Questo secondo me è il cuore della missione. Tutto il resto è subordinato e finalizzato a questo cuore. Anche la promozione umana, che da sempre accompagna l’azione evangelizzatrice della Chiesa, si comprende alla luce di questo amore più grande e di questo desiderio che le persone incontrino concretamente la misericordia di Dio in Cristo.

Il nostro specifico, come missionari, è proprio offrire la possibilità di instaurare un rapporto personale ed ecclesiale con il Risorto. Non in forza di una qualche strategia di espansione o attraverso un’azione di convincimento simil-pubblicitario, ma come puro dono, in continuità con quanto i cristiani hanno sempre fatto: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo dò», diceva san Pietro (Cfr. At 3,6). E quel dono da lui offerto era precisamente il nome di Gesù Cristo, cioè la fede in Lui.

Questa è la nostra chiamata. Mi pare evidente che noi missionari dovremmo essere trasfigurati in prima persona dall’incontro con Cristo: non si può favorire l’incontro con una persona che noi stessi non frequentiamo. La fede non si comunica come un oggetto qualunque, si può solo contribuire a generarla, mettendo in conto anche il rifiuto. Per questo la missione non è la diffusione di un’idea, ma ha a che fare con la gestazione di una vita. Essa richiede una profonda conversione innanzitutto in noi missionari. Se il Vangelo non ci attraversa profondamente è difficile che riusciamo a condividerlo. Essere missionari è innanzitutto lasciarsi raggiungere personalmente dal Vangelo stesso, facendoci plasmare da esso; allora sì, questa luce si effonderà intorno a noi. E lo farà attraverso quella moltitudine di coinvolgimenti che da sempre caratterizza la vita del missionario: la carità, il dialogo interreligioso, la ricerca culturale, lo studio, l’accompagnamento nel cammino di fede. Proprio come succede qui in Mongolia, dove tentiamo di «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia».

Padre Giorgio Marengo


José Luis Ponce de Leon: Eswatini – Missionario e vescovo

Arrivare senza farsi annunciare

Mons. José Luis Gerardo Ponce de León. È nato in Argentina, a Buenos Aires, nel 1961, dove ha conosciuto i missionari della Consolata. Dopo la formazione di base nel suo paese e in Colombia, è stato ordinato sacerdote nel 1986. Tornato in Argentina per alcuni anni di animazione missionaria, nel 1994 è stato mandato in Sud Africa, dove, nel 2009, è diventato vescovo di Ingwuavuma (ai confini con il Mozambico) e poi vescovo di Manzini in quello che un tempo era lo Swaziland e oggi è lo Eswatini.

Vescovo da 10 anni. In due nazioni diverse: Sud Africa prima e, da cinque anni, nel Regno di Eswatini, ex Swaziland. In tutti e due i posti sono partito allo stesso modo. Non conoscevo la zona che mi era stata affidata e così ho deciso di visitare ogni singola comunità, piccola (piccolissima) o grande. Qui, in Eswatini, ce ne sono 120. Arrivavo senza farmi annunciare. Non volevo che la gente fosse lì «per il vescovo» ma per il giorno del Signore (la domenica).

Non è stato semplice che loro accettassero questo «mio» modo di farmi presente, perché avrebbero voluto potermi accogliere diversamente, ma… non hanno avuto scelta. L’impatto è stato forte perché in diversi posti era la prima volta che vedevano il vescovo fra di loro. «Oggi noi siamo la cattedrale», dicevano con un grande sorriso.

C’è stato qualche posto dove sono stati contenti di vedere un volto nuovo ma non avevano idea che fosse proprio il loro vescovo a essere fra di loro.

La missione è sempre un andare all’incontro dell’altro e, in modo particolare, all’incontro di colui/colei che non si sente degno di tale visita. Infatti, il mio motto episcopale (diventato «saluto» nella diocesi) è: «La Parola si è fatta carne» (Gv 1:14), espressione di quel Dio venuto al nostro incontro nella nostra fragilità.

Di questo incontro nella fragilità la diocesi è testimone con delle iniziative che sono uniche in questa nazione.

Eswatini è la nazione con la percentuale più alta al mondo di malati di Aids. Da quasi 20 anni, la diocesi porta avanti una casa di cura per adulti e bambini. Nata nei tempi nei quali l’Aids era una sentenza di morte, ha accompagnato tanti all’incontro con il Padre. Oggi, invece, è il posto dove ritrovano la loro dignità per poter tornare a casa. La sfida è farli tornare in case nelle quali non si sono mai trovati bene come da noi. La cura dei disabili (bambini, giovani e adulti) è un’altra espressione di questo amore che innalza. Qualche settimana fa è stato consegnato un riconoscimento a un missionario Servo di Maria che 50 anni fa aveva introdotto il braille per l’educazione di coloro che hanno difficoltà con la vista (visullay challenged). Lui, morto qualche anno fa, mi diceva sempre: «Sono riuscito a fare tanto per i disabili ma non sono riuscito a cambiare il modo nel quale le loro famiglie e la società li guarda». Per questo i nostri centri sono diventati espressione dell’amore del Padre.

Ma anche la realtà dei rifugiati è una chiamata a guardare al di là del nostro piccolo mondo nel quale abbiamo la tentazione di rimanere chiusi. Da tanti anni la Caritas Swaziland guida, come soggetto che attualizza gli accordi tra il governo e l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), il centro di rifugiati nato al tempo della guerra civile in Mozambico. Oggi sono famiglie (marito, moglie e diversi figli) che arrivano dalla regione dei grandi laghi (Rwanda, Burundi, Congo). Attraversano tutto il continente con il sogno di un futuro diverso. In risposta all’appello di papa Francesco, e per iniziativa dei laici della diocesi, tutte le parrocchie convergono una volta all’anno nella cattedrale per la celebrazione della messa e per portare i loro doni.

La missione è tutto questo… cultura dell’incontro, aprire gli occhi, imparare a vedere, amore gratuito e sempre la buona notizia di Gesù che ci dà vita in abbondanza.

Luis Ponce de Léon, vescovo


Ramón Lázaro Esnaola: Costa d’Avorio – missionario oggi è

Essere itinerante per il Vangelo

Padre Ramón Lázaro Esnaola. Nato nel 1967 in Spagna, nel 1997 è stato ordinato prete a Zaragoza. Nei primi tre anni di ministero è stato destinato in Spagna all’animazione missionaria e vocazionale, alla formazione di base e alla pastorale con le persone migranti. Nel 2001 ha cominciato la sua Odissea nello spazio – come la chiama lui – ed è arrivato in Costa d’Avorio. Dal 2008 al 2012 è stato incaricato della formazione di base nella RD Congo. Poi è tornato in Costa d’Avorio fino a oggi. Quando leggerete queste righe avrà appena cominciato una nuova tappa di vita in Messico (vedi lettera).

Il missionario d’oggi ha una forte esperienza personale di Dio. Conosce Dio ed è conosciuto da Lui. Ha un rapporto quotidiano con Lui secondo il momento che sta vivendo. A volte questa relazione sarà più profonda, a volte più superficiale, a volte più biblica, a volte secondo il vissuto. La cosa più importante è la perseveranza in questa relazione. Non abbandonare Dio ma abbandonarsi a Lui per vivere la vera gioia. Sono convinto che questa relazione ha mantenuto la mia passione per la missione ad gentes, per la costruzione della fraternità, la mia passione per i poveri e la mia voglia d’ascoltare le persone ed essere vicino a loro.

Il missionario d’oggi ama il popolo al quale è inviato. S’informa, studia la storia, ascolta la musica, guarda il cinema. In definitiva, cerca d’impregnarsi della cultura che l’accoglie. Tutta questa scoperta oggi è molto più facile grazie a internet perché tutto è alla portata d’un click. L’amore nasce dalla conoscenza, dal capire, dal comprendere. L’amore è anche critico e scopre le rotture che provoca il Vangelo. Il missionario oggi cerca di cogliere il momento culturale che vive il paese dal quale è accolto per riuscire davvero a diventare parte di quel mondo senza essere perpetuo forestiero.

Il missionario d’oggi è un esperto comunicatore e accompagnatore. Deve imparare a comunicare la Parola di Dio non solo nelle omelie ma anche attraverso le relazioni sociali e i media. Deve avere la pedagogia per comunicare la Buona Novella, non la Buona Vecchiaia. È una persona creativa.

Le persone che hanno sete di Dio, hanno anche sete di una parola che sia davvero come quella di Gesù. Una parola che dà speranza, che apre orizzonti, che propone, che invita, che accompagna. Accanto a questo, il missionario d’oggi è un buon accompagnatore nella vita. È una persona facile all’empatia, accetta senza condizioni l’altro ed è una persona autentica, cerca di vivere onestamente la propria vocazione.

Il missionario d’oggi è un artista della fraternità. Un artigiano della comunione. Un appassionato della vita comunitaria e delle relazioni interpersonali. La comunità è il microcosmo del Regno di Dio. Un’utopia. Un luogo liberato dove il perdono, la festa, la gioia e il discernimento sono costanti.

Abbiamo bisogno di referenti e di una comunità unita nella diversità: è un segno contro culturale nel nostro mondo che tende verso l’uniformità.

Il missionario d’oggi agisce con fermezza. Appassionato della riconciliazione, della pace, della giustizia, dell’ecologia e della diversità, cerca di costruire un mondo degno per i più poveri e un mondo migliore per tutti. Quello che si chiamava «la pastorale» non è più un tempo dedicato agli altri, perché, come dice papa Francesco, «siamo missione, non facciamo la missione».

Padre Ramón Lázaro Esnaola


Rinaldo Do: Dalla Valle Camonica al cuore della RD Congo

A servizio della pace in realtà di guerra

Padre Rinaldo Do. Nato a Darfo (Bs) nel 1956, dopo il seminario minore ecco le sue tappe principali: 1975-78 filosofia prima a Torino e poi a Sassuolo (Re), lavorando anche quattro ore al giorno in una fabbrica di piastrelle; 1978-79 noviziato in Certosa Pesio (Cn); 1979-80 anno di servizio nel seminario di Rovereto (Tn); 1980-82 teologia a Madrid (Spagna) e 1982-84 licenza in Missionologia. Ordinato nel 1984 a Boario, è stato animatore in Spagna fino al 1990 e dal 1991 al 2005 è stato missionario nell’Alto Zaire (RD Congo). Nel 2006-08 è rientrato in Italia per l’animazione missionaria e poi è tornato in RD Congo, prima a Kinshasa e dal 2014 a Neisu.

«No, Rinaldo no! È troppo birichino!». Queste le parole del mio parroco, don Ilario, a p. Antonio Lasaponara quando lo saluto e gli dico che voglio essere missionario, entrando nel seminario di Bevera (Lecco, allora Como).
Eravamo nel 1965 quando i missionari passavano facilmente nelle scuole della Valle Camonica per animare ragazzi e giovani alla missione.

Fin da piccolo mi piaceva ascoltare suore e preti missionari che ci entusiasmavano ad avere un cuore grande e generoso.

Sono cresciuto in una famiglia normale e operaia, un po’ troppo birbantello (aveva ragione don Ilario) ma, penso, con cuore buono.

Diventato prete nel 1984, non per le mie capacità, ma per bontà di Dio, ho vissuto 6 anni a Malaga e poi dal 1991 in Congo.

Gli anni in Congo sono stati belli anche se preoccupanti; difficili, ma ricchi di amore, di fede, di preghiera e di tanti esempi ricevuti dalla mia gente.

Dalle periferie immense di Kinshasa alla savana di Doruma e alle foreste di Neisu, gli anni sono passati velocemente e mi hanno fatto maturare.

Essere missionario oggi in Congo non è facile. Voglio continuare a essere segno di consolazione infondendo coraggio, togliendo paure, evidenziando nel discernimento i valori della cultura ngbetu (del popolo Mangbetu), annunciando così che Dio che abbiamo conosciuto in Gesù ha un progetto di amore e di fraternità per tutta l’umanità.

Purtroppo, siamo ancora lontani da questo progetto di amore, sono troppe le guerre, lo sfruttamento, le ingiustizie, le divisioni tra i popoli e le culture… per questo vale la pena di donare la vita per essere missionario.

Viva la Consolata, viva il Congo, viva tanta gente dal cuore buono che, con me e con tanti altri missionari, è missionaria!

Padre Rinaldo Do


Angelo Casadei: Caquetà – nel posto più bello del mondo

La missione ti cambia e ti fa camminare

Padre Angelo Casadei. È di Gambettola (Fc), classe 1963. La sua famiglia da sempre profondamente cristiana ha trasmesso ai figli i valori della solidarietà verso i poveri vicini e lontani. Sono quattro fratelli. Il maggiore è Tarcisio, con il quale ha conosciuto, quando aveva 11 anni, i missionari della Consolata che hanno una casa nel suo paese. Tarcisio in seguito si è sposato e ha una bella famiglia con quattro figli e una brava moglie. C’è poi suo fratello minore, Gabriele, anche lui missionario della Consolata ora in Mozambico, e Giovanna che con molto amore accudisce i loro anziani genitori.

Quando facevo la 5ª elementare, un missionario che operava nella selva amazzonica ci ha raccontato episodi della sua vita in quei luoghi, ne sono rimasto affascinato e immaginavo che la missione fosse una grande avventura.

Sono entrato quindi nel seminario minore di Gambettola dove, sperimentando la vita comunitaria e leggendo la Parola di Dio, ho scoperto come la missione sia l’annuncio di Gesù Cristo.

Proseguendo, per terminare gli studi di teologia sono stato inviato in Colombia e ho scoperto che la missione non è solo «un dare» ma anche cercare di scoprire i valori evangelici presenti nelle culture dei popoli dove Cristo è arrivato prima di noi.

In America Latina ho capito che la missione non è solo dei consacrati, ma di tutta la Chiesa, di ogni battezzato. Ho imparato a lavorare con i laici missionari, che hanno collaborato in tutti gli impegni di servizio che l’Istituto mi proponeva. Credo nella comunione e partecipazione dei laici nella missione della Chiesa.

Oggi la missione la vivo nel posto più bello del mondo: nella selva amazzonica colombiana, un tempo considerata «la periferia del mondo», oggi «piazza centrale». Molti occhi sono puntati su questo giardino stupendo: chi per proteggerlo, chi per sfruttarne l’abbondante acqua e le immense ricchezze del suolo e sottosuolo.

Noi missionari della Consolata siamo arrivati nella selva amazzonica colombiana nel 1951 accompagnando la colonizzazione e le comunità indigene sfruttate e spesso maltrattate, mentre oggi la nostra presenza consiste nell’ascoltare il grido di una selva in agonia, imparare dagli stessi popoli originari che per millenni hanno saputo convivere in un perfetto equilibrio con la creazione, chiedendo «permesso» alla Madre Terra quando per alimentarsi, vestirsi, costruire la maloca (la casa comunitaria) la «feriscono».

La missione è come un corpo vivo in continua evoluzione, che ti pone delle domande, ti cambia e ti fa camminare.

Spetta a ciascuno di noi lasciarsi guidare. La strada è lunga, a volte faticosa, sembra di non vedere l’orizzonte ma fino adesso ne è valsa la pena.

Chiedo al Signore che mi doni la salute e la forza di continuare. Nel mio cuore sono contento. Dopo 45 anni da quando ho conosciuto il primo missionario della Consolata che veniva dall’Amazzonia brasiliana, oggi mi trovo nell’Amazzonia colombiana.

A volte ho paura di essere svegliato da questo bellissimo sogno: la missione in mezzo a persone semplici, con le loro difficoltà, però con tanti valori evangelici che mi animano nel continuare in questo cammino missionario, che non è mio ma è la strada (qui dove le strade sono rare) che ho ricevuto dal Signore fin dal seno di mia madre.

Grazie Dio Padre per questa grande vocazione che è la stessa che hai dato a tuo Figlio Gesù: annunciare al mondo il tuo Regno di giustizia, pace, solidarietà e rispetto della creazione.

Padre Angelo Casadei


Sandra Garay: dall’Argentina alla Mongolia

Dio è al cuore della missione

Suor Sandra Garay, nata a Mendoza in Argentina. Dopo la sua formazione religiosa in Italia per diventare missionaria della Consolata, ha studiato negli Stati Uniti e poi lavorato con i migranti ispanici nel Michigan. Nel 2004 è partita per la Mongolia. Attualmente lavora nella nuova missione di Chingiltei alla periferia della capitale Ulaanbaatar.

Definitivamente posso dire che missione è condividere la vita con fratelli e sorelle del mondo. Dio mi ha regalato pure la possibilità di vivere in posti e culture affascinanti in America, Europa e Asia. Come non sentirmi benedetta da così grandi doni? Mi sono arricchita tanto e porto nel cuore i volti di tanti amici e gli spazi di tante terre. Ma tutta questa bellezza è solo la copertina di un cammino segnato da ricerche a volte tanto lunghe, da incontri non sempre lunghi abbastanza, da desideri parzialmente soddisfatti.

La bellezza, scoperta a volte così facilmente in persone e luoghi, non si sostituisce mai a quella ricerca, a quel desiderio profondo di Qualcuno. Ed è per questo che per me la missione vera è il cammino del cuore alla ricerca di Dio.

Sì, la vera missione è su Dio, sul come trovarlo e poi imparare a vivere con Lui. È un passare dalla ricerca di me alla ricerca di Lui, dal cercare di capire me al cercare di capire Lui, dall’accogliere la mia complessità all’accogliere la Sua semplicità. E così, negli anni, la mia preghiera è passata dall’aiutami all’usami, dal perché al grazie, dal vorrei al sì. La cosa più bella in assoluto della missione è che pian piano ci si addentra nel mistero di Dio. Ed è tanto affascinante. Mi piacerebbe condividere tre piccole scoperte.

Prima: Dio è come un Gps

Al centro della tecnologia del Gps (Sistema di posizionamento globale) sta la capacità di rilevare attraverso gli orologi atomici dei satelliti, l’esatta posizione di un oggetto. Di conseguenza il Gps può guidare perché può localizzare con precisione. Il Gps trova, e guida partendo dal quel che trova. Non potremo seguire un Gps se non fosse il Gps stesso a trovarci per primo. Analogamente, nel nostro cammino di fede, ci rendiamo conto che non siamo noi a cercare Dio ma è Lui per primo a cercare noi. Con cuore sollevato scopriamo che Dio, quasi come un Gps, sa sempre in quale punto della nostra vita ci incontriamo e le circostanze in cui camminiamo. Poi Lui parte da lì, offrendoci buone alternative per arrivare alla destinazione scelta. E se per qualsiasi ragione ci allontaniamo dai percorsi proposti, assume la nostra nuova strada e ci offre ancora altri percorsi. Dio è un Padre che non vuole perderci e ci lascia provare le nostre strade nell’attesa che un giorno ci renderemo conto che le sue strade sono le migliori per noi. Vuole essere parte della nostra vita e fa suoi i nostri cammini, le nostre scelte, per rimanere sempre con noi. Perché sa come siamo fatti e sa che un giorno impareremo a seguire Lui, avremo perso la voglia di resistergli. Nel frattempo avremo imparato che l’amore vero perdona, spera e non si arrende mai.

Seconda: l’agire di Dio è multiscopo

Sì, quando Dio interviene tocca la vita di tante persone, fa in modo che il bene realizzato sia il miglior bene per tutti quelli coinvolti in una stessa situazione. Quando Dio agisce non si limita a fare del bene a una singola persona lasciando gli altri a mani vuote, e non agisce mai a favore degli uni contro gli altri. Il bene, la grazia data a una persona implica sempre che anche altri ricevano dei doni. Anche nel nostro mondo relazionale a volte così complesso e con spruzzi di inimicizia, Dio fa il bene che è il meglio per tutti. Forse questo può spiegare perché la maggioranza delle nostre richieste sono esaudite in modo diverso dallo sperato. È il mistero dell’amore di Dio per noi, del suo cuore di Padre che si prende cura di tutti e sa dare a tutti quello di cui hanno bisogno anche quando i nostri bisogni sembrano di essere così diversi.

E l’ultima: Dio non fa miracoli

Dio interviene sempre, o, per dirlo in un altro modo, i miracoli, intesi come interventi soprannaturali, sono un’eccezione pure per Dio. Lui agisce soprattutto attraverso la nostra umanità, con le nostre complessità, i nostri limiti, le nostre resistenze, i nostri rifiuti. Fa miracoli con quello che noi siamo, perché ci accoglie, ci fa crescere, ci fa suoi. Lui che ci ha creati, sa quanta capacità di bene c’è in noi e vuole che venga alla luce. Qui bisogna fare attenzione perché molte volte, per mancanza di attenzione, ci può sembrare che siamo noi a fare un certo bene. Persino potremmo pensare che Dio non c’è. Invece è opera sua.

A capire questo mi ha aiutato tanto la missione in Mongolia. Sono così certa che in diverse situazioni non sarei mai riuscita da sola. Sono sicura che tanto del bene fatto è venuto da Dio. Sono i miracoli con la natura. Dio interviene sempre.

Con la missione Dio mi ha dato il privilegio di presenziare ai suoi miracoli, ai suoi interventi, in prima fila. Il vedere come Dio cambia la vita degli altri e soprattutto la mia, mi ha riempito sempre di grande gioia. Ma il più bel regalo che ho ricevuto dalla missione è Dio stesso, il poterlo sentire tanto vicino, il sapere che cammina accanto a me, l’imparare a lasciarmi guidare da Lui. Sì, la missione è prima di tutto contare su Dio.

Suor Sandra Garay

Hanno firmato questo Dossier

Missionari e missionarie della Consolata:

  • Angelo padre Casadei dal Caquetà, Colombia
  • Giorgio padre Marengo dalla Mongolia
  • José Luis Ponce de Léon, vescovo, da Eswatini
  • Mary Agnes suor Mwangi Njeri da Roraima, Brasile
  • Nicholas padre Muthoka dall’Italia
  • Ramon Lázaro padre Esnaola dalla Costa d’Avorio
  • Rinaldo padre Do dalla RD Congo
  • Sandra suor Garay dalla Mongolia
  • Stefania suor Raspo dalla Bolivia
  • Stefano padre Camerlengo (superiore generale)