I 20 ottobre scorso i Missionari, le Missionarie, i Laici della Consolata, la Chiesa torinese e quella universale hanno vissuto l’immensa gioia della canonizzazione di Giuseppe Allamano. Il lungo cammino che ha portato a proclamarne la santità è iniziato il 7 ottobre 1990, quando san Giovanni Paolo II l’ha dichiarato «Beato».
Il miracolo attribuito alla sua intercessione si riferisce alla guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami che, assalito il 7 febbraio 1996, da un giaguaro nella foresta amazzonica di Roraima (Brasile), nonostante la copiosa emorragia di sangue e le lesioni al cervello, non solo è sopravvissuto, ma ha potuto anche riprendere la sua vita normale senza alcuna conseguenza del trauma subito.
Il significato di questo miracolo conferma l’attualità degli insegnamenti di Giuseppe Allamano e il cammino missionario che la Chiesa sta seguendo. Come Dio guarda con cura a tutti gli uomini, l’Allamano, fondatore di una famiglia missionaria ad gentes, ha fatto suo lo stesso sguardo e lo ha infuso nei suoi discepoli. Così, sotto l’impulso dello Spirito, ha formato i primi missionari e missionarie per una missione incarnata nella realtà e oggi, tramite il miracolo avvenuto per sua intercessione, ha mostrato di accompagnare i suoi figli e la Chiesa tutta a vivere la missione con uno stile universale, audace e prudente, aperto all’incontro e al dialogo con le culture e i popoli.
I Missionari e le Missionarie della Consolata hanno vissuto i giorni di attesa della canonizzazione del loro santo fondatore con una intensa preparazione spirituale, affinché questo evento diventasse per i due Istituti e per la Chiesa intera un’occasione di rinnovamento nella grazia carismatica.
La canonizzazione di Giuseppe Allamano è stata un dono immenso che invita ad ascoltare il fondatore per attingerne la ricchezza. «Ecco, o miei cari, la santità che io vorrei da voi: non miracoli ma far tutto bene. Farci santi nella via ordinaria. Il Signore, che ha ispirato questa fondazione, ne ha anche ispirate le pratiche, i mezzi per acquistare la perfezione e farci santi. Se egli ci vorrà sollevare ad altre altezze, ci penserà lui, noi non infastidiamoci. I santi sono santi non perché abbiano fatto dei miracoli, ma perché “bene omnia fecerunt” (hanno fatto bene ogni cosa)».
padre Sergio Frassetto
Murang’a 2 – seconda parte
Presentiamo la seconda parte della relazione storica di monsignor Giovanni Crippa sulle «Conferenze di Murang’a» (vedi la prima parte in Mc – agosto/settembre 2024, pagg. 70-71) tenute dai primi missionari giunti in Kenya, dal 1° al 3 marzo 1904. Quanto in esse venne proposto era frutto dell’esperienza già collaudata nella vita quotidiana dei missionari. Dal confronto di questa realtà con i principi appresi in Italia e con i metodi sperimentati da altri missionari, il gruppo di «principianti» del Kikuyu cercò un proprio metodo di evangelizzazione.
Un nuovo metodo di evangelizzazione
Scartati altri metodi o perché si sarebbero protratti troppo nel tempo o perché considerati troppo onerosi, i missionari riuniti a Murang’a elaborarono un proprio piano di evangelizzazione così formulato: «Dato il carattere e i costumi degli Akikuyu, i mezzi migliori per iniziare le nostre relazioni con essi pare si possano ridurre ai seguenti: catechismi – scuole – visite ai villaggi – ambulatori alla missione – formazione d’ambiente».
Con i catechismi, che richiesero quasi subito la formazione di un corpo di catechisti, si inculcavano le prime nozioni di religione naturale. Le scuole miravano a formare una èlite che avrebbe coadiuvato i missionari nell’approccio con i Kikuyu. Gli ambulatori, che segnarono la prima attività a favore degli indigeni in missione, venivano intesi come mezzo per rendere credibile il missionario e assicurargli la simpatia della gente. Le visite ai villaggi, che ricordavano il metodo del cardinale Guglielmo Massaia, assunsero caratteristiche proprie: servivano alla conoscenza reciproca ed erano il mezzo più valido per l’enunciata formazione dell’ambiente, consistente nell’istruire la popolazione in modo che in massa fosse preparata a ricevere il battesimo, qualora si desse il caso di pericolo di morte.
A Murang’a si stabilirono norme che riguardavano anche la vita interna di missione e comprendevano, tra l’altro, la compilazione di un «Diario di missione», il modo con cui scrivere la lingua Kikuyu e la relazione trimestrale che ogni superiore di missione doveva inviare a Torino.
Unità di intenti
«Per i Missionari della Consolata nel Kikuyu le conferenze tenute a Murang’a nel 1904 segnarono un punto di riferimento anche per molti anni successivi, sebbene siano state ripetute con regolarità annuale. Il Fondatore, a Torino, le incoraggiava e ne vagliava i risultati che venivano di volta in volta approvati. Il principio della “uniformità” fu ritenuto necessario nella prima evangelizzazione e condiviso da tutti. Per attuarlo si escogitò il “Rapporto serale”».
Ogni sera, padri, fratelli e suore delle singole missioni si incontravano per informarsi reciprocamente sul lavoro della giornata, correggerne i difetti, orientarne le prospettive per il giorno seguente e far conoscere a tutti lo stato del settore assistito. Il lavoro così inteso diveniva un efficace strumento di comunicazione interpersonale e di orientamento della pastorale e favoriva l’«unità di intenti» che l’Allamano voleva tra i suoi. Esso arricchiva dell’esperienza comune soprattutto i missionari nuovi arrivati e permetteva al superiore di missione non solo di controllare il lavoro di tutti, ma anche di sostenere le iniziative più valide e di intervenire nelle emergenze più impellenti.
La missione esige un metodo
L’Allamano non ebbe e non poteva avere una metodologia missionaria: in missione non andò mai. Ebbe però un metodo per fare apostolato che così egli stesso descrisse: «… datevi toto corde et omnibus viribus all’opera dell’evangelizzazione. È per questo speciale fine che per farvi santi sceglieste la via delle missioni, preferendo il nostro istituto a tante altre Congregazioni che attendono ad altri ministeri. Ma perché il vostro lavoro ottenga il frutto desiderato deve avere tre qualità, che sia perseverante, concorde ed illuminato» (Lettera ai missionari del Kenya, 2 ottobre 1910).
Perseveranza: è richiesta dall’esigenza di far sorgere e crescere la fede. Non fu facile convertire il Kikuyu, la delusione per una realtà diversa e dura è espressa costantemente nei diari.
Per perseverare occorre affezionarsi alla gente, imparare a volere bene, avere viscere di carità. Prima che con la parola, si evangelizza con la bontà.
Concordia: «L’unione di mente e di cuore – continua l’Allamano – mentre rende leggera la fatica, fa la forza ed ottiene la vittoria».
Il missionario che non ricerca la concordia, secondo il fondatore, «lavorerà invano e forse distruggerà il bene fatto dagli altri». «Lavorate concordi e Dio benedirà le vostre fatiche». Non siamo noi o gli altri, ma Dio che deve dire bene (benedire) del nostro lavoro.
Illuminato: «Vengo al terzo carattere del vostro lavoro, quello che chiamo illuminato riguardo al metodo da seguire. Bisogna degli indigeni farne tanti uomini laboriosi per poi poterli fare cristiani: mostrare loro i benefizi della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre a offrire le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra» (2 ottobre 1910).
Fu così che i primi missionari della Consolata nel Kenya, sebbene giunti in Africa da poco più di un anno, riuscirono a darsi delle norme da seguire nel lavoro apostolico. La via, tracciata con un impegno quotidiano costante, avanzò sotto la guida lontana dell’Allamano, e la trazione in loco di padre Filippo Perlo, che indirizzarono l’opera dei missionari verso l’unico fine di giungere presto alla conversione dei Kikuyu.
+ Giovanni Crippa, Imc Vescovo di Ilhéus
Roraima: diocese in festa
Il miracolo attribuito san Giuseppe Allamano è avvenuto nella missione Catrimani, appartenente alla diocesi di Roraima, nel nord del Brasile. Il vescovo della diocesi, monsignor Evaristo Pascoal Spengler, ha pubblicato un messaggio indirizzato al popolo di Dio della sua diocesi e alla famiglia Consolata, in cui esprime la sua gioia per il «lieto annuncio della canonizzazione del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, presenti nella nostra Chiesa di Roraima dal 1948».
Ha scritto il vescovo: «Questo è il Dio misericordioso ancora una volta all’opera nella nostra storia. Dio non si stanca mai di sorprenderci con il suo amore e la sua bontà».
Questo miracolo è motivo di gioia per i missionari e le missionarie, ma lo è anche per la chiesa di Roraima «perché si riconosce l’intercessione del beato Allamano a favore dell’indigeno yanomami Sorino, che vive nella nostra diocesi, nella missione Catrimani, nel territorio indigeno del popolo yanomami di Roraima.
La guarigione miracolosa dell’indigeno, in un momento in cui le cure tradizionali e la scienza medica potevano solo attendere la sua morte, è stata il frutto della fervente preghiera delle Missionarie della Consolata, che hanno chiesto aiuto al loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano nel primo giorno della novena a lui dedicata».
Il messaggio ricorda i passi compiuti durante il processo, prima nella fase diocesana, e racconta come si è svolto. Si sottolinea inoltre che «l’annuncio della canonizzazione del beato Giuseppe Allamano è motivo di consolidamento dell’opzione evangelizzatrice della missione Catrimani, di conferma della storia dell’alleanza della nostra diocesi di Roraima con i popoli indigeni e un motivo di benedizione e di speranza per la nostra diocesi, che celebra 300 anni di evangelizzazione in queste terre di Macunaíma».
Infine, il vescovo di Roraima ha annunciato che «istituiremo una commissione nella nostra diocesi per celebrare il dono della fecondità dell’annuncio del Vangelo tra noi, confermato dal miracolo operato sul nostro fratello Sorino, per intercessione di san Giuseppe Allamano».
Io carmelitana
Sono una povera e anziana carmelitana scalza dell’ex Carmelo Sacro Cuore in Torino, nata e vissuta a Torino in prossimità del Santuario della Consolata, imparando fin dalla mia fanciullezza a invocare la Vergine Consolata.
Quando il canonico Allamano fu dichiarato «beato», nel nostro Carmelo ci fu grande gioia, e lo festeggiammo con entusiasmo, come si gioisce per un dono fatto a una persona cara. Per più di cento anni, infatti, i padri della Consolata sono saliti tutte le mattine da corso Ferrucci fino al nostro Carmelo, non senza fatica, ma con una grande fedeltà: non un giorno ci è mancata la celebrazione della santa Messa, né il dono dell’Eucaristia, e tante volte anche quello di poter accedere al Sacramento del perdono amministrato con piena disponibilità e tanta misericordia.
Attendevamo con speranza questo giorno in cui il beato Allamano sarebbe stato proclamato santo e il nostro cuore esulta di gioia e gratitudine al Signore perché il nostro desiderio è stato esaudito.
Quello che scrivo vuole essere una umile testimonianza della santità, fecondità e amore che i suoi figli e le sue figlie sanno portare e donare al mondo.
C’è infine un legame profondo tra il nostro monastero e i figli dell’Allamano: per settantacinque anni abbiamo condiviso la nostra vita con la cara suor Teresina del Bambino Gesù, sorella di sangue di padre Giovanni Calleri, l’eroico missionario della Consolata morto martire in Amazzonia.
Suor Maria Luisa del Volto Santo Carmelitana scalza
Un santo tra noi. La canonizzazione di Giuseppe Allamano
Il miracolo di Allamano raccontato dalla testimone diretta
Foresta amazzonica brasiliana. Una missione molto «particolare». Un incidente come tanti. Un uomo tra la vita e la morte. Gli sciamani scoprono che esiste uno spirito al di sopra di tutto. Cronaca e riflessioni su un accadimento eccezionale.
Catrimani, Roraima, 7 febbraio 1996. «Come tutte le mattine ero andata al posto di salute a lavorare. In quei giorni, in missione c’eravamo solo io e fratel Antonio Costardi. Lui si stava occupando della strada che in quel periodo ci collegava, attraverso la foresta, alla Br170 che portava a Boa Vista. Le mie consorelle erano in città a seguire alcuni incontri. Oltre a noi, c’era la cuoca». Chi parla è suor Felicita Muthoni Nyaga, missionaria della Consolata e infermiera keniana, a Catrimani dal 1995 al 2000, poi a Boa Vista fino al 2002 per coordinare il settore della salute indigena, a livello dello Stato di Roraima, in particolare la prevenzione della malaria.
L’incidente
«Verso le 9 di mattina venne da me il cognato di Sorino, uno yanomami che abitava alla maloca (casa comunitaria, ndr) vicino alla pista di atterraggio della missione. Non chiedeva un mio intervento, ma voleva piuttosto un fucile o una pistola, dicendo che noi “bianchi” abbiamo sempre armi da fuoco. Io risposi che no, noi missionarie e missionari non ne abbiamo. Vedendolo correre via trafelato, mi insospettii e gli corsi dietro. La cuoca mi vide e venne anche lei».
Giunta davanti alla maloca suor Felicita si trovò di fronte a uno spettacolo sconvolgente: «Subito vidi un lago di sangue, poi notai che c’era un ferito che respirava ancora. Dovevo fare qualcosa. Chiesi dell’acqua e iniziai a lavare quell’uomo. Mi resi conto che il cuoio capelluto era quasi totalmente scoperchiato. Intanto ho fatto chiamare fratel Antonio».
L’uomo che giaceva nel suo sangue era Sorino Yanomami. Era stato aggredito alle spalle da un giaguaro, mentre era a caccia di uccelli a circa due chilometri da casa. L’animale gli aveva azzannato la testa, aprendogli il cranio. Sorino era però riuscito a reagire, lo aveva tenuto a bada con una freccia, e poi era tornato alla maloca cadendo esanime davanti all’entrata.
Continua suor Felicita: «Abbiamo messo Sorino in un’amaca e, con il pick up di fratel Antonio, lo abbiamo portato al punto di salute della missione, dove ho potuto iniettargli del plasma. Intanto ho parlato via radio (l’unico collegamento che si aveva con la capitale, nda) con suor Rosa Aurea Longo a Boa Vista e le ho chiesto se poteva mandare urgentemente un aereo. Suor Rosa mi ha detto che tutti gli aerei erano in volo, perché quel mattino, c’erano state diverse emergenze. Bisognava aspettare».
Sciamani
Nel frattempo, c’era stato il passa parola e, verso mezzogiorno, alla missione erano arrivati una quindicina di sciamani (capi spirituali e guaritori, nda) e circa duecento yanomani da tutte le maloche del circondario. Avevano capito che Sorino stava per morire, ed erano venuti per fare il rito sciamanico che accompagna lo spirito del defunto nel mondo degli antenati. Nel mentre, altri uomini si erano armati per andare a caccia del giaguaro.
«Sono andata da tutta questa gente e ho detto loro: “Sorino è ancora vivo, aspettiamo l’aereo e lo mandiamo in ospedale a Boa Vista”. Loro hanno risposto: “No, non può andare in città. È molto grave, abbiamo visto il suo cervello fuori dalla testa, e il giaguaro ne ha mangiato una parte. Ma una persona senza un pezzo di cervello non può vivere”. Dissi loro: “Tutto questo è vero, ma Sorino è ancora vivo e dobbiamo provare a salvarlo”. Ma loro insistettero: “No perché gli spiriti vengono a prenderlo, lui deve dire il suo sì per lasciare il suo corpo e andare con loro. Questo non può succedere fuori dalla foresta”.
Io ero arrivata da poco a Roraima e non capivo questo concetto. Inoltre mi facevo tradurre, perché ancora non parlavo bene la loro lingua.
In tutta questa confusione, gli uomini mi hanno puntato addosso decine di frecce. Io avevo paura e ho iniziato a piangere. Allora, le donne che erano con loro, mi hanno circondata per proteggermi: “Felicita non piangere, non avere paura, loro non ti tireranno le frecce. Sono molto arrabbiati con il giaguaro. Gridano perché non vi capite”».
Suor Felicita riuscì a sottrarsi da quella situazione pericolosa con la scusa di andare a controllare il ferito in infermeria. «Sorino aveva ripreso un po’ di energia grazie alla trasfusione. Mi ha preso la mano e cercava di stringerla, ma non ci riusciva. Ho messo l’orecchio vicino alla sua bocca e lui mi ha sussurrato: “Felicita, tu adesso sei la mia mamma. Loro dicono che io devo andare con gli spiriti, ma io non voglio, fai qualche cosa perché io voglio vivere”.
Dunque mi trovavo in mezzo tra lui, che voleva vivere, e gli altri che volevano mandarlo dagli spiriti».
Nel frattempo, verso le 14, l’aereo era arrivato. Gli yanomami si erano dispersi. Era rimasto solo Kalera, un amico stretto del ferito, che chiese di poterlo accompagnare a Boa Vista. Suor Felicita e la cuoca lo portarono all’aereo e i due partirono.
«Ho quindi cercato la moglie di Sorino, che era andata ad avvisare alcuni parenti a una maloca a tre chilometri da lì. Quando è arrivata le ho detto: “Helena, tuo marito è molto grave e l’ho mandato a Boa Vista in ospedale”. C’era anche la mamma di Sorino con lei e si sono messe a piangere».
«Se lui muore, ti uccidiamo»
Ma quando suor Felicita tornò alla missione trovò una sorpresa: «Il gruppo di Yanomami era di nuovo lì. Mi hanno chiesto: “Felicita dov’è Sorino?” E io: “L’ho mandato a Boa Vista”. “Perché? Non ascolti gli sciamani? Sorino non può morire lontano dalla foresta”. “Perché?”, replicai. “Perché in questo modo il suo spirito non troverà mai casa. L’unica porta per l’aldilà la trova se è in compagnia degli altri spiriti. Ma fuori dalla foresta, nessuno lo può accompagnare. Allora tornerà qui, non troverà la porta e rimarrà a vagare in eterno. Sarà arrabbiato perché non potrà mai riposare e causerà problemi a noi vivi”.
In quel momento mi sono resa conto che avevo fatto una violenza grave alla loro cultura. Avevo invaso una sfera nella quale non sarei dovuta entrare. Quando c’è in gioco la vita, sono loro che devono agire e non gente da fuori.
Allora gli sciamani mi hanno detto: “Entra nella tua casa. Non ti possiamo uccidere adesso perché Sorino non è morto, ma queste frecce le lasciamo qua – hanno piantato diversi dardi davanti a casa -, e se lui morirà, con queste ti uccideremo”.
Io ho risposto: “Va bene”. E sono rimasta sotto questa minaccia. Alcuni giovani si sono fermati a sorvegliare che non uscissi di casa».
Suor Felicita aveva avvisato il pronto soccorso e spiegato la situazione e anche il rischio per la sua vita. I medici erano già pronti e, appena Sorino arrivò, lo operarono per circa quattro ore. Poi, in coma, fu messo in terapia intensiva.
Le suore a Boa Vista decisero di seguire da vicino il ricovero, per cui suor Maria da Silva Ferreira, portoghese, stava con lui di giorno, mentre suor Lisadele Mantoet, italiana, lo vegliava di notte.
Suor Felicita, intanto era in contatto con Boa Vista via radio tutti i giorni per avere notizie.
La richiesta al padre
Fino a quel momento suor Felicita era intervenuta soprattutto come infermiera. «Non avevo pensato molto, avevo agito. Adesso, entrata in casa, sono andata direttamente nella cappella e ho guardato il quadro dell’Allamano. In quel momento ho pensato: “Io ho un padre, è qui”. Ero arrabbiata, avevo tanta paura e tremavo. Ho pensato: “Allamano dimmi una cosa, quando hai fondato questa congregazione, l’hai voluta proprio per i non battezzati? Sapevi che avremmo vissuto tutte queste difficoltà? E in questo momento dove sei? Tu ci sei?”. Quando ho fatto questa domanda ho sentito come una coperta che mi avvolgeva, un calore diverso. Avevo la febbre alta, per lo stress e lo shock.
Allora ho detto: “Ascolta Gesù, per intercessione di Giuseppe Allamano voglio chiederti solo una cosa. Sorino è andato a Boa Vista, è molto grave. Se lì lo potranno curare, io ti chiedo che guarisca completamente e torni come prima. Se torna con delle menomazioni, come una paralisi, non potrebbe vivere nella foresta come cacciatore e pescatore. Se non guarisce, è meglio che muoia.
E se lui deve morire, chiedo anche la grazia per sopportare questa freccia che mi colpirà”.
Inoltre, mi chiedevo: “È questo davvero il nostro posto di missione? Il nostro carisma? Solo una guarigione completa di Sorino può darci una risposta”.
Questa preghiera l’avrei rifatta ogni giorno senza aggiungere nulla. Ho acceso una candela che avrei mantenuto viva. E sentivo di aver fatto tutto».
Era il 7 febbraio, data di inizio della novena per la festa di Giuseppe Allamano, il 16. A Boa Vista la dedicarono alla guarigione del ferito. Inoltre, suor Maria Costa, superiora della casa, diede una reliquia del fondatore a suor Maria da Silva, che la mise sotto il cuscino di Sorino.
L’imponderabile
Il 16 sera Sorino stava morendo. Tutti gli strumenti davano i parametri vitali prossimi allo zero. Era con lui suor Lisadele che pensò: “Devo sentire suor Maria Costa per organizzare il recupero di suor Felicita, prima che si sappia della morte del paziente”.
Il mattino del 17 arrivò suor Maria e parlarono per organizzare il viaggio a Catrimani e salvare la consorella.
Verso mezzogiorno suor Maria sentì qualcosa di strano. Guardò il malato e lui girò la testa e le disse: “Maria, perché piangi?”. Poi aggiunse: “Ho fame”. Era successo qualcosa di incredibile.
Sorino era molto debole e la ferita non migliorava. Però aveva parlato.
Suor Felicita, saputo del miglioramento, organizzò il viaggio della madre e della moglie di Sorino a Boa Vista, che il 20 febbraio lo raggiusero. Dopo la terapia intensiva, a marzo Sorino fu portato alla casa di cura degli indigeni, sempre a Boa Vista, per la riabilitazione. L’8 maggio rientrò a Catrimani, accompagnato da suor Giuseppina Morelli, l’amministratrice.
«Io ho chiamato tutti i capi e gli sciamani. Qualcuno diceva: “Arrivano solo le ossa”; oppure: “Non sappiamo cosa arriva”. Sono venuti con le loro frecce, armati per la guerra. Poi l’aereo è atterrato. Sorino è sceso piano ed è subito venuto da me. Mi ha detto: “Felicita voglio farti vedere il cammino che ho fatto dall’incidente alla maloca”. C’erano ancora delle tracce e lì ci ha raccontato con precisione la dinamica dell’accaduto».
«Questo popolo è prezioso»
Il medico che aveva operato Sorino ha confermato che la parte di cervello lesa era quella del coordinamento motorio, che avrebbe dovuto rendere impossibile a Sorino camminare e parlare. Non si spiega dunque scientificamente, neppure come il ferito fosse riuscito a camminare fino alla maloca.
«Penso che noi siamo stati strumento di Dio. Sorino sarebbe potuto morire in quel momento, quando è stato attaccato, e invece lo ha salvato. Il Signore voleva dire qualcosa a questa gente e a tutti noi: “Questo popolo è prezioso per me, siete il mio popolo anche se non siete battezzati”».
Sono passati 28 anni e Sorino è ancora vivo. Lui e sua moglie Helena, che non hanno avuto figli, sono stati famiglia per molti bambini yanomami abbandonati, per motivi vari, dei quali le suore si sono occupate. «Almeno quindici», ricorda suor Felicita. Anche Sorino aveva la sua missione.
Nel 1998 gli sciamani convocarono un’assemblea aperta a missionari cattolici e protestanti ed enti governativi. Durante l’incontro uno di loro raccontò il sogno fatto la notte prima (spesso gli yanomami si affidano al sogno per comunicare messaggi): lui saliva una scala lunghissima verso il cielo e in fondo c’era una luce fortissima, più potente di qualsiasi luce mai vista prima. «È quella la luce che ha detto a Felicita di agire come ha fatto, ovvero di mandare Sorino in città – conclusero gli sciamani -. Suor Felicita è uno sciamano di questo spirito, il più potente di tutti».
Un giovane sacerdote della Torino del XIX secolo. Qualcuno capisce i suoi talenti e lo fa diventare formatore. Poi arriva la Consolata e pure Giacomo Camisassa. Infine, non senza difficoltà, la fondazione e la cura di due istituti missionari.
Giuseppe Allamano, quarto di cinque fratelli, nacque il 21 gennaio 1851 a Castelnuovo d’Asti, paese natale di san Giuseppe Cafasso, suo zio, e di san Giovanni Bosco. Rimasto orfano di padre quando non aveva ancora tre anni, crebbe sotto l’influsso determinante della madre Maria Anna Cafasso, sorella del santo, e dello zio, don Giovanni Allamano, fratello del papà.
Terminate le scuole elementari, nell’autunno del 1862 entrò nell’oratorio salesiano di Valdocco, a Torino, dove rimase quattro anni, compiendo gli studi ginnasiali. Qui incontrò il cardinale Guglielmo Massaia che raccontò agli studenti della sua missione in Etiopia. Sentendosi chiamato al sacerdozio diocesano, lasciò Valdocco, per entrare nel seminario di Torino. La sua decisione di entrare nel seminario diocesano incontrò un inatteso ostacolo in famiglia. Furono i fratelli, non la mamma, a opporsi, non perché fossero contrari alla vocazione sacerdotale, ma perché volevano che prima frequentasse il liceo pubblico. Il giovane Giuseppe, convinto com’era, ebbe una sola risposta per i fratelli: «Il Signore mi chiama oggi… non so se mi chiamerà ancora fra due o tre anni».
Così nel 1866 entrò nel seminario. Fin dal primo anno si manifestò la fragilità fisica che sarebbe perdurata tutta la vita, mettendola più volte in pericolo. Il periodo di preparazione al sacerdozio fu molto positivo.
Formatore di preti
Ricevuta l’ordinazione sacerdotale il 20 settembre 1873, Allamano avrebbe desiderato darsi al ministero pastorale, ma fu destinato alla formazione dei seminaristi, prima come assistente (1873-1876), poi come direttore spirituale del seminario maggiore (1876-1880). Quando l’arcivescovo monsignor Lorenzo Gastaldi gli comunicò la destinazione, lui balbettò rispettosamente un’obiezione: «La mia intenzione era di andare vicecurato e poi forse parroco in qualche paesello». Ed ecco la benevola risposta: «Volevi andare parroco? Se è solo per questo, ecco, ti do la parrocchia più insigne della diocesi: il seminario!». Come educatore di candidati al sacerdozio, si distinse per la fermezza nei principi e la soavità nel chiederne l’attuazione.
In questo compito, gli furono unanimemente riconosciute ottime qualità che lo resero un vero «maestro nella formazione del clero». Proseguì nello stesso tempo gli studi, conseguendo la laurea in teologia presso la facoltà teologica di Torino (30 luglio 1876), e l’abilitazione all’insegnamento universitario (12 giugno 1877). In seguito, fu nominato membro aggiunto della facoltà di diritto canonico e civile, e ricoprì pure la carica di preside in ambedue le facoltà.
Arriva la Consolata
Nell’ottobre 1880 fu nominato rettore del santuario della Consolata di Torino. Da allora fino alla morte, la sua attività si svolse sempre all’ombra del santuario mariano dell’archidiocesi. Anche questa nuova destinazione costò molto ad Allamano, sacerdote di appena 29 anni. Più tardi, lui stesso riferì la conversazione con l’arcivescovo: «Ma monsignore, io sono giovane», disse con confidenza filiale, ricevendo questa risposta paterna e incoraggiante: «Vedrai che ti vorranno bene lo stesso. È meglio giovane, se fai degli sbagli hai tempo a correggerli».
Si associò come primo collaboratore il sacerdote Giacomo Camisassa, che aveva conosciuto e apprezzato in seminario quando era direttore spirituale. Lo invitò scrivendogli parole che lasciano intravedere il progetto pastorale: «Veda, mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene, e procureremo di onorare col Sacro Culto la cara nostra madre Maria Consolatrice». La loro fraterna collaborazione sacerdotale sarebbe durata tutta la vita, nel rispetto vicendevole del ruolo di ciascuno e nella condivisione di ideali. Possiamo constatare il mirabile esempio di amicizia e di collaborazione apostolica tra questi due sacerdoti, oltre che dalle opere realizzate insieme, anche dalle parole che Allamano ebbe a dire dopo la morte del Camisassa: «Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me»; «Con la sua morte ho perso tutte e due le braccia»; «Erano 42 anni che eravamo insieme, eravamo una cosa sola»; «Tutte le sere passavamo nel mio studio lunghe ore…»; «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto».
Il santuario, fatiscente materialmente e decaduto spiritualmente, sotto la direzione di Giuseppe Allamano riprese vita. Con l’attiva collaborazione del Camisassa, lo trasformò in un gioiello d’arte, splendente di marmi e d’oro, come si presenta tutt’oggi. Ne curò l’attività pastorale, liturgica e associativa. Poco per volta il santuario divenne centro di spiritualità mariana e di rinnovamento cristiano per la città e la regione. Allamano vi contribuì anche con il carisma di cui fu dotato da Dio di consigliare e confortare. Persone di ogni ceto sperimentarono, infatti, i segreti della sua mente illuminata e del suo grande cuore.
I talenti
Come ebbe ad osservare il cardinale Jean-Marie Villot, Allamano divenne «punto di riferimento per quanti vedevano in lui il sacerdote vero, che sembrò investito di una missione provvidenziale per una diocesi come Torino: la missione di consigliare e dirigere, incoraggiare e ammonire, ridare alle anime con la grazia del sacramento della confessione la gioia e la pace della ritrovata amicizia con Dio, esortare a ogni opera apostolica».
Oltre a essere rettore del santuario della Consolata, Allamano era anche rettore del santuario di Sant’Ignazio, presso Lanzo Torinese, con annessa una casa per esercizi spirituali. Questo centro di spiritualità era molto famoso, avendo predicato in esso per tanti anni lo zio don Giuseppe Cafasso. Qui Allamano trovò un campo privilegiato per la formazione dei sacerdoti e dei laici attraverso gli esercizi spirituali. Come testimoniò un suo stretto collaboratore, il canonico G. Cappella: «Volle sempre dirigerli personalmente, e mentre li dirigeva voleva pure farli, perché diceva: “Non voglio solo essere cascata, che dà agli altri, ma anche conca per ricevere le grazie del santo ritiro” […]».
Con l’obiettivo di dare un modello specialmente ai sacerdoti, raccolse memorie su Cafasso, ne pubblicò la vita e gli scritti, e ne intraprese la causa di canonizzazione, che portò fino alla beatificazione, il 3 maggio 1925. Lo confidò candidamente lui stesso: «Ho introdotto questo processo, posso dire, non tanto per affezione o parentela, quanto per il bene che può produrre l’esaltazione di quest’uomo, affinché quelli che leggeranno le sue virtù, divengano bravi sacerdoti, bravi cristiani e voi bravi missionari».
Nel 1882 Giuseppe Allamano ottenne la riapertura del Convitto ecclesiastico (biennio di formazione in pastorale per il clero in preparazione del lavoro nelle parrocchie, ndr) e lo diresse fino alla morte. Ebbe molto a cuore la formazione spirituale, intellettuale e pastorale dei giovani sacerdoti, aggiornandola alle nuove esigenze. Inculcò soprattutto il fine ultimo della vocazione sacerdotale: la salvezza dei fratelli.
Visione e comunicazione
Giuseppe Allamano era coinvolto, inoltre, direttamente o indirettamente, in tante altre opere apostoliche. Fu canonico della cattedrale, membro di commissioni e comitati, superiore religioso delle Visitandine e delle Suore di San Giuseppe. Intensa fu la sua opera in occasione di varie celebrazioni di anniversari e durante la Prima guerra mondiale per l’assistenza ai profughi, ai sacerdoti e seminaristi che prestavano servizio militare.
Allamano seppe collaborare con le più svariate forme di apostolato, come testimonia il canonico Baravalle che viveva con lui al santuario: «Le forme più moderne dell’apostolato cattolico, come quello della buona stampa, […] non solo erano da lui tenuti in molta considerazione e molto apprezzati, ma largamente aiutati con somme di denaro, che a quei tempi erano abbastanza vistose». In particolare, Allamano sostenne il giornalismo cattolico non solo quando era più giovane, nel pieno del suo apostolato, ma sempre, fino alla morte. Ebbe un ruolo di ispirazione e incoraggiamento pure nella fondazione del quotidiano cattolico francese «La Croix», il cui fondatore, padre Paul Bailly, nel 1883 sostò al Santuario della Consolata. Nel 1899 fonda il mensile «La Consolata», che nel 1928 dà origine a «Missioni Consolata».
Missione
Animato da questo intenso zelo apostolico, unito a un vivo senso della missione della Chiesa, Allamano allargò i suoi orizzonti al mondo intero. Sentì l’urgenza del mandato di Cristo di portare a tutti il Vangelo. Trovava innaturale che nella sua Chiesa, feconda di tante istituzioni di carità, ne mancasse una dedicata unicamente alle missioni. Decise di rimediarvi. In questo modo avrebbe aiutato coloro che erano animati dall’ideale missionario a realizzarlo e avrebbe avuto modo di suscitarlo in altri. La fondazione dell’istituto dei missionari non sorse all’improvviso nella sua mente; maturò nel suo spirito attraverso una lunga preparazione spirituale e non si attuò che superando grandi prove e contraddizioni. Non ci sono dubbi che il cammino della fondazione è stato impegnativo e faticoso per Giuseppe Allamano, già così occupato nel Santuario, nel Convitto, a Sant’Ignazio e per la causa del Cafasso.
Nel 1891 gli sembrò giunto il momento di attuare il suo progetto di fondare un istituto missionario per sacerdoti e fratelli laici, ma lo potrà realizzare soltanto con l’ascesa alla cattedra di San Massimo del cardinale Agostino Richelmy, suo compagno di seminario e amico. In lui trovò condivisione piena di ideali e sostegno. Gli indugi furono rotti definitivamente da un intervento della Provvidenza. Nel gennaio 1900, una malattia contratta assistendo una povera donna in una soffitta ghiacciata, lo portò in fin di vita. La guarigione, ritenuta un miracolo della Consolata, fu per lui il segno che l’istituto si doveva fondare. L’anno seguente, il 29 gennaio 1901, nacque l’Istituto Missioni Consolata. La motivazione profonda della fondazione va cercata nel suo stesso spirito. Padre Lorenzo Sales, il suo primo biografo e figlio affezionato, affermò che la radice della fondazione sta nella santità di Allamano, il quale spiegava: «Non avendo potuto essere io missionario, voglio che non siano impedite quelle anime che desiderano seguire tale via». Ci furono poi delle ragioni contingenti, concrete che influirono a dare inizio all’opera, quali il desiderio di continuare la missione del cardinale Massaia, come pure lo spirito missionario e le insistenze di alcuni sacerdoti convittori.
L’8 maggio 1902 partirono per il Kenya i primi quattro missionari, due sacerdoti e due laici, seguiti a dicembre da altri quattro. Ben presto, vista la necessità della presenza femminile nelle missioni, Allamano ottenne dai superiori del Cottolengo alcune suore Vincenzine, che affiancarono i Missionari della Consolata in Kenya, a partire dal 1903.
Giuseppe Allamano, dietro insistenza del neoeletto vicario apostolico, Filippo Perlo (uno dei primi quattro e figura fondamentale nell’istituto, ndr), d’accordo con il suo arcivescovo e confortato dal parere del cardinale Girolamo Gotti, prefetto di Propaganda Fide, e da quello del Papa Pio X, il 29 gennaio 1910 diede inizio all’Istituto delle Missionarie della Consolata.
Ai suoi figli e figlie dedicò le cure più assidue, attraverso contatti personali, lettere, incontri formativi. Convinto che alla missione si deve dare il meglio, ebbe di mira la qualità più che il numero. Voleva evangelizzatori preparati, «santi in modo superlativo», zelanti fino a dare la vita. Il suo motto era: «Prima santi, poi missionari», intendendo il «prima» non in senso temporale, ma come valore prioritario e assoluto.
Intorno al 1912 si fa promotore dell’istituzione di una Giornata missionaria mondiale, celebrata poi dal 1926. Per lui, sacerdote diocesano, la missione era dimensione essenziale della Chiesa.
Giuseppe Allamano morì il 16 febbraio 1926 presso il santuario della Consolata e fu beatificato il 7 ottobre 1990 da Giovanni Paolo II. Il 20 ottobre sarà canonizzato da papa Francesco e dichiarato ufficialmente Santo.
*rielaborazione di testi di Francesco Pavese,
a cura di Marco Bello
I 10 comandamenti di Allamano
Dieci «comandamenti» sono stati scritti da monsignor Luis Augusto Castro Quiroga (missionario della Consolata colombiano) e ci offrono una sintesi del pensiero di Giuseppe Allamano. Si tratta di un distillato di consigli e insegnamenti ai suoi missionari e missionarie, ma validi e utili per chiunque.
Cercate solo Dio e la sua volontà.
Innalzatevi sulle idee limitate che predominano nell’ambiente.
Amate una religione che vi promette un’altra vita, ma che vi rende più felici sulla terra.
Scegliete la mansuetudine come cammino di trasformazione.
Trasformate l’ambiente (le strutture), non solo gli uomini.
Siate conca, non canale, con i beni spirituali; canale e non conca con i beni materiali.
Per raggiungere obiettivi concreti occorre un metodo di lavoro. I missionari e le missionarie della Consolata ne hanno elaborato uno. Si tratta di una trasposizione del metodo di Allamano basato su quattro pilastri fondamentali.
Il modo in cui una persona svolge le sue attività decide se avrà successo o meno. Una cosa è sapere bene cosa fare, avere l’energia e l’intelligenza per farlo, un’altra cosa è avere la strategia giusta per raggiungere un determinato obiettivo. Stiamo parlando di «un metodo», ovvero di una procedura particolare per realizzare qualcosa. Una metodologia chiara è necessaria ogni volta che si realizza un progetto, perché fornisce un approccio strutturato al lavoro, garantisce l’affidabilità del modo di lavorare e migliora le conoscenze in quel particolare campo.
Un metodo missionario
Questo spiega il motivo per cui i primi missionari della Consolata avevano bisogno di un buon metodo per fare qualche passo avanti nell’evangelizzazione del Kenya. Il fondatore li aveva avvertiti di non aspettarsi risultati rapidi. Infatti, aveva detto loro di evitare la tentazione di pensare che le cose sarebbero state facili o che i risultati sarebbero stati immediati. Dovevano prendersi il tempo necessario per fare dei piani, attuarli gradualmente e valutarli senza fretta. In realtà, quello che oggi chiamiamo metodo missionario della Consolata, è un’attualizzazione del metodo pedagogico di Giuseppe Allamano. Questo prevedeva «l’incontro», «la creazione di relazioni» e «lo scambio produttivo reciproco». In una parola, possiamo chiamare quel metodo missionario «incontro».
Il fondatore era un padre per i suoi missionari: amava intensamente ciascuno di loro, tanto da lasciare un ricordo indelebile fin dal primo contatto. Su questo punto le testimonianze dei primi missionari sono concordi: ognuno di loro si è sentito compreso e amato dal fondatore, con l’irripetibile creatività dell’amore.
Le sue relazioni e il suo metodo pedagogico erano animati e incentrati su un dialogo fiducioso e amorevole. Aveva rapporti stretti con i singoli missionari e missionarie, ma anche con le comunità (seminario minore, seminario maggiore, novizi). Era in contatto con chi era vicino e con chi era lontano. Mentre alcuni missionari erano in Africa, altri erano nell’esercito e altri ancora erano alla Casa Madre. Allamano seguiva, formava e dirigeva anche altri gruppi che erano sotto la sua cura pastorale. Questo stretto contatto con la gente è ciò che ha ispirato e costituito il metodo che i missionari hanno usato nella missione.
Contatto
Utilizzando i consigli che Giuseppe Allamano dava dall’Italia, i missionari in Africa si impegnarono in lezioni di catechismo nei villaggi, nell’insegnamento delle cose elementari nelle scuole all’aperto (le lezioni si facevano sotto gli alberi), nella visita ai villaggi per socializzare e creare relazioni con la gente, e infine nell’assistenza ai malati. Questo è ciò che è stato conosciuto come il «metodo dei Missionari della Consolata». Come si vede, era piuttosto particolare. Implicava un grande contatto con la gente. Proprio come aveva dimostrato personalmente Allamano nel suo lavoro a Torino, i missionari e le missionarie dovevano relazionarsi strettamente con le persone. Era l’unico modo per conoscere i loro bisogni, approfondire le loro aspettative, scoprire le loro paure, creare un legame di fiducia, ecc. Sebbene i Missionari della Consolata fossero accusati da altri istituti missionari di dedicarsi a pratiche «mondane» invece che a «salvare le anime», il metodo missionario della Consolata era certamente efficace. Non si sarebbe potuto evangelizzare persone che non comprendevano. Questo metodo ha dato grandi risultati e frutti duraturi nell’evangelizzazione, nella fondazione e nel servizio della Chiesa in Africa, in primo luogo per la validità intrinseca del metodo stesso, e in secondo luogo per la dedizione e lo spirito di coloro che lo hanno attuato, sotto la saggia guida del fondatore. Questo è un altro modo per dire che un metodo da solo non basta. Coloro che lo mettono in pratica devono essere seri e dediti al loro lavoro. In altre parole, non si può separare il lavoro da svolgere, il metodo da utilizzare e il carattere (e la personalità) di coloro che devono svolgere il lavoro.
Quattro pilastri
Il metodo missionario della Consolata aveva e ha quattro elementi chiave. In primo luogo, richiedeva l’apprendimento della lingua locale del popolo. Ancora oggi, la lingua è la chiave di ogni società. Conoscere la lingua facilita molte cose, elimina inutili conflitti e incomprensioni e crea una base credibile per qualsiasi impegno. Consapevoli di ciò, i primi missionari della Consolata si sono assicurati di essere in grado di comunicare con la popolazione locale. Secondo elemento: il metodo esige ilrispetto della cultura delle popolazioni locali. I missionari hanno subito scoperto che dovevano amare la cultura dei Kikuyu e dei Meru. Questo significava essere disposti a mangiare cibo locale ogni volta che era necessario e, più in generale, a trattare le persone con rispetto. Consapevoli che non avrebbero potuto evangelizzare qualcuno che li vedeva come colonialisti, i missionari della Consolata hanno imparato a rispettare le diverse culture. Il terzo elemento: l’ambiente familiare. Giuseppe Allamano ha sempre parlato di «spirito di famiglia». Si assicurava sempre di far sentire a casa il suo interlocutore. Questo era il suo segreto. Le persone si sentivano felici, rilassate e amate in sua presenza. Allo stesso modo, come parte della loro strategia di evangelizzazione, i Missionari della Consolata facevano in modo che la gente si sentisse parte di una più grande famiglia di Dio.
Quarto e ultimo punto del metodo dei Missionari della Consolata: trasformare il paese, non solo attraverso l’insegnamento religioso, ma anche formando la popolazione all’agricoltura, all’allevamento del bestiame e alle abilità manuali. Come avrete notato, la strategia (o metodo) dei missionari della Consolata in Africa (e poi in America Latina e Asia) rispecchia lo stile di vita di Giuseppe Allamano. Egli credeva che l’opera di una persona riflettesse sé stessa. Questo spiega perché è vero che il metodo pedagogico di Allamano, che è la spina dorsale del metodo missionario della Consolata, era finalizzato alla santità. Non si trattava solo di fare ripetutamente un’azione per farla apparire come una strategia o un fatto. Si trattava di presentare sé stessi in qualsiasi cosa si facesse.
Jonah Mulwa Makau
«Un albero gigantesco»
Giro del mondo con le missionarie e i missionari della Consolata
Un sogno, una volontà che diventa progetto. Tanto impegno e preghiere. E poi arrivano le condizioni favorevoli. Così Giuseppe Allamano ha fatto partire da Torino i primi quattro missionari. Oggi, dopo 122 anni, è una presenza in 4 continenti.
La mattina dell’8 maggio 1902 Giuseppe Allamano accompagna i primi quattro missionari della Consolata alla stazione di Porta Nuova, a Torino. Sono i sacerdoti Tommaso Gays, Filippo Perlo e i fratelli Luigi Falda e Celeste Lusso. Le cronache dicono che, dopo aver impartito loro la sua benedizione, Allamano si allontana rapidamente, per non mettersi a piangere. Giacomo Camisassa, invece, come previsto, prende il treno con loro, e li accompagna fino a Marsiglia dove si imbarcano il 10 maggio alla volta di Zanzibar. Lì arrivano diciotto giorni dopo. I quattro sono accolti dal vicario apostolico, lo spiritano monsignor Emil August Allgeyer e dal console italiano, il cavaliere Giulio Pestalozza. I «nostri» sono presi in carico dai padri Spiritani. Padre Filippo Perlo, in una delle prime lettere racconta: «[…] il 28 maggio al levar del sole comparve in vista l’isola di Zanzibar. L’impero dei monsoni è cessato d’un tratto e il mare è calmo. Impressionati ancora dalle deserte e bruciate sponde del canale di Suez e dalle rocche brulle e cupe del capo Guardafui, restiamo ammirati e confortati dallo splendore e ricchezza di vegetazione di Zanzibar» (cfr.La Consolata, settembre 1902).
Da Zanzibar, il 6 giugno, vanno in nave a Mombasa, e da lì in treno fino a Nairobi (14 giugno). Sono sempre accompagnati da monsignor Allgeyer, che sarà con loro fino alla destinazione finale.
La scelta del villaggio di Tuthu (del capo Karoli o Karuri che aveva richiesto missionari per costruire la prima scuola), nel centro del Kikuyu a oltre 2000 metri di altitudine, come prima missione dei quattro della Consolata è dettata da necessità e opportunità. La necessità di avere missionari cattolici nella nuova provincia, il fatto che monsignor Allgeyer non ha abbastanza personale.
La carovana parte per il Kikuyu il 20 giugno, giorno della Consolata. Oltre al vicario apostolico, ne fa parte il padre Hemery, anch’esso spiritano, che parla un po’ della lingua locale. In treno fino a Naivasha (la ferrovia Mombasa-Kampala è in costruzione), poi a piedi, il gruppo si dirige a Nord Est, passando attraverso le montagne dell’Aberdare dove i missionari soffrono il freddo. Arrivano a destinazione la sera del 28 giugno.
«L’indomani celebriamo la santa messa […]: è l’inaugurazione della Missione della Consolata che si impianta nel Kikuyu, a circa due giornate di viaggio dalla base del monte Kenya a 2050 metri sul livello del mare. Sarà la più alta missione del vicariato di monsignor Allgeyer», scrive ancora Perlo nei suoi diari.
Questa è la storia dell’inizio delle «missioni della Consolata» nel mondo.
Da lì, nel 1916 comincia l’avventura in Etiopia, tre anni più tardi è la volta del Tanzania, e nel 1926, anno della morte del fondatore, l’apertura ufficiale della missione in Mozambico.
Il salto continentale nelle Americhe avviene nel 1937, in Brasile, inizialmente a scopo di animazione vocazionale, e nel 1946 in Argentina e via di seguito. L’Istituto Missioni Consolata (Imc) arriva in Asia nel 1988, con l’apertura in Corea del Sud.
Centoventidue anni dopo
Oggi i missionari e le missionarie della Consolata sono presenti in 33 Paesi di quattro continenti: Africa (14 Paesi), Americhe (9 Paesi), Asia (5) ed Europa (5). E se i primi missionari erano perlopiù piemontesi, adesso si contano 904 missionari di 25 nazionalità e 474 missionarie di 15 nazionalità.
Una presenza importante, multietnica e multiculturale, diffusa nel mondo, ma soprattutto in presa diretta con i popoli e le genti emarginati o di frontiera. Abbiamo voluto fare un ideale giro del pianeta per raccogliere alcune brevi riflessioni di missionari e missionarie della Consolata del 2024 per unirle idealmente a tutte le vite spese per la missione dalla fondazione dei due isituti in poi.
Padre Francesco Bernardi, missionario italiano in Tanzania
L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano è l’audacia, che è più del coraggio. San Paolo, missionario, usa il termine greco «parresia».
Giuseppe Allamano è un audace. Lo è stato fin da ragazzo. Giuseppe studia nell’Oratorio di don Giovanni Bosco. Ma il 16 agosto 1866 pianta in asso il suo maestro e se ne va, insalutato ospite. È domenica, giorno per recarsi in chiesa e non per scappare. Poi, è solo un ragazzo di 15 anni. Ma è un audace, contro il suo carismatico educatore.
Padre Igino Tubaldo (storico di Giuseppe Allamano) insinua che c’era troppo rumore nell’oratorio. Così Giuseppe fugge, perché «il rumore non fa il bene, e il bene non fa rumore». Questo è Allamano.
Lavoro in Tanzania e ritengo che necessiti di maggiore audacia missionaria. Ma non solo questo Paese.
Il 2 settembre 1908 il fondatore scriveva a fratel Benedetto Falda, missionario in Kenya: «La nostra Missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e di Maria Consolata. Passeranno gli uomini… cadranno pure alcune foglie, ma l’albero benedetto dal Santo Padre prospererà e verrà un albero gigantesco. Io ne ho prove prodigiose in mano».
Oggi i missionari e le missionarie della Consolata costituiscono «un albero gigantesco», grazie alla Consolata, come pure grazie agli italiani e ai marocchini, ai boliviani e ai colombiani, ai mongoli e ai coreani, alla gente di Taiwan nonché a quella del Kazakistan, grazie a uomini e donne che si spendono in 33 nazioni del mondo.
La missione è da viversi in «unità di intenti» fra tutti, nonostante le difficoltà.
Sono parole dell’audace san Giuseppe Allamano.
Padre Daniele Giolitti, missionario italiano in Mongolia
L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano, a partire dalla mia esperienza missionaria in Mongolia e in Italia, mi pare di poterla riassumere come un preciso stile missionario, improntato su tre principali caratteristiche: profondità nelle relazioni, forte spiritualità e lavoro manuale.
La missione, secondo lo stile «allamaniano», richiede una profonda dedizione e preparazione per incontrare persone e culture talvolta molto diverse dalla nostra. Per far questo occorre coltivare una spiritualità fatta di preghiera e di meditazione della Parola di Dio. Inoltre, per costruire ponti di pace e di dialogo, più che mai urgenti in questa nostra epoca, Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari «si sporcassero le mani», cioè che, come ha fatto lui, ci impegnassimo nella promozione umana e nei progetti di sviluppo.
La proclamazione di Allamano santo mi fa pensare al suo motto più famoso che ha lasciato a noi missionari: «Prima santi, poi missionari». Lui è stato davvero un grande santo e forse un precursore dei tempi: dalla sua profonda esperienza spirituale al Santuario della Consolata di Torino e dal suo grande impegno sociale, è nata l’idea della missione in tutto il mondo, fatta di contemplazione nell’azione. In Mongolia questa dimensione contemplativa è molto sentita, a contatto con religioni antiche quali il buddhismo e lo sciamanesimo.
Nella capitale mongola Ulaanbaatar, con gli altri missionari, pensiamo di vivere il grande momento della canonizzazione del nostro fondatore facendo conoscere la sua figura nelle quattro parrocchie della città, organizzando momenti di preghiera con la gente e traducendo in lingua mongola una sua breve biografia. Infine, però, penso che il modo migliore per viverlo sia quello di mettere in pratica ciò che lui stesso ha vissuto: un’esperienza di Dio che si estende a tutto il mondo. Questo è Vangelo. Questa è missione.
Suor Nadia Leitner, missionaria argentina in Bolivia
Nel 2016 sono arrivata per la prima volta a Vilacaya, in Bolivia, come prenovizia, una giovane donna che stava appena iniziando a conoscere il carisma, la missione ad gentes e tutta la sua ricchezza. I miei occhi cominciavano ad aprirsi, io nascevo al mondo missionario. L’impatto culturale e le sfide spaventavano le mie scelte, ma il sogno della missione e di poter condividere la vita mi dava la forza di continuare a camminare. Ed è stato così che durante gli anni di formazione mi sono lasciata riempire dal carisma e incoraggiare a svuotarmi per vivere la volontà di Dio.
Vivere oggi il tempo di santità, come missionaria della Consolata a Vilacaya, mi chiede di lasciare le mie idee per aprirmi all’incontro reale con gli altri. Mi trovo di fronte a una realtà missionaria impegnativa, ed è qui che il carisma acquista forza e coraggio e trova il suo spazio per insegnarmi a vivere in modo creativo il processo di inculturazione, di promozione umana e di ascolto. Mi rende chiaro che non cammino da sola, ma, come voleva Allamano, in famiglia, in comunità.
La santità di Giuseppe Allamano è una grande gioia e un orgoglio, ma è anche un invito concreto a vivere in fedeltà e in profondità il mio essere missionaria della Consolata, a camminare ogni giorno verso la mia santità.
Padre Oscar Liofo Tongombe, missionario congolese in Brasile
Lavoro nella diocesi di Roraima, nella città di Boa Vista, dove sono vicario parrocchiale.
Per me il messaggio di Giuseppe Allamano è la consolazione del popolo di Dio, soprattutto nella situazione che sta vivendo lo stato di Roraima con le migrazioni e la lotta delle popolazioni indigene. Portare consolazione significa avere uno zelo missionario nel servire i nostri fratelli e sorelle e nel lavorare per la promozione della vita umana.
La canonizzazione del fondatore è una grazia per tutto l’istituto e per tutta la Chiesa e rafforza ulteriormente la missione e la presenza dell’Imc in Amazzonia, poiché il miracolo è avvenuto proprio qui. È un momento di grande riflessione e meditazione sulla chiamata missionaria. Questo evento ha ulteriormente incoraggiato i missionari e la Chiesa a non rinunciare a quest’opera di consolazione. Penso che dovremmo vivere questo momento con devozione, preghiera e anche grande gioia.
Ivo Lazzaroni, missionario laico italiano in Congo Rd
Il messaggio di Giuseppe Allamano, sempre attuale e ricco di virtù cristiane, mi invita a cercare ogni giorno la qualità nell’essere e nel servizio missionario che svolgo nel nostro ospedale Notre Dame della Consolata di Neisu. La qualità nel migliorare la vita di chi mi circonda ogni giorno, nel fare bene il bene, la pazienza, e lo sforzo di vivere seriamente e umilmente ogni attimo della giornata.
Vivere questo messaggio è una sfida a livello personale, è vivere il Vangelo. Per me è la manifestazione della condivisione, della solidarietà umana, un cammino di fraternità che non conosce limiti e frontiere. A maggior ragione in un contesto di povertà economica come l’ospedale, dove la gran parte dei nostri pazienti fa fatica a pagarsi le medicine. Con la nostra presenza, cerchiamo di vivere questo messaggio, la vicinanza a chi soffre, e di curare i malati non solo con cure di qualità, ma con la consolazione, formando il nostro personale, più con l’esempio che con le parole.
Un altro aspetto fondamentale che sto vivendo, del messaggio di Allamano è la fiducia totale nella Provvidenza. In tutti questi anni di missione vivo e sperimento l’aiuto ricevuto da molti, per migliorare la qualità di vita di tante persone che incontro ogni giorno.
La canonizzazione mi fa pensare ai miei genitori, a mia mamma, ottantacinquenne e con una devozione particolare per Allamano, alla sua vita semplice e piena di sacrifici, alla sua pazienza e ricerca di una qualità di vita migliore per noi figli, al suo fare il bene nel silenzio.
Penso che la canonizzazione del fondatore possa trasmettere a ognuno di noi una forza spirituale maggiore, nel vivere il suo messaggio per essere d’esempio a quanti ci circondano nella ricerca continua di fare bene il bene.
Suor Emma Piera Casali, missionaria italiana in Mozambico e Guinea-Bissau
Per me Giuseppe Allamano è un ammirabile missionario. Anche se non ha avuto la gioia di lavorare direttamente in missione, ha saputo offrire ai suoi missionari e missionarie una metodologia valida, feconda, dallo sguardo aperto alle sfide e allo sviluppo in ogni tempo, in armonia con le diverse realtà che incontriamo nel nostro mondo.
Lui voleva che le sue missionarie vivessero in intima comunione con Cristo, Figlio e primo missionario del Padre, che dessero priorità alla testimonianza di vita, all’ascolto, alla preparazione della persona, alla conoscenza della realtà per programmare e valutare insieme, in comunione e unità d’intenti.
Nei miei sessanta anni di vita missionaria, ho sperimentato la fecondità della sua metodologia quando sapevo sedermi accanto al fratello o la sorella in attento ascolto e interessamento, dimostrando che in quel momento la cosa più importante era la sua storia, i suoi problemi e per questo nasceva la fiducia, la confidenza e il desiderio sincero di conoscersi.
Quando nella catechesi, negli incontri di formazione, ho cercato di far precedere all’annuncio di Gesù Cristo la conoscenza, i desideri, i progetti, le reazioni delle persone, ho toccato con mano la validità e l’efficacia di tale metodologia. Questo metodo anche oggi è attuale: il mondo moderno non ha fame e sete di bravi predicatori, ma bensì di autentici testimoni.
Vivendo e applicando questa metodologia nella mia vita missionaria ho potuto vedere come il Signore, per mezzo nostro, trasforma l’ambiente e il cuore delle persone.
Padre Marcos Sang Hun Im, missionario coreano in Argentina
Come sappiamo, Giuseppe Allamano aveva il sogno di andare in missione, ma a causa della sua salute non ha potuto realizzarlo. Invece di rinunciare a sognare, ha conservato il desiderio nel suo cuore ardente. Con il passare del tempo, il Signore gli ha proposto un altro modo per realizzarlo: inviare altri in missione. Secondo l’esperienza della vita missionaria, non sempre possiamo realizzare tutto ciò che vogliamo o avere il successo che speriamo. Per questo a volte siamo delusi di non vedere subito i frutti dei nostri sforzi. La testimonianza di Allamano ci dice chiaramente che il lavoro missionario è opera del Signore. Egli ne è il soggetto e il protagonista, mentre noi siamo solo dei servitori. Se il nostro sogno coincide con quello del Signore, Egli lo realizzerà a tempo debito secondo la sua via attraverso tutto il nostro essere. Attendere i tempi del Signore con pazienza e fiducia è il messaggio importante di oggi.
Normalmente la gente ha sentito il nome del nostro fondatore citato dai Missionari della Consolata. Anche io l’ho sentito per la prima volta quando ho contattato un animatore vocazionale. Adesso, grazie alla canonizzazione, il suo nome si è diffuso di più e veniamo cercati da luoghi dove non siamo mai stati, da chi vuole conoscere la sua vita. Così il mondo non solo vuole conoscere il nuovo santo, ma desidera anche conoscere i suoi figli, che sono missionari. Questo è un grande momento per noi per dare testimonianza, incoraggiare e ricordare la vocazione missionaria.
Padre José Fernando Flórez Arias, missionario colombiano in Amazzonia
La spiritualità dei Murui-Muina (popolo nativo dell’Amazzonia) dice che il futuro è alle spalle e il passato davanti, e anche se sembra strano, ha una sua logica: quello che è successo lo vediamo (è davanti) quello che non è successo non lo vediamo (è dietro). In questa prospettiva, camminiamo in avanti per trovare le radici che oggi rendono possibile la santità del nostro fondatore. Radici che hanno a che fare con il territorio in cui Giuseppe Allamano ha voluto manifestare la sua santità, territorio sacro chiamato Panamazzonia, condiviso da Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Guyana francese, Guyana, Suriname e Brasile.
Il miracolo di Allamano nel contesto amazzonico dovrebbe portarci a riflettere sulla nostra missione in questi territori. Farci sentire che il giaguaro oggi sta mangiando una parte del nostro cranio, come per lo Yanomami Sorino, e intendo il cuore, poiché i nonni Murui, al contrario di «penso quindi sono», dicono «sento quindi sono».
Per questo è importante addolcire il cuore affinché ciò che arriva alla ragione sia un pensiero significativo e si traformi in una Parola di vita, cioè una parola che su fa realtà, diventando prassi.
Forse la nostra parola in Amazzonia ha bisogno di un nuovo risveglio, di una nuova alba, di un passaggio del cuore, di sentire Dio in mezzo alle diverse culture amazzoniche perché ci chiediamo: dove ci sta mandando lo Spirito in Amazzonia?
Suor Immaculate Nyaketcho, missionaria ugandese in Liberia
L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano la percepisco nel suo invito a una santità vissuta nel fare bene il bene senza rumore, e la trovo nel lavoro missionario di ieri e di oggi. Questo si realizza attraverso i missionari e le missionarie che hanno incarnato questa spiritualità nella loro vocazione e missione, alcuni anche al costo della loro vita. Hanno portato consolazione e Gesù a tantissimi popoli e culture in diverse parti del mondo: quante chiese, scuole, ospedali, progetti economici e formazione.
Oggi, nel mio lavoro missionario in Liberia, dove la nostra presenza è molto piccola, il messaggio di Giuseppe Allamano si attualizza nel dare testimonianza di consolazione e facendo al meglio possibile il nostro servizio tra i giovani nella scuola, in parrocchia, nelle famiglie. Come Allamano ci dice, non è il fare tanto che conta, ma farlo bene, vivendo con il popolo nella sua realtà, affinché anche i nostri fratelli sperimentino la consolazione data al mondo dal Padre per mezzo del figlio Gesù.
La canonizzazione del fondatore è un grande dono che la Chiesa fa a noi famiglia della Consolata e al mondo intero. Oggi stiamo perdendo la spiritualità del fare bene il bene. Siamo molto presi dalla quantità, piuttosto che dalla qualità delle nostre azioni e del nostro vivere. Ma la canonizzazione ci chiama a una forma di santità che può essere vissuta da tutti, ovunque, facendo solo il bene. Senza rumore.
Padre Giuseppe Auletta, missionario italiano in Argentina
L’attualità di san Giuseppe Allamano ha a che vedere con la presa spontanea e immediata nel cuore della gente. Un esempio in tal senso l’ho avuto un po’ di anni fa. Nel gennaio 1990 stavamo realizzando un’intensa missione nella colonia Aborigen Chaco, abitata dagli indigeni Qom (Tobas), con i giovani appartenenti a Jumico (juventus misionera de la Consolata).
L’attività consisteva nel visitare i «ranchos» (abitazioni più che precarie) cercando di combattere la malattia di Chagas provocata da un insetto chiamato vinchuca, che danneggia soprattutto il cuore. Durante la visita offrivamo alla famiglia un’immaginetta del nostro fondatore. In una pausa dell’attività, una donna ci ha sorpresi con una richiesta: avere nella comunità una chiesetta. Alla domanda di chi volesse come patrono, la donna ha risposto: san Giuseppe. Ascoltando la richiesta, una nostra missionaria della Consolata chiede: «Volete che sia San Giuseppe artigiano?». «No – ha replicato la donna -. Vogliamo che sia san Giuseppe il missionario». Finalmente avevamo capito che si riferiva a Giuseppe Allamano. E così abbiamo costruito una chiesetta allo stile dei ranchos nella colonia Aborigen Chaco. Credo che, pur nella sua semplicità e sintonia con l’incarnazione in quella realtà, il nostro già santo – diciamolo senza aspettare il 20 ottobre prossimo – abbia avuto la prima cappella a lui dedicata. Vedo in questa esperienza una dimostrazione di come il nostro fondatore mette radici nel cuore della gente, attraverso il servizio umile e concreto di noi missionari.
La canonizzazione del fondatore è basata e decisa dalla prova di un miracolo che ha beneficiato un indigeno Yanomami. Il miracolo si trasforma in segno che conferma il carisma ad gentes affidatoci dal fondatore ma anche la scelta del camminare insieme con i popoli indigeni, condividendo la lotta di sopravvivenza, i sogni e la grande spiritualità e saggezza che essi ci offrono.
Padre Luiz Carlos Emer, missionario brasiliano a Roraima in Brasile
Già prima del Concilio Vaticano II, il desiderio e l’insegnamento di Giuseppe Allamano era che i suoi missionari portassero il messaggio della Buona Novella attraverso la visita alle comunità e la vicinanza alla gente semplice, conoscendo così da vicino la loro vita e le loro difficoltà. È stata un’intuizione profetica che mi ha segnato e mi ha sempre accompagnato nel mio lavoro missionario. Il metodo di lavoro di Allamano, rafforzato dalla teologia latino-americana che poneva l’accento su Gesù come liberatore integrale della persona, mi ha portato a cercare e privilegiare le periferie e i poveri nel mio lavoro missionario. Questo ha fatto nascere in me il desiderio e la ricerca di lavorare con i più emarginati e, per quanto possibile, di vivere come loro.
È importante notare che nel corso dei miei 37 anni di sacerdozio ho anche scoperto e imparato a valorizzare l’insegnamento sul primato della santità nella vita del missionario: l’amore e la vicinanza a Dio come condizione fondamentale per una vita missionaria significativa e fruttuosa.
Il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa di Giuseppe Allamano come uomo di Dio, guidato dallo Spirito Santo, diventa un forte stimolo a valorizzare e interiorizzare ancora di più la sua vita e i suoi insegnamenti.
Con la canonizzazione, penso di renderlo più presente nella mia preghiera, nel mio studio e nella mia spiritualità e, di conseguenza, di farlo conoscere meglio alla gente, presentandolo non solo come un intercessore, ma anche come un uomo che ha vissuto il suo tempo con visione e profezia.
Suor Arelis Maritza Rocha Garcia, missionaria colombiana in Italia
Grande persona di profonda umanità, ieri e oggi, Giuseppe Allamano è sempre attuale. La sua presenza lungo il mio cammino di vita, sia nella formazione, sia nelle diverse missioni e nei servizi che ho fatto, è stata importante. Io mi sono identificata con il suo contesto di vita di famiglia, la sua storia mi ha incoraggiata, il suo sguardo al Dio della Provvidenza mi ha toccata fin da subito. La sua paterna attenzione di ascolto e il suo amore mi hanno sollevata fino ad oggi. Non posso dimenticare le tante volte che l’ho invocato chiedendo aiuto e facendolo partecipe della mia fragilità e delle sfide in gioco, e lui mi ha fatto sentire il suo «Nunc Coepi» (adesso comincio, ndr). Così, con speranza, mi sono messa in piedi e ho continuato il mio percorso, ma con tanta fiducia nella sua compagnia.
La sua comprensione delle realtà umane che io non capivo, mi è giunta attraverso le sue lettere, scritte alle nostre sorelle, nelle quali manifestava la sua presenza umana, il suo modo gentile di gestire le cose e il suo sguardo compassionevole. Un cuore riconoscente dei doni che Dio dà a ognuno, non per sé stesso ma per il bene comune e della missione. Solo così si può vivere il bene fatto bene, nella quotidianità semplice e modesta come lui ci vuole.
Penso che il nostro fondatore, con la sua personalità, mi chieda di sorprendermi di come Dio agisce dove noi meno pensiamo. Questo lo vediamo guardando il miracolo a Sorino Yanomami. Non posso non pensare al carisma che lui ha donato a me e a tutti noi. Quanta grazia e responsabilità allo stesso tempo.
Marco Bello
Conversazione, «alla mano», con Giuseppe
Quattro modi di essere, ammiro in te:
la tua umanità fragile ed energica
la tua fiducia nella volontà di Dio
la tua disponibilità a servire
la tua perseveranza creativa nell’azione.
Li voglio tutti e quattro per me.
Quattro idee che ho letto in te mi ispirano:
oggi è il mio tempo e qui il mio spazio
la santità è il mio obiettivo e la mia strada
vivo localmente e penso globalmente
la missione è il mio luogo e la mia opportunità.
Tutte e quattro le idee voglio renderle reali.
Quattro relazioni che hai coltivato mi attraggono:
con Dio nella contemplazione e nella preghiera
con Maria Consolata, in affettuosa complicità
con Giacomo Camisassa, amico nell’amicizia di lavoro
con la Chiesa locale e universale nella sinodalità.
Voglio coltivarle anche io tutte e quattro.
Quattro compiti che hai intrapreso attirano la mia attenzione:
studiare con passione per il ministero
incoraggiare l’apertura della Chiesa alla cattolicità
formare persone, comunità e sacerdoti
accompagnare la famiglia, gli istituti e il Santuario.
Voglio occuparmi di tutti e quattro.
Quattro frasi emblematiche, mi ricordo di te:
«Fare bene, farlo bene e senza fare rumore», qualità totale
«Il bene non fa rumore e il rumore non fa bene», etica professionale
«prima i santi, poi i missionari», spiritualità umanizzante
«proclameranno la mia gloria alle nazioni», uscire qui, là e ovunque.
I quattro ispirano la mia vita e il mio lavoro quotidiano.
Quattro icone sacramentali, vi hanno ispirato:
– la santa famiglia Cafasso, con Giuseppe (lo zio) e Mariana (la madre)
– quella tenera Maria, con il suo santuario della Consolata
– quel Gesù biblico, fatto Eucaristia sulla tavola e sulla croce
– quella Chiesa locale, aperta al cattolicesimo.
Tutti e quattro mi suscitano ammirazione, ispirano, occupano e preoccupano.
Salvador Medina missionario della Consolata colombiano
Come si diventa santi
Il processo di canonizzazione
La «Causa di beatificazione e canonizzazione» riguarda un fedele cattolico che in vita, in morte e dopo morte ha goduto fama di santità, di martirio, o di offerta della vita.
La canonizzazione è solo l’ultimo gradino di una scala che ne presuppone altri: il candidato, per diventare ufficialmente santo, deve essere prima proclamato servo di Dio, poi venerabile, poi beato.
Fase diocesana
È chiamato servo o serva di Dio il fedele cattolico di cui è stata iniziata la Causa di beatificazione e canonizzazione. Il postulatore, appositamente nominato (ad esempio dall’istituto religioso, ndr), raccoglie documenti e testimonianze che possano aiutare a ricostruire la vita e la santità del soggetto. La prima fase inizia, quindi, con l’apertura ufficiale di un’inchiesta in diocesi e il candidato viene definito servo di Dio.
Occorre dimostrare che la persona ha praticato le virtù a un livello molto elevato, superiore alla media. La ricostruzione viene fatta seguendo due piste: ascoltando le testimonianze orali delle persone che lo hanno conosciuto e possono raccontare con precisione fatti, eventi, parole; raccogliendo i documenti e gli scritti riguardanti il servo di Dio.
Tutte le informazioni vengono raccolte e poi sigillate nel corso di una sessione di chiusura, presieduta dal vescovo della diocesi coinvolta.
Fase romana
A questo punto si chiude la «fase diocesana» dell’inchiesta e tutto il materiale viene consegnato a Roma al Dicastero delle cause dei santi che, tramite un suo relatore, guiderà il postulatore (persona incaricata di istruire il processo di beatificazione prima e di canonizzazione poi, ndr) nella preparazione della Positio, cioè del volume che sintetizza le prove raccolte in diocesi. È la cosiddetta «fase romana» del processo. La Positio deve dimostrare con sicurezza la vita, le virtù o il martirio e la relativa fama del servo di Dio. Studiata da un gruppo di consulenti teologi del dicastero, è poi sottoposta al giudizio dei vescovi e cardinali membri del dicastero. Al giudizio positivo, il Papa autorizza la promulgazione del decreto sull’eroicità delle virtù, sul martirio del servo di Dio, o sull’offerta della vita, che così diviene venerabile.
Dalla tappa intermedia alla canonizzazione
La beatificazione è la tappa intermedia, in vista della canonizzazione. Se il candidato viene dichiarato martire, diventa subito beato, altrimenti è necessario che venga riconosciuto un miracolo, dovuto alla sua intercessione.
Questo evento miracoloso in genere è una guarigione ritenuta scientificamente inspiegabile, giudicata tale da una commissione medica. Importante, ai fini del riconoscimento, è che la guarigione sia completa e duratura, in molti casi anche rapida. Sul miracolo si pronunciano anche i vescovi e cardinali, e il Papa autorizza il decreto. Il venerabile può essere beatificato.
La fase successiva è la canonizzazione. Si deve attribuire al beato l’intercessione efficace in un secondo miracolo avvenuto in un momento successivo alla beatificazione.
Per stabilire chi è santo, quindi, la Chiesa utilizza sempre un accertamento canonico: se in passato si poteva diventare santi semplicemente per acclamazione popolare, da vari secoli esistono norme specifiche, per evitare confusioni e abusi. Il postulatore è incaricato di dimostrare la santità del candidato, mentre dall’altro lato, il promotore della fede, verifica testimonianze e documenti.
A esito positivo, è poi il Papa che autorizza la promulgazione del Decreto sul miracolo accertato e fissa la data di canonizzazione.
M.B.
Hanno firmato il dossier
Francesco Pavese
Missionario della Consolata (02/04/1930-3/5/2020), con un dottorato in diritto canonico svolse la sua missione come formatore. Postulatore generale dal 2002 al 2012, a lui si devono svariati testi di approfondimento sugli aspetti teologici e spirituali di Giuseppe Allamano.
Jonah Mulwa Makau
Missionario della Consolata keniano, è stato responsabile del Cam a Torino, missionario in Tanzania come formatore, da due anni è a Roma nell’ufficio storico.
Si ringraziano
Le missionarie e i missionari che hanno partecipato con il loro contributo per l’articolo «Un albero gigantesco». Giacomo Mazzotti, postulatore generale. Gigi Anataloni, per l’archivio fotografico. Suor Alessandra Pulina e suor Stefania Raspo per la collaborazione.
A cura di
Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.
Cina. Cent’anni dal concilio cattolico di Shanghai
Ripensare alla storia del cattolicesimo in Cina guardando alla figura del cardinale Celso Costantini (1876-1958), l’uomo che nel 1924, da Delegato apostolico in Cina, su incarico di Papa Pio XI, riunì nella città di Shanghai tutti i vicari e i leader cattolici allora presenti nel Paese, presiedendo il primo «Concilio plenario della Cina», o Primum concilium sinense, come amano citarlo gli studiosi, è un esercizio utile per riflettere sulle sfide e sulle prospettive odierne della Chiesa cattolica nel Celeste impero, in una cornice internazionale profondamente mutata.
Nelle scorse settimane si sono coinvolti in questo impegno numerosi accademici di atenei di Europa e d’Oriente, studiosi, vescovi ed esperti, in tre convegni di carattere internazionale: uno a Milano (il 20 maggio, all’Università Cattolica del Sacro Cuore); uno in Vaticano (il 21 maggio, all’Università Urbaniana); un terzo a Macao tra il 26 e il 29 giugno.
Punto di partenza della riflessione è stato il centenario di quel Concilio di Shanghai che aprì la via dell’indigenizzazione della Chiesa cattolica cinese (si iniziò cioè ad affidare la guida della comunità al clero locale) e dell’inculturazione (esprimendo la fede attraverso forme culturali tipiche delle tradizioni cinesi).
Una convinzione ha accomunato tutti gli studiosi e i leader cattolici intervenuti – della Cina continentale, come l’arcivescovo di Shanghai, Joseph Shen bin, e della Santa Sede, come i cardinali Pietro Parolin e Louis Antonio Tagle -: il Concilio di Shanghai fu un momento cruciale nella storia della Chiesa in Cina, in primis perché i cattolici avrebbero potuto, da allora in poi, godere di maggiori responsabilità ecclesiali.
Quell’assemblea avviò il processo di «decolonizzazione» ecclesiastica della Chiesa locale, come si sarebbe visto con la consacrazione di sei vescovi cinesi a Roma nel 1926, i primi vescovi nativi consacrati per la Cina in quasi 250 anni di storia missionaria.
Dopo il Concilio, Costantini continuò a opporsi alle forze che cercavano di imporre tratti europei alla presenza cattolica in Estremo Oriente: ad esempio, rientrato in Italia nel 1933, da segretario della Congregazione di Propaganda Fide (oggi Dicastero per l’evangelizzazione), sostenne la traduzione del messale in cinese per aiutare i fedeli a comprendere la messa, che allora si celebrava solo in latino (il placet definitivo sarebbe arrivato nel 1949).
«Di fronte specialmente ai cinesi, ho creduto opportuno di non dover accreditare in alcun modo il sospetto che la religione cattolica apparisca come messa sotto tutela e, peggio ancora, come strumento politico al servizio delle nazioni europee», scriveva nei suoi memoriali il cardinale friulano, la cui personalità è possibile oggi conoscere tramite il volume Il cardinale Celso Costantini e la Cina. Costruttore di un ‘ponte’ tra Oriente e Occidente, curato per i tipi di Marcianum Press da Fabio Pighin, ordinario di Diritto canonico a Venezia e delegato episcopale per la causa di canonizzazione dello stesso Costantini.
Il punto di caduta di quella che è stata un’illuminante riflessione storica è stato l’evoluzione dei rapporti sino-vaticani e l’Accordo stipulato nel 2018 tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese. Infatti, come ha ricordato il cardinale Parolin nel convegno organizzato in Vaticano dall’Agenzia Fides, «l’azione missionaria e diplomatica di Costantini si fondava sulla necessità che la Santa Sede e le autorità cinesi instaurassero un dialogo diretto tra loro».
A quella necessità si ricollega, allora, l’Accordo attualmente in vigore, rinnovato per due volte nel 2020 e nel 2022, e che si attende possa essere convalidato per un ulteriore biennio. Accanto a quel patto, che garantisce il reciproco riconoscimento dei Presuli eletti – sanando ferite di un passato in cui potevano esserci vescovi nominati in modo unilaterale da Pechino -, Parolin ha ricordato che, sul piano dei rapporti diplomatici (tuttora inesistenti), la Santa Sede auspica di poter avere una presenza stabile in Cina, in un processo che parte dall’aumentare i contatti, per individuare in seguito la forma adatta, anche diversa da una nunziatura stabile.
La presenza della Consolata a Roraima ha una portata di livello storico. Nonostante questo, non riusciamo ancora ad averne una visione globale. Le fasi dell’evangelizzazione e le idee per il futuro.
La missione che i nostri due istituti dei missionari e delle missionarie hanno portato avanti a Roraima ha un valore enorme a livello storico. Si tratta del lavoro con gli Yanomami, i Wapichana, gli Ingarikó, i Wa-Wai e diversi altri.
Ne abbiamo parlato e scritto tanto, ma secondo me non abbiamo ancora la visione generale della profezia che è questa esperienza, sia per la storia del Brasile sia della missione stessa. Forse è la missione più completa che abbiamo realizzato.
Le fasi
Parlando di evangelizzazione in generale, la possiamo suddividere in tre fasi. Le prime due sono l’annuncio e l’adesione personale all’annuncio di chi lo riceve, ovvero il cammino di fede. La terza, che spesso manca, è il cambiamento sociale che la buona novella deve indurre. Il Vangelo, infatti, deve portare una rivoluzione sociale, un miglioramento della condizione umana.
A Roraima siamo riusciti ad andare avanti anche su questa terza fase e per questo la ritengo una missione completa.
Questa parte io la chiamo «cammino di liberazione». Anche questo percorso mi piace dividerlo in tre momenti. C’è il progetto di liberazione, ovvero il progetto di Dio, come quando chiedeva al suo popolo ebreo di uscire dall’Egitto e liberarsi dalla schiavitù.
Poi c’è la stabilità, una volta raggiunti gli obiettivi di liberazione del popolo: vuol dire che il cammino ha portato i suoi frutti.
Infine, l’ultimo passaggio: una volta arrivati alla terra promessa cosa si fa? Anche questa è una grande sfida.
Il cammino di liberazione
Applichiamo questo percorso a Roraima. Questo cammino è stato fondato su un progetto fatto insieme, missionari e missionarie con i capi dei vari gruppi indigeni. Un cammino che toccava non solo la promozione umana ma anche la spiritualità.
L’obiettivo era l’omologazione della terra (registrazione ufficiale di area protetta), ovvero gli indigeni avrebbero potuto dire «questa è casa nostra». E, sappiamo, la terra è davvero importante per i popoli indigeni. Fa parte dei diritti dell’uomo.
È stato un percorso di assemblee con i vari gruppi, con tutti i leader indigeni. Lo hanno chiamato «O la va, o la spacca». Ad esempio, hanno deciso che dovevano smettere di bere alcol. Se nella comunità qualcuno avesse bevuto, il missionario non l’avrebbe più seguita, non avrebbe più officiato battesimi e matrimoni, nulla, e la comunità sarebbe rimasta isolata.
Anche l’adesione ad alcuni progetti, come «Una vacca per l’indio», senza egoismi o protagonismi. Erano posizioni molto forti. Si creava un controllo sociale per portare avanti il cammino di liberazione. Questa era la prima forza di quel momento.
La seconda forza di questo primo periodo è stato il gruppo di missionari presenti. Erano molto uniti e solidali tra loro. Avevano tutti sposato la causa indigena, certo ognuno con la sua caratteristica, ma l’hanno portata avanti insieme. In una zona immensa come quella dove operavamo, se ci sono poche missioni isolate che portano avanti il progetto, si fa fatica. È l’unità d’intenti che fa parte dello stile di Giuseppe Allamano.
La terza forza è stata il metodo, ovvero il coinvolgimento diretto della gente e dei suoi leader.
In sintesi: progetto chiaro e condiviso; unità dei missionari che lo portano avanti; coinvolgimento della popolazione.
Un altro punto importante era che fosse un cammino in comunione con la chiesa locale. È vero che in quel periodo i missionari della Consolata erano anche la chiesa locale. Eravamo gli unici e avevamo anche il vescovo.
All’epoca i missionari hanno avuto anche un’altra intuizione. Si sono detti: «Finché la lotta resta interna, difficilmente saremo ascoltati, perché restiamo una minoranza. Dobbiamo portare questa lotta al mondo. In questo modo il governo riceverà pressioni dalla comunità internazionale». È il concetto di lobbying, che per quel tempo, gli anni 80, era una novità. Questo, talvolta, ha attirato critiche perché poteva sembrare segno di protagonismo. Ma occorreva uscire dal cortile, e in questo caso ha pagato.
La terra promessa
L’omologazione è stata raggiunta e i garimpeiros (minatori illegali, ndr) cacciati, almeno in un primo momento. E adesso? Il popolo ha raggiunto la terra promessa, si sono innescate delle nuove dinamiche. Ci sono quelli che si dimenticano il cammino di sofferenza fatto, arrivano altri che proprio non lo conoscono.
A livello delle persone, c’è chi ritorna a bere l’alcol, altri si mangiano tutte le vacche.
C’è una seconda questione: i missionari non sono più gli stessi. La maggioranza di quelli che si trovano a portare avanti la seconda fase del cammino di liberazione non sono quelli che lo hanno compiuto. Se non hai fatto il cammino è difficile poi vivere la liberazione.
Molti dei nuovi missionari arrivano da un altro continente, l’Africa, dove ci sono dimensioni di lotta diverse. Molti di loro sono alla prima esperienza missionaria e forse non hanno ancora chiaro cosa sia la missione.
Manca la memoria, e non è facile recuperarla dagli anziani.
Un nuovo percorso
Abbiamo iniziato a impostare un nuovo percorso, quando ancora ero superiore generale. La domanda di base era: «Con i missionari attuali come possiamo continuare ad accompagnare questo popolo nel proprio cammino di liberazione?».
Adesso a Roraima c’è una pluralità di situazioni. Ci sono molti missionari di altri istituti. Le priorità della diocesi sono cambiate: l’appoggio ai popoli indigeni non è più esclusivo.
Dalle ultime riunioni che abbiamo fatto a Roraima, sono state suggerite due azioni importanti.
La prima: costruire dei locali e valorizzare il Centro di documentazione indigena (realizzato negli anni da fratel Carlo Zacquini, ndr). Esso aiuta a recuperare la memoria, quindi prendere decisioni condivise da tutti e coinvolge la diocesi.
La seconda: partecipare – come semplici membri, non come responsabili -, ai movimenti indigeni nati per la difesa dei valori e delle conquiste fatte.
Provocazioni
Infine, voglio lanciare tre provocazioni. Quale preparazione occorre, come missionario, per condurre un popolo alla liberazione? Dopo gli studi, abbiamo gli strumenti e l’umiltà di metterci a camminare con la gente?
Il missionario, oggi più che mai, deve essere compagno di viaggio, colui che «condivide il pane con».
Il Vangelo deve avere una forza eversiva, cambiare la vita. Altrimenti che Vangelo è, se non porta vita migliore?
Stefano Camerlengo
Colombia. Al cuore dei poveri
In America Latina dal 1971, padre Ezio Roattino ha speso la sua vita tra i poveri e gli indigeni. In particolare in Colombia ha vissuto a fianco del popolo Nasa, imparandone la lingua, la cultura e la storia, inculturando il Vangelo.
Padre Ezio Roattino era un uomo di parte: le sue scelte, che viveva con perseveranza e responsabilità, gli hanno procurato non pochi conflitti che cercava sempre di risolvere appellandosi alla carità e alla misericordia, ma senza mai fare un passo indietro.
Alcuni indigeni che non sapevano pronunciare bene il suo nome a causa della zeta, invece di Ezio, dicevano «ecio», o direttamente «necio», che significa, fra le altre cose, testardo.
Forse, proprio per la chiarezza e consistenza delle sue convinzioni, un po’ necio in effetti lo era, ma sempre «ad maiorem Dei gloriam», come avrebbe detto Giuseppe Allamano – il fondatore della famiglia missionaria alla quale lui apparteneva -, o per il «servizio del Regno», che è lo stesso in termini più evangelici e un po’ più latinoamericani.
Perché di una cosa possiamo essere certi, l’America Latina e, in particolare, quella indigena, si era impossessata di lui, che l’ha amata fino all’ultimo dei suoi giorni, il 4 aprile 2024, quando aveva 87 anni e viveva in Italia da due anni, dove era dovuto tornare per accompagnare l’ultimo viaggio di sua sorella.
In una Chiesa missionaria
Quando aveva già superato i trent’anni e cominciava a essere forse un po’ stagionato per le piazze rivoluzionarie del ’68 – era prete da quattro anni ai tempi del maggio francese -, padre Ezio ha vissuto in prima persona proprio a Roma le novità e le speranze dei primi anni subito dopo il Concilio Vaticano II, e anche l’impegno che i Missionari della Consolata hanno profuso nel capitolo straordinario del 1969 per «aggiornare» l’istituto secondo i criteri del Concilio e del suo documento Ad Gentes che metteva in prima linea lo sforzo missionario della Chiesa.
Poveri e indigeni, primo e unico amore
In America latina, dove è arrivato per la prima volta nel 1971, all’età di 35 anni, Ezio ha imparato a vivere la sua «opción por los pobres» (opzione per i poveri) e l’ha fatto in un luogo particolarmente iconico in questo senso, la favela «Morro dos telegrafos» (familiarmente «Telegrafo») a Rio de Janeiro, a pochi passi dal grande stadio del Maracaná, in un contesto di povertà, violenza e ingiustizia. Lì è andato ad abitare, soffrendo non poche penalità, ricorda il suo confratello padre Claudio Fattor, ma fedele alle sue scelte di vita.
Da allora, quello che è stato il suo primo e forse unico amore, l’America povera e, un po’ più tardi, anche quella indigena, non l’ha abbandonato mai, nonostante lui, obbedendo agli ordini dei superiori, qualche volta abbia dovuto allontanarsi da essa per brevi periodi.
Guadalupe di secondo nome
Perché padre Ezio aveva come secondo nome Guadalupe? Nel suo certificato di battesimo c’era scritto Maria, solo che Maria, in America Latina, soprattutto per il mondo indigeno, si dice Guadalupe, in riferimento alla Vergine del famoso santuario di Città del Messico.
Lui ai piedi della guadalupana ha pregato e ci è stato in diverse occasioni. La prodigiosa immagine, secondo la tradizione, si era impressa nel 1531 sulla «tilma», il mantello, di Juan Diego Cuauhtlatoatzin, indigeno convertito al cattolicesimo, mentre stava sul Monte Tepeyac. Padre Ezio l’aveva studiata nei dettagli: le fattezze indie della Madonna, il suo vestito da nobildonna, la sua gravidanza intrisa di Vangelo, l’insuperabile saggio di inculturazione del Nican Mopohua, la narrazione degli eventi del Tepeyac in lingua náhuatl, facevano parte della sua quotidianità.
Dal Brasile alla Colombia
La povertà e le sfide sociali del Telegrafo per padre Ezio non sono state altro che il punto di partenza di un viaggio che, in diversi modi, l’ha portato lontano.
Forse ci sarebbero state buone ragioni per spendere la sua vita per la gente di quella favela di Rio de Janeiro: ancora oggi, infatti, essa continua a essere una zona franca, dominata dal narcotraffico e dalla piccola criminalità, dove la polizia entra solo se in forze e bene armata.
Eppure, padre Ezio ha ripreso il suo cammino missionario ed è sbarcato nella Colombia di fine anni Settanta, di nuovo in mezzo ai poveri, ma questa volta in una zona rurale, non più in una grande città come era Rio, prima fra i campesinos, i contadini, e poi fra gli indigeni.
La sua storia, il suo impegno, forse alcune circostanze un po’ misteriose o perfino provvidenziali, gli hanno aperto gli occhi sugli ultimi degli ultimi, i più poveri di tutti: i popoli autoctoni, quelli che, in cinque secoli, hanno pagato uno dei prezzi più alti della colonizzazione europea che ha fatto pochi ricchi e tante vittime.
Da padroni del continente, i popoli nativi delle Americhe in poche generazioni sono diventati gli ultimi, e ancora oggi stanno al margine della vita, della cultura e della storia dei loro paesi. Proprio loro che sono portatori di una vita, una cultura e una storia millenaria, la più antica del «continente nuovo».
Padre Alvaro Ulcué Chocué e la causa degli indigeni
Padre Ezio si è buttato a capofitto in questa sfida così squisitamente missionaria, e nel suo nome da allora è apparsa la parola «pal» che, nella lingua nasa yuwe, quella parlata dagli indigeni presso i quali sarebbe andato, significa «padre».
L’ha presa in prestito dal padre Álvaro Ulcué Chocué, il primo sacerdote indigeno colombiano che si firmava «Nasa pal», «padre Nasa», il nome della sua etnia nella lingua della comunità nella quale era nato, alla quale apparteneva e per la quale si era fatto ordinare sacerdote.
Padre Álvaro era originario del Nord del Cauca, la regione con la popolazione indigena più grande del Paese. Qui, per la prima volta in America Latina, gli indigeni avevano cominciato a organizzarsi politicamente, anche grazie al lavoro dello stesso padre Álvaro che aveva fondato, assieme alle suore di madre Laura, il «progetto Nasa».
Padre Álvaro ha finito per pagare con la vita il suo impegno: è stato assassinato il 10 novembre 1984. Padre Ezio Roattino era stato uno degli ultimi che lo avevano visto vivo.
Nei primi giorni di novembre lo aveva accompagnato nelle due parrocchie di Toribío e Tacueyó, dove padre Álvaro era parroco, per aiutarlo nelle celebrazioni dei defunti, importanti per la cultura indigena. Poi, la sera prima dell’omicidio, Álvaro aveva accompagnato padre Ezio in macchina fino al bus che l’avrebbe riportato a Bogotá. Quando Ezio è arrivato nella capitale, la notizia della morte dell’amico l’aveva preceduto: era stato freddato al mattino da vari colpi di pistola sulla porta di un convento di suore che lui era solito frequentare, sulla via panamericana che da Santander del Quilichao va verso Popayán.
Padre Ezio, quasi senza dire parola, ha ripreso il bus, ha fatto a ritroso le quasi dieci ore di viaggio ed è tornato nel Cauca.
Da quel momento la sua vita e, in parte, anche quella dei Missionari della Consolata in Colombia, hanno preso una piega nuova.
Padre Rinaldo Cogliati, allora al seminario teologico di Bogotá, ricorda quell’episodio in questi termini: «Padre Ezio aveva finito il suo mandato come superiore regionale un paio di mesi prima e, saputo dell’assassinio del padre Álvaro, aveva telefonato al seminario teologico e ci aveva chiesto di essere noi coloro che raccoglievano la sua bandiera. Fu così che aprimmo immediatamente a Toribío, anche se poi la parte burocratica ci ha visto presenti ufficialmente solo a partire dal 2 febbraio 1985, poco meno di tre mesi dopo la morte di padre Álvaro».
Imparando la lingua nasa
Appena ha potuto, anche padre Ezio si è aggiunto al progetto di evangelizzazione che aveva al centro l’annuncio della Buona notizia del Vangelo alle comunità autoctone che di notizie buone avevano drammaticamente bisogno dopo secoli di abbandono e schiavitù.
Padre Rinaldo ricorda questo periodo, che probabilmente è stato la tappa più fruttuosa e prolungata dell’impegno missionario di padre Ezio: «Io ho vissuto in missione con l’équipe nella zona di Toribío, Tacueyó, Jambaló e Caldono con padre Ezio dall’anno 1989 fino al 2007. Sono stati anni di molto dialogo, di tante difficoltà e anche di frequenti “liti” liturgiche. Uno dei nostri temi fondamentali era l’inculturazione del Vangelo, e siccome padre Ezio si era impegnato a studiare la lingua nasa, che alla fine aveva imparato benissimo, era lui che si era preso la briga di sedersi con pazienza assieme agli anziani, i veri capi spirituali degli indigeni, per capire il loro modo di vedere, e trovare insieme vie che fossero comprensibili e trasparenti per dire e annunciare in quel mondo indigeno che ci aveva accolti con tanta simpatia e generosità».
Anch’io, che a Toribío ho trascorso qualche anno, ricordo con simpatia, ad esempio, la seduta di mezz’ora con il più indigeno dei nostri catechisti, di nome Serafín, per stabilire come si dovesse tradurre in nasa yuwe il titolo del manuale dei catechisti che era «Camminiamo assieme». Mezz’ora per tradurre due parole.
Con il senno di poi, oggi so che non si trattava di due semplici parole, ma di una immersione profonda nel significato di «cammino» e di «assieme» che nella cosmovisione comunitaria degli indigeni avevano una valenza tutta particolare.
Poi c’è stato anche spazio per un «cafesito» («caffettino») e un «pancito» («panino»): i segni della giusta accoglienza nella casa dell’équipe che era e voleva essere anche la casa degli indigeni, come lo era dai tempi di padre Álvaro. Gli ultimi anni a Toribío, padre Ezio li ha dedicati alla traduzione del Vangelo nella lingua nasa yuwe, benché credo non sia andato molto più in là di quello di Marco.
La sua è stata, quindi, una vita dedicata a costruire spazi, pensiero, progetti, sogni, attività nelle quali la comunità Nasa si sentisse a casa e parte degna di quella comunità ancora più grande che chiamiamo Chiesa.
La violenza della guerra
Mentre padre Ezio, i missionari, i catechisti, le autorità indigene costruivano, e lo facevano con pazienza e amore, tutt’attorno c’era chi distruggeva. Il Nord del Cauca era, e in parte continua a essere, uno degli spazi più significativi di frizione e scontro fra Stato e ribelli nell’interminabile guerra civile colombiana farcita di narcotraffico. E anche con i violenti e con la guerra padre Ezio ha avuto molto a che fare.
Padre Rinaldo lo ricorda in questo modo: «Nel 2005, una mattina siamo in chiesa con gli animatori delle comunità, e comincia una sparatoria. Noi, pensando che sia una delle solite scaramucce armate, continuiamo la nostra preghiera. Alla fine entra un guerrigliero in chiesa, armato fino ai denti, e dice che abbiamo cinque minuti per scappare. Noi corriamo subito via e, appena usciti, un ordigno rudimentale cade nei pressi della casa parrocchiale e frantuma tutti i vetri. Il padre Ezio sale in macchina e comincia a evacuare le persone. Fuori dal finestrino la stola bianca indica il fine umanitario di tutto quell’andirivieni».
Oggi il cortile della casa parrocchiale è un museo, in buona parte voluto dal padre Ezio, che racconta e ricorda i fatti violenti che si sono scatenati attorno a esso. Nel corridoio laterale si trova l’asse di un pulmino carico di esplosivo che la guerriglia aveva scaraventato contro la caserma della polizia. L’esplosione era stata così violenta che il veicolo si era disintegrato facendo volare in aria quel notevole pezzo di metallo che era arrivato fino al cortile della parrocchia distruggendo una blocco di bagni. Per fortuna, in quel momento, non c’era nessuno. Attorno a questo «monumento» ci sono, scritti su sassi, i nomi di coloro che hanno perso la vita in quell’attacco.
Verso la «Tierra sin males»
La memoria per padre Ezio era importante. Non che lui avesse particolari doti artistiche, ma nella chiesa di Toribío si conserva una cappella laterale – che, in modo giocoso, noi avevamo chiamato «Roattina», per l’assonanza con la cappella Sistina – nella quale è dipinta la storia del popolo Nasa, con i personaggi centrali della sua emancipazione, padre Álvaro fra di loro. Egli mostra la mano, che è la prima rappresentazione del progetto Nasa, con le cinque dita a indicare i cinque progetti originali. Il primo è l’evangelizzazione indicata dal pollice, poi l’educazione, la salute, la famiglia/casa e lo sviluppo con progetti produttivi. Le altre immagini rappresentano la conquista, i grandi vescovi difensori degli indios, e la violenza che continua fino a oggi. Al centro, con il tabernacolo, «La tierra sin males», la terra senza mali.
Non l’ha dipinta padre Ezio, ma lui l’ha ideata, l’ha progettata fin nei minimi dettagli, poi si è procurato un giovane particolarmente dotato, e questi ha realizzato l’opera.
Un bellissimo murale sopravvissuto a più di un bombardamento.
Potremmo forse dire che è l’immagine plastica, la sintesi del sogno cristiano e umano di padre Ezio, anche lui oggi nella «tierra sin males», uno specchio del suo amore e della sua attenzione alla storia e alle storie di queste comunità etniche, ai loro «primi testamenti», come amava dire. Anche in questi Dio si è manifestato come aveva fatto nel primo testamento della storia del popolo ebraico.
Dall’alto di questa terra fiorita, lussureggiante e bella, «sin males» appunto, ancora oggi lui ci benedice e ci invita a camminare.
Gianantonio Sozzi
Gli indigeni nasa: «Ti ricorderemo sempre»
San Lorenzo de Caldono, 4 aprile 2024
La comunità Nasa del territorio UsWal Nasa Cxhab, si rammarica profondamente per la scomparsa del nostro fratello e missionario Ezio Guadalupe Roattino, che ha prestato servizio nella parrocchia di San Lorenzo de Caldono e ha lasciato in noi un segno indimenticabile.
È stato un sacerdote integerrimo che ha dimostrato il suo amore incondizionato per i più umili, difensore dei diritti delle persone più bisognose.
Durante la sua permanenza come missionario nel comune di Caldono Cauca, ha viaggiato in ogni angolo dei territori indigeni, ha imparato a parlare la lingua nasa yuwe e ha celebrato cerimonie religiose in lingua nasa. Si è sempre contraddistinto per la sua umiltà e il suo servizio agli altri.
Ora si è riunito al fratello Álvaro Ulcué Chocué Nasa Pal, con il quale aveva una bella amicizia e con il quale ha condiviso la vita sacerdotale nelle parrocchie del Cauca.
Dalla Riserva indigena di San Lorenzo de Caldono, Dipartimento di Cauca, Colombia, inviamo le nostre condoglianze alla sua famiglia in Italia e a tutta la comunità dei Missionari della Consolata.
Che possa tornare nel seno della Madre Terra. Invochiamo pace sulla sua tomba.
Ti ricorderemo sempre, Pal Ezio Guadalupe Roattino.
Comunità Nasa del territorio UsWal Nasa Cxhab Territorio ancestrale del popolo Nasa «sa’tama kiwe» resguardo indigeno San Lorenzo de Caldono
Toribío, Cauca, 5 aprile 2024
Cari familiari e amici di padre Ezio Roattino.
È con grande dolore e profonda commozione che vi scriviamo per condividere i nostri sentimenti per la morte di padre Ezio, pilastro fondamentale della nostra comunità toribiana e fonte d’ispirazione per tutti noi.
Padre Ezio era un esempio vivente di amore, compassione e dedizione alla nostra comunità.
La sua instancabile dedizione al servizio degli altri e il suo profondo impegno nei confronti dei principi della nostra fede hanno lasciato un segno indelebile nei nostri cuori e nelle nostre vite.
In questo momento di dolore e tristezza, ci riuniamo come comunità per sostenerci reciprocamente. Ricordiamo con affetto i momenti condivisi con padre Ezio e celebriamo la sua vita esemplare, la sua saggezza e il suo amore infinito per tutti noi, la famiglia che lo ha accolto tre decenni fa e, come disse padre Ezio: «Questo anello sulla mia mano sinistra dimostra che mi sono sposato. Mi sono sposato con una causa e quella causa sono gli indigeni colombiani».
Toribío sarà sempre un popolo grato per la benedizione di avere avuto un fratello maggiore missionario indigeno.
Grato perché padre Ezio ha accompagnato padre Álvaro Ulcué Chocué – fino a quel 10 novembre 1984 in cui lo salutò – nei territori più colpiti dal conflitto nel nostro dipartimento, percorrendoli insieme, a piedi e con la torcia in mano.
Grato perché padre Ezio ha imparato e padroneggiato la nostra lingua, il nasa yuwe, perché ha legato con i nostri anziani, in questa terra che, pur non avendolo visto nascere, lo ha adottato come se fosse stato un figlio del suo grembo.
Grato perché padre Ezio ha innalzato le vostre preghiere nella nostra lingua madre.
Inviamo le nostre più sentite condoglianze alla famiglia e ai cari di padre Ezio, e offriamo le nostre preghiere e i nostri pensieri in questo momento difficile: possiate trovare conforto nei ricordi condivisi e nell’eredità duratura di padre Ezio.
Che Dio e gli spiriti di madre natura ci concedano forza e pace in questo periodo di lutto, e che lo spirito di padre Ezio continui a ispirarci e a guidarci nel nostro cammino spirituale e nella tregua della guerra.
Con profondo amore, gratitudine e solidarietà.
Associazione dei consigli indigeni di Toribío, Tacueyó e San Francisco.
Dieci anni fa, il 27 gennaio 2014, il missionario della Consolata argentino José Luis Ponce De León «prendeva possesso» della diocesi di Manzini nel regno dello Swaziland, oggi eSwatini, proprio il giorno in cui si celebravano i 100 anni dell’inizio della evangelizzazione in quel piccolo paese immerso nel Sudafrica.
Raccontaci del tuo cammino come vescovo».
«Sono arrivato in Sudafrica dall’Argentina, mio Paese natale, nel 1994. Ero poco più che trentenne. Sono stato nelle parrocchie di Damesfontein, Piet Retief e Madadeni, e dal 1999-2004 superiore delegato dei Missionari della Consolata. Finito questo compito nel 2005 sono diventato parroco a Daveyton (Johannesburg). Da lì mi hanno inviato al capitolo generale della Consolata in Brasile e nel 2006 mi hanno chiamato a Roma, come segretario della Direzione generale dell’Istituto e procuratore presso la Santa Sede.
Non so se sia perché mi ero fatto un po’ conoscere in Vaticano o per la mia esperienza sudafricana, ma nel mese di novembre del 2008 sono stato nominato vicario apostolico di Ingwavuma (un vicariato apostolico del Sudafrica che era senza vescovo da tre anni). Da lì è cominciata la mia avventura.
Avevo tre mesi di tempo per organizzare l’ordinazione e l’entrata canonica nel vicariato. Ho però dovuto chiedere una dispensa perché a Ingwavuma nei primi mesi dell’anno è estate e fa davvero troppo caldo per poter fare una celebrazione «impegnativa» come un’ordinazione. Quindi questa è stata fatta il 18 aprile del 2009.
Ad ogni modo c’è un ricordo bello del mio ingresso nel vicariato ancora prima di essere ordinato. Era il 29 gennaio, anniversario della nostra fondazione come Missionari della Consolata, quando con padre Ze (José) Martins, che era venuto a prendermi all’aeroporto, abbiamo attraversato la frontiera di quella che sarebbe stata la mia terra, la mia missione, il vicariato. Assieme abbiamo fatto una preghiera al beato Allamano per benedire quell’impresa che era cominciata. Ingwavuma è un territorio molto bello, prossimo all’Oceano Indiano, immediatamente a sud del Mozambico e est dello Swaziland, oggi eSwatini».
Com’è avvenuto il tuo spostamento a Manzini, nell’unica diocesi cattolica del regno di eSwatini?
«È successo che il mio predecessore in eSwatini è morto improvvisamente all’età di 67 anni.
Evidentemente nessuno se l’aspettava e quindi a Roma hanno pensato bene di nominarmi amministratore della diocesi rimasta senza pastore.
Geograficamente, anche se una frontiera ci divideva, non eravamo lontani. Poi anche la lingua Siswati è molto vicina allo Zulu che è la lingua con la quale si celebra e si educa nei due territori, quindi molto conosciuta.
Bisogna comunque dire con chiarezza che eSwatini e il Sudafrica non sono la stessa cosa. Tutta la storia di apartheid e di violenza del Sudafrica non sono conosciute a eSwatini. Se in Sudafrica come bianco desti subito sospetti circolando fuori dalle zone dove dovresti stare, non succede lo stesso in eSwatini. Lì invece risulta strano se ti scoprono a girare da solo, non perché sei bianco, ma perché sei vescovo, e nella loro mentalità il vescovo va con la macchina e con l’autista.
Insomma, in poco tempo mi sono trovato a essere responsabile di due diocesi in due nazioni diverse. Ricordo che in una comunità cristiana una signora aveva detto che sarebbe stato perfetto se fossi rimasto per sempre a eSwatini perché loro erano contenti e non volevano che me ne andassi. La mia risposta era stata che un vescovo si sposa con una diocesi e che mia moglie era Ingwavuma. La sua risposta era stata lapidaria: “Monsignore, noi siamo una cultura poligama… se puoi avere tutte le donne che vuoi, non vedo perché un vescovo non possa avere tutte le diocesi che voglia”. Alla fine, è andata proprio così. In eSwatini sono stato prima amministratore, poi sono diventato vescovo titolare e sono diventato amministratore di Ingwavuma… insomma, il mio momento di poligamia l’ho anche avuto, aveva ragione la signora».
E come ti sei trovato nella nuova diocesi, tra l’altro unico vescovo cattolico?
«È vero, sono l’unico vescovo cattolico ma non sono solo. Unico in eSwatini, ma ben accompagnato dalla conferenza episcopale che riunisce i vescovi di tre paesi (Sudafrica, eSwatini e Botswana), e anche da un organismo nato nel 1976, il Consiglio delle chiese cristiane, che riunisce tredici Chiese che operano in eSwatini e che da quell’anno, ad esempio per affrontare assieme l’emergenza dei rifugiati provenienti dal Sudafrica dell’apartheid e dal Mozambico durante la guerra civile. Quando la violenza è arrivata anche in eSwatini nel 2021 (vedi MC gennaio 2023) questa solidarietà episcopale ed ecumenica è stata importantissima. Il Consiglio delle chiese è rispettato, ascoltato, indipendente. Insieme abbiamo sempre insistito riguardo la necessità di un dialogo nazionale che ci permetta di discernere insieme il nostro futuro. Come ho scritto in passato, c’è una situazione nella quale alcuni hanno tutto e si sentono sicuri e altri si domandano come fare per avere il minimo necessario per sopravvivere. E noi siamo pastori di tutti loro».
Cosa è successo nel 2021?
«Nel mese di maggio del 2021 è stato trovato barbaramente ucciso un giovane universitario. Tutti i sospetti ricadevano sulla polizia e la celebrazione del suo funerale è stata carica di rabbia e di tensione. I giovani, in modo particolare, hanno cominciato a presentare le loro aspettative ai rappresentanti eletti in Parlamento. A un certo punto il Primo ministro in carica (in realtà l’acting Prime minister – colui che fa la funzione di primo ministro) ha deciso di fermare la protesta.
Noi, Consiglio delle Chiese, abbiamo chiesto un incontro con il Governo e lo stesso giorno che siamo stati ricevuti sono scoppiata incontrollate e violente la rabbia, la frustrazione, la ribellione soprattutto dei giovani.
ESwatini ha sempre avuto un buon sistema educativo, anche dal Sudafrica molti sono venuti a studiare da noi nel tempo della segregazione razziale. Eppure, tutti questi giovani studenti sanno che almeno la metà di loro non troverà un lavoro. Come avere speranza riguardo il futuro? Come pensare a far nascere la propria famiglia?».
Che chiesa hai trovato quando sei arrivato in eSwatini?
«Una chiesa cristiana con radici profonde anche se frantumata in miriadi di sette. È presto detto: i cattolici, che sono la chiesa più numerosa, non superano il 5% della popolazione.
L’evangelizzazione di questo Paese è stata intrapresa dai Servi di Maria italiani che arrivarono, lo scoprii quando mi caddero fra le mani i tre volumi della storia della loro missione in questo territorio, nel 1914. Dopo di loro arrivarono i Salesiani, ma con un solo centro, poi nessun altro per più di 60 anni. Nel frattempo, la missione era diventata Prefettura apostolica il 19 aprile 1923.
Quando arrivai a eSwatini, senza saperlo, ero alle porte della celebrazione del centenario dall’inizio della missione. Abbiamo quindi cercato di rendere solenne la celebrazione perché bisognava riconoscere il grande lavoro fatto, che ha dato consistenza alle parrocchie e alle comunità cristiane. Sto parlando di 17 parrocchie e 120 comunità ben organizzate.
Una delle cose che feci al principio, per poter vedere la mia Chiesa non con gli occhi del vescovo ma con gli occhi dei miei sacerdoti, è stata quella di andare a celebrare l’eucaristia domenicale nelle diverse cappelle senza mai avvisare prima la comunità. Lo facevo con la complicità dei sacerdoti che mi hanno sempre assecondato. Ho trovato celebrazioni nutrite, partecipate, comunità accoglienti e cordiali anche se qualche volta un po’ sorprese di vedere questo nuovo sacerdote che le visitava».
E adesso hai chiamato in diocesi anche i Missionari della Consolata?
«Mi sembrava doveroso farlo. Ricordo di aver scritto una lettera al capitolo generale dell’istituto del 2017 nella quale parlavo di noi come l’ultima nata e riconoscevo il servizio carismatico e lo stile della mia stessa comunità nei giovani missionari arrivati un anno prima.
I missionari della regione del Sudafrica si erano già mossi, e devo ringraziare Dio non solo per la presenza ma per lo stile “consolatino” di lavorare, sempre vicini alle persone.
Quando sono arrivati, ho affidato loro una nuova parrocchia ricavata da quella della cattedrale. Ricordo che una comunità espressamente aveva chiesto di non essere separata dall’anteriore parrocchia, che loro stavano bene così com’erano. Io ai missionari che erano arrivati non avevo detto niente, avevo solo chiesto di cominciare la visita, casa per casa, delle famiglie. Forse è stata una fortunata coincidenza, ma loro, senza sapere niente, hanno cominciato precisamente dal settore che non li voleva. I cristiani non erano abituati a vedere i sacerdoti a casa loro e si sono subito affezionati e gli stessi che non volevano stare nella nuova parrocchia, poco tempo dopo e pubblicamente, hanno fatto sapere che quella era la parrocchia dove stavano meglio».
Che sfide hai davanti?
«Non vedo una riflessione su quello che è successo nel 2021. Vedo più la tentazione di pensare che sia stato il problema di un piccolo gruppo e che non ci sia più bisogno di parlarne. Infatti, la nazione sembra sia tornata a una situazione di calma nella quale nessuno parla più di quello che è successo due anni fa.
Io ho sempre visto questo come chi ha un dolore nel corpo: se non capisce da dove arriva, può prendere un calmante ma il problema rimane. Il tempo ci permetterà di capire di più.
Poi a livello ecclesiale penso che l’esperienza del Covid, dalla quale siamo appena usciti, ha lasciato anche molti insegnamenti. Nel caso nostro, le chiese sono ancora piene, ma la vita parrocchiale gira troppo attorno alla figura del sacerdote. Nei prossimi anni avremo anche delle nuove ordinazioni ma poi da quattro anni nessun seminarista è entrato in seminario.
Papa Francesco vuole una Chiesa più sinodale, con maggiore partecipazione e presenza di ministeri e questa è una sfida che non possiamo non raccogliere.
Quando papa Francesco pochi anni fa ha voluto celebrare uno speciale mese missionario, noi abbiamo celebrato tutto un anno missionario. Poi abbiamo creato un sistema online per raccogliere le preoccupazioni, i sogni, i desideri delle persone… e abbiamo ricevuto dei riscontri che non possiamo lasciare cadere».
Questo è quindi un anno speciale.
«Sono dieci anni che sono vescovo di Manzini. Sono stato nominato 29 novembre 2013 ma fatto l’ingresso il 26 gennaio 2014 in occasione del centenario dell’arrivo dei primi missionari Osm, ordine dei Servi di Maria, detti anche Serviti, avvenuto il 27 gennaio 1914. Mai nella mia vita sono rimasto così a lungo in un posto. Sono anche 110 anni dell’arrivo dei primi missionari cattolici. Vorrei fosse un anno giubilare per la nostra diocesi che ci permetta – nello spirito del cammino sinodale – guardare insieme dove siamo arrivati e come rispondere alle sfide del presente».
Cosa ne pensi del sinodo?
«Quando papa Francesco ha annunciato un sinodo sulla sinodalità, l’ho accolto come un momento provvidenziale per la nostra diocesi. Quando nel 2019, abbiamo celebrato un intero anno missionario, di fatto non l’abbiamo mai chiuso a causa delle normative Covid-19. Quell’anno, all’insegna del motto «battezzati e inviati» (ancora oggi molto vivo), la nostra diocesi vide realizzarsi una serie di iniziative.
Sotto il Covid-19, ad esempio, i nostri social media si sono sviluppati e sono oggi il principale strumento di comunicazione tra di noi. Ci sono circa 1.500 persone sul nostro Whatsapp diocesano e molte altre ci seguono in particolare su Facebook.
Il cammino sinodale ha sfidato la nostra diocesi ad aprire spazi di “ascolto” alla gente. La nostra gente è abituata ad “ascoltare” il vescovo e i sacerdoti, ma difficilmente chiede spazi per parlare. Abbiamo preparato sondaggi cartacei e online, in inglese e in Siswati. La prima indagine si è occupata in particolare dei nostri punti di forza e di debolezza, con chi camminiamo e chi ci lasciamo alle spalle. La seconda si è occupata della liturgia: le nostre celebrazioni, le omelie, i ministri laici (condurre le funzioni senza sacerdote, i ministri dell’Eucarestia, i lettori).
È stato durante il primo sondaggio che abbiamo notato che molte persone parlavano delle difficoltà dei nostri giovani, in particolare dopo il Covid-19. Abbiamo deciso di continuare il cammino sinodale affrontando questa sfida. A febbraio del 2022 abbiamo avuto una sessione in cui quattro giovani (di diverse fasce d’età), provenienti da ciascuna delle 17 parrocchie, si sono riuniti e hanno risposto ad alcune domande sulle loro gioie e difficoltà. Il Consiglio pastorale diocesano si è riunito contemporaneamente in un’altra sala. Li tenevamo separati per paura che i giovani non si sentissero liberi in presenza degli «anziani». Poi, li abbiamo riuniti per condividere le loro risposte.
Un processo simile è stato fatto in ogni parrocchia. Poi, alla fine dell’anno, abbiamo chiesto a tutti i consigli parrocchiali di riflettere sul modo in cui noi, la Chiesa, dovremmo affrontare la situazione politica. Ho chiesto loro di individuare azioni concrete da intraprendere a livello locale (e non di dirmi cosa avrei dovuto fare). Solo tre parrocchie hanno risposto condividendo ciò che era stato detto, su ciò che si era deciso di fare e se era stato fatto o meno (e perché). Le persone partecipano, ma alle attività, meno alla riflessione. C’è bisogno di creare spazi di dialogo e di far dialogare.
Il nostro piano è quello di sviluppare “club per la pace” e “gruppi di Laudato si’” in ogni parrocchia (non è ancora chiaro se si tratterà di due cose diverse o dello stesso gruppo)».
Cosa sperate da questo anno giubilare?
«Celebrando i 110 anni dell’arrivo dei primi missionari cattolici e il decimo anniversario del mio insediamento, la nostra diocesi avrà un anno giubilare da gennaio a novembre.
Sarà un’opportunità per continuare il nostro cammino sinodale e celebrare il primo congresso delle scuole cattoliche (riflettendo sull’identità cattolica delle nostre 60 scuole).
Vogliamo poi sviluppare i “club per la pace” e i “gruppi Laudato si’” in ogni parrocchia.
Inoltre, dare forma a iniziative di cui si è parlato più volte, come lo sportello della famiglia (attuando iniziative di preparazione al matrimonio tenendo conto delle questioni culturali e del sostegno alle coppie dopo il matrimonio). C’è poi lo sportello della salute (coordinando il lavoro del nostro ospedale, delle cliniche, dell’hospice, degli infermieri parrocchiali, dell’équipe di consulenti traumatologici, ecc.).
Importante è anche il rilancio di Caritas eSwatini (l’ufficio nazionale della Caritas che coordinerà il lavoro delle 17 Caritas parrocchiali).
Sarà un anno nel quale daremo fondamento alle cose che vogliamo continuare in futuro e, naturalmente, un anno di rinnovamento personale e familiare. Il (possibile) motto «Lazzaro, vieni fuori», sarà una chiamata a una nuova vita in Gesù coinvolgendo ogni aspetto della nostra vita personale, familiare e ecclesiale.
I Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946, in Canada l’anno seguente. La loro attività ha conosciuto anni d’oro, ma anche una fase di declino. Oggi i gruppi missionari dei due paesi del Nord America si sono uniti al Messico per affrontare assieme una nuova sfida, difficile ma entusiasmante.
Il Vangelo di Matteo – «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (28,9) – e il Vangelo di Marco – «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (16,16) – testimoniano che i primi discepoli di Gesù di Nazareth erano consapevoli di aver ricevuto dal Risorto il mandato di andare ad annunciare la sua parola in tutto il mondo.
Se questa evangelizzazione rimase confinata negli ambienti ebraici fin dai primi anni, san Paolo sentì il dovere di portare la buona notizia ai pagani: in Rm 1,1 si presenta come un «apostolo messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio». Gli Atti degli Apostoli raccontano i viaggi missionari di Paolo in Turchia, Grecia, Roma, e forse in Spagna. Nella sua lettera ai Galati, capitolo 2, Paolo spiega che Pietro fu mandato ai Giudei, mentre lui stesso fu mandato ai Gentili.
Questa epopea missionaria ebbe un tale successo che, all’inizio del IV secolo, l’intero impero romano sarebbe diventato cristiano e per secoli le comunità cristiane avrebbero creduto che il loro mandato missionario fosse completo e il Vangelo fosse stato annunciato a tutte le nazioni.
Il mondo è più grande
Fu nel XV e XVI secolo che ci si rese conto di quanto, oltre i limiti dell’Occidente, ci fosse ancora una moltitudine di esseri umani da raggiungere. In questa consapevolezza, ebbe un ruolo importante l’uomo che sarebbe diventato patrono delle missioni, San Francesco Saverio, il primo missionario gesuita e il primo missionario in Giappone.
I missionari iniziarono, quindi, a unirsi ai conquistadores portoghesi e spagnoli nella loro ricerca di nuove rotte verso l’Asia. Quando poi si comprese che la terra è rotonda e che la strada può prendere anche la direzione verso Ovest, i missionari accompagnarono i colonizzatori – soprattutto portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi – che si stabilirono nelle Americhe.
Ciò provocò una querelle che oggi è difficile da comprendere: la cosiddetta «disputa di Valladolid» tra Juan de Sepulveda (1490-1573) e Bartolomé de Las Casas (1484-1566).
Il primo riteneva che gli amerindi non fossero esseri umani e, di conseguenza, non ci si dovesse preoccupare delle loro anime e che potessero essere considerati come bestiame o schiavi; il secondo, al contrario, credeva che anch’essi fossero esseri umani con un’anima e, quindi, era necessario predicare loro il Vangelo perché potessero essere salvati.
In ogni caso, durante il primo secolo di colonizzazione delle Americhe, gli studiosi stimano che quasi il 90% degli indigeni scomparì, principalmente a causa di malattie contagiose portate dai coloni europei, ma anche a causa della violenza.
Evangelizzazione dal Sud al Nord America
Gradualmente, le Chiese cristiane costituirono comunità in tutta l’America con coloni provenienti dall’Europa.
In America Latina, nel XVI secolo, le comunità cristiane fondarono varie città: Buenos Aires nel 1536, Rio de Janeiro nel 1565, Cartagena (Colombia) nel 1533 e Quito nel 1534.
In Nord America, il cristianesimo prese piede con gli espolratori europei. Già nel 1524 l’italiano Giovanni da Verrazzano arrivò nei pressi di New York, che venne però fondata soltanto nel 1609 dagli olandesi che le diedero il nome di New Amsterdam.
L’evangelizzazione di questa parte delle Americhe fu opera dei missionari spagnoli in California, di quelli anglicani negli Stati Uniti e dei francesi in Canada. Tra i primi si ricorda Junipero Serra (1713-1784), un francescano che papa Francesco ha dichiarato santo il 23 settembre del 2015.
Nel 1534, l’esploratore francese Jacques Cartier (1491-1557) scoprì il fiume San Lorenzo. Fu però solo nel 1608 che ci fu il primo insediamento permanente – Québec (Ville de Québec) – per merito di un altro esploratore transalpino, Samuel de Champlain (1567-1635). Ciò che Champlain cercava era un pied-à-terre per acquistare le pellicce portate dagli indiani. Lo stesso obiettivo del commercio può essere visto come motivo della fondazione nel 1634 di una seconda città sulle rive del San Lorenzo, Trois-Rivières.
Québec fu la città dove operò la mistica francese Marie Guyart (Marie de l’Incarnation, 1599-1635, proclamata santa nel 2014). Santo è anche il suo primo vescovo, François de Montmorency-Laval (1623-1708). La sua diocesi copriva praticamente tutto il Nord America. Diversa è la storia della fondazione di Montréal, nata sotto il nome di Ville Marie (oggi quartiere della città canadese noto come Old Montréal, ndr), come missione presso gli aborigeni. Questo è il motivo per cui molti dei suoi fondatori sono stati riconosciuti beati o santi.
Popoli indigeni e martiri
I primi sacerdoti vennero per prendersi cura dei nuovi coloni. Tuttavia, molto presto i gesuiti e i recolletti (della famiglia francescana, ndr) iniziarono a voler evangelizzare gli aborigeni della Nuova Francia (nome di una vasta area del Nord America colonizzata dai francesi, ndr). Ebbero un certo successo con gli Uroni, ma penetrarono molto poco tra gli Irochesi, dove visse la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680), la cui tomba si trova nella piccola chiesa all’interno della riserva di Kahnawake, appena a sud ovest di Montréal.
Il conflitto tra Irochesi e Uroni fece vittime anche tra i missionari. Tra il 1642 ed il 1649, otto missionari di origine francese subirono il martirio: sei sacerdoti gesuiti (Isaac Jogues, Antoine Daniel, Jean de Brébeuf, Gabriel Lallemant, Charles Garnier, Noël Chabanel) e due coadiutori laici (René Goupil e Jean de La Lande). Tutti furono dichiarati santi nel 1930.
Secondo Statistics Canada, dei quasi due milioni di aborigeni censiti in Canada, circa la metà afferma di non avere alcuna affiliazione religiosa, mentre poco più della metà sono cattolici. E qui si apre una questione delicata. Come ha dimostrato la «Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione» nel suo rapporto finale del 2015, i missionari, specialmente attraverso le «scuole residenziali» (scuole per indigeni; ne scriveremo in un futuro dossier, ndr) hanno collaborato a un «genocidio culturale», che avvelena ancora le relazioni tra le diverse comunità indigene e il resto del Canada, comprese le Chiese.
In The History of Québec Catholicism, lo storico Jean Hamelin parla di «colonialismo spirituale» e di «ambiguità dell’attività missionaria»: «Le missioni sono presentate come una questione di orgoglio nazionale».
Dopo la sconfitta francese nella battaglia delle pianure di Abramo nel 1759, i canadesi francesi sopravvissero raggruppandosi attorno alla Chiesa cattolica per sfuggire ai tentativi di assimilazione ed eliminazione culturale da parte dei nuovi governanti inglesi.
È questa Chiesa franco canadese che diventò una delle Chiese più missionarie del mondo: a metà del XX secolo, il Québec, con più di cinquemila missionari (1 missionario ogni 1.120 cattolici), seguiva soltanto l’Irlanda (un missionario ogni 457 cattolici), l’Olanda (uno ogni 556) e il Belgio (uno ogni 1.050 cattolici).
I Missionari della Consolata
Fu in questo contesto che i Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946 e in Canada nel 1947.
Non sorprende quindi che i padri Bartolomeo Durando (1901-1992) negli Stati Uniti e Luigi Amadio (1916-2010) in Canada ebbiano avuto difficoltà a trovare vescovi disposti ad accoglierli nelle loro diocesi.
Alla fine, i primi Imc si stabilirono in California e in una riserva indiana in Ontario. I primi accettarono di lavorare nelle parrocchie, ma ben presto la congregazione si rese conto che ciò non corrispondeva agli obiettivi ricercati, che erano l’animazione vocazionale e missionaria e la raccolta di donazioni per le missioni.
A tal fine, negli anni Novanta, l’istituto si trasferì negli Stati Uniti orientali e nella provincia canadese del Québec. Negli Stati Uniti furono importanti anche le attività di formazione e specializzazione, non solo per sacerdoti e fratelli, ma anche per i laici disponibili a dedicare qualche anno alla missione. Venti americani e una dozzina di canadesi diventarono missionari Imc.
Gli anni d’oro
L’età d’oro dell’attività missionaria Imc in Nord America furono gli anni a cavallo tra il 1970 e il 1985.
C’erano allora più di cinquanta Imc negli Stati Uniti e più di trenta in Canada. Negli Stati Uniti venivano pubblicati nove periodici, mentre in Canada erano almeno quattro.
Tra il 1976 e il 1986, Notre Dame Hall, il nostro Centro di animazione missionario di Montréal, inviò 1,86 milioni di dollari in assistenza finanziaria a più di dodici paesi di missione. Solo nel 1979, negli Stati Uniti, 257 parrocchie in 46 diocesi furono visitate per le giornate missionarie, che raccolsero circa 200mila dollari per le missioni. E il settore dell’assistenza missionaria inviava circa 150mila dollari all’anno per tutti i tipi di progetti missionari. Una trentina di studenti di origine africana vennero a studiare negli Stati Uniti.
La reazione al declino
Il declino è avvenuto molto rapidamente: la vocazione è scomparsa completamente negli anni Novanta e in questi due paesi nordamericani il numero delle comunità è passato da quindici a solo due negli Stati Uniti, e i membri da 60 a una decina ora in due comunità: una nel New Jersey e una in California.
Anche in Canada ci sono due comunità, una a Toronto e la seconda a Montréal con otto missionari Imc, sempre più spesso di origine straniera.
Per rivitalizzare la presenza in Nord America, la Direzione generale dell’istituto ha unito le circoscrizioni di Canada e Stati Uniti con quella del Messico (paese nel quale l’istituto è entrato nel 2008) formando, quindi, un’unica delegazione religiosa. Nelle nuove missioni messicane operano attualmente otto missionari, distribuiti su due comunità: una a Guadalajara (stato di Jalisco) e un’altra a Tuxtla Gutiérres (nello stato meridionale del Chiapas, vicino al confine guatemalteco).
Jean Paré*
* Missionario della Consolata canadese (Montréal, 1945), dopo gli studi a Montréal, Torino, Roma e Parigi, padre Jean Paré ha insegnato in Canada, Congo Rd e Italia (Università Urbaniana) e lavorato come giornalista in riviste ed emittenti radio (Radio Canada e Radio Ville Marie). Oggi vive e lavora a Montréal.
Le riviste Imc di Canada e Stati Uniti
Anima missionaria
Sono la responsabile delle tre riviste che l’Istituto Missioni Consolata pubblica nel Nord America: Réveil missionnaire (Rm, per il Canada francese), Consolata missionaries (Cmc, per il Canada inglese) e Consolata missionaries US (Cmus, per gli Stati Uniti, in inglese). Oltre alla sottoscritta, il nostro comitato di redazione comprende un redattore laico, Domenic Cusmano (italiano), e un redattore religioso, padre Jean Paré. Il primo è giornalista per le due riviste inglesi, mentre il secondo firma alcuni articoli e scrive di spiritualità, giustizia nel mondo e dialogo interreligioso. A turno, facciamo (in verità, più in passato che attualmente) i cosiddetti viaggi missionari sul campo sia per raccogliere materiale giornalistico sulle varie comunità Imc nel mondo sia per vedere i progetti per i quali raccogliamo fondi.
Il comitato di redazione pianifica le tre pubblicazioni che presentano un contenuto quasi identico. In Canada escono sei numeri all’anno, e precisamente cinque riviste di 16 pagine e un calendario di 32 pagine. Gli Stati Uniti, invece, producono quattro numeri all’anno, cioè tre di 16 pagine e un calendario. La tiratura di ogni numero è tra le 3.500 e le 5.000 copie.
Le riviste sono un essenziale strumento di comunicazione tra i Missionari della Consolata e tutti i nostri amici e benefattori. Ci permettono, infatti, d’informare i lettori sulle attività della missione, sulle storie di successo e, naturalmente, sulle molte sfide che i missionari devono affrontare ovunque essi operino. L’obiettivo è anche quello di rendere i lettori consapevoli della situazione dei più poveri e di toccare la loro anima missionaria.
Ghislaine Crête
I capitoli generali della famiglia Consolata, in un cambiamento d’epoca
Tra l’8 maggio e il 24 giugno si sono tenuti i due capitoli generali dei missionari e delle missionarie della Consolata. Le due assemblee hanno avuto anche una due giorni in comune, il 3 e 4 giugno, durante la quale hanno partecipato in collegamento online anche diversi laici missionari della Consolata, che completano la famiglia Allamaniana.
Il capitolo generale si tiene ogni sei anni. È un’assemblea della durata di circa un mese, durante il quale i delegati o le delegate degli istituti, provenienti da tutto il mondo, si riuniscono e condividono riflessioni, bilanci e programmi.
Infine, l’assemblea dei capitolari elegge i nuovi consiglieri, il (o la) generale e il (o la) vice generale, che saranno le guide dei rispettivi istituti fino al 2029.
In questo periodo storico di cambiamenti rapidi e profondi, pensiamo che i prossimi sei anni saranno fondamentali per i due istituti fondati da Giuseppe Allamano. Abbiamo dunque ritenuto importante raccontare in un dossier, senza pretese di essere esaustivi, le linee principali emerse dai lavori.
Ma.Bel.
Essere fuoco che accende
Il nuovo superiore generale dei Missionari della Consolata.
Padre James Lengarin è nato a Maralal, in Kenya. È il nono successore di Giuseppe Allamano. Forte di un’esperienza come formatore in Italia e nel suo paese, negli ultimi sei anni è stato vice di padre Stefano Camerlengo, generale per due mandati. Abbiamo raccolto le sue prime impressioni.
Decimo superiore generale dei Missionari della Consolata, eletto il 14 giugno scorso, padre James Bhola Lengarin è nato nel 1971 a Maralal (Kenya). È il primo generale di origine africana.
Padre James, lei è stato per sei anni vice superiore generale. Che cosa si porta dietro da questa esperienza?
«Quando entriamo nell’istituto pensiamo di conoscerlo, però in questi sei anni ho visto davvero la realtà dell’Imc, visitando tantissime missioni, in diversi paesi. Ho constatato che in ogni paese la missione ha il suo approccio. Ho incontrato tanti missionari che non conoscevo. Ci si incontra con le persone, si scambiano le impressioni e le esperienze, e questo ci fa innamorare ancora di più del carisma. Come diceva Giuseppe Allamano, lo spirito di famiglia è una cosa reale e concreta. Si condivide, si pensa, si sogna insieme.
Anche l’incontro con i popoli che accolgono i miei confratelli è stato importante. Lavorano e pregano con loro, iniziano a prendersi delle responsabilità nella chiesa, e sono stimolati a conoscere la nostra famiglia missionaria. E questo ti fa innamorare del genere umano».
Viviamo in un cambiamento di epoca. Quali sono le novità principali decise nel capitolo per affrontare i prossimi anni?
«Ci sono cambiamenti a tutti i livelli. Abbiamo fatto un’analisi delle sfide del mondo di oggi, sia quello esterno che quello interno all’istituto. Abbiamo deciso che è importante accettare di rinnovarci, e per farlo occorre una formazione continua. È una dimensione che ognuno di noi deve avere e che tocca tutto l’arco della vita. La formazione ci serve per non vivere di rendita. È come una rinascita che possiamo vivere anche andando a cercare nel nostro carisma delle novità. Il carisma è sempre lo stesso, ma il modo di applicarlo e viverlo deve essere diverso a seconda dei tempi e delle generazioni.
Un altro aspetto che ci fa riflettere è quello dei cambiamenti di vocazione: ci sono alcuni missionari che escono dall’istituto: possiamo imparare dalle loro motivazioni, e capire cosa non sta funzionando. Le nostre costituzioni sono attuali per questi tempi o c’è qualcosa da cambiare?
Nel 2026 saranno cento anni dalla morte del nostro fondatore. Al capitolo ci siamo detti che oltre a celebrare, dobbiamo riflettere e rispondere a delle domande: chi era questo papà? Cosa ci dice oggi? Cosa ci ha lasciato? Cosa abbiamo fatto bene, cosa resta da fare?
Quale può essere il ruolo dei laici nel futuro dell’istituto?
«Abbiamo riflettuto sul coinvolgimento dei laici nella nostra vita quotidiana. Ne parliamo solo come appendice o sono parte integrante del nostro istituto? Sono la terza pietra (missionari, missionarie e laici), facendo riferimento al focolare tradizionale africano? Abbiamo analizzato quali sono le problematiche che emergono a vivere con loro.
Abbiamo previsto di fare un incontro internazionale dei laici, nel quale si parlerà delle esperienze che abbiamo avuto e di come valorizzarle e, in condivisione con loro, si rifletterà su come dare un’identità chiara e ufficiale ai laici della Consolata. Porteremo avanti questo processo nei prossimi sei anni.
Penso anche alla componente Imc rappresentata dai fratelli missionari della Consolata. La loro importanza e il fatto che oggi sono solo trentuno è un richiamo per noi a essere più attenti a promuovere la loro vocazione».
E quale collaborazione con le missionarie?
«Attualmente ci sono due incontri all’anno tra le direzioni generali per organizzare alcune attività da svolgere insieme. Ad esempio, alcuni momenti di condivisione sul nostro comune carisma. Poi è un fatto che la loro presenza è diminuita dove siamo attivi noi e viceversa.
Al di là di questo, si è parlato anche della necessaria collaborazione con altre congregazioni religiose. Importante in questo mondo che cambia».
Come vede la missione in Europa?
«In Europa è cambiata la nostra missione. Il continente è stato la terra di animazione missionaria e vocazionale, fin dall’inizio. Si presentava la missione al popolo, anche per ottenere aiuti spirituali e materiali. Adesso l’Europa è diventata terra di missione ad gentes. Anche la rivista è cambiata: parlava del mondo della missione alle persone in Italia. Ora di cosa parlate? Anche della missione qui. Inoltre il mondo è cambiato e ha bisogno di altri modi di comunicare, messaggi veloci e corti.
Un altro grande cambiamento è l’attenzione a non avere più strutture pesanti, perché non abbiamo più persone che le riempiono».
Ci dica, secondo lei, qual è un punto di forza e uno di debolezza dei Missionari della Consolata oggi.
«Come punto di forza direi che abbiamo un istituto stabile, che rispecchia quello che il fondatore voleva che fosse.
Dal 1960 siamo rimasti in modo costante a circa 900 missionari.
È forte perché, oltre agli anziani, abbiamo più del 50% che sono giovani. Infatti, i confratelli di origine africana sono 520, e sono in maggioranza giovani. È dal 1970 che si sono iniziate a cercare vocazioni in Africa, e c’è stato un boom. Abbiamo, inoltre, una grande diversità culturale. Dall’età di 22 anni, i nostri giovani nelle comunità formative stanno insieme ad altri giovani provenienti da tutto il mondo. L’interculturalità è un valore importante nella nostra società.
Come punto di debolezza, invece, direi l’accompagnamento dei missionari. Negli anni passati essi erano formati in Italia e conoscevano bene carisma e gli insegnamenti del fondatore, e dunque li trasmettevano bene a noi studenti africani. In seguito, la formazione è stata presa in mano da confratelli di altre culture, ed è mancato qualcosa nel passaggio delle conoscenze. Dal 2011 anche la leadership è cambiata, i primi africani hanno cominciato ad essere superiori regionali o delegati, e anche in questo forse è venuto a mancare qualcosa dello stile originario.
Un altro aspetto che vedo è questo: siamo in tante missioni che non sono più di ad gentes. Abbiamo presenze belle, di accompagnamento delle persone nella vita quotidiana, ma nel nostro carisma parliamo di andare verso i non cristiani. Dobbiamo allora definire bene cos’è l’ad gentes per noi. Prima si sapeva bene dove erano i non cristiani.
Le sfide che il mondo ci propone possono diventare opportunità per dei missionari che sognano e che offrono la loro vita per dare una risposta giusta».
Si aspettava di essere eletto superiore generale?
«Non ero pronto a questo. La prima cosa che ho fatto è stata cinque minuti di silenzio ma anche di pianto. Mi sono trovato in difficoltà quando mi hanno chiesto se avrei accettato.
Mi sono detto, faccio la mia parte, non sono da solo, ci sono i confratelli. Niente è impossibile, ci vuole il tempo affinché l’impossibile diventi possibile.
Io vengo da una etnia che non ha un re, ma ha capifamiglia che formano un consiglio degli anziani.
Secondo me per tutte le cose è necessario coinvolgere gli altri missionari nelle loro responsabilità, così tutti i membri dell’istituto partecipano con la loro vita e diventiamo un fuoco che accende gli altri fuochi (Lc 2,49)».
Marco Bello
Un’esperienza che ti cambia
Il XIV capitolo generale dei missionari della consolata
Innanzitutto, un richiamo alla memoria della storia, poi l’ascolto della presenza nei quattro continenti, una riflessione sul futuro, infine l’elezione della nuova direzione generale. Il tutto passando attraverso due giorni di riunione di «famiglia» con le sorelle e i laici. Il racconto di un giovane padre capitolare.
Dal 22 maggio al 24 giugno scorsi, come Missionari della Consolata ci siamo riuniti a Roma per il nostro quattordicesimo capitolo generale.
Già prima di arrivare in casa generalizia sentivamo di avere ricevuto una grazia a partecipare a un evento speciale, che, in qualche modo, avrebbe dato un orientamento al futuro del nostro istituto. Grati per la fiducia riposta in noi da coloro che ci avevano indicati come delegati per quest’importante assemblea, percepivamo anche la responsabilità del lavoro che ci accingevamo a compiere.
Uno dei primi atti del capitolo è stato la firma, da parte di ogni missionario, della dichiarazione con la quale ci si impegnava a far sì che ogni intervento, decisione e azione fossero orientati unicamente al bene dell’istituto.
Il pensiero andava ai capitoli precedenti, a partire da quello del 1922 nel quale, per la prima volta, dodici missionari si erano riuniti per eleggere il superiore generale. Undici voti erano per per Giuseppe Allamano e uno per Filippo Perlo. Il Fondatore aveva replicato: «Non è possibile, bisogna rifare, io sono ormai anziano e ci vuole un giovane per guidare l’istituto», ma padre Tommaso Gays era intervenuto: «Padre, possiamo ripetere quante volte vogliamo la votazione, il risultato non cambierà». Tali e tanti erano l’affetto, la stima, la riconoscenza dei missionari nei confronti del Fondatore che rieleggerlo come superiore generale era qualcosa di naturale e prorompente.
Il capitolo del 1969 fu uno dei più significativi di tutta la nostra storia, perché aveva il non facile compito di ripensare la missione a partire dai documenti e dallo spirito del Concilio Vaticano II. La realtà e la responsabilità del «popolo di Dio» diventavano sempre più importanti e suggerivano nuovi cammini di inculturazione e di vicinanza ai percorsi di lotta per l’indipendenza, sia civile che religiosa, che molti Paesi avevano appena compiuto o si trovavano ad affrontare.
A confronto con la storia
Di fronte alla grandezza dei missionari che ci hanno preceduto, a confronto con le loro iniziative e realizzazioni, veniva da pensare: «Chi siamo noi?». Ci siamo fatti coraggio sentendo che, da un lato, provenivamo da una storia di dedizione e di amore ai popoli e alla missione e che, dall’altro, il tratto di cammino che ci trovavamo a percorrere era affidato proprio a noi, con i nostri limiti e talenti.
Il momento attuale è infatti di grande delicatezza e importanza, dato che, come ricorda papa Francesco, non ci troviamo tanto di fronte a un’epoca di cambiamento, quanto a un cambiamento d’epoca. Le sfide sono numerose e impegnative, ma dalla capacità di affrontarle e di trovare una qualche soluzione dipende niente meno che la sopravvivenza della nostra specie sulla faccia della Terra. Noi capitolari sentivamo quindi più che mai necessario dare il meglio di noi, nella fraternità e semplicità.
La straordinarietà del momento era percepibile anche dai tanti messaggi di vicinanza, affetto e preghiera che provenivano dai missionari e dalle missionarie, dai laici, dagli amici, persino dal papa. Il clima tra di noi è stato subito d’intesa e di gioiosa collaborazione, per cui le paure di contrasti, difficoltà, momenti di stallo, sono presto svanite. I capitolari rappresentano in qualche modo l’intero istituto ed era dunque naturale che la maggioranza avesse origine africana. Nei momenti di preghiera, durante il canto, si sentiva la forza delle tradizioni che hanno sempre dato importanza alla musica e al canto corale, fatto di varie voci che, con potenza, si fondono in armonia.
In ascolto
I primi giorni del capitolo sono stati dedicati all’ascolto delle sfide del mondo, tramite l’intervento di alcuni esperti, e della nostra realtà d’istituto, attraverso le relazioni dei superiori e degli amministratori. Un capitolo dovrebbe aiutare a capire come rispondere alle esigenze che emergono dalla realtà sociale contemporanea e provare a dare alcune risposte ai problemi e alle difficoltà che l’istituto si trova ad affrontare.
Ci siamo resi conto che era necessario provare a riflettere su cosa sia l’ad gentes oggi, cioè come portare la «Buona notizia» a quelle persone e realtà che ne sono distanti. La salvaguardia del creato, la promozione di mentalità e atteggiamenti di pace, l’accoglienza della sensibilità delle donne, la vicinanza alla strada dei tanti migranti, l’ascolto dei giovani, la collaborazione con le chiese locali sono realtà in cui siamo chiamati a essere presenti e a portare una parola e un’azione capaci di costruire relazioni e condivisione.
Abbiamo trovato un istituto vivo e appassionato, che ha ancora voglia di camminare insieme ai popoli, ma qualche volta stanco, un po’ disilluso e incapace di continuare a immergersi in quegli ambienti sfidanti che costituiscono le frontiere della missione.
Accanto al desiderio di trovare nuovi stili di missione adatti all’oggi, abbiamo trovato anche nostalgia per il passato e resistenza al cambiamento, in contrasto con l’apertura alla novità caratteristica del nostro Fondatore. Lo studio della nostra storia, il ritorno al carisma, il contagio da parte della passione missionaria di tanti uomini e donne che ci hanno preceduto deve aiutarci a riprendere con rinnovato slancio la voglia di consumare la vita per costruire comunità e per aiutare altri a condurre con dignità il loro percorso esistenziale.
La multiculturalità che caratterizza l’istituto è sicuramente una ricchezza, ma necessita di cammini che trasformino «l’essere insieme» in un desiderio di collaborazione, di accettazione e valorizzazione delle diversità, di un impegno a vivere e lavorare in cordata. Siamo, infatti, chiamati a costruire un istituto che sia un vero riflesso del Regno di Dio, dove genti di ogni nazione, tribù, popolo e lingua (Ap 7,9) possano vivere e lavorare in armonia e fratellanza.
La Parola
Il testo biblico che ci ha ispirati durante i lavori capitolari è stato l’incontro di Filippo con l’Etiope funzionario della regina Candace (At 8,26-40). «Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: “Capisci quello che stai leggendo?”. Egli rispose: “E come potrei capire, se nessuno mi guida?”. E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: “Come una pecora egli fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, la sua discendenza chi potrà descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita”. Rivolgendosi a Filippo, l’eunuco disse: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?”».
Filippo non inizia a predicare, prima di tutto si fa compagno di viaggio e si mette in ascolto, poi fa una domanda e di conseguenza è invitato a salire sul carro e a spiegare il passo.
Ogni testo della Scrittura diventa significativo quando incontra la nostra realtà, quando lo sentiamo valido e vitale per la nostra condizione attuale. La domanda dell’Etiope mira proprio a questo: il testo biblico parla di un servo sofferente che è stato umiliato, ma al quale è promessa una grande discendenza, e anche l’Etiope, reso eunuco da chi l’ha voluto al servizio della regina Candace, vorrebbe con tutto se stesso essere fecondo, poter avere in qualche modo una discendenza. Filippo, parlandogli di Gesù, gli annuncia una speranza.
E noi? Riusciamo come singoli e come comunità a lasciarci plasmare dalla Scrittura e a «raccontarla» in modo che sia significativa per chi l’ascolta? «L’episodio dell’annuncio di Filippo all’eunuco ci incoraggia ad un cambiamento di direzione: dall’attesa all’uscita che porta ad ascoltare, a correre, a servire, a stare lungo la strada sporcandosi le mani e camminando con le persone. Anche noi siamo chiamati a essere Chiesa in uscita, a “sederci accanto”, ad accompagnare e poi a lasciar andare perché il Vangelo genera libertà».
Family workshop
Uno dei momenti più intensi di tutto il percorso capitolare è stato senza dubbio il fine settimana insieme alle suore e agli altri missionari, missionarie e laici collegati online. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, entrambi professori alla Cattolica di Milano, ci hanno presentato alcune riflessioni sugli atteggiamenti missionari più importanti per raggiungere i giovani che desiderano una Chiesa più aperta, autentica e accogliente; il cardinale Luis Antonio Tagle ci ha offerto un intervento appassionato e ricco di esperienze personali suggerendoci di lasciar perdere le «strategie» per preferire «l’alleanza» con la Parola, ma anche con le persone, che quando si sentono capite, accolte e valorizzate, danno il meglio di sé. I laici hanno fatto sentire con forza la loro voce e il loro desiderio di pensare, sognare e realizzare la missione insieme a noi.
Vicinanza nella distanza dunque, ma anche incontri, sorrisi, parole scambiate con un sentimento di reale fratellanza e sorellanza e con la voglia di pensare a un cammino congiunto da portare avanti insieme ai giovani, a un coinvolgimento più profondo nel mondo del digitale, insieme al desiderio di mettersi in ascolto del grido che i popoli e il pianeta fanno sentire, per tentare di abbozzare qualche riposta.
Da qualche tempo a questa parte si è inaugurato un modo nuovo di collaborazione tra missionari, missionarie e laici, in cui ci si interroga, alla pari, su come affrontare le sfide che la realtà pone e si prova a individuare, con l’apporto delle diverse sensibilità e competenze, alcune strade percorribili.
Molto è ancora il cammino da fare, perché non sempre si è preparati a questo tipo di collaborazioni, eppure è più che mai necessario procedere insieme se si desidera ancora essere significativi nella realtà contemporanea.
Votazioni
Uno dei tempi più attesi e preparati di tutto il capitolo è stato senza dubbio l’elezione del superiore generale e del suo consiglio. Fin dall’inizio e ancor prima, ci si interrogava su chi sarebbe potuta essere la persona più adatta per questa importante responsabilità. I lavori di gruppo, il pellegrinaggio ad Assisi, i momenti informali, oltre alle sessioni in plenaria, sono stati occasione per conoscersi nel modo di pensare, di lavorare, di affrontare i problemi e per confrontarsi sulla scelta da fare.
Il giorno antecedente alle elezioni è stato interamente dedicato alla preghiera e al discernimento, guidati dal preposito (superiore, ndr) generale della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal. Al termine del ritiro ci sono state le cosiddette mormorationes, momenti di dialogo a due in cui, con rispetto e realismo, ci siamo confrontati sull’opportunità di eleggere un dato missionario.
Questo capitolo ci ha riservato una sorpresa che tra l’altro era la cosa più naturale per la realtà di oggi: il primo superiore africano dell’istituto. Chissà se il Fondatore si era mai immaginato che qualcuno di coloro che avrebbero ricevuto l’annuncio, magari un pastore samburu sensibile, attento, intelligente, un giorno sarebbe diventato non solo cristiano e poi missionario e formatore, ma anche, dopo un lungo cammino, il superiore generale del suo istituto?
Alle radici
È stato significativo il viaggio a Torino che ci ha portati a contatto con la Casa Madre, con i nostri confratelli di Alpignano che, pur nell’anzianità e a volte nella sofferenza, portano nel cuore le persone, i popoli, i paesaggi in cui hanno speso i loro anni di missione e continuano ad accompagnarli con il pensiero e la preghiera. Incontrare missionari con cui si è lavorato o che sono stati di esempio per noi e stimolo nella missione è sempre un momento di grande intensità. Vederli così fragili e a volte sofferenti tocca nel profondo.
Spontanea scaturisce la riconoscenza per la loro vita spesa a servizio della missione e anche il proposito di recarsi qualche volta in più a trovarli, per farli sentire meno soli, ma anche per essere contagiati dalla passione per la missione che li ha portati fino a lì.
Il capitolo ha deciso che le famiglie dei missionari devono essere accompagnate di più, in modo particolare nei momenti di maggiore difficoltà.
Immancabile la celebrazione dell’eucarestia al Santuario della Consolata che è la culla in cui il nostro istituto è stato pensato, sognato e diretto per tanti anni da Giuseppe Allamano e dal suo fedele collaboratore Giacomo Camisassa.
Dopo un mese di lavori intensi, il capitolo è terminato. Quale sintesi? Innanzitutto è stato un tempo speciale che ci ha posti a contatto gli uni con gli altri e con le realtà più stimolanti e più problematiche della nostra famiglia consolatina e del mondo. Il documento conclusivo non propone nuove ricette missionarie, ma vuole aprire alcuni cammini che coinvolgano missionari, missionarie e laici e che ci portino ad approfondire il nostro ad gentes oggi e a pensare una formazione che prepari i giovani e poi accompagni i missionari a sentirsi in sintonia con le persone e le realtà all’interno delle quali siamo chiamati a offrire il nostro umile, ma significativo contributo.
Il sogno, che deve tramutarsi in realtà, è quello di un istituto che provi a fare di tutto per essere una comunità interculturale dove le differenze di pensiero e di stile non costituiscano occasione di divisione, ma di ricchezza, e che rinnovi la passione e l’impegno per offrire qualche proposta significativa a una realtà che, in mezzo a tante difficoltà, non smette di sentire il fascino della bellezza, anche spirituale.
Un primo frutto delle fatiche capitolari è senza dubbio l’amicizia che si è creata tra di noi e il cambiamento che la conoscenza delle realtà del nostro tempo e della nostra famiglia missionaria ci spinge a realizzare nelle nostre vite e nella
missione.
Piero Demaria
Vivere la missione in comunione
La nuova Madre generale delle Missionarie della Consolata
Suor Lucia Bortolomasi è nata a Susa (To). Ha fatto parte del primo gruppo che ha aperto in Mongolia nel 2003, mentre negli ultimi sei anni è stata nella direzione generale. È consapevole dei limiti del suo istituto, ma anche dei suoi punti di forza. Ci parla di carisma, di giovani e dell’importanza della «famiglia» della Consolata.
Suor Lucia Bortolomasi è nata nel 1965 a Susa, in provincia di Torino. È entrata nelle Missionarie della Consolata nel 1987 ed è partita per la missione in Mongolia nel 2003, nel primo gruppo, e vi è rimasta 14 anni. Negli ultimi sei anni è stata consigliera generale. Il 28 maggio scorso, durante il XII capitolo generale, è stata eletta superiora del suo istituto.
Suor Lucia, in un cambiamento di epoca, quale sono le nuove sfide per le Missionarie della Consolata e come affrontarle?
«Per noi il Capitolo è stato una benedizione e una grazia. Ci siamo trovate come famiglia, anche se stiamo diminuendo di numero, ma questo non ci ferma, perché abbiamo nel cuore la passione per la missione.
È stato un momento in cui abbiamo ripreso tutto il nostro cammino, abbiamo visto la presenza dell’oggi, dove siamo, come viviamo, con che stile, per proiettarci verso il futuro. C’è stata una riflessione sui tre temi: la missione, il carisma e le presenze.
Durante gli ultimi sei anni è stato elaborato il documento della Ratio missionis, approvato al capitolo. È un documento che ci ha dato una prospettiva ed è frutto di un lavoro collettivo. A partire da una bozza iniziale tutte le sorelle hanno potuto dare il loro apporto.
Il secondo tema trattava del tesoro del nostro carisma. Abbiamo discusso e approfondito su come ravvivare il carisma, datoci da Giuseppe Allamano.
Il terzo tema prevedeva il ridisegnare le presenze. In sintesi vuol dire chiudere dove c’è già la chiesa locale che può camminare, e non c’è più bisogno di una nostra presenza, e proiettarci invece su luoghi e in ambiti dove non c’è presenza di chiesa.
Durante il Capitolo abbiamo sentito un richiamo forte a vivere la grazia della piccolezza, una chimata che lo Spirito dirige a noi come istituto, oggi: un cammino che ci aiuta a non porre l’attenzione sulle nostre capacità, ma sulla fiducia in Dio. Non siamo nate per le grandi strutture o le grandi opere, non siamo state fondate per realizzare grandi progetti, siamo chiamate da Dio a prenderci cura della persona ad ascoltarla e annunciare l’amore di Dio.
Oltre a tutto questo, in maniera trasversale, abbiamo parlato molto di comunicazione. Ormai vediamo che è un aspetto importante, è come una missione. L’ambito della comunicazione è diventato una missione ad gentes, nel quale puoi raggiungere tante persone.
Abbiamo dunque deciso di realizzare un ufficio centrale della comunicazione. Esso raccoglierà tutti i nostri sforzi in questo ambito, e sarà come una presenza nel continente del mondo digitale».
Quante siete attualmente e che prospettive avete?
«Siamo circa 500, presenti in diciotto paesi. Le giovani in formazione provengono in maggioranza dall’Africa, qualcuna dall’America Latina, in questo momento ci sono 19 novizie.
Una delle priorità dell’istituto è la cura delle sorelle anziane e malate, che dopo anni dedicati alla missione, quando le forze vengono a mancare per età o salute, continuano a servirla nella preghiera, nell’adorazione eucaristica, nell’offerta della sofferenza, unendosi più intimamente all’opera redentrice di Cristo. Un’altra priorità è quella delle giovani generazioni, due realtà che in questo momento hanno bisogno di attenzione particolare per la vitalità della nostra famiglia. Sono le radici e i germogli. Siamo un’istituto in diminuzione numerica, un piccolo gruppo di sorelle, con una grande passione per Dio e per la missione nel cuore».
Come interessare il mondo dei giovani alla missione?
«Non lo so, però credo fortemente che se siamo fedeli al nostro carisma e viviamo con radicalità il Vangelo e lo testimoniamo con la nostra vita, sicuramente i giovani si porranno delle domande.
Anche durante il capitolo si è parlato del bisogno dei giovani, della loro sete di cose vere. Ci sono tante situazioni di fragilità, dove noi dobbiamo essere presenti per donare speranza».
Come vede la collaborazione tra uomini e donne della famiglia Consolata? E il ruolo dei laici?
«È un segno dei tempi, sorelle e fratelli che insieme testimoniano che è bello credere in un Dio che ama. Questo richiede rispetto e un grande desiderio di vivere la missione come famiglia unite ai nostri missionari e ai laici. Penso che ci sia la volontà di condividere e vivere la missione assieme. Un esempio è la Mongolia, un’apertura missionaria pensata e voluta dai due istituti generali, e poi vissuta insieme. La missione in Mongolia non sarebbe quello che è adesso se non fossimo stati insieme, se non avessimo, pensato, riflettuto, pregato e vissuto l’apostolato. È bello pensare a una missione vissuta in comunione e arricchita dalla presenza dei laici, di famiglie, che condividono lo stesso carisma. Il fondatore è unico, il carisma è unico, che cosa ci impedisce di sederci e riflettere per vivere la missione? La comunione sempre arricchisce.
Un’animazione missionaria fatta con femminile e maschile sarebbe una ricchezza. Più efficace. Spero che si possa andare avanti su questa strada, perché le possibilità ci sono e anche il desiderio».
La missione in Europa è diventata ad gentes?
«Per il nostro Istituto, l’Italia è la culla dove siamo nate: in Europa ci sono i luoghi della nostra spiritualità, il cuore del carisma, le radici dell’istituto. Sono luoghi sacri, un dono per tutti. Siamo chiamate a mantenerli vivi, a valorizzarne il significato.
L’Europa ci interpella anche a trovare nuove forme e stili nuovi di essere e fare missione oggi. Alcune presenze sono divenute spazi di consolazione e vicinanza per i migranti, le donne che vogliono spezzare le catene della tratta. Da poco abbiamo iniziato una presenza missionaria a Ruffano, in Puglia. Siamo in una parrocchia dove cerchiamo di sensibilizzare la Chiesa alla missione e ad avere un’attenzione particolari ai giovani e a chi ha bisogno di consolazione.
Vorrei sottolineare però che noi come Istituto, per rispondere al nostro carisma, siamo chiamate ad andare dove non c’è una presenza di Chiesa o dove ci sono popoli che ancora non hanno sentito parlare del Vangelo, di Gesù. Qui in Europa c’è una presenza di Chiesa molto valida, che può servire e donare; invece, ci sono parti del mondo che sono dimenticate, è lì il nostro posto».
Marco Bello
Il fuoco della missione
Reportage dal capitolo delle missionarie della consolata
Ventotto sorelle dai quattro continenti si sono riunite per un mese nella casa di Nepi (Viterbo). Hanno analizzato la presenza dell’istituto nel mondo e riflettuto sulle sfide della missione del futuro. Dal 1910, anno della fondazione, questo è il dodicesimo capitolo generale. Il racconto di una testimone d’eccezione.
Dall’8 maggio all’8 giugno 2023 si è svolto il XII Capitolo generale delle Suore Missionarie della Consolata dal titolo: «Il fuoco della missione».
Un fuoco in un braciere: questa immagine viva e scoppiettante ha accompagnato la preghiera iniziale della nostra assemblea capitolare, ed è rimasta impressa nei nostri occhi e cuori durante tutto il capitolo. Nei primi giorni il tema del fuoco è stato abbordato da diverse angolature: dal punto di vista biblico e spirituale ha alimentato la nostra preghiera personale e comunitaria. Ma perché questo simbolo?
La metafora del fuoco era usata dallo stesso nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che affermava energicamente: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». Fuoco come passione per Cristo e per l’umanità. E questa eredità carismatica ha letteralmente scaldato i cuori dell’incontro capitolare, che ha riaffermato la missione ad gentes come senso del nostro esistere nel mondo e nella Chiesa.
Lo spirito di corpo
Ventotto sorelle, di nove nazionalità e diverse generazioni, provenienti da quattro continenti: quello che a prima vista può sembrare un gruppo estremamente variegato, in realtà ha vissuto una profonda unione di cuore e di mente.
Lo «spirito di corpo» additato dal beato Allamano come ideale e modello di vita per la nostra famiglia missionaria, è stato percepito dalle capitolari come una realtà di corpo piccolo e unito, attorno al fuoco della missione, che è anche il fuoco del carisma. Una tale esperienza non può che essere un dono di Dio e dello Spirito Santo.
«Il capitolo è stato una benedizione – ricorda suor Getenesh, missionaria della Consolata etiope, formatrice delle giovani aspiranti missionarie in Etiopia – è stato un’esperienza bella di condivisione e di ascolto. Giunte da diversi continenti, e con esperienze molto differenti, tutte siamo arrivate a un’armonia e intesa particolari. Il capitolo è stato un’esperienza dello Spirito Vivente. Porto nel cuore tanta gratitudine a Dio, alla Consolata e al padre fondatore».
Per questo, in tutte noi sorelle, ricordando il capitolo appena vissuto, il cuore si colma di molta gratitudine e commozione.
I temi del capitolo
Il capitolo è un’assemblea che si tiene ogni sei anni, nella quale si valutano i cammini realizzati e si proiettano i cammini futuri. Inoltre, si elegge la nuova direzione generale dell’istituto.
Sono stati due i grandi temi in agenda, dai quali sono scaturite le linee guida e le priorità per il sessennio che inizia: l’approvazione della Ratio missionis, documento del diritto proprio dell’istituto, e il «Tesoro del carisma», sviluppato dall’intercapitolo (assemblea di preparazione del capitolo). Alla luce di questi due temi, si è riflettuto quindi sulle nostre presenze. La redazione di una Ratio missionis era stata indicata dal precedente capitolo 2017 come uno degli impegni del sessennio. La finalità di questo documento era raccogliere la ricchezza carismatica e i cammini compiuti nel primo secolo di vita della congregazione, e pensare alle linee guida della missione nell’oggi e nel futuro. Nel 2018 si è costituita un’equipe di cinque sorelle con diverse esperienze missionarie e competenze. Confrontandosi con esperti e rileggendo il vasto materiale prodotto sul tema della missione, l’équipe ha redatto una prima bozza, che è stata mandata a tutte le sorelle e a persone esterne, competenti sul tema. Gli apporti di grande qualità giunti all’équipe sono stati integrati in una seconda bozza, che è stata presentata all’assemblea capitolare 2023.
Nella Ratio missionis sono presentati i fondamenti della missione ad gentes, a livello biblico, teologico, ecclesiale, e carismatico. Segue una riflessione sugli elementi carismatici missionari che nel tempo si sono sviluppati nell’istituto, per poi tracciare linee guida per la missione del futuro.
Si tratta di un documento importante sia nella formazione delle nuove generazioni di Missionarie della Consolata, sia nella vita di ogni comunità e nello stile di missione che vogliamo vivere e assumere. Per questo, il sessennio che inizia avrà come uno dei suoi punti centrali il processo di appropriazione di questo documento.
Nelle motivazioni date dall’Assemblea capitolare sull’importanza di questo documento, troviamo che la Ratio missionis promuove una visione e una prassi comune di missione, per una sempre più profonda unità di intenti. Aiuta ad approfondire l’oggi e il futuro della missione, e a favorire un «cambio di rotta», dove necessario.
Il tesoro del carisma
L’altro grande tema del capitolo è stato il «Tesoro del carisma», che ha coinvolto tutte le Missionarie della Consolata in un percorso di riflessione e preghiera, e che ha avuto un momento centrale e significativo nell’intercapitolo del 2022. L’assemblea avrebbe dovuto riunirsi a metà sessennio, cioè nel 2020, per vivere un approccio/immersione nel carisma a livello esperienziale, storico ed ermeneutico. La pandemia e il lockdown mondiale hanno fatto rimandare in più occasioni questo incontro, che si è tenuto infine nei mesi di febbraio e marzo 2022.
Dall’Intercapitolo sono emersi elementi fondamentali del carisma, come raggi luminosi che scaturiscono da un nucleo carismatico. Più volte nel tempo del capitolo si è fatta memoria di questo evento molto forte, sia a livello personale, sia a livello di gruppo. Per il poco tempo intercorso tra i due momenti di istituto, non si è potuto realizzare un cammino che coinvolgesse tutta la congregazione, per questo motivo il Capitolo ha indicato il sessennio entrante come il «sessennio del carisma», un tempo benedetto da Dio per continuare ad approfondire e immergersi nel dono carismatico.
Ricorrenze importanti
Naturalmente, l’appropriazione della Ratio missionis e l’immersione nel carisma non sono elementi separati, bensì dimensioni intimamente intrecciate, a cui si uniscono anniversari importanti per la famiglia consolatina: a metà del sessennio, nel 2026, ricorrono i cento anni dalla morte del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei due istituti missionari della Consolata. Sarà un tempo propizio per cammini che coinvolgano tutta la famiglia: padri, fratelli, suore, laici e laiche, identificati con il carisma donato a noi e alla Chiesa dal beato Giuseppe Allamano. D’altra parte, non si tratta di un’iniziativa estemporanea, ma fa parte di un cammino iniziato da alcuni anni, come l’ evento di Murang’a 2 (cfr. MC ottobre 2022), vissuto in tempo di quarantena nel 2022, grazie alla tecnologia odierna, a cui hanno partecipato membri della famiglia consolatina da tutto il mondo, come pure il lavoro delle commissioni congiunte sul carisma, che hanno lavorato per diversi anni sia a livello generale, che a livello continentale.
Riflessione in famiglia
Il 3 e il 4 giugno, le due assemblee capitolari dei Missionari e delle Missionarie della Consolata si sono ritrovate a Roma per un momento di riflessione comune. Chiaramente si è ribadito il desiderio di cammini in comunione sia nello studio che nell’approfondimento del carisma che ci unisce. Non c’è occasione migliore per realizzarli: il centenario della morte del fondatore e (speriamo con tutto il cuore) la sua prossima canonizzazione, per la quale tutti stiamo pregando. I suggerimenti di iniziative sono numerosi, adesso spetta a ciascuno di noi trovare i modi e i tempi per realizzarli insieme.
Il carisma, la missione ad gentes: sono fuoco che arde nel cuore di ogni Missionaria della Consolata, non importa l’età, la provenienza o la missione che sta compiendo. Di questo non c’è dubbio, si percepisce forte nei momenti di condivisione e negli apporti dati da tutta la famiglia durante questi anni. Il capitolo ha riconosciuto questa vitalità, ma allo stesso tempo ha preso in mano la realtà attuale della congregazione: si tratta di una famiglia religiosa piccola e in diminuzione, dove le sorelle anziane sono numerose, ma dove fioriscono anche nuove vocazioni, specialmente nel continente africano.
I processi per ridisegnare le nostre presenze sono in corso già da molti anni, tenendo conto della realtà concreta delle comunità: nel sessennio concluso si sono costituite le Regioni Africa e America, unificando le circoscrizioni di ciascun continente, e ci siamo aperte alla missione nell’Asia centrale, in Kazakistan e in Kirghizistan, ma il cammino non è ancora terminato. La riflessione sulle nostre presenze, sul ridisegnare la geografia delle nostre comunità, è stato un tema toccato dal capitolo per un lungo tempo.
Il fuoco della missione, unito alla realtà attuale della congregazione, esigono un discernimento e scelte concrete.
Sorge nel cuore molta riconoscenza per le vite donate di tante sorelle, che adesso vivono la missione nell’offerta e consegna della loro vita e sofferenza, e sorge pure molta speranza per i «germogli» che spuntano sulla vite centenaria, che è il nostro istituto.
Continuiamo a vibrare per la chiamata della missione ad gentes. Ma come vivere questo tempo così particolare? La risposta data (o meglio, da darsi passo dopo passo) è accogliere e vivere la piccolezza.
La piccolezza: non è solo una realtà storica che stiamo vivendo oggi, è la risposta che, come famiglia religiosa, vogliamo dare e vivere in questo tempo. Una piccolezza che inizia dal cuore di ciascuna in relazione con Dio, che passa per la semplicità e l’umiltà. Una piccolezza che è uno stile di vita e di missione, dove la vicinanza alla gente e la relazione a tu per tu costituiscono il cuore dell’incontro e dell’evangelizzazione.
All’udienza con papa Francesco
Piazza San Pietro: mercoledì 7 giugno 2023. Arriviamo presto e ci mettiamo in fila, vicino al colonnato, per poter accedere ai posti riservati per l’udienza generale di papa Francesco. Si uniscono a noi anche i confratelli capitolari, e come gruppo ci presenteremo al Santo padre per un saluto. Dopo i dovuti controlli della polizia, ci rechiamo sul sagrato della basilica di San Pietro, e aspettiamo pazientemente – ma anche con molta emozione – l’arrivo del pontefice. Scorgiamo, vicino alla sedia del Papa, un’urna di legno. Alcune di noi la riconoscono: è l’urna che contiene le reliquie di Santa Teresina di Lisieux. Scopriamo che di fianco c’è anche un’altra teca, contenente i resti dei genitori di Santa Teresina, riconosciuti beati dalla Chiesa Cattolica.
Papa Francesco arriva in papamobile, saluta lungamente i pellegrini presenti in piazza, quindi, avvicinandosi alla sua postazione, si ferma alcuni istanti in preghiera. E poi inizia la sua catechesi con queste parole: «Sono qui davanti a noi le reliquie di santa Teresa di Gesù bambino, patrona universale delle missioni. È bello che ciò accada mentre stiamo riflettendo sulla passione per l’evangelizzazione, sullo zelo apostolico. Oggi, dunque, lasciamoci aiutare dalla testimonianza di santa Teresina. È patrona delle missioni, ma non è mai stata in missione: come si spiega, questo? Era una monaca carmelitana e la sua vita fu all’insegna della piccolezza e della debolezza: lei stessa si definiva “un piccolo granello di sabbia”».
Potete immaginare la nostra emozione e come queste parole sono arrivate dritte ai nostri cuori. Pura coincidenza? Non pensiamo. Il ricordo della via della piccolezza da parte del Papa è una chiara conferma dei cammini che il capitolo, in discernimento, indica a tutta la famiglia delle Missionarie della Consolata.
Una famiglia religiosa, per molti aspetti vulnerabile e fragile: la via della piccolezza è quella intuita ed intrapresa da Santa Teresina di Lisieux, e ricordata da papa Francesco nell’Udienza generale a cui abbiamo partecipato come capitolari Imc e Mc. Il Signore non solo conosce i nostri cammini, Lui li guida. E a Lui, alla Consolata e al padre Fondatore ci affidiamo per poter seguire unite, piccolo corpo, sulla strada della missione, e con il fuoco della missione dentro.
Stefania Raspo
Hanno firmato il dossier:
Stefania Raspo, suora missionaria della Consolata dal 2001, in Bolivia dal 2013. È anche redattrice della rivista Andare alla genti. È stata eletta consigliera generale nel capitolo.
Piero Demaria, missionario della Consolata dal 2003. Dopo aver lavorato in Mozambico e a Taiwan, si occupa ora di animazione missionaria in Italia. È stato uno dei delegati per l’Europa del XIV capitolo.
A cura di Marco Bello, giornalista, direttore editoriale MC.
Si ringrazia Suor Alessandra Pulina, direttrice di Andare alle genti, per la collaborazione.
Operatori di perdono
Nata in Colombia venti anni fa, in un contesto di guerra civile, la scuola di perdono e riconciliazione «Espere» oggi è diffusa in 20 paesi nel mondo. Anche in Portogallo, grazie a padre Albino Brás che l’ha sperimentata nei suoi anni di favela a Rio de Janeiro. In un tempo di conflitti a ogni livello, il perdono e la riconciliazione sono una strada di evangelizzazione.
I conflitti e la violenza sono all’ordine del giorno nella favela della parrocchia Nossa Senhora da Consolata a Rio de Janeiro. Per questo nel 2003, dopo sei anni di presenza sul territorio, padre Albino Brás decide di partecipare a un corso di «Espere» (Escuelas de perdón y reconciliación), la scuola di perdono e riconciliazione fondata in Colombia e poi diffusa in diversi paesi nel mondo dal confratello padre Leonel Narváez Gómez.
Il corso offre a padre Albino quegli strumenti che gli mancavano per dare corpo al desiderio di promuovere il perdono e la riconciliazione tra la sua gente. S’innamora a tal punto del metodo di Espere che, quando lascia il Brasile per il Portogallo, decide di farsene promotore anche nel suo paese di origine e in Europa.
Oggi afferma con convinzione che quella della risoluzione dei conflitti e della giustizia riparativa è una strada prioritaria di umanizzazione e missione.
In favela per la pace
«La mia prima destinazione è stata in Brasile. Sono arrivato lì il 17 maggio 1997», racconta padre Albino, nato il 15 agosto 1965 a Loureira, distretto di Leiria, regione centrale del Portogallo.
Ultimo di sei fratelli cresciuti in campagna in una famiglia umile, padre Albino è entrato in seminario a soli 13 anni, nel 1979, ed è stato ordinato nel 1996.
«Il lavoro pastorale in un contesto di favela è stato impegnativo. Come sacerdote appena ordinato, ho imparato lì il meglio del mio ministero e della mia vita missionaria. Ho lavorato molto in quegli anni nella pastorale delle favelas, nella dimensione socio caritativa, con i minori abbandonati, nella Commissione diocesana per i diritti umani, ma anche e soprattutto nell’ambito della spiritualità, della catechesi e dell’evangelizzazione.
Le sfide sono state molte. Ho vissuto momenti difficili, di persecuzione e violenza. Ma credo che sia proprio nelle situazioni di tensione che la Chiesa deve essere presente, anche correndo dei rischi, per promuovere la pace e il rispetto reciproco».
Una cultura del perdono
Padre Albino conosce il progetto Espere, nel 2003. «Padre Leonel ha tenuto una conferenza a Rio de Janeiro su violenza, conflitti, perdono e riconciliazione. Ero sensibile a questi temi, anche per la difficile realtà di Rio, e sono andato a seguirla. Poche settimane dopo ho fatto il corso.
Sebbene il progetto si chiami “scuola”, non è qualcosa di teorico: Espere offre un’esperienza di perdono e riconciliazione partendo dalla vita di ogni persona. Investendo nella creazione di una cultura del perdono, le Espere riparano la vittima e, allo stesso tempo, cercano il recupero dell’autore della violenza, a scapito di una giustizia meramente punitiva molto presente nelle società di oggi, anche in Europa.
Espere nasce dalla prospettiva non solo di sognare un mondo di pace, ma di lavorare concretamente per realizzarlo.
Mi è sempre stato detto che dovevo perdonare, ma mi mancava il “come”, e con Espere ho trovato gli strumenti, il processo, il metodo, per renderlo possibile.
Inoltre, Espere è in linea con il carisma dell’Imc e con il Vangelo della consolazione: perdono e riconciliazione, compassione e misericordia, amore e pace che derivano dall’esercizio della giustizia riparativa».
Subito dopo aver seguito il corso, padre Albino lo replica nella sua parrocchia. Le valutazioni dei partecipanti sono buone e il missionario si rende conto che produce trasformazione a livello personale, comunitario e sociale.
La missione in Portogallo
Il 14 gennaio 2005, padre Albino lascia il Brasile per il Portogallo.
Tra il 2005 e il 2012 sta nella comunità Imc di Fatima dove lavora nell’animazione missionaria e nella pastorale giovanile. È direttore nazionale del Segretariato Imc per la missione, coordina per sette anni il Corso di missiologia promosso dagli Istituti missionari ad gentes (Imag) e dalle Pontificie opere missionarie portoghesi. Fonda il gruppo Jmc (Giovani missionari della Consolata) che cresce negli anni.
«Sono stato poi in missione per quattro anni al Bairro do Zambujal, nel comune di Amadora, un sobborgo dell’area metropolitana di Lisbona – prosegue padre Albino -. Zambujal è un quartiere abitato principalmente da due gruppi etnici: africani e zingari. È stato molto impegnativo.
Nel 2016, poi, ho assunto la direzione di Fatima Missionária, la rivista fondata dai Missionari della Consolata in Portogallo quasi 70 anni fa. Dopo aver lasciato la direzione della rivista, oggi continuo a contribuire come collaboratore e lavoro anche nell’area della comunicazione dell’Imc in Portogallo, soprattutto nei media digitali.
Dalla fine del 2016 sono nella comunità Imc di Olivais, a Lisbona come superiore. Nell’aprile di quest’anno sono stato nominato Segretario dell’Imc Europa».
Espere a Zambujal
Domandiamo a padre Albino quando e perché ha ripreso in mano il programma di Espere nella sua terra di origine: «Ho sentito il bisogno di riprendere il progetto Espere quando mi trovavo nel Bairro do Zambujal, un quartiere periferico con molte tensioni tra le varie etnie.
Ho riunito un’équipe, abbiamo fatto formazione, tradotto materiali e programmato corsi.
Fino allo scoppio della pandemia da Covid-19 che ci ha costretti a fermarci, ne abbiamo tenuti nove. Il team nazionale era composto da undici facilitatori organizzati in due nuclei: Lisbona e Porto. Espere consiste in due moduli di alcuni incontri ciascuno: un modulo sul perdono e uno sulla riconciliazione».
Padre Albino è il primo a promuovere il progetto Espere in Portogallo, ampliando così la crescente Rete internazionale già presente in diciannove paesi.
Liberazione e guarigione
I destinatari dei corsi sono i più vari: gruppi parrocchiali, comunità religiose, «abbiamo ricevuto richieste anche dalla Spagna – prosegue padre Albino -. C’è un grande desiderio di applicare i corsi anche nelle carceri.
Nell’ultimo organizzato, quasi tutti i partecipanti erano coordinatori e volontari del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati (Jrs) la cui missione è “accompagnare, servire e difendere” i rifugiati, gli sfollati e tutti i migranti in situazioni di vulnerabilità.
È stato bello sapere che stavamo aiutando il processo di perdono e riconciliazione di tanti migranti. Spesso sono persone con ferite aperte, a volte rancori e risentimenti. Molti sono dovuti fuggire da guerre, persecuzioni religiose e politiche, tante situazioni avverse, tanto odio, ferite nel corpo e nell’anima che hanno bisogno di liberazione e di guarigione».
Spezzare la violenza
Oltre ai corsi, il missionario tiene diverse conferenze e interviste ai media nazionali. «Le persone mi confidano che l’approccio al tema del perdono e della riconciliazione porta molta novità nella loro vita. Si rendono conto che è la chiave per spezzare i circoli viziosi della violenza.
Sebbene questa metodologia sia nata in Colombia, in un contesto di “frontiera della violenza”, credo che essa sia necessaria anche per un paese come il Portogallo, e in un continente come l’Europa che, pur non avendo la guerriglia, vive altre forme di violenza: in famiglia, nella coppia, nelle scuole, al lavoro.
La via della convivenza, della fraternità e della comunione è una via che tutti dovremmo seguire, perché, quando perdoniamo, portiamo benefici a noi stessi prima ancora che alla persona che ci ha offesi.
I benefici del perdono non rimangono confinati nell’interiorità, ma hanno ripercussioni dirette anche sullo stato fisico di ciascuno. Papa Francesco dice che “il perdono è fonte di gioia, di salute, e chi non perdona si ammala fisicamente e mentalmente”. Oggi è noto che chi non perdona ha una maggiore tendenza ad ammalarsi.
Quando lo facciamo, interrompiamo questo ciclo. È un processo di guarigione personale e, a poco a poco, della società».
Il perdono evangelizza
Durante la pandemia il gruppo ha dovuto interrompere i corsi, perché la metodologia di Espere richiede la presenza fisica dei partecipanti. Padre Albino progetta di riprendere quest’anno, dopo l’estate.
Lui considera le Espere uno strumento privilegiato di evangelizzazione che l’Imc può utilizzare con frutto anche in Europa.
«Il perdono dei peccati è nel mandato missionario che Gesù dà agli apostoli. Fa parte della missione della Chiesa. E sarebbe una povertà se lo limitassimo al sacramento della Confessione.
Il perdono è un elemento della spiritualità umana. È un tema che sta acquisendo sempre più importanza anche in scienze come la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la biomedicina.
In questo momento abbiamo una guerra fratricida in Ucraina, nel mezzo dell’Europa. Ma tutto il mondo è assetato di processi di perdono e riconciliazione.
Tutti i conflitti, tutte le guerre esistono perché le persone, i gruppi, i capi delle nazioni, i Paesi, si lasciano intossicare dal veleno di rancori e risentimenti storici che li fanno degenerare nella violenza. Questo è ciò che sta accadendo oggi nella Russia di Putin: in questo momento la capitale mondiale del risentimento e dell’odio.
Mi chiedo: quale futuro sarà possibile, dopo questa guerra, in quei paesi? Saranno nemici per sempre, in una sorta di guerra fredda perenne e di pace marcia?
In Europa, con tutti i problemi che ho già sottolineato, abbiamo più che mai bisogno di mediatori, di operatori di pace. E i missionari dovrebbero essere specialisti in questo. Mediatori di conflitti, facilitatori di comunione.
Quali altre vie di missione può percorrere l’Imc in Europa?».
Missionari sulla soglia
Padre Albino, durante la nostra intervista ci ricorda il Progetto missionario che l’Imc ha scritto nel 2021 durante la Conferenza della Regione Europa: «È un progetto che ci invita ad approfondire il “cosa”, il “come” e il “dove” della nostra missione in questo continente. Il tutto, ovviamente, tenendo conto di chi sono i missionari delle nostre quasi 40 presenze europee. Le nostre comunità, colorate con le tonalità dell’interculturalità, rappresentano un valore aggiunto in un’Europa dove i temi dell’accoglienza, dell’unità nella diversità e, più in generale, della fraternità vengono minacciati ogni giorno di più.
Mi piace quando il Progetto missionario chiede a noi missionari in Europa di essere persone che stanno “sulla soglia”, capaci di leggere la complessità della realtà, disponibili ad abitare le periferie esistenziali e antropologiche, ad andare dove altri non vogliono o non possono, chiamati a “prenderci cura” del creato, della giustizia, della pace e della riconciliazione, consapevoli che è questo che ci rende missionari».
Europa, luogo di missione
«Non è una novità che l’Europa sia oggi un innegabile campo di missione – aggiunge ancora padre Albino -. Il nostro istituto ha fatto scelte teoriche e missionarie molto attraenti: lavorare nelle periferie esistenziali, con gli immigrati e i rifugiati, dentro una società edonistica, individualista e consumistica.
Ma ho l’impressione che ci manchino alcuni strumenti per lavorare in una prospettiva veramente missionaria. La società cambia velocemente, e i missionari non sempre si preparano per accompagnare il cambiamento.
È necessario sintonizzarsi con un mondo segnato dalla massificazione delle tecnologie, dalla pluralità di voci e pensieri potenziati dalle reti sociali, dalle fake news, dall’intelligenza artificiale.
Di fronte a queste realtà, la reazione più immediata di molti di noi può essere quella di chiudersi e dire: “Se la realtà è così, peggio per la realtà!”. E allora, rimanendo fuori, il Vangelo cessa di avere la possibilità di essere lievito nella pasta, nella società.
Per questo, penso e sostengo che dobbiamo migliorare i nostri metodi. Sì, perché molte volte individuiamo le cause missionarie ma poi non definiamo il metodo: il come, con quali strumenti, definendo il processo.
Posso dire che il successo di Espere nel mondo deriva proprio da questo: aver trovato una metodologia efficace, un processo con dei passi da seguire e un risultato da presentare.
E questo dovrebbe essere trasversale a tutte le cause, i progetti e gli impegni missionari in una realtà e in un continente missionariamente impegnativo come l’Europa.
L’evangelizzazione qui non sembra facile, ma credo che, nella fede in Cristo e nella potenza del nostro carisma allamaniano e consolatino, è possibile».
Luca Lorusso
Le scuole di perdono e riconciliazione
Le Scuole del perdono e della riconciliazione (Espere, Escuelas de Perdón y Reconciliación) sono un percorso pensato per aiutare persone offese da diversi tipi di violenza a guarire le ferite, trasformare la memoria, generare pratiche riparatrici e ritrovare la fiducia. Sono improntate a una metodologia pedagogica esperienziale e ludica che attiva nei partecipanti un processo personale di perdono e riconciliazione che permette loro di identificare e alleviare le conseguenze delle violenze subite nella vita e di ristabilire dei legami sani con se stessi e con la comunità, generando coesione sociale.
Il programma Espere ha una durata di 96 ore suddivise in dodici moduli, e si sviluppa in due fasi: quella dedicata al perdono e quella dedicata alla riconciliazione. I gruppi sono composti normalmente da 15-21 persone.
Le Espere, ideate da padre Leonel Narváez Gómez, missionario della Consolata colombiano, attuale presidente della Fundación para la Reconciliación nata il 13 marzo 2003, si sono diffuse in 19 paesi e hanno lavorato con più di 2 milioni di persone.
Negli anni, hanno ricevuto diversi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il Premio Unesco per l’educazione alla pace nel 2006.
Argentina. Meno populismo, più lavoro e responsabilità
Per anni ha operato negli Stati Uniti, in Venezuela e in Argentina, con un breve ma interessante intermezzo a Cuba. Ha visto democrazie e autocrazie, ricchezza e povertà. Le Americhe sono il suo cruccio ma anche il suo pane e per questo, a dispetto dell’età, padre Luigi – oggi in Italia per cure mediche – vuole tornarci.
È un classe 1936. Dunque, l’età c’è, ma lo spirito e l’intraprendenza sono molto più giovani di quanto non dica il dato anagrafico. Padre Luigi Inverardi, bresciano, Missionario della Consolata dal 1970, ha attraversato le Americhe da Nord a Sud: Stati Uniti, Venezuela, Argentina. «Sono stato alcuni mesi anche a Cuba», precisa prima di raccontarsi in un simpatico mix d’italiano e spagnolo. Lo incontriamo a Torino, ma è nelle Americhe che vuole tornare. «Però, vorrei trascorrere in Italia gli ultimi anni», chiosa con naturalezza.
Dagli Stati Uniti alla dittatura argentina
«Appena ordinato missionario, desideravo andare in Africa. Come tutti, in quel tempo. I superiori mi mandarono invece negli Stati Uniti. In pratica, nel luogo opposto per definizione. Tuttavia, negli Usa ho lavorato con entusiasmo sia nell’animazione missionaria che nel lavoro pastorale». Negli Usa padre Inverardi trascorre oltre vent’anni, divisi in due periodi, tra New York, California e Pennsylvania.
Nel 1977 arriva per la prima volta in Argentina, dove da un anno è al potere una giunta militare. Va a Tartagal, nella provincia di Salta, estremo nord del paese, ai confini con la Bolivia. «Era – ricorda – un tempo molto difficile, complicato, un tempo doloroso. Perché il Paese era retto da una dittatura. I militari combattevano l’opposizione di sinistra con persecuzioni, arresti e sparizioni di persone.
Finalmente, nell’ottobre del 1983, si tennero le elezioni che furono vinte dal partito radicale (di centrosinistra, ndr). Il primo presidente fu Raúl Ricardo Alfonsín. Era un uomo onesto, capace, intelligente, un uomo che conosceva bene la realtà argentina». Una realtà, però, difficile da governare, soprattutto a causa di una situazione economica esplosiva.
«Quando arrivai in Argentina già si parlava d’inflazione. Ho sperimentato cosa significa vivere con aumenti dei prezzi giornalieri. L’inflazione è il cancro della vita economica, il cancro del paese, ma i politici non fanno che litigare invece di affrontare la questione. Il presidente Alberto Fernández ha annunciato (lo scorso 21 aprile, ndr) che non si ripresenterà alle elezioni del prossimo ottobre, forse perché ha capito che la maggioranza della popolazione lo considera un incapace. Sono trascorsi quasi 50 anni, eppure nel 2023 il problema argentino rimane sempre lo stesso». Affermazione veritiera: l’inflazione supera il 102 per cento annuo (una delle più alte al mondo), la povertà interessa 17 milioni di persone (circa il 43 per cento della popolazione argentina).
Cuba e la libertà
Dopo la dissoluzione della giunta militare, padre Inverardi non fa in tempo a seguire il ritorno alla democrazia e le contorsioni economiche del paese latinoamericano perché viene destinato nuovamente negli Stati Uniti (1983-2000). Le scelte dei superiori gli offrono, quindi, l’opportunità di conoscere realtà sociali, politiche ed economiche molto diverse. E non occorre pregarlo per farsi raccontare la propria opinione.
«Tanto il populismo latinoamericano quanto il capitalismo nordamericano – spiega – hanno grandi difetti. Però, ragionando in base alle mie esperienze e al mio pensiero, io preferisco il capitalismo, anche se spesso è esasperato. Nel 1997 i superiori della Consolata del Nord America pensarono di aprire una missione a Cuba. Per questo mi mandarono in visita all’isola dove rimasi per cinque mesi. Quando vi arrivai, subito gli amici mi avvertirono: “Padre, non dica assolutamente niente contro Castro”. Ecco, per me è importante che l’uomo sia libero di pensare e dire ciò che pensa e non essere obbligato dal governo. Per questo preferisco il capitalismo, perché, nonostante i suoi problemi, ti dà la possibilità di gridare, di manifestare la tua opinione personale».
Il populismo è un’ideologia di sinistra
Forse per i molti anni trascorsi negli Usa, forse per la possibilità di fare un confronto in base alle proprie esperienze in luoghi tra loro molto diversi, forse semplicemente per avere idee diverse, padre Inverardi vede il populismo latinoamericano come una piaga assoluta e contesta le modalità in cui nei paesi dell’America latina è stata portata avanti la lotta alla povertà. Il missionario ritiene che esista soltanto un populismo di sinistra: «Non considero il populismo di destra un’ideologia assoluta com’è stato quello di Chávez e Castro e oggi quello di Ortega e Maduro».
Lui ha vissuto in Venezuela dal 2000 al 2005 negli anni in cui il Venezuela di Hugo Chávez era diventato uno spartiacque nella politica latinoamericana.
Il comandante Chávez ha diviso senza colori intermedi: in genere, o si amava o si odiava. Padre Inverardi non fa eccezione.
«Il populismo è un’ideologia che dice di aiutare i poveri, ma lo fa sempre nell’ottica di interessi particolari (di un partito, di un governo, ecc.) e non per migliorare. I populisti aiutano i poveri, perché, al momento delle elezioni, questi votino per loro. Per esempio, all’inizio della presidenza Chávez, i poveri erano molto aiutati. Allo stesso tempo, però, erano obbligati a partecipare alle riunioni, alle manifestazioni. Quando i poveri sono dominati, non si tratta di un vero aiuto».
«L’Argentina – aggiunge padre Inverardi – ha cercato di imitare le idee di Chávez. Quando Cristina (Fernández de Kirchner, ndr) ricevette il presidente del Venezuela (nel 2009 e nel 2011, ndr), lo accolse come se fosse il liberatore dell’America Latina. Fu un grave errore, perché un paese non può progredire senza diversificare le proprie alleanze. Per esempio, lo stesso Chávez criticava moltissimo gli Stati Uniti, ma allo stesso tempo vendeva a loro il petrolio del suo paese».
«Dopo cinque anni che stavo in Venezuela, io chiesi di essere trasferito altrove. Perché? Perché parlando con alcuni fanatici e con alcuni cristiani, capii che non si poteva dialogare con chi riteneva la Chiesa cattolica un avversario. Avevo lasciato il Nord America per portare un po’ di aiuto in Venezuela ma sentirmi accusare di essere un nemico del popolo per me fu una grave offesa. E così me ne andai».
Povertà e responsabilità
«In America Latina manca il concetto della famiglia. Ci sono famiglie composte da 7-8 bambini, ma chi è il padre? Non si sa. Spesso i padri sono due o tre. Gli uomini non si occupano molto dei figli che mettono al mondo e questo crea la povertà. Io dico che essa è data non dalla mancanza di cibo, ma dalla mancanza di responsabilità.
Sono convinto che l’uomo sia l’artefice della propria storia: con il lavoro e il sacrificio può migliorare. L’ho visto in California, dove ci sono molti latinoamericani. Oggi hanno una casa, una macchina».
La povertà prolifera anche tra i popoli indigeni. Rispetto ai quali padre Inverardi ha una propria idea. «A Tartagal, mia ultima sede, vivono vari gruppi di indigeni (Wichi, Guaraní, ma anche Qom-Tobas, Chané, Chorotes, ndr), ma ammetto di aver lavorato poco con essi. Io credo nel loro diritto di vivere la propria cultura. Allo stesso tempo, però, sono convinto che se essi vogliono progredire, dovrebbero assumere la cultura argentina. Non possono difendere unicamente la “loro” cultura. Ci vuole un equilibrio. Se pretendi (una casa, un lavoro), devi anche conoscere bene lo spagnolo, studiare, lavorare. Soltanto in questo modo si migliora». Padre Inverardi crede ciecamente nell’etica del lavoro. «Sì, credo nel lavoro. Ho visto in che modo il Nord America è progredito: con il lavoro. Non c’è alcun paese che possa migliorare senza lavoro. E in Argentina sarà così, se vogliono, perché è un paese con molte risorse. Diversamente, rimarrà il paese di oggi: la povertà di troppa gente e la ricchezza nelle mani di alcuni».
Per una fede senza ideologia
In tema di religione, nel continente americano sono nate e cresciute due interpretazioni del cristianesimo, nuove e contrapposte: nei paesi latinoamericani la teologia della liberazione, in Nord America le nuove chiese evangeliche. «La teologia della liberazione – spiega padre Inverardi – può essere un mezzo con il quale possiamo aiutare i popoli a crescere nella fede, a crescere nella libertà e responsabilità. Allo stesso tempo, dobbiamo avere dei limiti chiari. Non possiamo confondere quella teologia con il comunismo. La teologia della liberazione deve essere presentata sempre alla luce di Cristo. È Cristo che è il liberatore. È Cristo che ci guida. Per me, una teologia non può mai trasformarsi in una ideologia umana».
«In America Latina, molti si dicono cattolici, ma praticamente non conoscono molto di Cristo. Hanno una conoscenza superficiale della dottrina cristiana. Chiedono qualcosa. Le Chiese neoevangeliche offrono ciò che piace loro e per questo sono ritenute più vicine alla gente. È così che si spiegano i passaggi da una religione all’altra. Al contrario, la Chiesa cattolica non può dire unicamente quello che piace agli uomini, quello che essi vogliono ascoltare».
Il papa in Argentina?
Dal 2013, al Vaticano siede papa Francesco. Nei suoi dieci anni di pontificato il papa argentino non ha mai trovato modo di visitare il suo paese natale. Chiediamo una possibile spiegazione al nostro interlocutore. «Ci sono varie ragioni. Penso che la ragione fondamentale della sua mancata visita sia riconducibile al fatto di conoscere molto bene la complessa realtà politica dell’Argentina. Quando era cardinale di Buenos Aires, lui soffrì molto gli attacchi della politica. Oggi teme che il suo arrivo potrebbe creare dei problemi. Detto questo, a me personalmente farebbe molto piacere se si recasse in Argentina. Perché sono in tanti ad aspettarlo».
Il desiderio potrebbe essere presto realizzato: da poco, Francesco ha dichiarato (al quotidiano La Nación del 23 aprile 2023) di voler visitare il suo paese nel 2024. «Mi piace molto – continua il missionario – la semplicità di papa Francesco, la sua chiarezza e il suo pensiero teologico, la sua idea che la Chiesa debba essere una Chiesa povera. Tuttavia, allo stesso tempo, con alcuni suoi giudizi ha creato un po’ di confusione. Forse è la gente che non lo intende, però lui offre la possibilità di entrare in campi ambigui. Per esempio, sui temi dell’omosessualità e delle donne nella Chiesa».
Per concludere, chiediamo a padre Inverardi un giudizio sull’anima ambientalista di papa Francesco. «Mi è molto piaciuta la Laudato si’. Io credo nel progresso, ma esso è un autentico soltanto quando rispetta l’armonia della creazione. Quando questo non avviene, nascono i problemi».