Albania: Il call center dell’Europa


Durante la lunga dittatura comunista l’isolamento del paese era scalfito soltanto dalle televisioni commerciali italiane. L’italiano divenne la lingua straniera più parlata. Dopo l’arrivo (nel 1992) di un regime più democratico, l’Albania è rimasta un paese con molte contraddizioni ma in rapida crescita. Il sistema economico liberista e i bassi salari hanno attratto consistenti investimenti. Con l’Italia in prima fila.

Non c’è paese dove l’Italia sia più rilevante, eppure per la maggioranza degli italiani l’Albania rimane il più lontano dei posti vicini: un «Oriente sotto casa». Tra le due sponde adriatiche la storia ha pesato più della geografia. Nei due millenni dell’era cristiana, il navigatissimo canale d’Otranto ha funto anche da fossato culturale: di qui Roma, Rinascimento e capitalismo; di là Bisanzio, Impero Ottomano e comunismo. In tempo di Guerra fredda, l’Italia costituzionale fu ben lieta di scordare l’ex colonia mussoliniana. Paradosso dei paradossi, in quegli stessi anni le nostre Tv commerciali esercitarono un ineguagliabile potere fascinatorio sulle vittime del comunismo più isolato d’Europa. Frutto della contingenza internazionale, questa sorta di colonialismo involontario riuscì la fare ciò che il fascismo non avrebbe osato sognare: fece dell’italiano la seconda lingua d’Albania, e dell’Italia «Lamerica» degli albanesi. A venticinque anni dall’attracco della nave Vlora al porto di Bari (8 agosto 1991; si legga a pag. 27, ndr), sebbene risiedano in Italia mezzo milione di albanesi, è ancora difficile parlare di «reciproca conoscenza». Questo perché tra i due paesi il rapporto non è mai stato alla pari. I pregiudizi degli anni Novanta sono finalmente tramontati, ma allo «stereotipo leghista» è andata via via sostituendosi una narrazione giornalistica tanto positiva quanto plastificata: l’Albania indicizzata su Google è un paese dinamico che ha davanti a sé la crescita che gli italiani hanno già consumato. Buona o cattiva che sia, anche questa semplificazione non rende giustizia alla realtà: è un disinteresse con il segno più. Chi, da italiano, voglia conoscere l’Albania, dovrà smettere di usare se stesso come unità di misura. «Mi ricorda il Sud Italia del dopoguerra» o «il mare è bellissimo, sembra la Grecia» sono frasi che parlano di noi.

In questo articolo proveremo a fare un po’ d’ordine partendo dalla storia per arrivare fino ai giorni nostri.

Dentro i confini del 1913

Gli albanesi esistono da prima del loro stato. Sulle origini (illiriche?) della lingua e dell’etnia albanese esistono discussioni accorate ma meno studi, quello che è certo è che sangue e idioma furono le basi ideologiche della Rilindje, il Risorgimento albanese. Inizialmente restii ad abbandonare la compagine ottomana, i patrioti che il 28 novembre 1912 proclamarono da Valona la nascita dell’Albania – nello stesso simbolico giorno in cui, cinquecento anni prima, l’eroe nazionale Skanderbeg aveva dichiarato guerra ai turchi dal suo feudo di Kruja -, lo fecero con il placet della potenze europee, nel tentativo di arginare l’espansionismo serbo e greco che, da Nord e da Sud, spingeva sulle province albanesi della Sublime Porta (termine indicante l’Impero ottomano, ndr). La nascita dello stato albanese somiglia a quella di altri stati emersi dalla dissoluzione dei grandi imperi multietnici. È una storia fatta di visione e di afflato ideale, ma anche di contingenza e di realismo politico. Il riconoscimento internazionale arrivò nel luglio 1913, durante la Conferenza di Londra (sostenitrice della necessità di uno stato albanese era proprio l’Italia liberale). Nel febbraio dell’anno seguente gli stati europei fissarono confini e governo del Principato d’Albania: per dare un’idea del livello di empatia che gli albanesi del tempo dovettero provare nei confronti del nuovo assetto statuale basti ricordare che a insediarsi sul trono fu un perfetto estraneo: il principe Guglielmo di Wied, uno dei nipoti della Regina Elisabetta di Romania. Giunta al porto di Durazzo il 7 marzo 1914, sotto la protezione di una sparuta milizia olandese, la famiglia reale resistette fino al 3 settembre, quando una rivolta la costrinse ad abbandonare il paese. Da quel giorno, l’indipendenza formale dell’Albania ha subito diverse interruzioni – all’occupazione italiana durante la Grande guerra seguirono il debole regno di Zog, l’occupazione fascista del 1939 e mezzo secolo di comunismo – ma i confini stabiliti dagli ambasciatori del 1913, i quali non includono tutti gli albanesi entici, sono gli stessi dell’Albania odierna.

Il comunismo di Hoxha

Questi precedenti giocarono un ruolo determinante all’indomani della II guerra mondiale. Scelto dagli iugoslavi nel fuoco della Resistenza condotta contro i nazisti che dopo l’8 settembre avevano occupato i territori italiani della Balcania (Badoglio lasciò in Albania 130 mila soldati privi di ordini), il comandante partigiano Enver Hoxha governò l’Albania comunista dal 1944 al 1985 (anno della sua morte) combinando spregiudicate alleanze internazionali a un discorso politico nazionalista di stampo appunto risorgimentale. Nei primi anni del dopoguerra l’Albania sembrava avviata a diventare la settima repubblica della Federazione Jugoslava, ma nel giugno del 1948 Stalin ruppe con Tito. Per conservarsi al potere, Hoxha preferì schierarsi con l’Urss, lasciando il Kosovo alla Jugoslavia e resuscitando sul piano interno la secolare narrazione anti serba. Un decennio dopo, il copione sarebbe stato simile: ribelle alle ingerenze sovietiche dello «slavo Krusciov» l’Albania Popolare siglò un’improbabile alleanza con la Cina di Mao: tra gli applausi dell’Occidente, i sottomarini sovietici abbandonarono i porti mediterranei mentre la scelta dottrinaria del marxismo-leninismo isolava il piccolo paese balcanico anche all’interno del Secondo mondo (quello, appunto, orbitante attorno all’Urss).

Il comunismo albanese fu una risposta violenta ai bisogni di una società agropastorale, rimasta a livelli di vita primordiali: ad appena un milione di abitanti – per l’80% contadini poveri, con il 9% della terra del paese a disposizione – un leader finalmente «autoctono» offrì la possibilità di credere al progresso materiale della propria patria. Il prezzo pagato dagli albanesi per la modernizzazione realizzata da Hoxha non è ancora materia di storici altrettanto «locali». Le difficoltà che gli albanesi incontrano nella rielaborazione del loro passato recente si devono al fatto che in quella dittatura «il comunismo» fu poco più di una grammatica dell’economia e della propaganda: una lingua straniera utilizzata per adattare al contesto della Guerra fredda quella peculiare narrazione etnica che affonda le sue radici nell’identità culturale albanese e il cui frutto moderno è, appunto, lo stato albanese. Studiare il regime enveriano implicherebbe la sua comprensione all’interno della storia che lo ha preceduto; se, ancora oggi, quest’operazione viene rimandata è perché l’intoccabile mito nazionalista fonda anche l’Albania democratica. Purtroppo, nessuna coscienza storica ha mai illuminato il cammino della nascente democrazia albanese: né a livello accademico, né a livello di élite politiche. Il risultato, visibile, sono ferite non rimarginate. Lasciate senza spiegazioni, le persone comuni, cresciute lacerate tra due mondi, sanno soltanto che si stava peggio (o meglio) «quando c’erano i comunisti»: come se anche questi ultimi fossero invasori venuti da fuori.

Passaggi complessi

L’Albania è uno stato balcanico e in quanto tale si pensa e si racconta come «unico» (il nazionalismo balcanico è fondato sull’appartenenza etnica) e «mutilato» (non soltanto del Kosovo, ma anche di parte della Macedonia e del Sud della Grecia). Nel 2014 hanno fatto il giro del mondo le immagini di Serbia-Albania, partita valida per la qualificazione all’Europeo di Francia, sospesa per rissa dopo che un drone telecomandato aveva fatto piovere sullo stadio una bandiera dell’«Albania etnica» munita di Kosovo. L’accaduto venne derubricato a «poco edificante folklore sportivo», ma non sfuggì alle cancellerie europee la rinuncia del primo ministro albanese Edi Rama alla storica visita in programma pochi giorni dopo a Belgrado (gli ultimi leader a incontrarsi erano stati Hoxha e Tito, nel 1948). Se il mito risorgimentale della nazione rimane il discorso politico più comprensibile all’opinione pubblica interna, l’Europa è oggi presente nelle esternazioni di tutti i politici albanesi, indipendentemente dall’appartenenza di partito. Come lo stesso Rama ama ricordare in ogni visita all’estero, «l’Albania è il paese più europeista d’Europa». Un’asserzione che contiene elementi di verità, ma che non indaga le ragioni di questa propensione. Per la maggior parte degli albanesi l’Ue – che il giornalismo albanese confonde volentieri con la Germania di Angela Merkel – è un club di paesi ricchi dal quale non si vuole venire esclusi. Che l’integrazione esiga dei doveri è chiaro a tutti, ma che questa implichi il superamento culturale dell’idea di confine nazionale non è ben spiegato ai cittadini albanesi: né dai propri politici nazionali, ferventi europeisti anzitutto quando parlano in inglese, né dalla delegazione della Commissione europea aperta a Tirana, che con i suoi report monitora l’avanzamento delle riforme necessarie all’apertura dei negoziati d’adesione, faticando a rendersi comprensibile al di fuori di una ristretta cerchia di privilegiati della capitale.

Lo sbandierato «europeismo» di un’Albania, che – dal 2014 – è ufficialmente candidata all’Ue, va dunque collocato all’interno di quella generica e ingenua «esterofilia» che ha accompagnato il passaggio del paese dal socialismo paranoico al liberismo selvaggio. Da questo punto di vista, la discontinuità incarnata dal governo Rama si ridimensiona.

Dopo Sali Berisha

Le elezioni politiche del 2013 hanno posto fine all’era di Sali Berisha – il leader del Partito democratico (la destra albanese) che dal 1992 aveva gestito, seppur con qualche interruzione, la transizione dal comunismo. Ma, nonostante la vittoria di una ritrovata coalizione socialista, la strategia economica del paese rimane appiattita sul paradigma neoliberista: apertura alla delocalizzazione estera, riassorbimento della domanda di lavoro affidato agli investimenti stranieri, nessuna tutela per i lavoratori albanesi che rimangono in patria. La proliferazione di call center internazionali che lucrano sul plurilinguismo dei giovani retribuendolo 200 euro al mese è la manifestazione più simbolica dell’assenza di politica nazionale. Più di dieci anni fa, sulle pagine di questa stessa rivista, Pier Paolo Ambrosi osservava che «finché una parte importante della popolazione, a causa delle serie condizioni di povertà in cui vive, rimane praticamente esclusa dal circuito economico, essa non avrà alcun legame né interesse verso le forme di pratica della democrazia». Questa drammatica considerazione è altrettanto attuale oggi, e trova conferma nelle promesse clientelari che precedono ogni tornata elettorale, nell’elezione del faccendiere Ilir Meta a presidente del parlamento, nelle proteste di diversi governi europei per le domande d’asilo che ancora giungono dall’Albania e nel fenomeno di «spedizione» di minori non accompagnati denunciato di recente proprio dai servizi sociali italiani. I gommoni non ci sono più, ma la corruzione, il disagio sociale, la disillusione e il conseguente sogno d’emigrazione a tutti i costi sono lungi dall’essersi esauriti.

Tra corruzione e riforme

Per cercare di traghettare il paese nel futuro, il nuovo governo «socialista» ha rilanciato con abilità l’immagine dell’Albania all’estero – talvolta sbandierando che «qui da noi non ci sono i sindacati», talvolta ottenendo importanti riconoscimenti come l’agognata candidatura all’Europa – ma ha anche affrontato difficili riforme, come quella dell’Università, mirata a fare ordine nel caotico panorama degli istituti privati, e quella della giustizia, che dovrebbe aprire la strada a una magistratura finalmente indipendente. Nonostante la corruzione del sistema politico e sebbene il parlamento continui a dimostrarsi permeabile agli interessi della criminalità organizzata, la riforma della giustizia è passata all’unanimità. La stampa internazionale e le istituzioni europee hanno salutato con soddisfazione il «risultato epocale», fingendo di non sapere che nei giorni immediatamente precedenti la delegazione Ue e l’ambasciatore americano in persona avevano minacciato i deputati albanesi di pesanti ritorsioni nel caso in cui avessero votato contro. In attesa che il futuro ci dimostri che in questo caso il fine europeo ha giustificato i mezzi, è doloroso constatare come una volta superato lo strapotere di Berisha la «democrazia albanese» non possa ancora togliersi le virgolette.

Ammessi i ritardi socio economici, dopo vent’anni di sviluppo caotico ma ininterrotto, l’Albania continua a possedere un notevole potenziale. Stiamo parlando di un paese demograficamente giovane, straripante di bellezze naturalistiche e seduto su un invidiabile patrimonio storico: al confine (strategico) tra Oriente e Occidente, balcanica ma non iugoslava, ex comunista ma non ex sovietica, musulmana ma occidentalizzata, la storia di questo piccolo stato è costellata di apparenti contraddizioni che una volta accettate dal popolo, che ne è custode, potrebbero sprigionare la loro inestimabile ricchezza.

Statue, piramidi, rifugi

Per godere delle contraddizioni albanesi, basta una passeggiata nel centro di Tirana: una città cui la speculazione edilizia degli anni Novanta ha negato per sempre l’aggettivo «turistica», ma che anche per questo risulta interessante a tutti i visitatori stranieri, peraltro in crescita esponenziale. Facciamo due passi in piazza Skanderbeg: in quale altra piazza del mondo s’incontrano a distanza di pochi metri gigantismo sovietico, neoclassico italiano e una moschea ottomana? Circondato dal pastiche architettonico dei dominatori stranieri, al centro della piazza campeggia la statua equestre dell’eroe dell’etnia: uno Skanderbeg invincibile, mitologico e, in quanto tale, poco propenso a valorizzare le strepitose contaminazioni che, certo figlie delle sconfitte, hanno reso unica l’Albania. Pochi metri più a Sud, lungo il boulevard di costruzione italiana, si trova la «Galleria nazionale delle arti». Se al suo interno un piano è dedicato alle opere del regime, la celebre statua di Stalin che, fino al 1968, occupava il posto di Skanderbeg è nascosta, incappucciata, dietro l’edificio. Nello stesso oblio versa l’incredibile piramide che la figlia del dittatore volle erigere a memoria del padre (1988). Per tutta la transizione democratica, questi segni, fonte di fascino e d’interesse per i forestieri, sono stati ragione d’imbarazzo per gli albanesi: il «Baffo» è rimasto in punizione dietro la galleria che poteva ospitarlo e la piramide, altrettanto abbandonata, ha rischiato a più riprese la demolizione. Soltanto nel novembre 2014, in occasione dei 70 anni dalla Liberazione, Edi Rama ha finalmente messo mano alla memoria collettiva, aprendo alla cittadinanza il rifugio militare che Hoxha fece costruire tra il 1970 e il 1972 alle pendici del monte Dajti. Ogni ambiente del sotterraneo, furbescamente ribattezzato Bunk’Art, è oggi adibito a museo. In una delle stanze più visitate, nominata «camera di Hoxha», foto a mezzo busto del dittatore circondano una televisione d’epoca: in onda, a loop, le immagini del suo funerale. Sono indimenticabili le facce dei bambini albanesi che si assiepano davanti a quella Tv. I genitori, timorosi di un passato che hanno vissuto, in genere fanno per tirarli via; ma i piccoli insistono, ipnotizzati da una storia che in fin dei conti è anche loro. Sono quei bambini, e non vecchi eroi a cavallo, il futuro, l’unico possibile, dell’Albania. Futuri cittadini cui i governanti attuali dovranno saper fornire una memoria e una direzione: un motivo per rimanere. Quando la giovane Albania democratica si dimostrerà capace di accettare, ricostruire e raccontare in autonomia la propria complessa storia, nel cuore dei suoi giovani figli nasceranno senza dubbio nuove motivazioni, il desiderio di scriverne il seguito.

Nicola Pedrazzi*

* Nicola Pedrazzi (Bologna, 1986) è giornalista pubblicista e redattore dell’agenzia stampa NEV-Notizie Evangeliche. A nome dell’Università di Pavia ha speso in Albania tre anni di ricerca dottorale. È stato corrispondente da Tirana per l’Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc) e per Kosovo 2.0.




Europa unita


Un tempo i giovani vedevano l’Europa come portatrice di pace. Oggi l’Unione si associa a crisi, disoccupazione, respingimenti di migranti, paura. I populismi xenofobi guadagnano punti. Mentre l’Italia ha almeno il merito di puntare i piedi.

Per la mia generazione l’Europa unita era un bellissimo sogno, in grado di far battere il cuore. Guardavamo sereni al processo di unificazione, confidando in un avvenire di pace, cooperazione e sviluppo non solo per noi europei, ma per il mondo intero. A scuola e nelle università ci parlavano di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Konrad Adenauer, spiegandoci che il progetto di un’Europa forte e coesa era il frutto della loro grande statura politica e morale.

Nel corso degli anni questo sogno si è pian piano sgretolato sotto le rigide imposizioni del mercato, gli egoismi nazionali e lo strapotere delle tecnocrazie. Oggi nessun giovane sogna grazie all’Europa, anzi l’appartenenza europea suscita apprensione, è considerata, a ragione o a torto, la causa della disoccupazione e dell’impoverimento delle nuove generazioni.

Se si chiede a un giovane cosa rappresenti per lui l’Unione europea, la risposta più benevola è: burocrazia, eccesso di regole, costi esagerati, vertici inconcludenti. Ancora più triste sarebbe una risposta come: l’Europa è un giogo per i più deboli, un’inespugnabile fortezza per i poveri del mondo.

Non è una bella Europa quella che non apre le braccia a chi fugge dalla guerra e dalla miseria, che non si commuove di fronte alle migliaia di esseri umani che affogano nel Mediterraneo, che lascia soffrire di stenti e freddo chi si ammassa lungo i suoi confini.

Le idee e le parole che influenzano le scelte dei politici europei sono paura, minaccia, respingimenti, muri. Le stesse idee e parole che circolano tra la gente e ispirano il voto popolare più rozzo.

Ne consegue che l’accordo sulle quote, che pure riguarda numeri trascurabili – un totale di 160mila trasferimenti entro il 2017 – è bloccato da mesi, mentre l’Ue ha deciso di versare alla Turchia 3 miliardi di euro (e altri 3 nel 2018), perché si faccia carico dei migranti che essa non vuole, invischiandosi malamente con l’arrogante Recep Tayyp Erdogan che calpesta sistematicamente i diritti umani e viola le convenzioni inteazionali.

Si è creato un orribile circolo vizioso tra governanti e governati dove nessuno ha l’autorevolezza di proporre una visione differente.

Per questo ci ha favorevolmente colpito la presa di posizione di Matteo Renzi che, lo scorso novembre, ha posto il veto sul bilancio europeo, un gesto che, nella pratica, ha solo un effetto dimostrativo, ma riveste un alto significato politico: non vogliamo che si costruiscano muri con il denaro che l’Italia versa alla Ue.

Anche Emma Bonino, già stimata commissaria Ue e convinta europeista, ha predisposto una sorta di prontuario sull’immigrazione in cui sfata i falsi miti che alimentano sospetto e rifiuto.

Dimostra ad esempio che la cosiddetta invasione degli stranieri è un inganno: nell’Unione europea, su 510 milioni di residenti, solo il 7% è costituito da immigrati (35 milioni). La quota di stranieri varia notevolmente tra i paesi europei: il 10% in Spagna, il 9% in Germania, l’8% nel Regno Unito e in Italia, il 7% in Francia. Paradossalmente i paesi più ostili all’accoglienza degli immigrati sono quelli che ne hanno di meno: la Croazia, la Slovacchia e l’Ungheria, ad esempio, ne hanno circa l’1%.

Nel mondo ci sono 16 milioni di rifugiati, ma solo 1,3 milioni sono ospitati nei 28 paesi dell’Unione europea, meno del 10%. Nel mondo i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,6 milioni), il Libano (1,1 milioni) e la Giordania (664mila).

E ancora, in Europa solo il 5,8 per cento della popolazione è di religione islamica, mentre il terrorismo – che tuttavia ha ben poco a che fare con la vera religione – colpisce molto di più al di fuori dei confini europei: le nostre vittime rappresentano meno dell’1% del totale, perché le maggiori e continue stragi avvengono in Siria, Afghanistan, Iraq, Nigeria, Niger e Somalia, proprio nei paesi da cui fugge la maggioranza dei migranti.

Nel dibattito e nelle scelte europee sull’immigrazione, l’Italia si distingue per umanità e capacità, e sono in gran parte italiani i mezzi e il personale, civile e militare, di pattuglia nel Mediterraneo, dove soccorrono decine di migliaia di esseri umani stremati. Non diamo retta alle proteste sguaiate della minoranza xenofoba, che purtroppo esiste anche nel nostro paese, godiamoci l’orgoglio di essere cittadini di una nazione che incarna nei fatti i valori della civiltà europea.

Sabina Siniscalchi




Lettere aprile 2016


Ancora sull’Ucraina

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Da un po’ di tempo seguo con interesse la vostra rivista apprezzandola, ma dopo la lettura dell’articolo «Kiev non parla russo» del dicembre 2015 non posso fare a meno di scrivervi. Ben inteso, non ne contesto i contenuti, ritengo che quanto scritto sia plausibile e vero, ma la totale faziosità a senso unico contro la Russia mi ha sorpreso. Mi vengono spontanei quesiti e riflessioni che provo a riportare qui.

Nell’articolo si dice riguardo la Crimea: colpo di mano militare russo; «omini verdi»; Anna che scappa in Italia; le spiagge vuote. L’autodeterminazione dei popoli vale solo quando fa comodo (Kosovo)? Quando non fa comodo vale l’inviolabilità dei confini? L’84,2% della popolazione che ha votato sì (come riportato dall’articolo) non vuole dire niente? Magari citare anche gli altri referendum ivi tenutisi negli anni precedenti aiuterebbe a descrivere meglio il quadro della zona. Una intervista, una, a qualcuno favorevole alla Crimea in Russia proprio non era possibile? Riguardo ai poveri perseguitati tatari: chi ha sabotato i pali dell’alta tensione in Ucraina al fine di lasciare senza luce gli abitanti della Crimea? Come mai l’articolo non cita che la Russia ha riconosciuto agli italiani di Crimea lo status di minoranza deportata e perseguitata, cosa che in venti anni di Ucraina mai era avvenuto.

Venendo al Donbass: Natalia e Aleksandr sono scappati da Donetsk, volevano Donetsk in Ucraina, non ne facevano segreto, lui imprigionato e picchiato. Intervistare i miliziani Dnr-Lnr rilasciati dall’Ucraina dopo scambio di prigionieri? Non sia mai vero. I profughi che scappano dalla Crimea e dal Donbass per essere salvi in Ucraina cita l’articolo. Di quelli che invece scappano in Russia non c’è traccia, e dire che sono circa un milione. Strano che l’articolo citi che il 2 maggio 2013 ad Odessa siano bruciati vivi 48 manifestanti filorussi nel rogo della Casa dei sindacati. Chi ha appiccato il rogo con la complicità della polizia però non è scritto, come anche che quelli che si salvavano dalle fiamme poi venivano picchiati, ma già, i filorussi sono cattivi mentre i filoucraini bravi. Qualche accenno ai battaglioni neo-nazi Azov ed Aidar?

Non è tutto bianco o tutto nero, la situazione in Ucraina è ben più complessa, riportando solo una parte dei fatti si può benissimo dire la verità ma si distorce la realtà a proprio uso e consumo.

Mi sono preso la briga di andare a vedere cos’è Obc. Dal loro sito Inteet: «Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc) è un think tank che si occupa di Sud-Est Europa, Turchia e Caucaso ed esplora le trasformazioni sociali, politiche e culturali di sei paesi membri dell’Unione Europea (Ue), di sette paesi che partecipano al processo di allargamento europeo e di buona parte dell’Europa post-sovietica coinvolta nella politica europea di vicinato». Ed inoltre: «Obc ha un accordo di partenariato con il Parlamento europeo e realizza progetti co-finanziati dal Ministero degli Affari Esteri italiano, dall’Unione Europea, da fondazioni private ed enti pubblici e privati italiani ed europei». Appunto un think tank: sono di parte e sono finanziati dalla Ue. Lo scopo è orientare, cosa che nel pezzo gli è riuscita benissimo. Saluti.

Luca Medico
22/01/2016

Cari missionari,
dopo aver letto l’articolo sull’Ucraina del numero di dicembre ho deciso di scrivervi. Infatti dopo quelli da me apprezzati sulla Transnistria, la Cecenia, la Bielorussia, la Turchia (e gli altri) mi è apparsa chiara la faziosità del taglio giornalistico. Ciò è sicuramente da attribuire all’Osservatorio Balcani e Caucaso che, dopo breve ricerca in rete, mi è apparsa in modo lampante una associazione con obiettivi chiari e tutt’altro che neutrali. […] La questione ucraina infatti è ben più complessa di ciò che l’autore voglia far credere. Non dico che i fatti raccontati non siano veri, ma sicuramente è stata raccontata la verità a meta distorcendo quindi la percezione del lettore. D’altra parte l’Obc è un think tank e quindi persegue esattamente questo obiettivo, per carità legittimo, ma il lettore di MC è abituato ad altra qualità e aspettativa. Dall’articolo sembrerebbe che, da un lato, ci siano gli ucraini desiderosi di scrollarsi di dosso una tutela russa che non è più accettata e, dall’altro, i russi/russofoni, naturalmente corrotti e militareschi, che ciecamente frenano un legittimo interese ucraino. Purtroppo la situazione è molto più complessa ed è da ingenui pensare che una nazione come quella russa si facesse sottrarre una zona strategica come la Crimea dove ha sede la sua base navale. La verità è che la corruzione c’è anche sull’altro fronte, per non parlare delle forze militaresche che sostengono il governo di Kiev e che la Comunità europea, sedicente esportatrice di valori (quali?), non ha esitato a sostenere dando loro il nome di forze moderate, espressione con la quale si identificano semplicemente gli amici che fanno gli interessi degli occidentali che non in pochi casi sono quelli della Nato, purtroppo.

Insomma, non voglio dire che sia tutto sbagliato ciò che produce quell’osservatorio, ma varrebbe la pena dare voce anche all’altra campana che a mio parere ha anche buone ragioni.

Andrea Sari
27/01/2016

Accogliamo le critiche all’articolo sull’Ucraina, ma non concordiamo con quelle fatte all’Obc. Ricevere finanziamenti dall’Unione europea non significa diventae i lacchè. La collaborazione tra questa rivista e l’Obc è stata finora eccellente e gli articoli che ci ha offerto su molti paesi e situazioni difficili sono stati di ottima qualità. Per questo li ringraziamo e continueremo a pubblicare i loro servizi su una parte di mondo così vicina a noi eppure così sconosciuta.

Sacerdoti amici dell’Allamano

Caro Direttore,
un caro saluto a te e a tutti i missionari della Consolata e auguri per la «nostra» rivista missionaria.

Vorrei fare un appello a te, ai tuoi superiori e ai sacerdoti diocesani. Mi piacerebbe che tanti sacerdoti approfondissero il carisma e la spiritualità «sacerdotale e missionaria» del Beato G. Allamano e che, se possibile, nascesse un gruppo di sacerdoti «amici dell’Allamano» che si impegnino a conoscere, vivere far conoscere ad altri, sacerdoti e non, il suo carisma.

La mia speranza è che si possa fare un primo incontro a Roma, nella vostra casa generalizia, il giorno 3 giugno p.v., nel pomeriggio, in occasione del giubileo dei sacerdoti. Grazie

don Vincenzo Mazzotta
21/02/2016

Don Vincenzo, i migliori auguri per questa bella iniziativa. I sacerdoti che fossero interessati possono contattare don Vincenzo a questo email: vincenzomazzotta13@gmail.com

Meno copie non è risparmio

Desidero non ricevere più la vostra rivista in cartaceo perché vi faccio spendere del denaro che può essere utilizzato diversamente da voi. Se volete potete inviarmela in email. Un saluto e un augurio per la vostra opera missionaria.

lettrice da Bologna
7/02/2016

Metto in evidenza questa email per sottolineare alcuni punti importanti per la vita di una pubblicazione come la nostra, visto che la signora non è la prima a motivare la sua disdetta del cartaceo con il «risparmio» che potremmo fare.

Preciso anzitutto che la stampa e la spedizione della rivista (stampiamo circa 50mila copie, la metà di quanto stampavamo negli anni ’60) «mangiano» circa il 40% delle spese totali. L’altro 60% va nella gestione (attrezzature, luce, riscaldamento, archivio, Inteet, ecc.) e nei salari e compensi a giornalisti e collaboratori.

Il costo di stampa e spedizione per mille copie in più o in meno è irrilevante, mentre invece ogni volta che perdiamo un lettore/amico del cartaceo, aumenta il carico di spesa su ogni singola copia. Più lettori sul web dovrebbero compensare la perdita dei lettori del cartaceo, ma le statistiche mostrano che il lettore web ama le cose gratuite; mentre il lettore del cartaceo è più cosciente di dover aiutare anche economicamente.

In realtà, per ora, l’unica maniera per risparmiare è quella di aumentare il numero di coloro che ricevono la rivista cartacea! Più sono le copie diffuse, più il costo globale per copia diminuisce.

Fine dell’Europa?

Gentile direttore,
con sorpresa ho letto l’intervista al prof. Bruno Amoroso, riportata da Missioni Consolata nel suo numero 1/2, 2016, sull’Unione Europea e sull’euro, dei quali viene decretata la fine, liquidati come fenomeni temporanei della storia.

I motivi per criticare il «governo» dell’Unione e per auspicarne un cambiamento, sono vari e disparati e trovano fondamento nella situazione di crisi evidente dell’idea di integrazione europea, ma il nostro professore dovrebbe chiedersi come mai i cittadini, di fronte a tale situazione (sono parole sue), «preferiscano non crederci perché si troverebbero di fronte a un vuoto di speranza al quale non vogliono credere». Probabilmente avvertono, come il sottoscritto, che il progetto di integrazione europea per il quale si impegnarono figure come Schumann, De Gasperi, Adenauer (spero che il Prof. Amoroso non consideri anche loro agenti della Triade, come Delors e Prodi, probabilmente) è stato un progetto di pace per superare una situazione nella quale i nazionalismi avevano ridotto l’Europa a un cumulo di rovine, un progetto per il quale vale ancora la pena battersi e sperare. Gli stessi nazionalismi che sembrano riemergere nel momento storico che stiamo vivendo, con il rischio che ognuno si ritiri nei suoi limiti, che ritornino le frontiere, le barriere, i muri… come abbiamo già potuto constatare con il problema profughi.

Preferirei leggere, specie su riviste come MC, una lettura della situazione che pur non nascondendo le difficoltà, non trascuri i motivi di speranza perché l’integrazione europea vada avanti, superi la presente crisi, si realizzi soprattutto a livello di valori, come avevano previsto i suoi fondatori. Ritengo che le idee del prof. Amoroso siano esattamente l’opposto perché privi di qualsiasi prospettiva e incapaci di dare speranza, a parte i soliti slogan e la fiducia che «l’uscita sarebbe un gesto virtuoso (!) per seguitare a governare in modo negoziale e sensato processi che, quando si manifestano in modo spontaneo e disordinato, producono danni dolorosi». Ovviamente il prof. Amoroso può pensarla come vuole, ma, anche se al fondo di pag. 4 è scritto che gli articoli pubblicati non riflettono «necessariamente» l’opinione dell’editore, mi farebbe piacere sapere se nel caso specifico lo sono o meno, considerata l’importanza degli argomenti trattati: implosione dell’UE, data per certa, e uscita dall’euro, auspicata.

Con i miei migliori saluti.

Walter Cavallini
Torino, 21/01/2016

Chiamato in causa, mi permetto una breve risposta. L’editore, che come direttore editoriale rappresento, non ha nessuna ragione per volere il dissolvimento dell’Unione Europea, ma accoglie positivamente le provocazioni del prof. Amoroso come contributo a un dibattito serio su molti aspetti discutibili e problematici che affliggono detta Ue in questi anni. Si vedano, ad esempio, tutte le contraddizioni attuali sui migranti e profughi, l’atteggiamento ambiguo con l’Ucraina, la moltiplicazione di regolamenti e norme comunitarie imposti sopra la testa di nazioni e cittadini, la mancanza di trasparenza nelle negoziazioni dei tratti economici inteazionali, come il Ttip…

Migranti e navi da crociera

Sul numero 1/2 2016 vi è una lettera con il titolo in oggetto, a firma Luciano Montenigri del 31/10/2015, nella quale si propone di usare le navi da crociera di lusso per andare a prendere coloro che soffrono e portarli senza rischi qui da noi. Ora io mi chiedo perché tutti questi buonisti siano buoni con mezzi altrui e non personalmente: al ricco fariseo che chiese al Signore cosa doveva fare per meritare la benevolenza di Dio dato che lui si comportava bene, rispettava il prossimo, seguiva tutti precetti religiosi, ecc., Gesù disse: vendi tutto, regala il ricavato ai poveri e seguimi. Non disse di dare ai poveri i beni altrui (navi da crociera) e di non far niente (salvo farsi belli a scrivere), ma di seguirlo senza niente. Ora perché i buonisti dicono sempre cosa gli altri devono fare ma non incominciano loro a dare l’esempio ospitando in casa loro qualche profugo? Mi viene in mente una barzelletta che compariva su Candido negli anni ‘50: a un operaio veniva detto, «Se tu vincessi 100 milioni cosa faresti? Metà a me e metà al partito. Se ti regalassero due automobili? Certo una a me ed una al partito. E se ti regalassero due biciclette? E no. Le due biciclette le ho e le tengo tutte e due per me». Ora se si tratta di accogliere i migranti in strutture pubbliche e private di altri è giusto farlo, ma a casa mia non c’è posto. Mi pare che il nostro attuale Papa abbia invitato tutti i religiosi ad ospitare nelle dimore ecclesiastiche vuote i migranti, ma finora non ho ancora sentito quale istituzione religiosa ha dichiarato di avere locali inutilizzati. Conosco una comunità religiosa di 4-5 religiosi che vivono in ambienti ove si può ricoverare non uno ma ben due reggimenti di soldati, ma finora nessun migrante è ancora stato accolto. Però come è bello fare i buonisti e non i realisti. Con osservanza.

Cesare Verdi
Riva presso Chieri, 24/01/2016

Caro Sig. Cesare,
più che legittimo il suo sfogo contro chi parla e non fa. Ma, a parte il fatto che non sappiamo se il sig. Montenigri non faccia nulla, il rischio è di fare di ogni erba un fascio. Ad esempio, la Chiesa italiana è impegnata in prima linea nell’accoglienza con la sua rete capillare di Caritas e Fondazione Migrantes, sia a livello diocesano che parrocchiale, oltre che con i molti centri di accoglienza e servizi vari gestiti da religiosi e religiose di tutti i tipi. Sono decine di migliaia i migranti (e non) che beneficiano di mense, dormitori, appartamenti, centri di assistenza legale e sanitaria, scuole, e quant’altro è necessario. Possiamo dirlo: la Chiesa italiana (e non parlo solo dei vescovi, ma di tutti, semplici cristiani e religiosi compresi) non si riempie la bocca di solo buonismo.

è vero che ci sono centinaia di case religiose vuote o semivuote, ma moltissime di queste stesse case/casermoni non hanno i requisiti minimi per un’accoglienza a norma di legge, essendo praticamente abbandonate da anni, e di fatto invendibili, come lo sono tante caserme dismesse che nessuno vuole. L’idea delle navi da crocera sembrava più una provocazione che una proposta, ma se c’è chi rischia di fare il «buonista», non cadiamo nell’opposto pseudo realismo arroccato e populista.

Volontari per il Catrimani

Padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata al Catrimani, ha scritto agli amici del Co.Ro. (Comitato Roraima), che hanno a loro volta rilanciato.

«In verità la gestione delle strutture è molto pesante e avrei proprio bisogno di qualcuno (un volontario, un laico missionario o una coppia, magari qualcuno già pensionato ma ancora con forza e buona volontà) che ci aiutasse. Il tempo che devo dedicare ai lavori manuali è un tempo che tolgo da altri lavori che sarebbe molto importante portare avanti. Questi altri lavori fanno parte del nostro specifico, come l’accompagnamento delle scuole, l’incontro con le persone, il dialogo interreligioso e la formazione in generale. E possiamo portarli avanti noi poiché conosciamo la lingua indigena… ma ci manca proprio qualcuno che si occupasse delle questioni più pratiche. Viviamo in una missione nella foresta, foiamo acqua e energia al posto di salute (ambulatorio), abbiamo strutture che ci permettono una vita abbastanza sicura e salubre quando siamo alla missione, e con le quali possiamo realizzare una serie di attività, come corsi e incontri, che sono invidiate da altre organizzazioni, ma tutto questo esige un grande sforzo. Da parte mia sono alla ricerca di volontari e laici missionari con un profilo adeguato a questa realtà. Qui in Brasile è molto difficile, ma chissà?!».

Co.Ro.

Chi fosse interessato può scrivere al dottor Miglietta, responsabile del Co.Ro.: migliettacarlo@gmail.com
oppure al nostro indirizzo, e provvederemo a recapitare l’email agli interessati.

 


L’Umanità in gioco

Toa il festival di antropologia del contemporaneo promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistornia e Pescia e dal Comune di Pistornia, ideato e diretto da Giulia Cogoli. Tre giornate con circa 25 appuntamenti tra incontri, spettacoli, conferenze e dialoghi, che animeranno – con un linguaggio come sempre accessibile a tutti – il centro storico di Pistornia.

Filo conduttore della settima edizione sarà: «L’umanità in gioco». «Ogni epoca e ogni civiltà hanno giocato e giocheranno, perché il gioco fa parte dell’essere umano, non è solo prova di sé, ma anche di fantasia, di immaginazione, e allo stesso tempo di regole, rischio e azzardo. Il gioco è più antico della cultura, il mondo animale lo testimonia, vogliamo quindi raccontare attraverso la voce di grandi antropologi, filosofi, psicanalisti, studiosi italiani e stranieri questo tema così centrale della nostra esistenza, da quando nasciamo e giochiamo istintivamente a quando, maturi, giochiamo in borsa, su un campo da calcio, oppure online», spiega Giulia Cogoli.

Appositamente per i Dialoghi, Ferdinando Scianna realizzerà la mostra fotografica personale «In gioco», ispirata al tema del festival, che si terrà dal 27 maggio al 3 luglio presso le sale affrescate del Palazzo Comunale di Pistornia. Per informazioni: www.dialoghisulluomo.it – Ufficio stampa Delos: delos@delosrp.it.

 




In ricchezza e in povertà


In questo dossier: Finanza e speculazione, un’analisi di Andrea Baranes; il grande imbroglio dell’Economia di Francesco Gesualdi; Euro e Unione Europea di Bruno Amoroso; l’Economia Vaticana di Aldo Maria Valli; Sempre ladra è la Miseria di Aldo Antonelli. Il tutto condito dalla regia di Paolo Moiola.


 

Lavoratori Esuberanti, Borse Felici

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Clicca sull’immagine per leggere tutto il dossier in formato pdf.

Che l’attuale sistema economico sia ingiusto lo dicono in tanti. Il problema è che troppo pochi provano a cambiarlo.

In economia le variabili in gioco sono sempre tante e spesso imprevedibili. Eppure, alla fine, tutto su riduce a una questione di domanda e di offerta. Può essere, ad esempio, una domanda di armi, di più armi. L’aumento degli attacchi terroristici e dell’insicurezza, in borsa ha prodotto un aumento del valore delle multinazionali delle armi nella prospettiva di un (ulteriore) incremento delle loro vendite. Può essere una domanda di profitto, di più profitto. Quando una grande banca ha annunciato migliaia di esuberi (di propri lavoratori) immediatamente c’è stato un innalzamento di valore del titolo borsistico della stessa.

Quando una multinazionale del fast food – già sponsor di Expo – ha deciso di aumentare i dividendi degli investitori è andata a comprimere i costi, iniziando da quelli per il personale (già retribuito con salari di pura sussistenza)1.

Per una persona comune è difficile capire cosa sia più negativo in ambito economico. Un tempo gli strali del sentire medio erano diretti soprattutto verso le multinazionali che inquinano e sfruttano senza mai pagare il fio. Poi è toccato ai politici corrotti e/o privilegiati. Quindi, soprattutto in Italia, si è passati a singole categorie: i commercianti che non rilasciano lo scontrino fiscale, i dentisti che non fanno la fattura, i giorniellieri che dichiarano redditi inferiori a quelli dei propri lavoratori, i dipendenti pubblici che timbrano il cartellino e poi se ne vanno per i fatti loro, oppure quelli che usano i certificati medici come giustificazione falsa per assentarsi dal lavoro. Senza generalizzare, tutte queste situazioni malsane rimangono purtroppo vere e attualissime, creando un clima avvelenato che porta a una guerra di tutti contro tutti.

In questo modo si perde però di vista – nonostante si viva in uno status di iperinformazione (anche se per larga parte di pessima qualità) – l’origine del tutto: il modello economico del capitalismo neoliberista con le sue fondamenta ideologiche (deregulation, privatizzazioni, riduzione o addirittura eliminazione dello stato sociale) e filosofiche (la globalizzazione e il pensiero unico). Perpetuandosi e anzi rinvigorendosi il modello (come accadrà, ad esempio, se passerà il «Trattato di commercio transatlantico»), ecco dunque che il cancro della speculazione continua a espandersi, che le diseguaglianze aumentano anno dopo anno (con la «beneficienza» dei miliardari che si sostituisce allo stato sociale), che la terra e i suoi beni naturali sono depredati senza ritegno. Detta in altri termini, si vedono i singoli malanni, ma si trascurano la malattia e le sue cause.

Siamo andati troppo avanti? Esistono vie d’uscita? Soluzioni ce ne sarebbero, ma sono difficili da far accettare alla maggioranza (che pure è vittima), e comunque richiedono tempo. In ogni caso, prendendo a prestito un’affermazione della direttrice di Oxfam: «Non si può andare avanti così»2. Ancora più chiaro è Pedro Casaldáliga: «Non si potrebbe mantenere un sistema tanto iniquo, se non fosse per l’inibizione di una gran parte della popolazione […]. È ora di svegliarci perché è urgente cambiare le regole»3.

A maggior ragione in epoca di terrorismo.

Paolo Moiola

 

NOTE

  1. Tutti gli esempi si riferiscono a fatti reali accaduti nel novembre 2015.
  2. Winnie Byanyima, direttore esecutivo di Oxfam, prefazione a Partire a pari merito, ottobre 2014.
  3. Pedro Casaldáliga, introduzione a Agenda Latinoamericana 2016, Disuguaglianza e proprietà, ottobre 2015. L’agenda è uno straordinario concentrato di informazioni e riflessioni. Casaldáliga è vescovo emerito di São Félix do Araguaia (Brasile).