Viaggio in Norvegia: le scelte di Oslo

La ricetta norvegese


Testo e foto di Piergiorgio Pescali


Da molti anni la Norvegia si situa ai primi posti nella classifica dell’Indice di sviluppo umano. I suoi abitanti – poco più di 5 milioni – hanno un’elevata qualità della vita. Il Fondo sovrano norvegese – che gestisce i corposi proventi del petrolio – è ricchissimo, ma anche attento all’etica dei propri investimenti. Nonostante tutto questo, ci sono questioni aperte. Per esempio, anche a queste latitudini i problemi ambientali sono in rapido aumento. Inoltre, i norvegesi stanno cercando di porre un freno all’immigrazione, anche premiando partiti populisti anti immigrati. La ricetta complessiva rimane buona, ma oggi il paese deve trovare risposte adeguate alle nuove sfide.

«Guarda la mappa della Norvegia: un pugno con un dito indice che si allunga verso nord, quasi come a voler toccare l’inviolabile, le terre ostili che si frammentano nel Finnmark». Morten Andreassen mi mostra la cartina della Norvegia mentre è seduto su un masso addentando con gusto un panino. Sta studiando per ottenere un Master in Scienze della globalizzazione e sviluppo sostenibile all’Ntnu, l’Università norvegese di Scienze e tecnologia di Trondheim, l’istituto scientifico più prestigioso del paese dalle cui aule sono usciti cinque premi Nobel. Ogni anno l’Ntnu organizza il Big Challenge Science Festival, uno dei simposi scientifici più seguiti al mondo in cui, per quattro giorni, scienza e spettacolo si mischiano in una serie di eventi memorabili coinvolgendo moltissimi dei duecentomila abitanti di Trondheim e trasformando questa cittadina in una capitale della cultura scientifica, umanistica e artistica.

L’atmosfera tranquilla, ma al tempo stesso pregna di stimoli intellettuali di Trondheim, associata all’eccellente livello di insegnamento impartito nell’Ntnu ha fatto sì che i suoi ricercatori e studenti siano contesi da compagnie e centri di ricerca di tutto il mondo: «Potenzialmente abbiamo un tasso di disoccupazione inferiore allo zero», scherza Magnhild, la ragazza che viaggia con Morten.

Lei, dopo la laurea, è tornata a Tromso, la cittadina dove è nata, per lavorare in una compagnia che si occupa di energie rinnovabili. Magnhild è andata a Oslo a trovare la famiglia di Morten e quest’anno hanno deciso di tornare a Trondheim percorrendo a piedi i 643 chilometri del «Sentiero di Sant’Olav» (foto alle pagine 41-42), il cammino di pellegrinaggio che, partendo dalla Vecchia Chiesa di Aker ad Oslo termina alla cattedrale di Nidaros, dove nell’XI secolo fu sepolto Olav Haraldsson (995-1030), il Rex Perpetuus Norvegiae e patrono della nazione (nonché santo e martire per la Chiesa cattolica).

«Non siamo credenti, anzi siamo atei convinti, ma abbiamo approfittato di trascorrere quattro settimane a stretto contatto con la natura per raccogliere dati sui cambiamenti climatici per le nostre ricerche».

Il Sentiero di Olav, l’università di Trondheim, la passione di Morten e Magnhild per la natura – espressione del friluftsliv[1] che accomuna i norvegesi – e il rispetto verso l’ambiente sono le basi da cui parto per cercare di comprendere quale possa essere stata la chiave che ha portato, in pochi decenni, un popolo povero e circondato da una natura ostile ad occupare oramai da diversi anni, le prime posizioni nelle statistiche dell’Indice di sviluppo umano[2].

Una tigre in Norvegia: la città contro la natura

La statua della tigre che ruggisce – realizzata da Elena Engelsen e dal 2000 posta fuori dalla stazione ferroviaria di Oslo – è forse l’emblema di una città e una nazione che sta cambiando più velocemente di quanto vorrebbe. L’artista voleva rappresentare la vivacità e lo sviluppo della Tigerstaden, la città della tigre, il soprannome con cui oggi è conosciuta Oslo, ma a molti norvegesi il felino ricorda i versi scritti nel 1870 dal poeta Bjornstjerne Bjornson, premio Nobel nel 1903 e autore delle parole dell’inno norvegese, il quale contrapponeva l’immagine pericolosa, violenta e aggressiva della città a quella bucolica, pacifica e genuina della campagna[3].

Sicuramente ai turisti orientali che sempre più numerosi affollano la capitale norvegese, quella statua ricorderà le «tigri asiatiche», le quattro economie dell’Asia (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) che negli anni Novanta bruciavano le tappe dello sviluppo crescendo a dismisura sino a diventare il simbolo di quella riscossa asiatica che, più tardi, avrebbe trovato nella Cina la sua locomotiva.

L’economia norvegese non viaggia quanto le tigri asiatiche (ormai anch’esse sedate) ma la crescita del Pil continua ad aggirarsi attorno ad un onorevole 2% ed Oslo – con circa 700mila abitanti – è considerata la città che si espande più velocemente tra le capitali dell’Europa[4].

Definire la capitale della Norvegia una bella città è una forzatura e il paragone con le «colleghe» scandinave è impietoso: la sua storia è sempre stata offuscata dalle più regali Copenaghen e Stoccolma, i cui regni si sono succeduti pressoché ininterrottamente alla guida della Norvegia dal IX secolo al 1905, quando la nazione trovò la sua indipendenza. Città prettamente operaia e industriale, Oslo non ha certo la grazia di Bergen o il fascino dell’art nouveau di Alesund. Al contrario, la città, che riacquistò il nome originario solo nel 1925 abbandonando il toponimo di Christiania affibbiatole dal re di Danimarca Cristiano IV, è sempre stata quella descritta, con un misto di sagacia e melanconia, da Luigi Di Ruscio, il poeta-operaio emigrato dall’Italia nel 1957 e morto ad Oslo nel 2011: «Poi ci sono i lunghi inverni gelati con le giornate cortissime e le lunghissime notti, le nevi che persistono per mesi e alla fine da bianche che erano diventano nere ed Oslo diventa la città dalla neve nera»[5].

Eppure, l’amministrazione locale è riuscita a realizzare quello che, sino a pochi anni fa, sembrava impossibile: conferire una fisionomia e una personalità unica alla metropoli. Sapendo di non poter competere sul piano monumentale e storico con altri centri scandinavi ed europei, si sono scelti altri campi per rendere Oslo città appetibile al turismo e alla finanza: l’architettura moderna, la cultura e la natura. Gli amministratori norvegesi, con la collaborazione di architetti provenienti da tutto il mondo, hanno trasformato una città anonima e grigia in un interessante esperimento di design urbanistico quasi senza stravolgerne l’assetto storico e valorizzando gli edifici esistenti. Le gru che si innalzano da numerosi quartieri stanno rivoluzionando lo skyline di Oslo che, dal 2020 si doterà di nuovi spazi abitativi, finanziari e culturali offrendo a turisti e abitanti un nuovo volto, più moderno e accattivante.

Accanto all’Opera House stanno sorgendo centri residenziali e lavorativi hi-tech: il Barcode, il Sorenga, il Museo Munch, la Biblioteca nazionale, mentre nell’Aker Brygge tra pochi mesi verrà inaugurata l’immensa Galleria nazionale che si affiancherà al Nobel Peace Centre. Al tempo stesso i polmoni verdi, vero vanto del rispetto ambientale di cui si fregia la città, sono stati mantenuti. Un efficiente e relativamente poco costoso sistema di mezzi pubblici collega 24 ore su 24, sette giorni su sette, anche i quartieri più periferici. In meno di un’ora è possibile raggiungere piste da sci, rifugi immersi nella natura, sentieri montani lasciando la propria auto nel garage. Oslo non è bella, ma è sicuramente la città ideale in cui vivere.

Le sfide ambientali: cambiamento climatico, petrolio, disboscamento, turismo

Quello norvegese è tradizionalmente un popolo culturalmente coeso, che ha fatto del rispetto per la natura uno dei suoi cavalli di battaglia.

«Se chiedi ad un turista medio cosa vorrebbe vedere andando in Norvegia ti risponderebbe “i fiordi”; un turista un po’ più accorto aggiungerebbe Capo Nord o Lofoten. Pochi si aspettano di vedere città come Oslo o Stavanger» mi spiega Gunn Wadzynski, attivista ambientalista di Greenpeace, che poi continua: «Lo stereotipo della Norvegia è che sia un territorio selvaggio, inesplorato, incontaminato e, soprattutto, non inquinato. Purtroppo, la realtà sta cambiando molto velocemente: l’ambiente soffre sempre di più e non solo per i cambiamenti climatici, ma anche per lo sfruttamento che noi norvegesi operiamo sul nostro territorio».

Ogni anno dieci milioni di turisti arrivano in Norvegia, di cui tre milioni su navi da crociera ed oramai il 4,2% del Pil dipende dal loro[6].

L’aumento del turismo è sicuramente una delle cause del degrado ambientale, ma il danno più evidente è dovuto ad un fattore esterno – i cambiamenti climatici mondiali – e uno interno, il continuo dissanguamento delle risorse naturali, causato in particolare dall’estrazione petrolifera e dal disboscamento.

Nel 2016 la temperatura media nelle Svalbard, il piccolo arcipelago situato più a settentrione del paese, è stata di 6,6°C superiore a quella normale[7]. Anche se i dati relativi a questa statistica sono stati contestati da molti ricercatori in quanto basati su una rilevazione effettuata presso l’aeroporto di Longyearbyen e quindi falsati dal microclima esistente in quella specifica parte dell’isola, è un dato di fatto che la coltre di ghiaccio in tutto il Circolo polare artico si sta assottigliando[8].

Per contrastare l’aumento di temperatura, la Norvegia si è data come obiettivo di ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 40% rispetto al 2005.

Uno studio preliminare ha individuato che il 74% delle emissioni di gas serra proviene da due settori: trasporti e agricoltura[9]. È quindi in queste due attività che il governo ha cercato di intervenire con più incisività.

Tra il 1990 e il 2013 sono stati disboscati 140mila ettari di foresta, cosa che ha contribuito per il 4-5% dell’emissione della CO2. Il 33% della deforestazione è stato effettuato per costruire nuove strade, ferrovie e abitazioni, l’11% per linee elettriche e impianti sciistici e il 31% per usi agricoli[10].

«Il 21% dell’abbattimento avviene prima che l’albero raggiunga lo stadio V, la fase oltre la quale il fusto ha ormai sorpassato il tasso di massimo assorbimento di anidride carbonica ed è pronto per la sostituzione», specifica Sigurd Sivertsen, del dipartimento di ingegneria ambientale all’Ntnu[11].

Durante il XX secolo la Norvegia ha implementato una politica di rimboschimento e nei prossimi anni le foreste piantate negli anni Cinquanta e Sessanta raggiungeranno la loro completa maturazione con una diminuzione del tasso di assorbimento di CO2. Per ripristinare la fotosintesi clorofilliana necessaria per mantenere l’equilibrio naturale, nel 2013 la Norwegian environment agency ha proposto la riforestazione di 100mila ettari di terreno per i successivi venti anni che, una volta completata, potrebbe rimuovere 1,8 milioni di tonnellate annue di CO2 nel 2050[12].

Per accelerare l’accrescimento del tronco fino ad un 10-15%, i laboratori di ricerca norvegesi hanno sviluppato un programma di modificazione genetica che, sommato alle tecniche di inseminazione, potrebbe permettere di stare al passo con il programma di assorbimento dei gas serra senza aumentare la superficie boschiva del paese.

Naturalmente questa tecnica invasiva ha riscontrato l’ostilità di numerose organizzazioni ambientaliste: Turid, dell’associazione radicale (e per molti versi cospirazionista) Green Warriors di Bergen afferma che «Il 75% dei nuovi semi utilizzati per la sostituzione degli alberi abbattuti in Norvegia sono geneticamente modificati. In questo modo le politiche ambientaliste del nostro paese sono un palliativo per permettere comunque alle compagnie che contribuiscono all’aumento delle temperature mondiali di continuare a operare le loro politiche distruttive». La critica di Turid ha un fondo di verità, ma la realtà norvegese ci offre una visione molto più variegata che è osservata con interesse da molti attori internazionali: nel 2015 le energie rinnovabili rappresentavano il 46% dell’energia totale fornita al mercato norvegese. Certamente la bassa densità di popolazione e la ricchezza del territorio (il 40% dell’energia utilizzata è idroelettrica[13]) gioca un ruolo determinante nel successo del modello Norvegia, che comunque è ancora lontana dall’escludere le fonti fossili dalla sua dipendenza energetica (il petrolio fornisce il 36,8% dell’energia e il gas naturale il 18,2%[14]).

Al tempo stesso l’utilizzo di fonti naturali permette alla nazione di avere un prezzo al consumatore tra i più bassi in Europa nonostante una tassazione del 38%: 38 euro/MWh (megawattora) contro i 54 euro/MWh che paga un italiano[15].

Così, nonostante un norvegese consumi 5,20 «Tonnellate di petrolio equivalente» (Tep) ogni anno contro una media europea di 4,11, l’impatto ambientale diretto è inferiore rispetto ai cittadini del Vecchio continente[16].

Elettrico sì, ma senza incentivi

Una delle principali azioni espresse dal governo di Oslo per contenere e ridurre l’impatto ecologico nella nazione è stata quella di sostenere l’uso dell’auto elettrica (Ev) mediante un programma di incentivi statali, introdotti sin dalla fine degli anni Novanta per aiutare lo sviluppo della Kewet, una macchina elettrica prodotta da una fabbrica danese che nel 1998 era stata venduta alla norvegese Elbil Norge As[17]. Nel 1997 le macchine Ev[18] hanno ottenuto l’esenzione completa dai pedaggi stradali, nel 1999 dal pagamento dei parcheggi (dal 2017 la gratuità è a discrezione di ogni municipalità), dal 2001 l’esenzione dell’Iva e dal 2009 vengono trasportate gratuitamente sui traghetti.

Qualcosa però sta cambiando anche nel paese: nel 2018 il 31,2% delle nuove auto vendute in Norvegia era Ev e Phev (auto ibride)[19], con queste ultime in costante ascesa[20]. Lungi dal rappresentare una coscienza ecologica popolare, le auto Ev vengono comprate per una questione economica più che ambientale: il 63% dei norvegesi che hanno un’auto completamente elettrica ha anche una seconda auto ibrida o a combustibile fossile.

I motivi sono diversi: in primo luogo lo sviluppo del sistema delle colonnine di ricarica che, pur essendo il più capillare d’Europa, è ancora insufficiente per rendere indipendente la circolazione sull’intero territorio. Al 2 aprile 2019 in Norvegia vi erano 12.612 ricariche (di cui 2.361 a carica veloce, 616 dedicate alla Tesla supercharges[21]); un incremento importante rispetto al 2011 (allora c’erano 3mila colonnine), ma che non segue quello delle vendite e questo ha disincentivato l’acquisto di auto esclusivamente Ev[22].

In secondo luogo, gli incentivi funzionano da motore per chi deve usare l’auto su strade a pedaggi e su traghetti: la più alta concentrazione di auto elettriche al mondo la si trova a Finnoy, un’isola di fronte a Stavanger. Qui il pedaggio del tunnel che connette l’isola alla terraferma costa 150 nok sola andata: un sondaggio della Neva (Norwegian Electric Vehicle Association) ha constatato che gli acquirenti hanno comprato le Ev per non pagare il pedaggio (300 nok al giorno).

Tutto questo, però ha un costo che comincia a diventare troppo ingente per l’economia norvegese: l’Istituto per l’Economia dei trasporti nel 2015 ha stimato che i mancati introiti per lo stato erano pari a 4 miliardi di nok, ancora sostenibili per l’economia norvegese, ma dovranno essere ben presto rivisti. Per ora il governo ha stabilito che le agevolazioni per l’acquisto di auto elettriche verranno mantenute fino al 2020 anche per permettere, entro quella data, alla città di Oslo di rispettare il programma di eliminare completamente i trasporti pubblici a carburante fossile utilizzando solo quelli elettrici.

Le prime voci di dissenso verso questa politica si fanno già sentire dagli scranni dell’opposizione parlamentare: «Non possiamo continuare a finanziare le macchine elettriche», dice Andreas Halse, portavoce per l’ambiente del Partito labourista. Anche le compagnie navali hanno cominciato ad alzare i toni della protesta, così come le società che gestiscono le infrastrutture stradali.

Paradossalmente gli stimoli economici hanno avuto un effetto deleterio sulla circolazione: oltre a non eliminare le macchine a combustibile fossile, disincentivano l’uso dei mezzi pubblici.

Oggi, dunque, il governo si trova di fronte al dilemma su come rendere il mercato delle auto elettriche appetibile al consumatore senza dover offrire promozioni.

Socialità e risparmio energetico

La Norvegia sta cercando di far fronte all’emissione di gas serra anche affrontando la questione del costo della vita che rende problematico per le giovani generazioni l’affrancamento dalle famiglie.

L’affitto medio mensile di un monolocale in centro a Oslo costa circa 1.000 euro, mentre l’acquisto varia da 4.000 euro al metro quadro per un appartamento fuori dal centro a 6.000 euro al metro quadro in centro[23]. Un salasso anche per uno stipendio medio norvegese che si aggira sui tremila euro netti al mese[24].

Dal 2020 le nuove costruzioni dovranno essere energeticamente completamente autonome così da risparmiare, entro il 2030, dieci TWh (terawattora) di consumo, mentre verrà vietato l’uso di riscaldamento fossile per tutti i restanti edifici (attualmente solo il 20% del parco immobiliare è dotato di riscaldamento con energia rinnovabile). Queste direttive (costose e impegnative) hanno indotto gli architetti norvegesi a cercare soluzioni alternative trovandole nelle abitazioni collettive, edifici in cui si cerca di coniugare l’indipendenza del nucleo famigliare con il taglio dei costi e la diminuzione dello spreco energetico. Il co-housing o collective-housing non è una novità nei paesi nordici essendo già praticato negli anni Settanta-Ottanta, ma con l’arrivo del benessere e della ricchezza era andato via via scomparendo. L’esigenza di una propria vita privata è stata preservata garantendo ad ogni famiglia un proprio spazio indipendente e riservato, mentre ci si affida alla gestione collettiva per quelle attività prettamente socializzanti, come una stanza comune per la mensa, le attività ricreative, il giardino.

Una trappola per l’anidride carbonica

Il governo, però, non si affida solo ai singoli cittadini per combattere l’effetto serra: dagli anni Ottanta la nazione ha intrapreso un percorso di ricerca e sviluppo nel campo del Ccs (Carbon capture and storage, Cattura e stoccaggio del carbonio), un processo che, dopo aver liquefatto l’anidride carbonica la inietta in una trappola geologica dove viene stoccata per centinaia di anni. È un metodo utilizzato per ridurre la quantità di CO2 liberata nell’aria, tanto che Oslo ha individuato nel Ccs una delle cinque priorità per contenere l’aumento di CO2 entro il 2030, ma il processo ha anche diverse problematiche evidenziate dagli ecologisti: il gas, che viene iniettato in sacche di terreno cavo (spesso dopo avere estratto petrolio o gas naturale), potrebbe liberarsi improvvisamente a seguito di terremoti avvelenando e asfissiando gli esseri viventi che stanno nelle immediate vicinanze.

Gli scienziati e tecnici norvegesi stanno sfruttando due siti offshore adatti al Ccs: Sleipner and Snøhvit, in cui la CO2 è insufflata a migliaia di metri di profondità (800-1.000 metri a Sleipner e 2.000 metri a Snøhvit), mentre un terzo giacimento esaurito (Troll, nel Mare del Nord) ha avuto il benestare del governo per il suo sfruttamento lo scorso gennaio[25]. «Sino ad oggi sono stati immagazzinati 21 milioni di tonnellate di CO2», spiegano alla Gassnova, l’azienda leader nella ricerca e sviluppo del Ccs, la cui esperienza ha permesso di esportare le tecniche Ccs maturate in Norvegia in diversi paesi (Cina, Indonesia, Sud Africa, paesi del Golfo Persico) e iniziare una collaborazione con molte istituzioni internazionali.

I centri di ricerca Ccs sono tre: il Tcm (Technology Centre Mongstad), Climit e il Norwegian Ccs Research Centre (Nccs). Tra questi il Tcm, operativo dal 2012, è il più grande al mondo ed è di proprietà di un consorzio di aziende guidate dalla Gassnova (77,5%), Equinor (7,5%), Shell (7,5%) e Total (7,5%)[26].

Il peso del petrolio sul Pil norvegese

In tutto questo bel programma ambientale il petrolio continua ad occupare una posizione rilevante nell’economia e nelle società norvegesi. Lungi dall’esserne indipendente, la Norvegia è ancora fortemente vincolata alle fonti fossili che contribuiscono per il 12% al Pil, per il 13% agli introiti erariali del governo centrale, per il 37% alle esportazioni e per il 21% agli investimenti nonostante la produzione sia diminuita del 40% rispetto al 2001 (due milioni di barili al giorno nel 2017 rispetto i 3,4 del 2001, ma nel frattempo la produzione di gas naturale è salita a 120 miliardi di metri cubi all’anno)[27]. E con riserve stimate in 90 miliardi di barili l’economia norvegese e i 200mila lavoratori impiegati nel campo petrolifero possono guardare con relativa tranquillità il proprio[28].

L’industria petrolifera norvegese è tra le più efficienti del mondo e viene vista come modello per altre economie.

Ogni anno si concedono licenze per esplorazioni già in atto e ogni due anni vengono messe all’asta licenze per esplorazioni in nuovi giacimenti. Nel maggio 2016 sono state vendute dieci licenze a tredici compagnie. Alla fine del 2015 la Equinor possedeva 259 licenze, mentre altri cinquantatré operatori ne avevano 182[29].

L’obiettivo a medio-lungo termine del governo non è solo quello di evitare il più possibile l’utilizzo delle fonti fossili nell’ambito nazionale, ma anche di rendersi paese trainante verso un programma etico e ambientale che coinvolga tutto il globo che escluda, nel limite del possibile, lo sfruttamento di energie provenienti da combustibili a base di carbonio.

L’industria petrolifera norvegese ha iniziato a decollare nel 1971, quando la Phillips Petroleum Company cominciò a sfruttare il giacimento di Ekofisk, nel Mare del Nord. Da allora l’oro nero ha rappresentato il carburante che ha alimentato lo sviluppo economico e sociale della nazione la quale, sebbene già relativamente più ricca rispetto al resto dell’Europa, ha cominciato letteralmente a essere inondata di denaro.

L’esportazione dell’oro nero frutta ogni anno alle casse di Oslo 210 miliardi di nok, ma la ricchezza derivata dall’estrazione off-shore non è mai stata ostentata dai protagonisti norvegesi che, in questo senso, si distinguono nettamente dai concorrenti arabi e asiatici.

A differenza della pacchianeria e della ridondante esibizione di questi ultimi, le compagnie petrolifere norvegesi si sono sempre distinte per il loro basso profilo comunicativo e la loro propensione sociale. L’esempio più evidente è visibile nell’eleganza e la linearità dell’enorme sede della Equinor, l’ex Statoil[30], la più grande e facoltosa azienda petrolifera del paese con un fatturato di 61 miliardi di dollari. L’edificio, a basso impatto ambientale, sorge a Fornebu, alla periferia di Oslo ed è stato costruito ad un costo di 1,5 miliardi di nok tra il 2009 e il 2012 dallo studio di architettura A-lab, lo stesso che ha realizzato l’avveniristico Barcode che si affaccia sul fiordo di Oslo[31].

Il Fondo pensioni norvegese, potenza finanziaria alla ricerca dell’etica

L’edificio della Statoil è l’esempio con cui la Norvegia ha amministrato i ricavi derivati dall’esportazione del petrolio. Sin dagli anni iniziali dello sfruttamento dei pozzi, il ministero delle Finanze pubblicava il documento «Il ruolo dell’attività petrolifera nella società norvegese» in cui si avanzava la domanda su come dovessero essere utilizzati i proventi dell’estrazione petrolifera[32].

Nel 1990 è stato fondato il Fondo petrolifero e il 1° gennaio 1998 lo stesso ministero ha affidato alla Banca di Norvegia la gestione delle azioni con la clausola che non si dovesse utilizzare una quantità di denaro superiore ai proventi degli investimenti, stimato nel 3% del capitale di 900 miliardi di euro distribuito in 73 paesi e in 9.158 compagnie[33].

Vi sono delle guide etiche che escludono dagli investimenti da parte del Fondo le ditte responsabili di violazioni di diritti umani, produzione di alcuni tipi di armamenti, produzione di tabacco, di carbone, inquinamento[34].

Così sono bocciate ditte come la Philip Morris, la Posco, Rio Tinto, la Loockheed Martin Corp. (ma la Norvegia è partner nella produzione dell’F-35[35]). Nel solo 2018 sono state escluse dal fondo ditte come l’Aecom, la Bae System, la Fluor Corp., l’Huntington Ingalls Industries Inc. (impegnate nella produzione di armi nucleari), la polacca Atal SA, la cinese Luthai Textile (violazione diritti umani), la Evergreen Marine Corp. Taiwan, Korea Line Corp., Precious Shipping Pcl, Thoresen Thai Agencies (violazione diritti umani e inquinamento ambientale), l’Evergy Inc. la PacifiCorp, Tri-State Generation and Transmission Association, Washington H. Soul Pattinson & Co Ltd (produzione di carbone), l’Halcyon Agri Corp. (inquinamento ambientale), la JBS South Africa (corruzione)[36].

Nel 2017 la Banca di Norvegia ha invitato il ministero delle Finanze a rivedere gli investimenti del Fondo pensioni consigliando di escludere azioni derivate da collocamenti petroliferi. Il consiglio del gestore è stato recepito dallo Storting[37] il quale ha deciso di eliminare 134 compagnie che hanno interessi nell’industria di esplorazione e estrazione petrolifera per un totale di settanta miliardi di nok.

Le critiche, però non mancano, a partire dalle organizzazioni anti Nato, che contestano il coinvolgimento norvegese nel progetto F-35, a compagnie private che si occupano di fondi d’investimento, come la Storebrand Asa, la principale agenzia norvegese che amministra 70 miliardi di dollari affidati da 1,2 milioni di norvegesi.

Jan Erik Saugestad, vice presidente della Storebrand Asa, è critico verso il pacchetto di investimenti effettuati dal Fondo nazionale. Secondo lui il Fondo dovrebbe impegnarsi con più incisività a convincere le compagnie petrolifere a promuovere maggiormente le tecnologie per energie rinnovabili escludendo completamente quelle che hanno ancora attività nel settore dei combustibili fossili. Nel suo ultimo rapporto, la Storebrand Asa ha individuato una lista di società su cui ha deciso di non investire[38].

Per la verità la lista è molto simile a quella del Fondo governativo, dato che la stessa Storebrand non esclude a priori queste società, ma solo quelle che, nel loro portafoglio, hanno guadagni provenienti da attività considerate critiche per l’ambiente superiori a una certa percentuale (ad esempio esclude compagnie che hanno entrate superiori al 5% in tabacco, al 25% in attività collegate al carbone, 20% in attività collegate a sabbie bituminose)[39].

La Storebrand, inoltre, ha recentemente accusato alcune compagnie petrolifere di boicottare le politiche di energie rinnovabili investendo milioni di dollari per impedire o rallentare la successione delle energie alternative da quelle petrolifere. Tra le società accusate vi sono la Bp (53 milioni di Usd – dollari Usa – annui per boicottare queste politiche), la Shell (49 milioni Usd), Exxon Mobil (41 milioni Usd), Chevron (29 milioni Usd), Total (29 milioni Usd). I metodi utilizzati dalle imprese includerebbero pressioni su politici, amministrazioni locali e sull’opinione pubblica[40].

Il rapporto della Storebrand, però, contrasta nettamente con quello di altre agenzie. La Reuter ha recentemente pubblicato una ricerca da cui si evince che le compagnie petrolifere, con in testa la Shell, hanno investito circa tre miliardi di dollari in acquisizioni di energie rinnovabili negli ultimi cinque anni, mentre uno studio della WoodMackenzie, una società di ricerca e consulenza energetica, ha evidenziato che Total, Shell e Equinor sono tra le compagnie petrolifere che investono maggiormente in energie rinnovabili. La sola Equinor investirà in questo settore entro il 2020, il 25% del suo budget di ricerca[41]41.

È stata ancora la Equinor ad aver sviluppato l’Hywind Scotland Pilot Park, il primo centro di produzione eolica mobile off-shore che si trova a venticinque chilometri dalle coste scozzesi di Peterhead, nell’Aberndeenshire. L’Hywind è un complesso di sei turbine eoliche con una capacità energetica di 30 MW (megawatt). Secondo la Windeurope, la Equinor fornisce con i suoi impianti eolici il 7% dell’intera capacità energetica eolica prodotta in Europa nel 2018[42].

La Norvegia e l’ondata migratoria: l’affermazione dei partiti populisti

Con la scoperta del petrolio in Norvegia sono iniziati ad arrivare immigrati estranei alla cultura scandinava: erano pachistani, iugoslavi, maghrebini che non hanno fatto fatica a essere assorbiti nella nascente industria petrolifera. Al tempo stesso, però, la caduta del Muro di Berlino, le crisi politiche ed economiche dell’Europa dell’Est, accompagnate dagli sconvolgimenti militari ed etnici del Centro Asia, Vicino Oriente e Africa hanno messo la Norvegia di fronte a un’ondata migratoria che ha contribuito a sviluppare scetticismo nei confronti all’Unione europea e sospetto verso i nuovi arrivati.

All’inizio del 2018 su 5.400.000 abitanti 746.700 erano immigrati stranieri a cui vanno aggiunti 170mila nati da genitori stranieri[43]43. In totale gli immigrati sono il 17,3% della popolazione e contribuiscono per il 58% all’incremento demografico della nazione[44].

«Il petrolio è stata la fortuna e, al tempo stesso, la sfortuna della Norvegia», sentenzia Bente, una ragazza di Tromso la quale ritiene, come molti suoi connazionali, che il paese dovrebbe porre un freno all’immigrazione.

Questa percezione è stata cavalcata con successo dai partiti populisti di destra e antieuropeisti, in particolare dal Partito del progresso (FrP, Fremskrittspartiet)[45] che, nato nel 1973 come movimento liberista per l’alleggerimento della tassazione con il nome di Anders Lange’s Party for a Drastic Reduction in Taxes, Fees and Public Intervention («Partito di Anders Lange per una drastica riduzione delle tasse e dell’intervento pubblico»), nel 1989, sotto la guida di Carl Hagen si è trasformato in partito anti-immigrati. Dal 2013 l’FrP, oggi capeggiato da Siv Jensen[46], è entrato a far parte della coalizione di governo guidata da Erna Solberg, del Partito conservatore (chiamato «Høyre», destra).

Da allora l’FrP, che nelle ultime elezioni parlamentari del 2017 ha ottenuto un consenso del 15,2%, ha sempre guidato il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) gestendo la politica migratoria della Norvegia. Tutti i sondaggi effettuati dagli anni Novanta che chiedevano quale partito avesse la migliore politica migratoria, hanno visto la netta prevalenza del Partito del progresso. Uno dei politici più popolari nel paese è Sylvi Listhaug, ministro dell’Immigrazione fino al 2018, la quale ha dato una svolta alla politica norvegese definendo «tirannia del buonismo» l’approccio europeo verso l’immigrazione e dichiarando che sarebbe stato più cristiano e ragionevole aiutare più gente possibile nei loro paesi attraverso programmi di aiuto.

Per la verità la stretta sulla migrazione non è prerogativa solo della destra: il primo passo in questo senso è stato fatto dal governo laburista di Gro Harlem Brundtland che con l’Immigration Act del 1988 ha gettato le basi per un maggiore controllo frontaliero, facili respingimenti e rimpatri forzati.

Dove nasce la strage di Utoya

L’attentato di Anders Breivik del 22 luglio 2011, che colpì gli uffici del governo e poi portò alla strage di Utoya, non attenuò l’ondata di risentimento anti immigrati che, anzi, si andò rafforzando anche con l’aiuto di una classe intellettuale aggressiva e critica nei confronti della politica nazionale ed europea. Le idee di Peder Are «Fjordman» Nostvold Jensen che avevano nutrito la mente di Breivik sono oggi rappresentate da scrittori come Kent Andersen, che nel 2011 tacciò il Partito laburista di kulturquislinger («traditore della cultura norvegese») affermando che il governo aveva trasformato la Norvegia in una «Disneyland multiculturale»[47].

Tra i politici di destra si è fatto largo anche il concetto di Eurabia, mutuato dai libri di Bat Ye’Or (soprannome di Gisèle Littman) e di Bruce Bawer[48]. Secondo questa teoria l’Europa sarebbe al centro di una manovra islamico-progressista-comunista il cui fine ultimo sarebbe quello di trasformare il continente in una colonia islamica con l’aiuto della stessa Unione europea. Nel 2009 Per-Willy Amundsen, ministro della Giustizia tra il dicembre 2016 e il gennaio 2018, dichiarò che i musulmani sarebbero diventati la maggioranza in Norvegia entro un ventennio.

Nonostante la Norvegia non abbia aderito all’Unione europea, il paese ha comunque condiviso la Convenzione di Dublino generando critiche da parte di quella fetta di popolazione che vorrebbe un isolamento maggiore della propria nazione.

L’immigrazione: numeri e problemi

La Norvegia di oggi è dunque molto distante da quella che nel 1921 ha visto l’esploratore Fridtjof Nansen diventare il primo Alto Commissario per i rifugiati nella Lega delle Nazioni. Dall’inizio del nuovo secolo i governi che si sono succeduti alla guida del paese (qualunque fosse il loro orientamento) hanno adottato la politica della qualità piuttosto che della quantità accettando solo un determinato numero di migranti economici in base alle proprie esigenze e disponibilità di mercato del lavoro, scolastico e abitativo. Il parlamento ogni anno stabilisce un numero massimo di rifugiati che possono essere accolti nel paese, mentre il ministero della Giustizia, pubblica sicurezza e immigrazione (Mgpsi) identifica i paesi di provenienza e la tipologia di rifugiati escludendo a priori coloro che hanno comportamenti e attitudini indesiderate o problemi di tossicodipendenza.

Così nel 2018 il 28% delle domande d’asilo politico è stato respinto (in totale gli immigrati nello stesso periodo sono stati 49.800[49]) mentre 6mila persone senza permesso legale sono state espulse, di cui 5.400 costretti a rientrare a forza nei loro paesi d’origine (4mila per aver commesso un crimine[50]).

Una politica che rigetta l’idea che molti hanno di una Norvegia come paese aperto e accogliente verso chi cerca asilo. L’atteggiamento oggi prevalente è quello utilitaristico mischiato alla retorica dell’«aiutiamoli a casa loro». I migranti economici sono accuratamente scelti tra coloro che dimostrano di essere professionalmente preparati a svolgere determinati lavori perché, come ha detto nel giugno 2018 l’allora ministro dell’Immigrazione Tor Mikkel Wara: «L’immigrazione va a beneficio della comunità solo sino a certi livelli e certe composizioni. Lavoratori con competenze professionali, provenienti da società con valori moderni e liberali, con competenze che sono richieste dal nostro mercato del lavoro sono utili. Ma i benefici si tramutano in danni per i loro stessi paesi, se questi lavoratori professionalmente validi lasciano la loro terra, privando la loro stessa società di elementi validi»[51].

«La vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda sul principio dell’io ti do e tu mi dai», scriveva il norvegese Henrik Ibsen[52].

Così la politica migratoria norvegese è dettata da due fattori: la consapevolezza che il welfare ha risorse limitate, ma al tempo stesso il diritto degli immigrati di godere degli stessi diritti e opportunità dei cittadini norvegesi. «Questo è il punto che ci distanzia da altri paesi dell’Europa», spiega Roger Jensen, teologo e direttore del Centro di pellegrinaggio del sentiero di Sant’Olav, a Oslo. «A differenza della Svezia e della Danimarca, che hanno ghettizzato gli immigrati, noi li abbiamo accolti e li abbiamo aiutati a inserirsi nella società diminuendo i fattori di rischio criminalità».

Un’affermazione, quella di Jensen, che non incontra l’appoggio di parte degli abitanti delle periferie cittadine.

In effetti, visitando alcuni quartieri di Oslo, sembra di sentire il già citato Luigi di Ruscio quando scriveva «Ovunque l’ultimo / per questa razza orribile di primi / ultimo nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova terra / per la sua voce italiana / ultimo ad odiare / e l’odio di quest’uomo vi marca tutti / schiodato e crocifisso in ogni ora / dannato per un mondo di dannati»[53].

Nel sito document.no, uno dei tanti critici nei confronti dell’immigrazione e che raccoglie le idee degli intellettuali vicini al FrP, sono apparsi diversi articoli sulle baby gang. Un’area particolarmente critica è Drammen, un quartiere dormitorio alla periferia di Oslo dove opererebbero sette bande giovanili in cui «la maggior parte dei componenti è immigrata»[54].

È stato anche criticato il logo stilizzato di Oslo, dove, secondo il sito document.no, «non rimane molto né di St. Hallvard né del simbolismo cristiano (…) così i nostri nuovi connazionali (immigrati e musulmani, ndr) possono identificarsi con il nuovo simbolo. Nessuno si potrà offendere per un logo così anonimo»[55].

Per chi rimane: integrazione e diritti

Dalla fine degli anni Novanta si è introdotto l’obbligatorietà di partecipare a programmi di insegnamento della lingua e della conoscenza culturale, storica e sociale della Norvegia e nel dicembre 2018 il governo ha lanciato il programma Integration through education and competence il cui principale obiettivo è inserire gli immigrati nel mondo del lavoro e nella società attraverso l’istruzione pubblica, il lavoro, l’integrazione sociale e l’educazione civica.

Le nuove regole implementate dal governo impongono agli immigrati dei doveri tra cui la frequenza gratuita a 175 ore di scuola di lingua norvegese e a 50 ore di studi sociali, mentre ai rifugiati politici in possesso di un diploma scientifico e tecnologico dei corsi professionali che li indirizzino verso il mercato del lavoro. A tutti gli immigrati, dopo la schedatura e il test obbligatorio Tbc viene offerto un alloggio temporaneo (nel settembre 2018 c’erano circa 4mila residenti, nel 2016, 13.400). Una persona che aiuta uno straniero a entrare illegalmente in Norvegia rischia fino a tre anni di prigione, mentre chi sfrutta l’immigrazione per profitto rischia fino a sei anni. In cambio agli stranieri vengono garantiti gli stessi diritti dei norvegesi.

Ognuna delle 422 municipalità della Norvegia ha diritto di decidere il numero di rifugiati che ritiene di poter accogliere ogni anno. Nel 2018 meno di 250 municipalità hanno offerto la loro disponibilità (136 in meno rispetto al 2017). Il governo concede ai comuni una somma di denaro per ogni rifugiato accolto per 5 anni (nel 2018 era di circa 80.000 euro per ogni adulto e 75.000 per altri adulti famigliari[56]).

Dopo tre anni di soggiorno nel paese senza aver commesso crimini, dopo aver passato un test di lingua A1 (che richiede tra le 300 e le 600 ore di lezione a carico dell’utente) e uno di storia e legislazione norvegese, il candidato può ottenere la residenza permanente, mentre per la cittadinanza occorre risiedere ininterrottamente nel paese per sette anni senza aver commesso reati gravi e passare il test di lingua A2.

Le politiche di integrazione, da qualunque parte le si guardi, sembra comunque stiano funzionando: nonostante quello che molti esponenti della destra xenofoba vanno dicendo e scrivendo, il rispetto tributato dalla società norvegese verso culture provenienti dall’esterno è contraccambiato dall’amore per la nuova patria da parte degli immigrati. Lo dimostra anche un recente rapporto compilato da Statistics Norway in cui si evidenzia che il 76% dei figli di immigrati che sono nati in Norvegia parlano il norvegese oltre alla lingua dei genitori, ma la quasi totalità degli immigrati di seconda generazione sente come propria nazione e cultura più la Norvegia che il paese dei loro padri.

La lezione che la Norvegia può darci è quella di un paese che, in cambio del rispetto reciproco, è possibile che culture tanto diverse in ambito storico, politico, geografico, religioso possano convivere e progredire per lo sviluppo di una sola comunità dalle mille sfaccettature.

Piergiorgio Pescali


Note

[1] Il friluftsliv è l’abitudine dei norvegesi a spendere il proprio tempo libero all’aria aperta.

[2] Undp, Human Development Indices and Indicator, 2018 Statistical Update: Table 1, pag. 22 e Table 2, 1990-2017 pag. 26.

I versi di Bjornstjerne Bjornson sono tratti da Sidste Sang (L’ultima canzone): «Una volta ho sentito di una festa in Spagna: / Un cavallo brado venne lasciato libero nell’arena, / poi una tigre fuori dalla sua gabbia / si aggirò un po’ intorno di soppiatto, / poi si pose sulla pancia».

[4] Statistics Norway, Economic Survey 2019/1 – Economic Development in Norway, Main economic indicators 2007-2022, pag. 31.

[5] Luigi Di Ruscio (Fermo 1930 – Oslo 2011), La neve nera.

[6] Innovation Norway, Key Figures for Norwegian Tourism 2017, The importance of tourism for Norway, pag 6; pag 10; pag. 30.

[7] Nordli et al. (2014). Long-term temperature trends and variability on Spitsbergen: The extended Svalbard Airport temperature series, 1898-2012, Polar Research (http:// dx.doi.org/10.3402/polar.v33.21349).

[8] Norwegian Polar Institute, SvalGlac: Sensitivity of Svalbard glaciers to climate change, 2010-2016.

[9] Statistics Norway, citato. Vedi anche:
https://www.pre-sustainability.com/news/updated-carbon-footprint-calculation-factors.

[10] Norwegian Ministry of Climate and Environment, Norway’s Climate Strategy for 2030: a transformational approach within a European cooperation framework (2016-2017), 16 giugno 2017, pag. 104.

[11] In Norvegia gli alberi sono suddivisi in cinque categorie dalla I alla V. Solo quando le piante raggiungono la V categoria l’assorbimento di gas serra diminuisce repentinamente e sarebbe quindi necessaria la sostituzione.

[12] Miljødirektoratet, Statens landbruksforvaltning og Nibio (2013) Planting av skog på nye arealer som klimatiltak [Afforestation of new areas as a climate mitigation measure], M26-2013.

[13] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, Capitolo 8. Renewable Energy, §Supply and Demand – Renewable energy in the TPES, pag. 126.

[14] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, 1. General Energy Policy, §Key data (2015 estimates) pag. 15.

[15] European Commission, Directorate General for Energy, Quarterly Report on European Electricity Markets, DG Energy, Vol 11, issue 1, first quarter of 2018, Capitolo 2, pag.7.

[16] International Energy Agency, Key world energy statistics 2018, Selected indicators for 2016, pp. 29-33.

[17] Oggi la Kewet e la sua successiva evoluzione, la Buddy, sono scomparse dal mercato. Avevano un’autonomia massima di 150 km, erano piccole, ospitavano al massimo tre adulti, non avevano bagagliaio e somigliavano ad un Sulky, una minicar squadrata degli anni Ottanta.

[18] Ev, «Electric vehicle», veicolo completamente elettrico che si differenza dal Phev, «Plug-in Hybrid Electric Vehicle», veicoli elettrici ibridi.

[19] https://ofv.no/bilsalget/bilsalget-i-2018

[20] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, citata, pp. 52-53.
L’ibrido (Phev) rappresenta il 40% delle auto elettriche vendute nel 2018, nel 2016 era il 35%.

[21] https://info.nobil.no/eng

[22] La direttiva europea consiglia una colonnina di ricarica ogni 10 Ev; in Norvegia la proporzione è di 0,65 colonnine/Ev.

[23] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[24] https://www.numbeo.com/cost-of-living/country_result.jsp?country=Norway

[25] https://www.gassnova.no/en/the-government-has-granted-permission-for-co2-storage-in-the-north-sea

[26] http://www.tcmda.com/en/About-TCM/Owners/

[27] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 9

[28] Il Mar del Nord ha il 51% delle riserve petrolifere, il Mar di Norvegia il 23% e il Mar di Barents il 26%. Dal 2009 l’estrazione di petrolio del Mare del Nord è diminuita del 7%, mentre nel Mare di Barents è aumentata del 7%. La Norvegia aveva nel 2016 80 campi di produzione petrolifera off-shore: 62 nel Mare del Nord, 16 nel Mare di Norvegia e 2 nel Mare di Barents.

[29] International Energy Agency, Energy Policies of IEA Countries, Norway 2017 Review, 2017, pag. 66.

[30] Statoil è diventata Equinor il 15 maggio 2018 con la fusione della Statoil con la Norsk Hydro. Il principale azionista è il governo norvegese (67,0%).

[31] A-lab, Statoil Regional and International Offices, §Fakta.

[32] Hillmar Rommetvedt, The Rise of the Norwegian Parliament, Ed. Frank Cass and Company Limited, Londra, 2003, pp. 189-190.

[33] https://www.nbim.no/en/

[34] Guidelines for observation and exclusion of companies from the Government Pension Fund Global.

[35] https://www.f35.com/global/participation/norway

[36] Norge Bank Investment Management, Responsible Investment Government Pension Fund Global, 2018 – Divestments, §Ethical exclusions, p. 113.

[37] Il parlamento norvegese.

[38] Storebrand, Sustainable investments in Storebrand Q4 2018, Companies that Storebrand does not invest in.

[39] https://www.storebrand.no/en/sustainability/exclusions

[40] Niall McCarthy, Oil And Gas Giants Spend Millions Lobbying To Block Climate Change Policies [Infographic], Forbes, 25/03/2019

[41] https://www.reuters.com/article/us-shell-m-a/shell-buying-spree-cranks-up-race-for-clean-energy-idUSKBN1FF1A8; vedi anche:
https://www.theguardian.com/business/2017/nov/28/   shell-doubles-green-spending-vo ws-halve-carbon-footprint
https://energypost.eu/how-attractive-are-renewables-for-oil-companies/

[42] Windeurope, Offshore Wind in Europe-Key and trend statistics 2018, Capitolo 3 – Industry Activity and Supply Chain, §3.2 Wind Farm Owner, febbraio 2019.

[43] worldpopulationreview.com/countries/norway-population/

[44] Espen Thorud, membro OECD, Expert Group on Migration on Norway, Immigration and Integration 2017-2018, 2018, pag. 38 e pag. 6. – Al 31 dicembre 2017, in Italia la popolazione straniera residente era di 5.144.440 su un totale di 60.483.973 abitanti pari all’8,50% (fonte Istat).

[45] Il FrP rifiuta l’etichetta di partito populista.

[46] Siv Jensen è anche ministro delle Finanze nell’attuale governo Solberg

[47] http://www.aftenposten.no/meninger/kronikker/Drom-fra-Disneyland-6270375.html

[48] Ye’or Bat, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007. Vedi anche: Bruce Bawer, While Europe Slept: How Radical Islam is Destroying the West from Within, Random House, 2006.

[49] Espen Thorud, citato, pag. 10.

[50] Espen Thorud, citato, pag. 7.

[51] EMN Norway Conference, Challenges – introduction by Tor Mikkel Wara, Oslo, 21 giugno 2018.

[52] Henrik Ibsen, Casa di bambola.

[53] Luigi di Ruscio, Ovunque l’ultimo.

[54] https://www.document.no/2019/03/30/gjenger-gjor-drammen-til-et-helvete-pa-jord/

[55] https://www.document.no/2019/03/31/ny-logo-for-oslo-kommune/

[56] Espen Thorud, citato, pag. 32.




L’euro della discordia


Entrato in circolazione il 1° gennaio 2002, oggi l’euro è la moneta comune di 19 paesi europei. Dopo il dollaro, è la seconda valuta più importante al mondo. La sua storia è però anche una storia di vincitori e vinti. Tra i primi si annovera la Germania, tra i secondi l’Italia.

Testo di Francesco Gesualdi

Il primo gennaio 1999 undici nazioni europee si legarono a un patto di cambi fissi e crearono l’euro. Tre anni dopo vennero stampate anche le relative banconote e la nuova moneta soppiantò lire, franchi, fiorini, marchi, per rimanere l’unica in circolazione nei paesi aderenti al patto. In seguito, altre otto nazioni adottarono la moneta unica, e oggi l’euro è usato in 19 paesi per un totale di 340 milioni di persone.

A livello internazionale è la seconda moneta più importante del mondo dopo il dollaro: copre il 36% dei pagamenti internazionali e costituisce il 20% delle riserve di tutte le banche centrali del mondo. Dunque, quella dell’euro sembrerebbe una storia tutta improntata al successo. Ma, a guardare meglio, è una storia di vincitori e vinti e non per il principio di unificazione su cui la moneta unica si basava, ma per il modo in cui è stata gestita.

L’euro «neoliberista»

Per cominciare è importante capire il contesto ideologico prima che economico. Il segno astrale sotto cui nasce l’euro è quello neoliberista caratterizzato da tre atti di fede: il mercato è la forma suprema di funzionamento dell’economia; il mercato trova da solo i propri equilibri; il privato è bello il pubblico è brutto. Da cui altrettante conclusioni: la concorrenza è il motore dell’economia; le regole vanno eliminate; tutto va privatizzato. Inevitabilmente l’euro nasce non come una moneta di stato al servizio dei bisogni sociali della collettività, ma come una moneta bancaria al servizio del mercato organizzato sulla concorrenza. Nella convinzione che la politica faccia solo danni, il governo dell’euro è affidato a una struttura indipendente, la Banca centrale europea (Bce), gestita dal sistema bancario europeo. Questa ha come mandato esclusivo ciò che più serve al mercato ossia la difesa del valore della moneta tramite il contenimento dell’inflazione. E, per evitare ogni rischio di pressione da parte della politica, che poi significa del popolo visto che la politica è espressione degli elettori, la Bce nasce con il divieto di prestare anche un solo centesimo direttamente agli stati. Neanche il paese più capitalista del mondo, ossia gli Stati Uniti, è arrivato a tanto dal momento che, tra gli scopi della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, è compresa la piena occupazione mentre sono previsti rapporti finanziari diretti fra questa e il governo statunitense.

Nessuna svalutazione, massima concorrenza

Oltre a una gestione totalmente privatistica dell’euro, l’altro grande elemento che caratterizza gli effetti della nuova moneta è il regime di massima concorrenza in vigore nell’Unione europea. Per la verità l’Europa nasce come un progetto di unione doganale, ossia come spazio di libero scambio dentro il quale merci e servizi possano circolare senza ostacoli tariffari. Un conto è però avere un’unione doganale con monete differenziate, un altro un’unione doganale che è anche unione monetaria. Da un punto di vista tariffario fra le due situazioni non c’è differenza: in entrambi i casi le vendite sono regolate dalla concorrenza, ossia dalla capacità delle imprese di farsi spazio producendo beni di qualità crescente a prezzi sempre più bassi. Ma in un regime di monete nazionali, in caso di cattiva parata, le nazioni possono ridurre artificialmente i prezzi dei propri prodotti ricorrendo alla svalutazione. Con la moneta unica questa possibilità viene meno e la concorrenza diventa l’unica modalità di confronto tra le imprese. Se sei capace di produrre roba buona a prezzi bassi ti fai spazio, altrimenti sei sopraffatto. E nessuno viene in tuo aiuto. In definitiva adottare una moneta unica è come spalancare le gabbie dello zoo: le bestie più forti possono saccheggiare le gabbie delle bestie più deboli senza che intervenga alcun guardiano. Che tradotto significa piena possibilità per le imprese più forti di penetrare nei mercati delle imprese più deboli e portarsi via i loro clienti.

Perché la Germania stravince

Da un punto di vista della forza industriale, l’Europa è sempre stata a due velocità con un Nord più forte e un Sud più debole, un po’ come è l’Italia. E, tra i paesi del Nord, quello che ha sempre avuto il ruolo di leader è la Germania, pur avendo anch’essa i suoi alti e i suoi bassi (come in questo momento storico). Per la verità se guardiamo l’interscambio fra Italia e Germania, troviamo che prima del 1985 l’Italia era in vantaggio, poi la situazione si è rovesciata e l’Italia è rimasta in uno stato di permanente disavanzo verso la Germania. Ad esempio, nel 2018 ha esportato verso la Germania beni per 55 miliardi di euro, mentre ne ha importati per 65 miliardi. Va detto, tuttavia, che la Germania trionfa non solo in Europa, ma nel mondo intero. Con 1.400 miliardi di dollari di esportazioni (al 2017) contende agli Stati Uniti il secondo posto fra gli esportatori mondiali, dopo la Cina. Ma mentre gli Stati Uniti registrano un debito commerciale nei confronti del resto del mondo pari a 566 miliardi di dollari, la Germania registra un avanzo di 250 miliardi.

Indiscutibilmente il successo tedesco ha subìto un’accelerazione con la nascita dell’euro. E se nel 1999 aveva un saldo commerciale negativo pari all’1,7% del Pil, nel 2008 lo troviamo positivo del 6,8% per raggiungere il 7,6% nel 2016.

Altrettanto indiscutibilmente una forte spinta è provenuta dalle riforme del lavoro, realizzate tra il 2002 e il 2005, che vanno sotto il nome di riforme Hartz (in tedesco Hartz-Konzept), dal nome del suo proponente. Oltre a una maggiore libertà di licenziamento, esse comprendevano l’ampliamento delle forme di assunzione, ivi compresi i mini-jobs retribuiti in forma forfettaria con salari non superiori ai 450 euro mensili. Inoltre, con l’ingresso nell’Unione europea dell’Ungheria e di altri paesi dell’Est, la Germania ha anche potuto trarre vantaggio dall’esportazione di fasi produttive in questi paesi che hanno un costo del lavoro anche dieci volte più basso. Tuttavia, non si può neanche tacere il ruolo della formazione e degli investimenti in sviluppo e ricerca, che hanno permesso alle imprese tedesche di accrescere considerevolmente la loro produttività e, quindi, di ridurre i prezzi pur aumentando i salari.

Vincitori e vinti secondo l’istituto tedesco Cep

A tutto questo, molti però aggiungono che la fortuna della Germania è stata costruita anche sull’uso di un euro che, essendo ancorato all’economia di un continente che non ha la sua stessa solidità, di fatto è sottovalutato rispetto alle capacità produttive tedesche. Come dire che la Germania usa uno strumento monetario truccato che la rende artificiosamente più competitiva. Seppure sia impossibile stabilire quanta parte del successo tedesco sia imputabile all’uso di un euro sottovalutato, rimane il calcolo del centro studi tedesco Cep (Centrum für Europäische Politik) secondo il quale l’ingresso nell’euro ha permesso alla Germania di accrescere la propria ricchezza di 1.893 miliardi di euro dal 1999 ad oggi, 23mila euro in più per ogni cittadino tedesco. Per contro, l’Italia sarebbe quella che ci ha rimesso di più: in 20 anni avrebbe perso 4.325 miliardi di euro, 73.605 euro in meno per ogni italiano (numeri visibili nei due grafici, ndr).

Lo studio non è molto chiaro sui criteri di calcolo, per cui si tratta di numeri da prendere con le pinze. È innegabile, tuttavia, che l’euro abbia giocato (e giochi) un ruolo frenante nei confronti dell’Italia, non solo perché – non potendo svalutare – il nostro paese ha perso quote di mercato interno a favore di una Germania più competitiva, ma soprattutto perché si è dovuta piegare alle politiche di austerità imposte dall’Europa in nome dell’alto debito pubblico. Lo stesso Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, in un discorso tenuto a inizio anno al Parlamento europeo ha parlato di «austerità avventata» da parte dell’Europa. Austerità che, per l’innalzamento delle tasse e la riduzione delle spese da parte dello stato, ha provocato una pesante battuta d’arresto nella domanda di beni e servizi aggravando la recessione messa in moto dalla crisi finanziaria mondiale.

Uscire dall’euro?

Nonostante tutto, sembra che la domanda se rimanere o uscire dall’euro non si ponga più, in quanto la maggior parte degli italiani sembra propensa a restare temendo che, in caso di uscita, le perdite possano essere superiori ai vantaggi.

Ciò non toglie che si debba fare una battaglia più ampia per chiedere una diversa gestione dell’euro perché questo è il vero nodo da affrontare se vogliamo mettere fine all’austerità che ancora ci perseguita.

Il punto da cui partire è che si sono raccontate molte falsità rispetto al nostro debito pubblico, la principale delle quali è che siamo indebitati perché abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. La verità è che non siamo stati capaci di tenere la corsa con gli interessi e ogni anno accendiamo nuovo debito per pagare gli interessi non coperti dal risparmio realizzato dalla pubblica amministrazione. Questa storia non può durare in eterno. Non si può continuare all’infinito a farci mungere per arricchire banche, assicurazioni e altri investitori. La montagna di interessi che abbiamo pagato a questi signori dal 1980 a oggi supera i 2.000 miliardi di euro. Fin dove vogliamo arrivare?

Azzerare il debito pubblico

L’unico modo per uscire da questo meccanismo infernale è azzerare il nostro debito pubblico, ma togliamoci dalla testa di poterlo fare pagandolo: è diventato troppo grande per essere ripagato. Esso potrebbe essere azzerato solo buttandolo sulle spalle della Banca centrale europea, l’unica che può caricarsi di debiti senza rischiare di subire ricatti. Come massima autorità capace di emettere moneta non rischia di fallire, né di subire attacchi speculativi, mentre può gestire interessi e capitale con una varietà di strumenti molto più ampia di quelli a disposizione dei governi. Vari studi hanno dimostrato la fattibilità di questa ipotesi, ma il vero ostacolo sono i trattati europei che escludono ogni possibilità di coinvolgimento diretto della Bce con i debiti pubblici. Dunque, è da qui che bisogna partire. Ma i nostri rappresentanti politici vogliono farlo? Un modo per capirlo è chiedere ai candidati delle prossime elezioni europee (23-26 maggio 2019) come pensano che vada gestito il debito pubblico. Se vi rispondono che la strada è la crescita, diffidate: è il paravento che tutti usano per imporci la solita vecchia ricetta dell’austerità che tanto ci danneggia. La soluzione è in mano all’Europa, ma verrà solo se essa sarà rifondata. Ora che stiamo per andare a votare anche noi possiamo decidere quale Europa vogliamo.

Francesco Gesualdi




Esseri umani respinti da un’Europa disumana


Da quando nel 2017 il governo ungherese ha ultimato la recinzione metallica alta 3,5 metri e lunga circa 175 km, sigillando il confine con la Serbia, la rotta migratoria balcanica si è spostata a Ovest, in quel lembo di Bosnia che si incunea nell’Unione europea, il cantone di Una-Sana. È da quell’angolo di mondo che nasce questo reportage.

Testo e foto di. Alberto Sachero

I rifugiati provenienti dalla Grecia, attraverso le rotte di Albania e Montenegro o Macedonia e Serbia, giungono alla porta d’ingresso dell’Unione, il confine con la Croazia, il 28° e ultimo paese, in ordine cronologico, a entrare in Ue nel 2013.

Si stima che più di 25.000 persone siano transitate in Bosnia nel 2018, ma nessuna di queste si vuole fermare in uno stato dove povertà e disoccupazione spingono gli stessi suoi abitanti ad emigrare altrove. Tentano di entrare nell’Ue per raggiungere i paesi tanto sognati: Germania, Olanda, Belgio, Francia, Spagna, Italia e Inghilterra.

Nei pressi del confine bosniaco-croato le cittadine di Velika Kladuša e Bihać, a partire da marzo 2018, si sono trovate a gestire una situazione di emergenza. Migliaia di migranti si sono concentrati nel campo «palude» vicino al canile municipale di Kladuša, e a Bihać all’interno del «Dom», un fatiscente stabile nel parco del centro cittadino. Nel primo, le persone dormivano in tende improvvisate, fatte di rami d’albero e teli di plastica; nel secondo in una struttura senza infissi, senza luce elettrica e con pericolosi buchi nei pavimenti dei suoi tre piani.

Le organizzazioni internazionali Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) si sono dimostrate da subito inadeguate a gestire tale emergenza. I migranti erano (e sono tutt’ora) sostenuti da una parte della popolazione bosniaca, reduce dalla guerra nell’ex Jugoslavia (1991-2001), e dalle associazioni di volontariato. I volontari di Croce Rossa, Medici senza frontiere, Ipsia, No Name Kitchen, Sos Team Kladuša e altri lavorano senza sosta per tamponare una situazione sempre più drammatica che l’Europa per il momento non vuole risolvere.

Per la maggior parte giovani uomini, più raramente donne e famiglie con bambini, provengono da quell’area geografica che dal Medio Oriente arriva fino alla Cina: Siria, Iraq, Iran, Afghanistan e Pakistan. Popoli che fuggono da guerre, persecuzioni politiche e fame. Popoli che cercano rifugio politico in Europa, ma ai quali l’Europa non concede il diritto di richiederlo, contravvenendo alle proprie leggi.

La maggioranza di loro ha provato più volte il «Game» senza vincerlo. «Game» (il gioco) è termine con cui i profughi ironicamente chiamano il tentativo di entrare nell’Unione europea. Partono in genere di notte, in piccoli gruppi. Spesso la polizia croata li intercetta con droni, cani e rilevatori di calore, e li respinge in Bosnia. Vengono picchiati, umiliati e derubati dei pochi soldi che hanno, mentre i loro telefonini, indispensabili per orientarsi col Gps nella fitta foresta, sono distrutti a manganellate.

I ragazzi raramente vincono, più spesso perdono il «Game» e, dopo giorni e giorni di cammino nei boschi e nei fiumi gelati, tornano a Kladuša o Bihać con il corpo martoriato, ferite sugli arti e piedi macerati. Qualcuno è morto annegato o per ipotermia nel tentativo di fuggire dalla polizia.

Perché i confini sono chiusi?

Alcuni, in alternativa al «Game», acquistano documenti contraffatti o pagano (i pochi che se lo possono permettere) qualche migliaio di euro ai trafficanti per farsi trasportare in furgone in Slovenia. Qui però spesso vengono scovati, consegnati alla polizia croata e deportati nuovamente in Bosnia. Il cerchio è così chiuso.

Nizar, giovane siriano di Aleppo: «Io non sono qui per scelta, in Siria stavo bene, ma ora è un paese completamente distrutto. Vorrei tornare, ma forse non ci tornerò mai».

Amhed, iracheno di Baghdad: «Ho camminato due anni con mia moglie e i miei due figli per arrivare in Grecia, lì ci siamo fermati altri due anni. Le condizioni nei campi erano terribili e quindi siamo ripartiti e arrivati in Bosnia, sempre a piedi. Ora vogliamo entrare in Europa e raggiungere i nostri parenti in Germania. In Iraq non possiamo tornare. Perché il confine è chiuso?».

Questa è la domanda che tutti fanno: «Why is the border closed?».

L’Europa continua a ignorare questo fatto e mantiene i rifugiati in un limbo: a casa non torni, ma in Europa non entri.

Manganelli e spray

Alla fine di ottobre 2018 i rifugiati hanno manifestato per una settimana intera al valico di Maljevac, al confine tra Bosnia e Croazia, costruendo un nuovo campo di tende con rami e plastica. I poliziotti croati hanno costituito un blocco per respingerli, ma alcuni hanno cercato di forzarlo. Si sono verificati scontri e la polizia ha usato manganelli e spray al peperoncino per farli indietreggiare. Anche donne, bambini e poliziotti bosniaci (che spesso proteggono i migranti dalla polizia croata) sono stati curati per asfissia e bruciori agli occhi nel furgone di Medici senza frontiere.

Il nuovo campo profughi distava trecento metri dalla dogana, ma il confine è stato chiuso allo scopo di fomentare il malcontento della popolazione locale, che vive di scambi economici tra i due paesi. L’Oim, che distribuiva cibo tre volte al giorno nel campo originario, si è rifiutata di portarlo al nuovo campo. I rifugiati, per mangiare, doverano tornare al vecchio campo o facevano spesa in paese, ma più spesso erano le stesse famiglie bosniache e i volontari stranieri a portare cibo e acqua per sostenerli.

Le autorità hanno bloccato le strade adiacenti la frontiera e dopo cinque giorni hanno comunicato ai profughi che se non fossero tornati al campo originario (a tre km dal confine), avrebbero bloccato l’unico sentiero utile per rifornirsi. I migranti si sono rifiutati, ma dopo due giorni, stremati, hanno dovuto cedere e sono stati trasferiti con cinque bus al nuovo campo: il «Miral». Questa struttura, gestita dalla Oim, è una ex fabbrica dotata di riscaldamento fuori dall’abitato di Kladuša.

Confinati e ignorati

La stessa cosa si è verificata a Bihać, dove dal fatiscente «Dom» sono stati trasportati al «Bira», ex fabbrica di frigoriferi. A gennaio 2019 ci vivevano circa 2.300 persone.

Un servizio privato di sicurezza nega l’accesso a chiunque non lavori all’interno. Non è quindi possibile verificare le condizioni di vita dei migranti, ma le testimonianze di volontari e rifugiati riportano che sono terribili. Nonostante la grande disponibilità di fondi delle agenzie Oim e Unhcr, mancano un’adeguata assistenza sanitaria e psicologica, per alleviare le sofferenze delle persone. A ottobre 2018 è morto all’interno del «Bira» un giovane ragazzo in circostanze poco chiare. Le organizzazioni internazionali, invece di garantire a chi ne ha diritto la richiesta di asilo politico, forniscono a malapena vitto e alloggio in ghetti prefabbricati. La convivenza forzata di più di 2.000 uomini provenienti da paesi diversi, sommata alle pessime condizioni, scatena spesso risse. Le associazioni indipendenti di volontari svolgono un lavoro straordinario fornendo assistenza sanitaria di base, scarpe e indumenti, servizio docce, pasti caldi e tanta comprensione umana.

L’Europa ha così «confinato» migliaia di esseri umani in due ex fabbriche bosniache, in modo da allontanare la minaccia di «invasione» da parte di questa povera gente. Un atto disumano contro ogni legge del diritto internazionale.

Oggi in pieno inverno, tra freddo, neve e respingimenti, i profughi continuano a tentare il «Game», che spesso perdono. Esseri umani respinti da una Europa disumana.

Alberto Sachero




Vento antieuropeista?

Un’altra Europa è possibile


Per poter proseguire il suo cammino, l’Europa deve cambiare. Smettendo di proteggere gli interessi privati e la speculazione per porsi al servizio delle persone e del bene comune.


Testo di Francesco Gesualdi


Un vento antieuropeista soffia per l’Europa, dal Danubio all’Atlantico, dal Mediterraneo al Polo Nord. I partiti nazionalisti l’hanno intercettato e lo amplificano in funzione anti straniero, convogliando le ansie e le paure provocate dall’iniquità. Il fondamento ideologico di questi movimenti è l’identità nazionale, in nome della quale viene fatto accettare ai cittadini qualsiasi abuso, ingiustizia, privazione di libertà.

L’immigrazione e l’appartenenza all’Ue dunque sono le circostanze utilizzate dai nazionalisti per fomentare lo spirito xenofobo.

Gli immigrati vengono strumentalizzati dipingendoli come coloro che ci rubano i posti di lavoro e si appropriano indebitamente del nostro stato sociale.

L’Europa viene strumentalizzata dipingendola come una camicia di forza che vuole limitare la nostra sovranità. Ma colpevolizzare l’Europa perché limita la sovranità degli stati aderenti è come colpevolizzare il cane perché abbaia di notte quando vede un pericolo.

Perché i nazionalisti hanno successo

Il compito del cane è quello di fare la guardia. Allo stesso modo, il compito degli organismi sovranazionali è quello scrivere regole che condizionino la sovranità degli stati in nome di un interesse comune. Del resto agli stati rimane sempre la libertà di decidere se aderirvi o rimanerne fuori.

I nazionalisti si oppongono agli organismi sovranazionali per principio, tutti gli altri decidono se aderirvi o meno in base agli obiettivi che l’organismo si prefigge e ai principi che lo animano. Da questo punto di vista, anche i non nazionalisti hanno la necessità di ripensare l’Europa. Se non lo faranno loro, la consegneranno definitivamente nelle mani dei nazionalisti, i quali non la elimineranno, ma la trasformeranno in una nuova entità di cui è difficile prevedere la connotazione economica, ma che di certo avrà le sembianze di una fortezza con i confini ben difesi.

Verosimilmente il nuovo patto europeo a quel punto potrebbe fondarsi su due obiettivi: il mantenimento di un mercato comune interno e la chiusura militarizzata dei confini esterni. Il primo per compiacere le imprese, il secondo per le frustrazioni dei cittadini.

Europa, da madre a matrigna

Oggi i nazionalisti hanno buon gioco ad alimentare lo spirito anti europeo, perché l’Europa è macchiata da un peccato originale che la fa essere più matrigna che madre. Stiamo parlando della scelta mercantilista: finché ha avuto come applicazione pratica la creazione di un mercato comune, non ha provocato molti contraccolpi, ma quando si è realizzata nella moneta unica, ha orientato la predilezione dei governanti europei verso i forti e gli interessi privati, in spregio a quelli comuni.

L’Europa, ignorando che l’euro, senza meccanismi di compensazione, poteva trasformarsi in uno tzunami per i paesi e le imprese più deboli, e ignorando che chi gestisce la moneta, di fatto, gestisce il potere, si è dotata di un’architettura monetaria che favorisce le imprese ad alta capacità concorrenziale contro quelle meno competitive e le banche contro i governi.

Se esaminiamo le statistiche commerciali stilate dopo l’introduzione dell’euro, notiamo che Olanda, Belgio e Germania hanno avuto un costante ed elevato saldo commerciale positivo nei confronti degli altri paesi dell’Unione europea. Al contrario Francia, Austria, Portogallo, Grecia hanno avuto un costante saldo negativo. Quanto all’Italia, notiamo un andamento altalenante: in pareggio fino al 2009, poi negativo fino al 2012, infine di nuovo positivo ai giorni nostri. È proprio durante gli anni della crisi – quando il Pil e le esportazioni scendevano e la disoccupazione saliva al 13% -, che anche in Italia si è cominciato ad avere dubbi sulla convenienza a rimanere nell’euro. Qualcuno ha iniziato a proporre addirittura di uscirne per rimettersi in piedi. Quest’idea poggia sulla convinzione che l’Italia vada male perché non è abbastanza competitiva rispetto agli altri paesi, sia quelli interni che esterni all’Unione europea, e che le servirebbe una propria moneta da svalutare, cosa che l’appartenenza all’euro però non permette. Quest’analisi, per la verità, è condivisa anche dal pensiero dominante, il quale però individua nel modello tedesco la strada da seguire per tornare a correre: la Germania, infatti, dicono i suoi estimatori, è in testa alle esportazioni europee perché ha impegnato risorse importanti in investimenti tecnologici che hanno aumentato la produttività e la qualità dei prodotti, e anche perché ha saputo varare riforme occupazionali, salariali, fiscali che hanno ridotto i costi delle aziende. Detto fatto: in tutta Europa si è puntato a ridurre il costo del lavoro tramite l’esasperazione del precariato, il ridimensionamento del sindacato, la riduzione salariale e dei contributi sociali. Una strada, però, che da una parte approfondisce il divario fra profitti e salari, portando all’aumento dell’iniquità, dall’altra crea le premesse di una futura instabilità. Meno soldi in tasca alle famiglie, infatti, significano meno consumi e quindi rallentamento della produzione, con nuove possibilità di crisi economica.

Ma allora perché tutti seguono questa strada? I fautori dell’uscita dall’euro sostengono che ci sia una sola ragione: perché l’unica alternativa sarebbe quella della svalutazione, cosa impossibile a causa della moneta unica. Di qui la proposta di tornare a una moneta propria che ci consenta di recuperare competitività non attraverso la svalutazione salariale bensì tramite quella valutaria.

Da quando l’Italia è tornata a crescere, la disoccupazione si è ridotta e il saldo commerciale con l’estero è tornato di segno positivo, il dibattito attorno all’uscita dall’euro si è smorzato. Ma altre ragioni, dalle conseguenze sociali ancor più gravi, ci impongono di mantenere acceso il dibattito sull’euro, non tanto per stabilire se mantenerlo o lasciarlo, ma per discutere come governarlo.

Nella sua impostazione attuale, l’euro è una moneta a pagamento, affidata al sistema bancario privato. Un’impostazione ultraliberista che nega sovranità alla sfera pubblica in favore dei mercati. Essa va messa in discussione non per spirito nazionalista, ma per una questione di democrazia e giustizia sociale.

Prima l’interesse dei creditori

Ce ne siamo accorti quando l’attenzione dei mercati, dopo avere devastato banche e imprese, si è concentrata sui debiti pubblici, ultimi ambiti rimasti da saccheggiare. La speculazione ha affondato i suoi denti nei polpacci dei paesi più deboli e non ha mollato la presa finché i governi non hanno adottato politiche di finanza pubblica che mettessero l’interesse dei creditori prima di quello dei cittadini.

Nessuno condanna la speculazione, neanche le istituzioni europee che appaiono come amministratori di un condominio i cui condomini, al di là delle scale e dell’ingresso, non condividono neppure il buongiorno. Per le regole di Maastricht, del resto, ogni paese è solo di fronte ai propri debiti e, non potendo sperare nell’aiuto della Banca centrale europea (Bce), l’unica cosa che deve fare è ingraziarsi i mercati assicurando di servire loro il primo pezzo di carne disponibile sulla tavola. A costo di sacrifici, recessione, disoccupazione.

Uscire dal guado

Il dibattito sui debiti pubblici è lungo e articolato, ma per non ritrovarci di fronte ad altre crisi come quella che abbiamo attraversato e che ancora ci morde, dobbiamo ripensare l’Europa e il governo della moneta.

Abbiamo due strade di fronte a noi: andare avanti o tornare indietro. L’unica cosa certa è che non possiamo rimanere in mezzo al guado senza sapere se siamo in compagnia di amici o nemici e con il rischio essere mangiati dal primo rapace che passa.

Fuori di metafora non possiamo restare in un’Europa a mezz’aria: mercato comune, ma condizioni di lavoro agli antipodi tra un paese e l’altro; moneta unica, ma nemici finanziari; libera circolazione dei capitali, ma regimi fiscali concorrenziali. Non ci si può buttare in acqua con lo stesso salvagente e poi nuotare in direzioni opposte. O ci uniamo o ci lasciamo. O ci tuteliamo a vicenda dal pericolo che l’alleato si trasformi in carceriere o ci salutiamo. Anche se, certo, non a cuor leggero e solo come ultima ratio.

Costruire un’Europa solidale

L’auspicio è di poter andare avanti, ossia di costruire un’Europa federale e solidale al servizio delle persone e del bene comune. Un’Europa che non si fondi su trattati amministrati da tecnici nominati, ma su una Costituzione che si esprima in leggi emanate da un Parlamento eletto dal popolo. Un’Europa della sussidiarietà che, senza rinunciare alla solidarietà, sappia organizzarsi su più livelli per facilitare partecipazione, sostenibilità, presa in carico dei beni comuni. Un’Europa a sovranità monetaria socialmente orientata che, pur disponendo di una moneta comune, lasci spazio allo spontaneismo monetario territoriale per favorire l’autodeterminazione dei cittadini e lo sviluppo delle economie locali. Un’Europa dell’omologazione salariale e sociale affinché esista un’unica Europa sociale e del lavoro. Un’Europa a fiscalità condivisa che gestisca il debito pubblico europeo come un tutt’uno e redistribuisca le risorse in base ai bisogni dei singoli territori.

Il primo passo in questa direzione dovrebbe essere l’elezione di un’Assemblea costituente che scriva la nuova Costituzione europea contenente principi, diritti, doveri, assetti organizzativi e istituzionali. Ma, nell’attesa, sarebbe già un grande passo avanti se si cominciasse a riformare la Banca centrale europea per democratizzare l’euro e gestirlo in chiave sociale a partire dall’obiettivo di aiutare gli stati a liberarsi dai loro debiti pubblici. Sarebbe il segnale che ci stanno a cuore più le persone dei mercati, condizione senza la quale nessun’altra Europa è possibile.

Francesco Gesualdi




Migrazioni:

Schengen è morto, viva l’Europa

Testo di Simona Cranino, foto di Simone Perolari |


Ci eravamo abituati ad andare in Francia senza controlli. Oggi, chi ha la faccia da europeo continua a farlo. Gli altri invece rischiano di morire sulla frontiera. E vi muoiono. I gendarmi francesi passano il confine con arroganza, per riportare in Italia i malcapitati sopravvissuti, africani o asiatici. Intanto a Strasburgo si fatica a modificare il trattato di Dublino.

Un’ora e 10 minuti è il tempo di percorrenza del treno regionale che da Torino porta a Oulx, comune dell’alta valle di Susa, situato a 20 chilometri dal confine francese. Dalla stazione ferroviaria, un servizio di autobus di linea conduce a Claviere in meno di mezz’ora. Da lì, a piedi ci vogliono 3 ore per arrivare a Briançon. Se si cammina nella neve, bisogna considerare almeno mezz’ora in più. Tuttavia, al netto di imprevisti, il viaggio da Torino, attraverso il valico del Monginevro, fino al primo centro abitato della Francia ha una durata di circa 4 ore e mezza.

Un tempo troppo breve, per non provare ad attraversare quell’ultimo confine. Soprattutto se si paragonano le 4 ore e mezza ai mesi di viaggio in cui si è sopravvissuti al deserto, al mare e alle violenze dei trafficanti, prima di arrivare in Europa. Questo pensa Abdel, 38 anni, algerino, mentre si sfrega le mani per il freddo e si siede su una panchina di Oulx ad aspettare l’autobus che lo porterà a Claviere, da dove inizierà l’ultimo tratto di strada nei boschi per arrivare in Francia.

Nell’ultimo anno, migliaia di persone, come Abdel, hanno tentato di attraversare il confine italo-francese in alta valle di Susa, in seguito all’intensificazione dei controlli a Ventimiglia, a partire dall’estate 2017. L’obiettivo è uno solo: vivere in Francia o continuare il viaggio verso il Nord Europa.

Rotte che cambiano

Fino a gennaio 2018 i migranti provavano ad arrivare a Briançon attraverso il colle della Scala e Nevache, iniziando il percorso da Bardonecchia. Le grandi nevicate dell’inverno e il rischio slavine hanno convinto i viaggiatori a cambiare rotta e passare dal Monginevro, che permette di raggiungere Briançon su sentieri più sicuri, anche se maggiormente controllati dalla gendarmerie francese.

Abdel ha già provato la traversata ieri sera, ma è stato respinto dalla polizia al Monginevro. Determinato a viaggiare verso la Francia, ha deciso di ritentare l’attraversamento oggi, dopo essersi riposato nella saletta di prima accoglienza a Bardonecchia messa a disposizione dal comune nei locali della stazione, gestita da due referenti migranti della Recosol (Rete dei comuni solidali), il sudanese Moussa Khalil Issa e il camerunense Roland Djomeni, e dai medici dell’Ong Rainbow for Africa, che forniscono assistenza sanitaria. «La gendarmerie continua a respingermi – spiega Abdel in un buon italiano -. Eppure io ho il permesso di soggiorno per motivi umanitari valido in Italia, per cui non capisco perché non possa andare in Francia».

Senza visto

Sulla carta, una persona non europea con regolare permesso di soggiorno può varcare i confini di tutti gli stati dell’Unione senza richiesta di visto turistico. Tuttavia, nei fatti, con l’esacerbazione dei controlli alle frontiere interne all’area Schengen, ripristinati dalla Francia a partire dal 2015, in seguito agli attacchi terroristici e alla crisi migratoria, anche chi possiede i documenti di viaggio corretti può essere respinto, se non è in grado di dimostrare risorse economiche sufficienti a giustificare il periodo di turismo. Con la sospensione della libera circolazione, la Francia è diventata una roccaforte irraggiungibile per i migranti che, come Abdel, non hanno intenzione di rimanere in Italia. «Ho vissuto in Italia per 8 anni, ma oggi il mercato del lavoro non offre opportunità e quindi, visto che parlo francese, e ho tanti amici in Francia ho pensato di provare la fortuna lì». Eppure ad Abdel è preclusa la possibilità di un lavoro regolare in Francia perché, secondo il regolamento di Dublino, i migranti possono richiedere asilo politico solo nel paese di arrivo, che, in caso di approvazione della domanda, diventa l’unico stato dell’Unione in cui possono lavorare regolarmente, mentre negli altri paesi possono viaggiare come turisti.

Abdel lo sa e pensa che sia meglio lavorare in nero piuttosto che non lavorare affatto e quindi accetta il rischio. In fondo, lui possiede un permesso di soggiorno e, nel peggiore dei casi, dovrà accettare l’idea di rimanere in Italia.

Le vittime di Dublino

Diversa è la situazione di Abu, 18 anni, originario del Ghana. In mano non ha documenti. Arrivato a Lampedusa nel 2017 ha fatto richiesta di asilo, poi è scappato dal centro di accoglienza, stufo di aspettare il giorno di esame della sua pratica, che dopo mesi di attesa, ancora non era arrivato. Ora è vicino al confine francese e sta pensando se attraversarlo. A farlo ragionare sui pro e contro della sua scelta ci pensano i referenti della Recosol.

«Noi informiamo le persone dei loro diritti in Italia – spiegano Roland e Moussa -. In particolare, ricordiamo ai richiedenti asilo politico che se migrano in Francia e non si presentano in questura per la valutazione del proprio caso, perdono il diritto di avere un permesso valido in Italia e non potranno fare un’altra richiesta d’asilo in Francia, rischiando di vivere da sans papiers». La norma che impone di fare domanda d’asilo nel primo paese d’accesso, prevista dal regolamento di Dublino, è responsabile dei tentativi di fuga dai centri di accoglienza di chi, sbarcato in Italia, Grecia e Spagna, ambisce a richiedere asilo politico in Francia o in altri paesi del Nord Europa, non sapendo che di fatto non potranno fare nuovamente domanda. In questi mesi, il parlamento europeo sta lavorando a una riforma di Dublino, che prevede la sostituzione del criterio del primo paese d’accesso con un meccanismo di ricollocamento delle persone negli altri stati europei, secondo un sistema di quote e di legami tra migrante e paese di destinazione. Tuttavia, la riforma è in discussione e il risultato si vede alla frontiera italo-francese dove donne, bambini e uomini cercano di superare il confine illegalmente, convinti che un altro modo non ci sia. E in effetti, non c’è. Senza permesso di soggiorno non è possibile muoversi in Europa, neppure facendo riferimento a un eventuale passaporto rilasciato nel paese d’origine. Così ha pensato anche Abu, che alla fine ha deciso di affrontare la frontiera. Abu non ha il passaporto del Ghana, ma anche se lo avesse ottenuto, avrebbe dovuto chiedere un visto turistico alla Francia che glielo avrebbe negato per mancanza dei requisiti economici, la stessa mancanza che lo ha spinto a lasciare il proprio paese.

Il «potere» del passaporto

Il «Passport Index 2018», la classifica annuale dei passaporti secondo il potere di circolazione senza richiesta di visto, stilata dall’impresa Arton Capital, riporta che il passaporto ghanese permette di viaggiare solo in 61 stati senza richiesta di visto, nessuno dei quali è in Europa. Invece, il passaporto italiano apre le frontiere di 161 paesi. Questo determina che nascere in Italia o in Ghana divide automaticamente le persone in serie A e serie B. E chi ha un passaporto di serie B, come Abu, non gode della libertà di movimento, per cui risulta obbligato ad affidarsi a reti di traffico illegale e a un viaggio insicuro.

Invasioni francesi

Per tutto l’inverno, i migranti respinti alla frontiera di Claviere, o al traforo del Frejus, sono stati trasportati dalla Gendarmerie di fronte al ricovero di Bardonecchia, secondo una prassi dei militari francesi non concordata con la polizia italiana. Prassi che ha portato a un attrito scoppiato il 30 marzo scorso, quando la Gendarmerie ha fatto irruzione nel punto di accoglienza a Bardonecchia, per svolgere gli esami delle urine su un ragazzo nigeriano, fermato sul Tgv in direzione Roma, sospettato di essere un consumatore e corriere di droga. L’operazione, che ha portato alla liberazione del ragazzo per mancanza di prove, si è svolta sotto gli occhi dei volontari e dei mediatori del punto di accoglienza. Sebbene sia sempre stato rispettato l’accordo di cooperazione Italia-Francia che permette alle rispettive forze di polizia di svolgere controlli coordinati su migranti nelle zone di frontiera, il 30 marzo si è rischiato di mettere in discussione le relazioni diplomatiche tra i due stati per omissione di comunicazione alla polizia italiana dell’operazione gestita dai militari francesi sul nostro territorio nazionale. Il fatto ha evidenziato la tensione che negli ultimi mesi si è generato alla frontiera franco-italiana in alta valle di Susa. «Le relazioni diplomatiche tra i paesi di frontiera sono rimaste ottime – commenta a due mesi dall’accaduto Francesco Avato sindaco di Bardonecchia -. I fatti del 30 marzo non hanno inciso negativamente sull’operatività del nostro lavoro, anzi siamo riusciti a concordare che la polizia francese non possa più trasportare alla nostra stazione i migranti, di cui ora si occupa la polizia italiana. I fatti hanno permesso comunque di portare in agenda internazionale ed europea la situazione migratoria sulla nostra frontiera».

Uomini e numeri

I flussi di migranti in alta valle di Susa sono altalenanti. A partire da maggio 2018 i numeri si sono ridotti, sia nel ricovero di Bardonecchia, sia alla stazione di Oulx. «Oggi calcoliamo una media di circa 6 o 7 passaggi al giorno – commenta il sindaco di Oulx Paolo De Marchis -. Tuttavia, potrebbero aumentare con la riapertura del Colle della Scala, nel periodo estivo. Su quel versante della montagna è più facile passare inosservati ai controlli».

Fino a marzo 2018, nella sala di accoglienza di Bardonecchia transitavano 15 o 20 persone al giorno. Guinea Conakry, Mali, Costa d’Avorio, Nigeria e Ghana sono gli stati di provenienza della maggior parte dei migranti, anche se, nei mesi primaverili, sono aumentate le persone originarie di Iraq, Bangladesh e Pakistan. Sebbene i numeri della migrazione che si muove su rotte irregolari siano difficili da documentare, i volontari e gli attivisti di «Chez Jesus», che a marzo 2018 hanno occupato il sottoscala della chiesa di Claviere installando un rifugio per migranti in transito, hanno visto il passaggio di centinaia di persone. A fronte di picchi di flusso tra le frontiere interne all’Europa, si è verificata una riduzione degli arrivi via mare. Secondo i dati dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), dal 1 al 23 maggio 2018 si sono verificati 1.240 sbarchi sulle coste italiane a fronte dei 22.993 di maggio 2017. Stessa tendenza al ribasso anche in aprile con 3.171 arrivi del 2018, rispetto ai 12.943 del 2017. Come Abdel e Abu, la maggior parte delle persone che cercano la Francia, dal confine dell’alta valle di Susa, hanno deciso di rimettersi in viaggio, dopo aver vissuto un periodo in Italia.

Morti di frontiera

L’intensificazione dei controlli alla frontiera da parte della polizia francese, se sulla carta ha l’obiettivo di limitare la tratta e la migrazione illegale, di fatto ha inasprito la situazione e spinto i migranti a cercare pericolosi punti di accesso alla frontiera. E se, nei mesi del grande freddo, i volontari del Soccorso alpino hanno dato fondo alle proprie forze per evitare tragedie umane in montagna, proprio mentre la neve sta lasciando spazio al verde della primavera, a maggio 2018 si sono verificate le prime due vittime del viaggio migratorio. Entrambe le persone hanno perso la vita in Francia, a pochi chilometri dal confine italiano. Mathew Blessing, ventunenne nigeriana, è caduta nel fiume Durance mentre cercava di raggiungere Briançon, mentre Mamadou, un ragazzo senegalese, è morto di sfinimento dopo tre giorni che vagava per i sentieri oltre il valico del Monginevro. A marzo era morta anche Beauty, ragazza nigeriana incinta affetta da linfoma in stato terminale che, a pochi giorni dallo spegnersi, aveva tentato di camminare nella neve per arrivare fino in Francia, prima di essere respinta dalla Gendarmerie, che l’ha trasportata a Bardonecchia dove i medici di Rainbow for Africa hanno attivato i soccorsi. Beauty è morta all’ospedale Sant’Anna di Torino, dopo aver dato alla luce sua figlia. Il suo sogno era partorire in Francia, dove vive sua sorella.

E mentre le notizie delle morti si succedono, le frontiere rese invisibili da Schengen nel 1995 ritornano a innalzarsi su un’Europa inespugnabile, costituita da nazioni che sembrano negare quegli stessi diritti umani che hanno contribuito a teorizzare dopo la rivoluzione francese.

Reato di solidarietà

Intanto di fronte al peregrinaggio silenzioso dei migranti, la frontiera si anima di persone e opinioni contrastanti. E se da un lato si rafforzano spinte nazionaliste, ben riassunte dalla massiccia presenza di esponenti della destra di Génération Identitaire che sul confine italo-francese manifesta la propria opposizione ai movimenti migratori al grido «Defend Europe», dall’altro lato, gli attivisti di Briser les frontières, la rete che promuove la libera circolazione degli esseri umani, oggi divisa nei due collettivi Chez Jesus e Valsusa oltre confine, porta il proprio sostegno ai migranti offrendo cibo, vestiti e suggerimenti di viaggio, promuovendo una «Welcoming Europe» e ribadendo che «la solidarietà non è reato».

Eppure si può venire accusati di «reato di solidarietà». È successo a Benoît Duclos, cittadino francese che rischia una condanna a 5 anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo aver trasportato all’ospedale di Briançon una donna incinta bloccata nella neve a Claviere. Stessa cosa è accaduta a Eleonora, Theo e Bastien che, dopo aver partecipato a una manifestazione ad aprile per promuovere l’apertura delle frontiere, sono stati accusati dalla polizia francese di favoreggiamento di immigrazione clandestina in banda organizzata. Il procedimento contro i tre ragazzi e Benoît mette sullo stesso piano chi compie atti umanitari e i passeur delle reti di contrabbando e di tratta, che richiedono pagamenti elevati a chi cerca di andare in Francia. Tuttavia, sono agli antipodi le motivazioni di chi, convinto che le frontiere non debbano esistere, cerca di dare una mano gratuitamente a un migrante che rischia di morire sui sentieri di montagna e di chi, al contrario, sfruttando i muri alzati dalla Francia e la mancanza di un’universale uguaglianza nella libertà di movimento, prova a lucrare sul dolore dei migranti.

Simona Carnino




Prestiti e ricatti

Testo sui ricatti dei prestiti di Francesco Gesualdi |


Qualcuno li aveva definiti «maiali» (Piigs). Erano i paesi comunitari dell’area mediterranea – Portogallo, Italia, Grecia e Spagna – più l’Irlanda, che tra il 2008 e il 2013 si erano trovati in grave difficoltà a causa del loro debito. Intervenne la «Troika» che, in cambio di prestiti (onerosi), pretese una serie di pesanti impegni. Oggi la situazione finanziaria pare più stabile, i governi più deboli, la gente più povera.

Fra il 2008 e il 2013, un precipitare di eventi, non tutti collegati fra loro, rese particolarmente difficile la situazione debitoria di vari paesi dell’eurozona. E a indicare quelli più in difficoltà venne creato l’acronimo Piigs («maiali», in inglese), comprendente Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna.

Dall’Irlanda alla Grecia

L’Irlanda fu il primo paese a mostrarsi pesantemente inguaiato, e non per mala amministrazione o per avere voluto garantire ai cittadini chissà quali lussi, ma per aver salvato le proprie banche. L’eccesso di azzardo aveva portato le principali banche irlandesi sull’orlo della bancarotta e, per evitare il loro fallimento, il governo irlandese le foraggiò con 64 miliardi di euro. Un’operazione fatta a debito che in cinque anni portò il debito pubblico irlandese da un minuscolo 25% del Pil nel 2007, a uno spaventoso 120% nel 2012.

Il secondo paese a lanciare l’Sos fu la Grecia che, per la verità, già da anni si portava dietro un pesante fardello. Fin dal suo ingresso nell’euro aveva un debito pubblico pari al 100% del Pil, ma la situazione sembrava stabilizzata. Senonché dal 2004 il debito aveva ripreso a crescere un po’ per fare fronte alle spese connesse alle Olimpiadi, un po’ per garantire ai cittadini pensioni e salari più alti, oltre che servizi migliori. La situazione precipitò nel 2010 quando si seppe che lo scoperto annuale superava il 15% del Pil, mentre il limite imposto dai trattati europei era (ed è) al 3%. Nell’aprile del 2010 la Grecia venne dichiarata inaffidabile dalle agenzie di rating e di colpo non ottenne più un centesimo di prestito dal sistema bancario e finanziario privato. Senza nuovi prestiti, la Grecia non avrebbe potuto pagare né interessi né rate in scadenza: di fatto sarebbe stato come dichiarare fallimento. Una vera sciagura per i creditori, al 70% stranieri, e per l’euro che poteva subire una grave svalutazione per perdita di fiducia. Fu così che, per evitare la catastrofe, il 2 maggio 2010 l’Unione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, la famosa «Troika», misero a disposizione della Grecia 110 miliardi di euro per le scadenze più urgenti. Questi non bastarono e in seguito vennero accordati altri prestiti: 172 miliardi nel 2012 e 86 miliardi nel 2015. Oggi vediamo che il debito pubblico greco ha continuato a crescere, fino a raggiungere, nel marzo 2018, 330 miliardi, il 180% del Pil, detenuto per l’80% da soggetti pubblici: governi europei, Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e greca. Soggetti che, pur essendo pubblici, non si sono mostrati più magnanimi dei creditori privati. Anzi si sono dimostrati peggiori perché hanno approfittato della loro posizione di potere per mettere il parlamento e il governo greco sotto ricatto. Per prima cosa hanno chiarito che non regalavano, ma prestavano con tanto di interessi e di scadenze prefissate per la restituzione del capitale. Poi però hanno fatto di peggio: hanno condizionato l’esborso dei prestiti alla sottoscrizione di una serie di impegni.

Christine Lagarde, IMF Managing Director. © Simone D. McCourtie / World Bank

Le «riforme» della Troika

È successo alla Grecia esattamente come successe, negli anni Ottanta del secolo scorso, nei confronti dei paesi del Sud del mondo, quando il Fondo monetario internazionale si dichiarò disponibile a venire in loro soccorso purché accettassero di introdurre una serie di riforme che avevano come obiettivo la trasformazione delle loro economie in sistemi neoliberisti. E con la scusa di aiutarla a ritrovare la propria sostenibilità economica e a riprendere la strada della crescita, anche la Grecia venne obbligata ad adottare una serie di misure, «riforme» come dice la Troika, cheavevano come obiettivo la riduzione del peso dello stato e la crescita del potere del mercato e, per converso, la riduzione della sicurezza sociale, dei salari e dei diritti dei lavoratori. Con conseguenze disastrose su tutti i piani. Dal 2008 al 2015 in Grecia la spesa sanitaria pro capite fu tagliata di un terzo tanto che oggi un quarto dei greci si ritrova senza copertura sanitaria. Negli ospedali mancano lenzuola, garze e medicinali. Le infezioni ospedaliere sono sempre più frequenti, gli interventi non riusciti si moltiplicano, i medici migliori fuggono all’estero. Salari e pensioni hanno subito tagli dal 30 al 50% mentre la disoccupazione è salita al 25% con i giovani colpiti in maniera particolare. La povertà estrema è passata dal 9% nel 2011 al 15% nel 2015 e, se includiamo anchei greci in povertà relativa, scopriamo che la percentuale complessiva dei poveri al 2015 si colloca al 23% della popolazione. Dal 2009 al 2016 il numero dei senza tetto è quadruplicato a causa dell’abolizione del sostegno all’alloggio. Mezzo milione di greci, su un totale di 10 milioni, vivono grazie ai pasti messi a disposizione dalle organizzazioni umanitarie. Una vera tragedia umana che molti non hanno retto facendo raddoppiare il numero dei suicidi passati da 373 nel 2009, a 616 nel 2015.

Il turno dell’Italia

Anche l’Italia venne inclusa fra i Piigs. Non tanto per un peggioramento repentino del suo debito pubblico, quanto per il suo stato di indebitamento cronico. Con un debito strutturalmente al di sopra del 100% del Pil, gli occhi dei mercati erano puntati sull’Italia per cogliere il benché minimo segnale di peggioramento da sfruttare per organizzare un attacco speculativo contro di essa e magari anche contro l’euro (come avvenuto anche a maggio-giugno 2018, ndr). L’Unione europea sudava freddo e avrebbe tanto desiderato poter entrare a gamba tesa nella politica interna italiana per imporle l’adozione di misure d’austerità che avrebbero rassicurato i mercati e quindi ridotto i rischi di ritorsioni da parte del mondo della finanza. Ma a differenza della Grecia, l’Italia non aveva chiesto prestiti all’Europa, per cui mancava l’appiglio su cui esercitare il ricatto. Alla fine l’Unione europea trovò il modo di fare passare dalla finestra ciò che non riusciva a fare entrare dalla porta e lo fece appellandosi all’intervento di due strutture tecniche: la Banca d’Italia e la Banca centrale europea. Fu così che il 4 agosto 2011, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, si vide recapitare una lettera a firma di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet (riquadro), in cui si segnalava che dopo aver discusso la situazione dei titoli di stato italiani, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea aveva giudicato necessario sollecitare le autorità italiane a «un’azione pressante per ristabilire la fiducia degli investitori». E, per non rimanere nel generico, la lettera elencava dettagliatamente le riforme che dovevano essere intraprese dal governo italiano, compresa l’abolizione delle Province, passando per la piena liberalizzazione dei servizi pubblici, la riforma delle pensioni, la revisione della legge sui licenziamenti e molto altro ancora.

Berlusconi non riuscì a realizzare le riforme auspicate e il 12 novembre del 2011 fu sollecitato a dimettersi per lasciare la poltrona a Mario Monti. Un cambio di guardia voluto dall’Europa che molti non hanno esitato a definire un colpo di stato.

Il gendarme dei conti pubblici

Come richiesto da Draghi e Trichet, il compito di Mario Monti era di «ristabilire la fiducia degli investitori» che, tradotto, significava due cose. La prima: dimostrare che la priorità dell’Italia è servire l’interesse dei creditori. La seconda: dimostrare che la fede dell’Italia è nel mercato. Di qui le operazioni che Monti e i governi successivi compirono: inasprimenti fiscali per garantire maggiori entrate allo stato, taglio alle spese per garantire un avanzo quanto più ampio possibile da destinare agli interessi, privatizzazioni per trasferire al mercato quante più attività possibili, riforme del lavoro per accrescere il potere delle imprese. Il tutto suggellato dalla modifica dell’articolo 81 della Costituzione (legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, approvata con maggioranza qualificata di due terzi del Parlamento, ndr), in ossequio al Fiscal compact, che ha introdotto l’obbligo di pareggio di bilancio a significare che lo stato ha rinunciato a qualsiasi ruolo di orientamento dell’economia. E naturalmente disponibilità a controlli preventivi da parte della Commissione europea che ha il diritto di verificare i programmi di bilancio prima di mandarli all’approvazione del parlamento italiano. E se, per caso, vi trova dei numeri fuori posto ha il diritto di imporre dei correttivi.

Da quando l’Unione europea ha assunto il ruolo di gendarme dei conti pubblici, il percorso che porta all’approvazione dei bilanci nazionali si è fatto lungo e complesso.

Volendo, la procedura inizia a Bruxelles piuttosto che nelle varie capitali europee secondo un cronoprogramma scandito in cinque tempi:

1) Gennaio-marzo: gli organi dell’Unione europea analizzano la situazione di ciascun paese della zona euro e formulano indicazioni di programma per ciascuno di essi.

2) Aprile-luglio: sulla base delle indicazione ricevute da Bruxelles, ogni governo elabora un programma finanziario di medio periodo, corrispondente almeno a un triennio. In Italia il documento, denominato «Documento di economia e finanza» (Def), deve essere approvato dal Parlamento entro il 10 aprile e subito inviato a Bruxelles per un giudizio di merito. L’Unione europea si prende tre mesi di tempo per esaminarlo e formulare le proprie raccomandazioni.

3) Settembre: tramite un apposito documento denominato «Nota di aggiornamento al Def», il governo italiano recepisce le raccomandazioni dell’Unione europea e le sottopone all’approvazione del parlamento.

4) Ottobre: il governo elabora due documenti distinti: il primo, denominato «Documento programmatico di bilancio», descrive le spese previste per l’anno a venire e come saranno coperte; il secondo, denominato «Legge di bilancio», definisce nel dettaglio tutte le misure da assumere per raggiungere gli obiettivi previsti. Il primo documento è mandato a Bruxelles per un parere rapido. 5) Novembre-dicembre: il parlamento discute e approva il «Documento programmatico di bilancio» e la «Legge di bilancio».

Al servizio di pochi

Visto il potere delegato agli organi di controllo europeo, rimane difficile definire i nostri parlamenti strutture sovrane. Ma lo scandalo non è la perdita di sovranità a favore di una struttura sovrannazionale. Lo scandalo è che la struttura sovrannazionale non ha come fine la costruzione di un’Europa più equa, più solidale, più sostenibile al servizio dei diritti di tutti, ma un’Europa al servizio dei mercati affinché i padroni della finanza possano arricchirsi sempre di più alle spalle di tutti.

Francesco Gesualdi

 




Ai confini dell’Europa / 13:

Il Montenegro


Con una popolazione di soli settecentomila abitanti, indipendente dal 2006, il piccolo paese affacciato sull’Adriatico vive momenti importanti. Dopo le bombe della Nato del 1999, da giugno è divenuto membro di quella stessa organizzazione. La Russia, storico alleato, è sempre presente con i suoi investimenti e i suoi turisti, ma il suo ruolo è stato ridimensionato.

Venticinque maggio 2017, quartier generale della Nato a Bruxelles. Alla fine del summit, i leader dei paesi dell’Alleanza atlantica si preparano alla foto finale di rito. Il neopresidente americano Donald Trump, rimasto indietro, viene sorpreso dalle telecamere mentre sembra spintonare uno dei colleghi, per farsi strada, impettito, verso la prima fila.

Sui social-media si scatena per giorni un dibattito infuocato sul «presidente-cowboy», accusato dagli oppositori di arroganza e scarso spirito diplomatico. L’incidente, reale o gonfiato dai megafoni dell’informazione, ha regalato però un po’ di inaspettata visibilità anche alla presunta «vittima», il premier montenegrino Duško Markovi?, sicuramente poco noto al pubblico internazionale. Markovi?, in realtà, aveva altri motivi, ben più solidi della sua disavventura con Trump, per essere considerato a pieno titolo come uno dei protagonisti dell’incontro. Il suo paese, il Montenegro, era infatti appena stato ammesso nella più potente alleanza militare al mondo come suo ventinovesimo membro, un passo ratificato definitivamente alcuni giorni dopo, il 5 giugno.

Con la membership nella Nato si è chiuso – almeno dal punto di vista formale – un percorso politico e diplomatico durato quasi un decennio, che negli ultimi anni ha dominato il dibattito e le emozioni nella piccola repubblica adriatica, provocando non pochi scossoni anche a livello internazionale.

Dusko Markovic alla NATO, gennaio 26, 2017. Dursun Aydemir / Anadolu Agency

I bombardamenti e Belgrado

Nel 1999, diciotto anni fa, il Montenegro, allora parte della «piccola Jugoslavia» di Slobodan Miloševi?, della quale erano rimasti parte solo la Serbia e lo stesso Montenegro, era stato bombardato dagli aerei dell’Alleanza atlantica durante la guerra in Kosovo.

Il conflitto, durato 78 giorni e terminato con la sconfitta jugoslava, ha portato all’indipendenza di Pristina (dichiarata ufficialmente nel 2008), minando però al tempo stesso in modo irrimediabile le basi della federazione. Sotto la guida di Milo ?ukanovi? , in origine fedelissimo di Miloševi?, il Montenegro si è allontanato in maniera sempre più evidente dalla Serbia: nel 2003 la Jugoslavia si è trasformata in una blanda confederazione sotto il nome di «Unione di Serbia e Montenegro», primo passo verso la definitiva indipendenza di Podgorica arrivata nel 2006.

A decretare la nascita del nuovo stato indipendente montenegrino è stato un combattuto referendum popolare, con i «sì» che hanno superato di poche migliaia di voti il quorum del 55% precedentemente stabilito in accordo con l’Unione europea.

Da allora l’élite politica montenegrina, sempre saldamente controllata da ?ukanovi? e dal suo «Partito democratico dei socialisti», ha spinto sempre più apertamente verso l’integrazione sia nell’Ue (ottenendo lo status di candidato nel 2010) che nella Nato. Se l’adesione all’Unione europea ha goduto e gode di una solida maggioranza nel paese, quella all’Alleanza atlantica è stata invece caratterizzata da una fortissima polarizzazione, ancora viva nonostante l’avvenuta adesione.

Sulla Nato, senza troppi eufemismi, il paese è letteralmente spaccato. A livello interno, a dividere gli animi c’è la ferita ancora non rimarginata dei bombardamenti del 1999, insieme alla strenua resistenza dell’opposizione politica, coagulata in gran parte intorno alla comunità serba del Montenegro (che secondo l’ultimo censimento, tenuto nel 2011, rappresenta il 28,7% della popolazione). Divisioni confermate dagli ultimi sondaggi tenuti prima dell’adesione, che hanno disegnato un paese praticamente spezzato in due sulla questione, con un leggero vantaggio per il fronte del «no».

Anche a livello internazionale non mancano i problemi. Primo fra tutti, le reiterate obiezioni della Russia, paese ritenuto un alleato storico di Podgorica ed impegnato con tutte le sue forze a contenere ogni ulteriore allargamento della Nato in Europa orientale e nei Balcani.

Mosca c’è ancora

Il «rapporto speciale» tra Mosca e il Montenegro va ben oltre i tradizionali legami dovuti all’eredità storica e religiosa (in entrambi i paesi la confessione dominante è quella cristiana ortodossa, vedi box).

Dagli anni ‘90 la Russia si è imposta come uno dei principali investitori in Montenegro, con una forte predilezione per il settore degli immobili (secondo la stampa di Mosca, il 40% delle proprietà nel paese, soprattutto nella fascia costiera, è di cittadini e compagnie russe).

Oligarchi russi hanno partecipato attivamente al processo – spesso poco trasparente – delle privatizzazioni: il caso più noto è l’acquisto del «kombinat» per la lavorazione dell’alluminio di Podgoriza (Kap) da parte di Oleg Deripaska, operazione poi sfociata in un lungo contenzioso legale tra l’oligarca vicino a Vladimir Putin e lo stato montenegrino. Centrale infine anche il settore turistico, che porta ogni anno migliaia di russi nelle località più rinomate della costa, come Budva e Kotor.

Ottobre 2016: fu «golpe», o forse no?

Lo scontro tra la volontà di ingresso nella Nato e l’opposizione russa e lo scontro politico interno è esploso in modo drammatico e inaspettato durante le ultime consultazioni parlamentari, tenute il 16 ottobre 2016. Elezioni che rappresentavano l’ultima spiaggia per le forze contrarie all’Alleanza atlantica.

In circostanze mai del tutto chiarite, un gruppo di venti cittadini serbi e montenegrini è stato arrestato nel giorno del voto, con l’accusa di aver ordito un colpo di stato e di aver tramato per occupare il parlamento di Podgorica e uccidere lo stesso ?ukanovi?. Tra gli arrestati c’è anche Branislav Diki?, ex-comandante delle unità speciali della gendarmeria serba.

Secondo il procuratore speciale montenegrino Milivoje Katni?, lo scopo principale del tentato golpe sarebbe stato proprio bloccare l’ingresso del Montenegro nella Nato, e dietro al complotto ci sarebbero stati agenti russi, in combutta con i leader del «Fronte democratico», principale partito di opposizione in Montenegro.

Per la procura di Podgorica, due cittadini russi sarebbero le menti dietro all’azione, tra questi Eduard Sismakov alias «Shirakov», ufficiale dei servizi segreti militari russi. Al tempo stesso, sul banco degli imputati sono saliti anche i due leader del Fronte democratico, Andrija Mandi? e Milan Kneževi?, privati dell’immunità lo scorso febbraio tra feroci proteste dentro e fuori il parlamento di Podgorica, e oggi in attesa di processo.

Se le teorie sul complotto sono state sostanzialmente accettate dai principali alleati occidentali, Stati Uniti in testa, i dubbi su cosa sia effettivamente successo quel 16 ottobre non sono stati ancora del tutto sciolti. In un clima di tensione palpabile e confusione generalizzata il partito di ?ukanovi?, seppur in calo di consensi, è riuscito a mantenere una stretta maggioranza in coalizione con parte dei socialdemocratici e i partiti delle minoranze bosgnacca, albanese e croata (con 42 seggi su 81). Per l’opposizione, ferma a 39 deputati, il tentato golpe non è stato altro che una machiavellica macchinazione, orchestrata dallo stesso governo per spaventare gli elettori e falsare il risultato finale. I partiti anti ?ukanovi? hanno quindi rifiutato il verdetto delle urne, e da allora boicottano i lavori del parlamento.

Anche i rapporti con la Russia si sono fatti visibilmente tesi: Mosca nega con vigore ogni coinvolgimento, e ultimamente ha vietato l’ingresso in Russia ad alcuni politici di spicco montenegrini. La diatriba non sembra però aver spaventato i turisti russi che, almeno per ora, continuano ad arrivare numerosi sul litorale adriatico.

Montenegro e Ue, un amore non privo di lati oscuri

Lo scontro sulla Nato, monopolizzando il dibattito politico e l’attenzione internazionale, ha lasciato in ombra aspetti importanti della vita politica, economica e sociale di un paese in lenta ma visibile trasformazione, spinta soprattutto dagli sforzi fatti per avvicinarsi all’Unione europea.

Il Montenegro è oggi, forse insieme alla Serbia, l’unico paese dei Balcani che gode di una reale possibilità di entrare a far parte dell’Ue in tempi relativamente brevi. I negoziati, partiti nel 2012, hanno visto l’apertura di 26 capitoli su 33 (altri due dovrebbero essere aperti entro il 2017) e la chiusura di due, quelli «leggeri» su scienza e cultura.

Gli ostacoli principali restano però il consolidamento della democrazia, lo stato di diritto, la libertà di informazione e la lotta alla corruzione. Il Montenegro vede infatti una situazione di democrazia formale che, però, non ha mai dato spazio ad una reale alternanza di potere.

Dal 1991, il governo è saldamente in mano a ?ukanovi?, che alternando la carica di primo ministro con quella di presidente ha sempre tenuto in mano le redini del paese, sopravvivendo ad ogni trasformazione istituzionale e a forti e reiterate accuse di essere personalmente implicato in attività criminali. Per quella più pesante, cioè di essere direttamente implicato nel contrabbando internazionale di sigarette, è stato indagato dalla giustizia italiana, con inchieste arenatesi però definitivamente nel 2009 grazie alla sua immunità diplomatica.

Per l’opposizione ed ampi settori della società civile, la svolta pro-occidentale di ?ukanovi? è soprattutto una mossa tattica, che non significa una reale accettazione dei principi di trasparenza, pluralità e divisione dei poteri. Critiche vengono spesso portate alla stessa Unione europea, che chiuderebbe troppo spesso un occhio, e talvolta anche due, sul reale stato delle cose nel paese pur di mantenere viva l’immagine del Montenegro come una delle rare «success story» a livello balcanico.

Anche il settore dei media vive una situazione di feroce polarizzazione, che si sovrappone a quella politica e di poca trasparenza, dovuta alle normative inadeguate sulla pubblicità della proprietà di quotidiani, tv e portali internet.

Alle visibili interferenze politiche ed economiche sul lavoro dei giornalisti, si aggiunge poi una lunga casistica di minacce ed attacchi personali. Il caso più noto, mai risolto dalla giustizia montenegrina, riguarda l’omicidio del caporedattore di «Dan», Duško Jovanovic?, ucciso nel 2004 davanti alla redazione del giornale, ma anche i casi più recenti come il pestaggio all’editore di «Vijesti» Željko Ivanovi? nel 2007 e i ripetuti attacchi al giornalista dello stesso quotidiano Mihailo Jovovic nel 2009 e nel 2014.

Altro tasto dolente è quello della corruzione, riconosciuto e sottolineato ripetutamente anche dai «progress report» della Commissione di Bruxelles. Estremamente cauto e burocratico, anche il report del 2016 ribadisce che «nonostante qualche passo in avanti, la corruzione rimane prevalente in molte aree dell’amministrazione pubblica, e continua a rappresentare un serio problema [per il Montenegro]». Nonostante le promesse del governo, i casi di malaffare nei piani alti del potere arrivati di fronte ai giudici restano l’eccezione più che la regola.

Con l’adesione alla Nato e la reale, se non immediata prospettiva di adesione nell’Ue, il Montenegro sembra essersi garantito una posizione di relativa stabilità, soprattutto se confrontato con la situazione incerta dei paesi vicini.

Stabilità resa possibile anche dalla mancanza di significative rivendicazioni e diatribe nei confronti degli stati confinanti.

 

Con gli ex fratelli iugoslavi

Podgorica mantiene buone relazioni con l’Albania, anche grazie alla minoranza albanese nel Sud del paese, ma anche col Kosovo – che ha riconosciuto – nonostante la questione irrisolta della definizione dei confini tra i due giovani stati. Con la Croazia resta da definire lo status della contesa penisola di Prevlaka, ma la questione non sembra suscitare al momento particolari preoccupazioni, nonostante il burrascoso passato recente (forze montenegrine parteciparono al bombardamento di Dubrovnik durante le guerre di disfacimento della Jugoslavia).

Il rapporto più delicato riguarda le relazioni con la Serbia, paese «amico-nemico», legato al Montenegro da fortissimi rapporti storici, culturali ed economici. La separazione consensuale ha permesso ai due stati di prendere strade diverse senza sfociare in conflitti aperti, ma ha lasciato in molti – soprattutto in Serbia – un sapore amaro in bocca. Nonostante le recriminazioni sulla questione Nato, e con la Serbia che rimane l’alleato principale di Mosca nell’area, i due vicini potrebbero però ritrovarsi di nuovo insieme in un futuro non troppo lontano, all’interno della cornice dell’Unione europea.

Francesco Martino
 Giornalista, per questa nostra serie ha già scritto l’articolo sul Kosovo, uscito a maggio 2016.


Montenegro – scheda

I 700mila abitanti del Montenegro usano l’euro come moneta de facto. L’agricoltura produce olive, limoni, uva e tabacco (il paese è il primo consumatore al mondo di sigarette). Diffuso è l’allevamento di ovini e caprini. Le privatizzazioni degli ultimi anni hanno dato una scossa alla piccola industria locale, ma la vera ricchezza è il turismo, in continua espansione, soprattutto lungo la costa. Nonostante la costante crescita economica (oltre il 3,5 per cento annuo), il livello della disoccupazione rimane attorno al 17 per cento.


Milo Ðukanovi?: Ventisei anni al potere

«Padre della patria» o «piccolo dittatore criminale», il potente e molto discusso
politico non ricopre più cariche ufficiali.

Nella storia contemporanea del Montenegro, una figura spicca solitaria su tutte le altre: quella di Milo ?ukanovi?, «padre della patria» per alcuni e «piccolo dittatore criminale» per altri, uomo politico in grado di restare alla guida del paese dal 1991 e considerato ancora il reale dominatore politico del Montenegro, nonostante il passo indietro seguito alle elezioni del 2016, con la nomina di Duško Markovi? a nuovo premier. Nato a Nikši? nel 1962, ?ukanovi? si è fatto presto strada nella Lega dei comunisti del Montenegro. Nel 1989, insieme a Momir Bulatovi? e Svetozar Marovi? diventa la «longa manus» di Slobodan Miloševi?  in Montenegro, per poi essere eletto giovanissimo (a 29 anni) a primo ministro, mentre la «Lega dei comunisti» si trasforma nel «Partito democratico dei socialisti» del Montenegro (DPS). Con lo scoppio della guerra con la Croazia, ?ukanovi? si schiera decisamente col partito dei «falchi»: truppe montenegrine partecipano all’assedio e al bombardamento di Dubrovnik dall’autunno 1991 alla primavera 1992. Nel referendum sull’indipendenza del 1992 spinge perché il Montenegro resti unito alla Serbia nella nuova (e ridotta) Repubblica federale di Jugoslavia. Dopo la firma del trattato di Dayton (1995), che mette fine alla guerra in Bosnia, ?ukanovi? inizia a prendere le distanze da Miloševi?, una mossa che gli permette di marginalizzare Bulatovi? e prendere il pieno controllo del paese.

Con la fine della guerra in Kosovo (1999), ?ukanovi? cambia drasticamente ed inizia a spingere per la causa indipendentista, che trionfa nel referendum del 2006, trasformandosi in sostenitore convinto dell’ingresso nella Nato e nell’Unione europea. Criticato in patria dalle opposizioni per il controllo su media e servizi segreti, e accusato di essersi appropriato dell’economia montenegrina e aver truccato a proprio favore varie tornate elettorali, a livello internazionale ?ukanovi? è stato sotto i riflettori per i sospetti di aver intrattenuto rapporti amichevoli con esponenti della criminalità organizzata, e di aver partecipato attivamente al business del contrabbando di sigarette. La procura di Bari lo ha indagato ufficialmente, ma grazie all’immunità diplomatica il caso è stato archiviato. Nel 2015 l’«Organized crime and corruption reporting project» lo ha nominato «Persona dell’anno per corruzione e crimine organizzato», citando insieme alla questione del contrabbando i presunti rapporti con esponenti di spicco del crimine organizzato come Darko Šari?, Stanko Suboti? e Naser Kelmendi, ma anche l’appropriazione di ingenti risorse pubbliche attraverso il controllo della «Prva Banka» e numerose privatizzazioni poco trasparenti realizzate dal suo governo. Dopo 26 lunghissimi anni al governo, dall’ottobre 2016 ?ukanovi? non ricopre più cariche ufficiali. Tuttavia, l’attuale premier Markovi?, già direttore dei servizi segreti, è uomo di fiducia dello stesso ?ukanovi? e dunque parte integrante del sistema di potere dominante.

Francesco Martino


 

La situazione religiosa:
Ortodossi, primi ma divisi

In Montenegro la confessione dominante è quella cristiana ortodossa. Seguita dall’islam.

Storicamente, la confessione dominante in Montenegro è quella cristiana ortodossa, che secondo gli ultimi censimenti raccoglie circa il 70% della popolazione. Oggi la maggior parte dei fedeli ortodossi aderisce alla Chiesa ortodossa serba, mentre un terzo degli ortodossi si riconosce nella Chiesa ortodossa montenegrina, nata nel 1993 in seguito all’allontanamento del paese dalla Serbia, e riconosciuta dal governo di Podgorica, ma non dalle restanti chiese ortodosse. Dal XVII secolo al 1852 il potere temporale e quello religioso, nell’allora regno semi-indipendente del Montenegro, hanno coinciso nella figura del re-vescovo della dinastia Petrovi? Njegoš, noto col titolo di «vladika». La seconda religione del Montenegro è l’islam, con quasi il 20% della popolazione: oltre che dalle diverse comunità di slavi musulmani, come i bosgnacchi e i gorani, la religione musulmana viene praticata anche dalla maggior parte della comunità albanese. I cattolici rappresentano invece poco più del 3% dei credenti: concentrati sul litorale, fanno soprattutto parte della piccola minoranza croata. Poco più del 3% della popolazione si è dichiarato ateo o agnostico.

Fra.Ma.




La Croazia: Una spiaggia non basta


Indipendente dal 1991, la Croazia racchiude molteplici identità, una ricchezza che spesso produce tensioni. Le cicatrici della storia ad esempio riemergono periodicamente sia all’interno del paese sia nei rapporti con gli ex fratelli jugoslavi, in primis con la Serbia. Ai problemi politici si sono aggiunti quelli economici e sociali. L’entrata nell’Unione europea e il boom del turismo non sono stati sufficienti a evitare anni di recessione economica e la fuga dei giovani dal paese.

Est o Ovest? Europa centrale, Balcani o Mediterraneo? La geografia e la storia della Croazia non sono d’aiuto quando si tratta di posizionare il paese all’interno di queste categorie concettuali. La giovane repubblica, indipendente dal 1991, ha infatti diverse anime, che si ritrovano nei suoi dialetti, nei suoi stili architettonici e persino nella sua gastronomia. Terra di isole adriatiche, montagne innevate e pianure danubiane, la Croazia trae dalla propria ricchezza culturale le sue multiple identità: romana, slava, veneziana, austro-ungarica, jugoslava, europea… Un patrimonio di influenze e di sfumature, da cui derivano però anche le tensioni del presente. Le interpretazioni del passato, le opinioni sulla religione o ancora i rapporti con i paesi confinanti, scatenano periodicamente dei dibattiti capaci di spaccare in due la società croata, producendo un costante senso di lacerazione, che nemmeno l’ingresso nell’Unione europea, nell’estate del 2013, è riuscito a placare.

Se la presidente guarda a Višegrad

«Vorrei che non si utilizzasse più l’espressione “Balcani occidentali” per indicare questa regione. Parliamo piuttosto di Sud Est europeo». Nel novembre del 2015, in occasione di un vertice multilaterale, la presidente croata Kolinda Grabar-Kitarovi? ha espresso così il suo punto di vista sulla questione geografica della Croazia e dei suoi vicini. Il termine «Balcani» veniva allora bandito dai discorsi ufficiali della capo di Stato, eletta ad inizio 2015 tra le fila del partito conservatore Hdz e decisa ad avvicinare il paese al cosiddetto gruppo di Višegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Anche se la diplomazia internazionale ha in realtà mantenuto il vecchio vocabolario, per la Croazia, l’approccio di Grabar-Kitarovi? ha marcato un cambio di passo, confermato in quello stesso mese di novembre anche dal risultato delle elezioni legislative. L’Hdz, vincitore relativo dello scrutinio, è riuscito infatti a tornare al potere dopo una parentesi socialdemocratica (2011-2015) ed il governo che ne è risultato, guidato dal premier tecnico Tihomir Oreškovi?, ha riaperto in meno di un anno tutte le ferite proprie del tessuto sociale croato.

Le cicatrici della storia

L’esempio più significativo è quello di Zlatko Hasanbegovi?, uno storico accusato di revisionismo e negazionismo, ma nominato ministro della Cultura. Tra dichiarazioni sprezzanti e decisioni liberticide (ad esempio, la sospensione dei fondi pubblici ai media no-profit e al quotidiano della minoranza italiana «La Voce del Popolo»), Hasanbegovi? si è fatto notare anche per le sue osservazioni sul campo di concentramento di Jasenovac, il lager croato in cui morirono durante la Seconda guerra mondiale più di 83mila persone. «Tra le 20mila e le 40mila», è stata invece la stima del ministro, fatta proprio alla vigilia della cerimonia commemorativa nell’aprile 2016, boicottata allora dai rappresentanti delle vittime serbe ed ebree. Accadeva appena un anno fa, ma le radici del dibattito vanno cercate nel 1941, «l’anno che continua a tornare» come l’ha definito il celebre storico croato-bosniaco Slavko Goldstein. Nel 1941, lo scoppio della Guerra mondiale ha diviso il paese in due: tra ustascia e partigiani, i primi sostenitori dello Stato indipendente croato (Ndh), alleato della Germania nazista e dell’Italia fascista e guidato da Ante Paveli?; i secondi schierati con Josip Broz, detto Tito, diventato poi il leader della Jugoslavia socialista. E da allora, il 1941 «continua a tornare» come una maledizione.

Lo scontro sui diritti civili

La carriera ministeriale di Hasanbegovi?, convinto che la Croazia abbia «perso la Seconda guerra mondiale», è durata appena un anno. Nel giugno del 2016, il primo ministro Oreškovi? è stato sfiduciato, dopo che uno scandalo di corruzione aveva diviso i due partiti di maggioranza. Tuttavia, anche se si è trattato del «governo più breve della storia croata», come l’ha battezzato la stampa locale, diverse polarizzazioni proprie del paese sono state accentuate proprio in quel periodo. Oltre al caso Hasanbegovi?, che ha portato nel paese anche una missione del Consiglio d’Europa preoccupato per lo stato della libertà di espressione, un secondo terreno di scontro è stato quello della questione dell’aborto e dei diritti civili. Già nel 2013, ai tempi del governo socialdemocratico (Sdp), il fronte conservatore «Nel nome della famiglia» (U ime obitelji) era riuscito a rendere illegale il matrimonio tra persone dello stesso sesso, dopo aver organizzato un referendum costituzionale. L’esecutivo aveva risposto approvando le unioni civili anche per le coppie omosessuali, ma non era riuscito a chiudere il dibattito, in un paese che si professa cattolico quasi al 100%.

Durante il mandato di Oreškovi?, quindi, questo stesso movimento è tornato alla ribalta organizzando una «Marcia per la vita», con l’obiettivo di «proibire l’aborto in Croazia», come assicurava allora uno dei registi dell’evento, Vice John Batarelo, presidente dell’Ong «Vigilare». Al corteo, a cui presero parte migliaia di persone, sfilò in prima fila anche la moglie del premier, mentre a qualche metro di distanza si teneva una seconda manifestazione, voluta dai gruppi femministi e Lgbt della capitale e con obiettivi diametralmente opposti. Anche se è difficile che i militanti di «Nel nome della famiglia» arrivino a vietare l’interruzione di gravidanza, va detto che il tribunale di Zagabria, rispondendo ad una denuncia del 1991, ha dato al parlamento croato due anni di tempo (fino al 2019) per aggiornare la normativa in materia di aborto (che risale al 1978) in modo da renderla pienamente compatibile con l’ordinamento nato dopo la dissoluzione della Jugoslavia. La riforma della normativa non mancherà dunque di riaccendere il dibattito.

Croazia-Serbia: una ruggine che non passa

Un’altra questione religiosa – e legata anch’essa all’anno 1941 – ci porta ad affrontare il capitolo dei rapporti con la Serbia. Il caso del cardinale croato Alojzije Stepinac provoca infatti degli scontri regolari tra le cancellerie di Belgrado e di Zagabria. In breve, Stepinac (1898-1960), che fu arcivescovo nella capitale croata durante la Seconda guerra mondiale, è accusato dalle autorità serbe di crimini di guerra e di collaborazionismo con il regime di Ante Paveli? e, proprio per questo, fu condannato a 16 anni di prigione nel 1946 dalla giustizia jugoslava. Ma per la Croazia, Stepinac fu in realtà una vittima del comunismo, come dimostra il fatto che papa Giovanni Paolo II lo abbia proclamato «beato» nel 1998 e che una commissione in Vaticano stia discutendo ora della sua eventuale santificazione. Lungi dall’essere aneddotica come potrebbe sembrare, questa vicenda funge da leitmotiv nelle relazioni bilaterali serbo-croate, intervallate dagli anniversari del conflitto e dalle frequenti dichiarazioni incendiarie.

Anche in questo caso, l’apice della tensione diplomatica tra Croazia e Serbia è stato raggiunto durante il mandato di Oreškovi?, quando il ministro degli Esteri di Zagabria era Miro Kova? – uno dei falchi dell’Hdz – ed il suo corrispettivo serbo era Ivica Da?i?, alla guida del Partito socialista (Sps) che fu di Slobodan Miloševi?. Nell’estate del 2016, Belgrado si è spinta fino a scrivere all’Unione europea per protestare contro «la riabilitazione dell’ideologia ustascia in Croazia», mentre a livello locale continuavano le provocazioni, almeno fino alla nuova tornata elettorale croata. La nuova vittoria dell’Hdz, epurato questa volta dal suo vecchio leader Tomislav Karamarko e guidato dal più moderato Andrej Plenkovi?, ha portato ad una rosa di ministri quasi completamente rinnovata. Lungi dall’aver estinto le fonti di conflitto all’interno della società, il «riaccentramento» dell’esecutivo croato ha comunque contribuito a limitare la retorica nazionalista nei confronti dei vicini.

La stanchezza dei giovani

In questo contesto pesantemente influenzato dal passato (dal 1941, prima ancora che dal 1991), che ne è delle giovani generazioni? Anche qui, si fa sentire la stessa divisione che attraversa la società nel suo insieme, ma con una novità. Se è vero che una parte della gioventù croata rimane sensibile ai discorsi che ruotano attorno alla retorica conservatrice, un’altra parte, stanca del dibattito politico nazionale e avvilita dalle magre prospettive economiche, sceglie sempre più spesso la via dell’emigrazione (a maggior ragione dopo il 2013, anno dell’ingresso del paese nell’Ue). Spinti da una disoccupazione giovanile che supera il 30% (dati fine 2016), i ventenni croati preferiscono traslocare in Irlanda, Germania o in altri paesi dell’Europa settentrionale. E non sono un’eccezione: secondo un sondaggio realizzato a febbraio 2017 dal portale MojPosao.hr, quattro cittadini su cinque sono pronti a lasciare il proprio paese pur di trovare un posto di lavoro. Una vera e propria emorragia, al punto che secondo alcuni osservatori la Croazia conterebbe oggi meno di 4 milioni di abitanti, contrariamente a quanto affermato dal censimento del 2011, che ne rilevava 4,3 milioni.

Instabilità

Colpita da sei anni di recessione (2009 – 2015) e prigioniera delle ricorrenti discussioni politiche e religiose, la Croazia fatica dunque a trovare quella serenità necessaria a costruire il suo tanto agognato futuro europeo. Il ritorno della crescita, sostenuta soprattutto dal turismo che nel 2016 ha portato nel paese 16 milioni di visitatori (rappresentando quasi un quinto del Pil, vedi pag. 28) e l’elezione di un governo più moderato (ma già in crisi a metà 2017) sembrano rappresentare le giuste condizioni per voltare pagina in Croazia. Ma gli sforzi di una parte della società croata per lasciarsi alle spalle i fantasmi del nazionalismo dovranno fare i conti con il contesto regionale, caratterizzato da una crescente instabilità nei Balcani. In bilico tra passato e futuro, Zagabria ha oggi l’urgenza di completare il processo di riconciliazione con la propria storia recente e con i suoi vicini. Solo su delle basi prive di retorica, il paese potrà finalmente abbracciare tutte le sue identità.

Giovanni Vale*

* Giornalista professionista, Giovanni Vale è collaboratore di diverse testate italiane e francesi. Laureato in Scienze internazionali e diplomatiche all’università di Trieste, scrive perlopiù di Balcani per Il Piccolo, Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa e per Pagina99.

 


Migranti e «rotta balcanica»

Più Budapest che Bruxelles

La crisi dei migranti non ha risparmiato Zagabria. Che ha fatto le sue scelte.

La «rotta balcanica». Con quest’espressione, la stampa internazionale ha battezzato, nell’estate del 2015, il flusso di rifugiati che ha attraversato per mesi la Turchia, la Grecia e alcuni paesi dell’ex Jugoslavia, portando decine di migliaia di persone all’interno dello spazio comunitario. Siriani, iracheni o, ancora, afghani in fuga dai conflitti in Medio Oriente, hanno raggiunto in questo modo il territorio dell’Unione europea (e più precisamente lo spazio Schengen) nella speranza di ottenere una protezione umanitaria. Per la Croazia, questo flusso migratorio ha rappresentato una sfida logistica, prima ancora che politica. Il paese è stato coinvolto nella cosiddetta «rotta» a partire dal 15 settembre 2015, ovvero da quando il governo di Budapest ha ultimato il suo «muro», una barriera provvista di filo spinato e lunga più di 170 km con cui ha sigillato il confine serbo-ungherese. Da allora, la colonna di rifugiati che quotidianamente attraversava il Nord della Serbia in direzione settentrionale ha deviato verso ovest, entrando sul territorio croato.

Il governo di Zagabria, allora guidato dal premier socialdemocratico Zoran Milanovi?, ha dapprima deciso di far proseguire il flusso verso l’Ungheria, poi – dinanzi alla costruzione di una seconda barriera da parte di Budapest (questa volta al confine croato) – ha ripiegato sulla Slovenia. Data la geografia della Croazia, che pone la capitale lontana dalle pianure della Slavonia, interessate da questi eventi, si può dire che pochi cittadini croati abbiano realmente percepito la crisi migratoria del 2015, come è invece avvenuto nella vicina Serbia o ancor più in Grecia. Inoltre, similmente agli altri paesi della regione, soltanto un numero insignificante di rifugiati ha fatto domanda di asilo alle autorità croate, preferendo piuttosto proseguire verso la Germania e l’Europa settentrionale. Ciononostante, la questione migratoria ha avuto delle conseguenze politiche, prima nei rapporti con i vicini (tensioni con l’Ungheria, la Serbia e la Slovenia), poi, dal punto di vista interno.

Le elezioni di fine 2015 hanno infatti portato ad un cambio di governo a Zagabria ed il nuovo esecutivo si è schierato su posizioni più filo ungheresi sul tema delle migrazioni. Come la presidente Grabar-Kitarovi? aveva manifestato il suo appoggio ai paesi del gruppo di Višegrad (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia), così il premier Oreškovi? ha assicurato fin da subito di capire il bisogno di sicurezza di Budapest e Vienna. Nella primavera del 2016, gli stati della «rotta balcanica» (Austria compresa) hanno dunque deciso di contraddire apertamente la posizione di Bruxelles, decidendo autonomamente di sbarrare il passaggio ai profughi, prima permettendo l’accesso a soltanto tre nazionalità (siriani, afghani e iracheni), considerati a priori come legittimi beneficiari della protezione umanitaria, poi chiudendo definitivamente l’ingresso in Macedonia ed isolando così la Grecia. L’accordo turco-europeo ha poi permesso di includere anche Atene in una soluzione comune.

Gio.Va.


La Chiesa cattolica croata

Diffusa, forte e schierata

In Croazia nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica. Limitata e ostacolata all’epoca della Jugoslavia socialista, oggi la Chiesa croata è su posizioni conservatrici e nazionaliste.

A lungo controllata all’epoca della Jugoslavia socialista, la Chiesa cattolica croata si è schierata fin dall’indipendenza nel 1991 su posizioni molto conservatrici. Vicina all’«Unione democratica croata» (Hdz) – il principale partito di destra – la Chiesa svolge tuttora un ruolo di primo piano nel dibattito politico nazionale. Ferocemente anti-comunista e spesso apertamente nazionalista, la gerarchia ecclesiastica croata si esprime sia tramite il suo quotidiano, il «Glas Koncila», sia per mezzo dei suoi alti prelati, periodicamente autori di dichiarazioni forti e schierate.

Alla vigilia delle ultime elezioni parlamentari, ad esempio, il vescovo di Sisak Vlado Koši? ha invitato espressamente i suoi concittadini a votare per l’Hdz e non permettere un ritorno dei socialdemocratici al potere. L’anno prima, nel maggio del 2015, l’arcivescovo di Zagabria Josip Bozani? aveva invece celebrato una messa a Bleiburg in Austria, in occasione del 70° anniversario del massacro di migliaia di cittadini croati compiuto nel 1945 dai partigiani jugoslavi. Ogni anno, la commemorazione di questa vendetta degli uomini di Tito contro gli esponenti dello sconfitto «Stato indipendente di Croazia» (Ndh) raduna nella piccola cittadina dell’Austria meridionale migliaia di militanti croati di estrema destra ed alcuni dei suoi rappresentanti politici. La presenza di alti esponenti ecclesiastici è perciò vista come controversa, così come lo è la figura di Alojzije Stepinac (1898-1960), arcivescovo di Zagabria che la Chiesa croata vorrebbe santo ma che la Serbia considera un criminale di guerra (vedi pezzo principale).

Dalle questioni legate al matrimonio e all’aborto fino alla battaglia contro le unioni omosessuali (contro cui la gerarchia cattolica croata si è battuta con successo nel 2013), gli interventi della Chiesa nel dibattito politico della Croazia sono dunque numerosi e costanti. Nel paese, nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica.

Giovanni Vale


Ex Jugoslavia

Ci eravamo tanto amati

Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, i rapporti con gli ex «fratelli» sono all’insegna del sospetto reciproco.

Il golfo di Pirano, la frontiera sul Danubio o ancora il ponte di Sabbioncello. Ecco tre dossier bilaterali che la Croazia discute oggi con i suoi vicini. Si tratta di questioni nate con la dissoluzione della Jugoslavia e con la necessità di dividere un patrimonio che prima era comune e che non sono ancora state risolte.

Il primo caso è quello che coinvolge Croazia e Slovenia, tuttora impegnate a tracciare una frontiera marittima nelle acque del golfo di Pirano, poco lontano da Trieste. È una controversia vecchia di 25 anni e che ha visto diverse evoluzioni, ma nessuna soluzione condivisa. Lubiana chiede un accesso indipendente alle acque internazionali e rivendica una sovranità più ampia sulla baia, incontrando però l’opposizione di Zagabria. Negli anni, i negoziati si sono susseguiti così come le proposte di nuove carte nautiche. Dopo l’ingresso della Croazia nell’Ue, il diverbio è finito davanti ad una corte internazionale di arbitrato, ma nell’estate del 2015, quando il tribunale stava per esprimersi, una fuga di notizie tra i giudici e i rappresentanti sloveni ha convinto le autorità croate ad abbandonare il processo. Così, ad oltre un quarto di secolo dalla fine della Jugoslavia, i pescatori di entrambi i paesi non sanno ancora dove finiscono formalmente le acque del proprio stato ed iniziano quelle dei vicini.

Anche con la Serbia, una frontiera precisa rimane da tracciare. I paesi sono separati dal corso del Danubio, ma la Croazia fa appello a dei documenti catastali di epoca austroungarica e reclama alcuni ettari di terra che si trovano oggi oltre il fiume. Belgrado, inutile dirlo, si oppone ed ecco che la disputa – anche qui, vecchia di oltre 25 anni – ha permesso la “nascita” del Liberland, uno “stato” autoproclamatosi indipendente su un isolotto che nessuno dei due stati rivendica come proprio. E se la vicenda del confine tuttora da definire fa capolino solo raramente sulla stampa locale, è soltanto perché i motivi di tensione tra i due paesi non mancano: dalla tutela della rispettive minoranze al trattamento dei crimini di guerra, passando per la più recente (e spesso esplicita) corsa agli armamenti, le relazioni bilaterali serbo-croate sono già ben fornite.

Infine, con la Bosnia-Erzegovina, Zagabria discute due temi principali: le sorti dei croati residenti in Bosnia, che premono per la creazione di una «terza entità» federata nel paese, ed il modo in cui bypassare il corridoio di Neum, unico acceso al mare bosniaco ma causa dell’isolamento della contea di Dubrovnik dal resto della Croazia. Il primo argomento è decisamente molto spinoso, perché prevede una riforma dei trattati di Dayton del 1995 che equivarrebbe ad aprire il vaso di Pandora del delicato sistema istituzionale bosniaco. Più abbordabile, invece, il dossier di Neum. A questo proposito, due paesi hanno trovato un accordo per la costruzione di un ponte che collegherà la penisola di Sabbioncello alla terraferma dalmata e i lavori dovrebbero iniziare entro la fine del 2017.

Gio.Va.


Turismo e ambiente

Turisti: tanti, forse troppi

Fonte primaria dell’economia della Croazia, il turismo incontrollato comincia a produrre danni collaterali.

Sedici milioni di visitatori l’anno, con un contributo pari a quasi il 20% del Prodotto interno lordo (Pil). Il turismo rappresenta per la Croazia una priorità economica ed è un settore a dir poco strategico. Ogni anno, l’inizio dell’estate in Dalmazia, in Istria e sulle isole marca una delle ricorrenze annuali più importanti per il paese, che dipende in larga misura (forse eccessivamente) dai risultati della stagione turistica. E se nei fatti, la Croazia registra ogni anno dei nuovi record nel numero di arrivi o di pernottamenti, questo continuo boom comincia già a provocare i primi danni collaterali.

A Dubrovnik o al parco nazionale dei laghi di Plitvice, il numero dei turisti supera ormai la quota massima indicata dall’Unesco come parametro per la protezione del patrimonio culturale e naturale. Si parla di 10mila persone al giorno in fila sui bastioni della vecchia Ragusa e di oltre 15mila all’interno del celebre parco croato: un flusso eccessivo per l’Unesco che ha già intimato alle autorità di Zagabria di rimediare alla situazione. Inoltre, altre conseguenze negative, anche se più difficilmente quantificabili, colpiscono le città della costa e le comunità che le abitano. Accade così che nel centro di Spalato ci sono sempre meno residenti locali, seguendo l’esempio di quanto già successo per le vie della vicina Traù (Trogir). Il successo della spiaggia di Zr?e sull’isola di Pago rappresenta anch’esso un’opportunità e una sfida per le autorità locali, impegnate ora a trovare un equilibrio tra il turismo di massa legato alle discoteca e la voglia di promuovere i propri siti storici e culturali.

Proprio per rimediare a questa strategia mono-settoriale che colpisce le coste croate, un movimento si è sviluppato negli ultimi anni in Dalmazia. Si tratta del «movimento delle isole» (Pokret Otoka), un’iniziativa lanciata da un gruppo di giovani abitanti (perlopiù donne) con l’obiettivo di immaginare e pianificare un futuro sostenibile per le mille isole croate. Nato a fine 2015, Pokret Otoka ha creato una rete per lo scambio di idee e buone pratiche e ha recentemente portato alla firma di una «Dichiarazione dell’isola intelligente» (Smart Island Declaration), presentata a fine marzo 2017 a Bruxelles.

Gio.Va.

 




Albania: Il call center dell’Europa


Durante la lunga dittatura comunista l’isolamento del paese era scalfito soltanto dalle televisioni commerciali italiane. L’italiano divenne la lingua straniera più parlata. Dopo l’arrivo (nel 1992) di un regime più democratico, l’Albania è rimasta un paese con molte contraddizioni ma in rapida crescita. Il sistema economico liberista e i bassi salari hanno attratto consistenti investimenti. Con l’Italia in prima fila.

Non c’è paese dove l’Italia sia più rilevante, eppure per la maggioranza degli italiani l’Albania rimane il più lontano dei posti vicini: un «Oriente sotto casa». Tra le due sponde adriatiche la storia ha pesato più della geografia. Nei due millenni dell’era cristiana, il navigatissimo canale d’Otranto ha funto anche da fossato culturale: di qui Roma, Rinascimento e capitalismo; di là Bisanzio, Impero Ottomano e comunismo. In tempo di Guerra fredda, l’Italia costituzionale fu ben lieta di scordare l’ex colonia mussoliniana. Paradosso dei paradossi, in quegli stessi anni le nostre Tv commerciali esercitarono un ineguagliabile potere fascinatorio sulle vittime del comunismo più isolato d’Europa. Frutto della contingenza internazionale, questa sorta di colonialismo involontario riuscì la fare ciò che il fascismo non avrebbe osato sognare: fece dell’italiano la seconda lingua d’Albania, e dell’Italia «Lamerica» degli albanesi. A venticinque anni dall’attracco della nave Vlora al porto di Bari (8 agosto 1991; si legga a pag. 27, ndr), sebbene risiedano in Italia mezzo milione di albanesi, è ancora difficile parlare di «reciproca conoscenza». Questo perché tra i due paesi il rapporto non è mai stato alla pari. I pregiudizi degli anni Novanta sono finalmente tramontati, ma allo «stereotipo leghista» è andata via via sostituendosi una narrazione giornalistica tanto positiva quanto plastificata: l’Albania indicizzata su Google è un paese dinamico che ha davanti a sé la crescita che gli italiani hanno già consumato. Buona o cattiva che sia, anche questa semplificazione non rende giustizia alla realtà: è un disinteresse con il segno più. Chi, da italiano, voglia conoscere l’Albania, dovrà smettere di usare se stesso come unità di misura. «Mi ricorda il Sud Italia del dopoguerra» o «il mare è bellissimo, sembra la Grecia» sono frasi che parlano di noi.

In questo articolo proveremo a fare un po’ d’ordine partendo dalla storia per arrivare fino ai giorni nostri.

Dentro i confini del 1913

Gli albanesi esistono da prima del loro stato. Sulle origini (illiriche?) della lingua e dell’etnia albanese esistono discussioni accorate ma meno studi, quello che è certo è che sangue e idioma furono le basi ideologiche della Rilindje, il Risorgimento albanese. Inizialmente restii ad abbandonare la compagine ottomana, i patrioti che il 28 novembre 1912 proclamarono da Valona la nascita dell’Albania – nello stesso simbolico giorno in cui, cinquecento anni prima, l’eroe nazionale Skanderbeg aveva dichiarato guerra ai turchi dal suo feudo di Kruja -, lo fecero con il placet della potenze europee, nel tentativo di arginare l’espansionismo serbo e greco che, da Nord e da Sud, spingeva sulle province albanesi della Sublime Porta (termine indicante l’Impero ottomano, ndr). La nascita dello stato albanese somiglia a quella di altri stati emersi dalla dissoluzione dei grandi imperi multietnici. È una storia fatta di visione e di afflato ideale, ma anche di contingenza e di realismo politico. Il riconoscimento internazionale arrivò nel luglio 1913, durante la Conferenza di Londra (sostenitrice della necessità di uno stato albanese era proprio l’Italia liberale). Nel febbraio dell’anno seguente gli stati europei fissarono confini e governo del Principato d’Albania: per dare un’idea del livello di empatia che gli albanesi del tempo dovettero provare nei confronti del nuovo assetto statuale basti ricordare che a insediarsi sul trono fu un perfetto estraneo: il principe Guglielmo di Wied, uno dei nipoti della Regina Elisabetta di Romania. Giunta al porto di Durazzo il 7 marzo 1914, sotto la protezione di una sparuta milizia olandese, la famiglia reale resistette fino al 3 settembre, quando una rivolta la costrinse ad abbandonare il paese. Da quel giorno, l’indipendenza formale dell’Albania ha subito diverse interruzioni – all’occupazione italiana durante la Grande guerra seguirono il debole regno di Zog, l’occupazione fascista del 1939 e mezzo secolo di comunismo – ma i confini stabiliti dagli ambasciatori del 1913, i quali non includono tutti gli albanesi entici, sono gli stessi dell’Albania odierna.

Il comunismo di Hoxha

Questi precedenti giocarono un ruolo determinante all’indomani della II guerra mondiale. Scelto dagli iugoslavi nel fuoco della Resistenza condotta contro i nazisti che dopo l’8 settembre avevano occupato i territori italiani della Balcania (Badoglio lasciò in Albania 130 mila soldati privi di ordini), il comandante partigiano Enver Hoxha governò l’Albania comunista dal 1944 al 1985 (anno della sua morte) combinando spregiudicate alleanze internazionali a un discorso politico nazionalista di stampo appunto risorgimentale. Nei primi anni del dopoguerra l’Albania sembrava avviata a diventare la settima repubblica della Federazione Jugoslava, ma nel giugno del 1948 Stalin ruppe con Tito. Per conservarsi al potere, Hoxha preferì schierarsi con l’Urss, lasciando il Kosovo alla Jugoslavia e resuscitando sul piano interno la secolare narrazione anti serba. Un decennio dopo, il copione sarebbe stato simile: ribelle alle ingerenze sovietiche dello «slavo Krusciov» l’Albania Popolare siglò un’improbabile alleanza con la Cina di Mao: tra gli applausi dell’Occidente, i sottomarini sovietici abbandonarono i porti mediterranei mentre la scelta dottrinaria del marxismo-leninismo isolava il piccolo paese balcanico anche all’interno del Secondo mondo (quello, appunto, orbitante attorno all’Urss).

Il comunismo albanese fu una risposta violenta ai bisogni di una società agropastorale, rimasta a livelli di vita primordiali: ad appena un milione di abitanti – per l’80% contadini poveri, con il 9% della terra del paese a disposizione – un leader finalmente «autoctono» offrì la possibilità di credere al progresso materiale della propria patria. Il prezzo pagato dagli albanesi per la modernizzazione realizzata da Hoxha non è ancora materia di storici altrettanto «locali». Le difficoltà che gli albanesi incontrano nella rielaborazione del loro passato recente si devono al fatto che in quella dittatura «il comunismo» fu poco più di una grammatica dell’economia e della propaganda: una lingua straniera utilizzata per adattare al contesto della Guerra fredda quella peculiare narrazione etnica che affonda le sue radici nell’identità culturale albanese e il cui frutto moderno è, appunto, lo stato albanese. Studiare il regime enveriano implicherebbe la sua comprensione all’interno della storia che lo ha preceduto; se, ancora oggi, quest’operazione viene rimandata è perché l’intoccabile mito nazionalista fonda anche l’Albania democratica. Purtroppo, nessuna coscienza storica ha mai illuminato il cammino della nascente democrazia albanese: né a livello accademico, né a livello di élite politiche. Il risultato, visibile, sono ferite non rimarginate. Lasciate senza spiegazioni, le persone comuni, cresciute lacerate tra due mondi, sanno soltanto che si stava peggio (o meglio) «quando c’erano i comunisti»: come se anche questi ultimi fossero invasori venuti da fuori.

Passaggi complessi

L’Albania è uno stato balcanico e in quanto tale si pensa e si racconta come «unico» (il nazionalismo balcanico è fondato sull’appartenenza etnica) e «mutilato» (non soltanto del Kosovo, ma anche di parte della Macedonia e del Sud della Grecia). Nel 2014 hanno fatto il giro del mondo le immagini di Serbia-Albania, partita valida per la qualificazione all’Europeo di Francia, sospesa per rissa dopo che un drone telecomandato aveva fatto piovere sullo stadio una bandiera dell’«Albania etnica» munita di Kosovo. L’accaduto venne derubricato a «poco edificante folklore sportivo», ma non sfuggì alle cancellerie europee la rinuncia del primo ministro albanese Edi Rama alla storica visita in programma pochi giorni dopo a Belgrado (gli ultimi leader a incontrarsi erano stati Hoxha e Tito, nel 1948). Se il mito risorgimentale della nazione rimane il discorso politico più comprensibile all’opinione pubblica interna, l’Europa è oggi presente nelle esternazioni di tutti i politici albanesi, indipendentemente dall’appartenenza di partito. Come lo stesso Rama ama ricordare in ogni visita all’estero, «l’Albania è il paese più europeista d’Europa». Un’asserzione che contiene elementi di verità, ma che non indaga le ragioni di questa propensione. Per la maggior parte degli albanesi l’Ue – che il giornalismo albanese confonde volentieri con la Germania di Angela Merkel – è un club di paesi ricchi dal quale non si vuole venire esclusi. Che l’integrazione esiga dei doveri è chiaro a tutti, ma che questa implichi il superamento culturale dell’idea di confine nazionale non è ben spiegato ai cittadini albanesi: né dai propri politici nazionali, ferventi europeisti anzitutto quando parlano in inglese, né dalla delegazione della Commissione europea aperta a Tirana, che con i suoi report monitora l’avanzamento delle riforme necessarie all’apertura dei negoziati d’adesione, faticando a rendersi comprensibile al di fuori di una ristretta cerchia di privilegiati della capitale.

Lo sbandierato «europeismo» di un’Albania, che – dal 2014 – è ufficialmente candidata all’Ue, va dunque collocato all’interno di quella generica e ingenua «esterofilia» che ha accompagnato il passaggio del paese dal socialismo paranoico al liberismo selvaggio. Da questo punto di vista, la discontinuità incarnata dal governo Rama si ridimensiona.

Dopo Sali Berisha

Le elezioni politiche del 2013 hanno posto fine all’era di Sali Berisha – il leader del Partito democratico (la destra albanese) che dal 1992 aveva gestito, seppur con qualche interruzione, la transizione dal comunismo. Ma, nonostante la vittoria di una ritrovata coalizione socialista, la strategia economica del paese rimane appiattita sul paradigma neoliberista: apertura alla delocalizzazione estera, riassorbimento della domanda di lavoro affidato agli investimenti stranieri, nessuna tutela per i lavoratori albanesi che rimangono in patria. La proliferazione di call center internazionali che lucrano sul plurilinguismo dei giovani retribuendolo 200 euro al mese è la manifestazione più simbolica dell’assenza di politica nazionale. Più di dieci anni fa, sulle pagine di questa stessa rivista, Pier Paolo Ambrosi osservava che «finché una parte importante della popolazione, a causa delle serie condizioni di povertà in cui vive, rimane praticamente esclusa dal circuito economico, essa non avrà alcun legame né interesse verso le forme di pratica della democrazia». Questa drammatica considerazione è altrettanto attuale oggi, e trova conferma nelle promesse clientelari che precedono ogni tornata elettorale, nell’elezione del faccendiere Ilir Meta a presidente del parlamento, nelle proteste di diversi governi europei per le domande d’asilo che ancora giungono dall’Albania e nel fenomeno di «spedizione» di minori non accompagnati denunciato di recente proprio dai servizi sociali italiani. I gommoni non ci sono più, ma la corruzione, il disagio sociale, la disillusione e il conseguente sogno d’emigrazione a tutti i costi sono lungi dall’essersi esauriti.

Tra corruzione e riforme

Per cercare di traghettare il paese nel futuro, il nuovo governo «socialista» ha rilanciato con abilità l’immagine dell’Albania all’estero – talvolta sbandierando che «qui da noi non ci sono i sindacati», talvolta ottenendo importanti riconoscimenti come l’agognata candidatura all’Europa – ma ha anche affrontato difficili riforme, come quella dell’Università, mirata a fare ordine nel caotico panorama degli istituti privati, e quella della giustizia, che dovrebbe aprire la strada a una magistratura finalmente indipendente. Nonostante la corruzione del sistema politico e sebbene il parlamento continui a dimostrarsi permeabile agli interessi della criminalità organizzata, la riforma della giustizia è passata all’unanimità. La stampa internazionale e le istituzioni europee hanno salutato con soddisfazione il «risultato epocale», fingendo di non sapere che nei giorni immediatamente precedenti la delegazione Ue e l’ambasciatore americano in persona avevano minacciato i deputati albanesi di pesanti ritorsioni nel caso in cui avessero votato contro. In attesa che il futuro ci dimostri che in questo caso il fine europeo ha giustificato i mezzi, è doloroso constatare come una volta superato lo strapotere di Berisha la «democrazia albanese» non possa ancora togliersi le virgolette.

Ammessi i ritardi socio economici, dopo vent’anni di sviluppo caotico ma ininterrotto, l’Albania continua a possedere un notevole potenziale. Stiamo parlando di un paese demograficamente giovane, straripante di bellezze naturalistiche e seduto su un invidiabile patrimonio storico: al confine (strategico) tra Oriente e Occidente, balcanica ma non iugoslava, ex comunista ma non ex sovietica, musulmana ma occidentalizzata, la storia di questo piccolo stato è costellata di apparenti contraddizioni che una volta accettate dal popolo, che ne è custode, potrebbero sprigionare la loro inestimabile ricchezza.

Statue, piramidi, rifugi

Per godere delle contraddizioni albanesi, basta una passeggiata nel centro di Tirana: una città cui la speculazione edilizia degli anni Novanta ha negato per sempre l’aggettivo «turistica», ma che anche per questo risulta interessante a tutti i visitatori stranieri, peraltro in crescita esponenziale. Facciamo due passi in piazza Skanderbeg: in quale altra piazza del mondo s’incontrano a distanza di pochi metri gigantismo sovietico, neoclassico italiano e una moschea ottomana? Circondato dal pastiche architettonico dei dominatori stranieri, al centro della piazza campeggia la statua equestre dell’eroe dell’etnia: uno Skanderbeg invincibile, mitologico e, in quanto tale, poco propenso a valorizzare le strepitose contaminazioni che, certo figlie delle sconfitte, hanno reso unica l’Albania. Pochi metri più a Sud, lungo il boulevard di costruzione italiana, si trova la «Galleria nazionale delle arti». Se al suo interno un piano è dedicato alle opere del regime, la celebre statua di Stalin che, fino al 1968, occupava il posto di Skanderbeg è nascosta, incappucciata, dietro l’edificio. Nello stesso oblio versa l’incredibile piramide che la figlia del dittatore volle erigere a memoria del padre (1988). Per tutta la transizione democratica, questi segni, fonte di fascino e d’interesse per i forestieri, sono stati ragione d’imbarazzo per gli albanesi: il «Baffo» è rimasto in punizione dietro la galleria che poteva ospitarlo e la piramide, altrettanto abbandonata, ha rischiato a più riprese la demolizione. Soltanto nel novembre 2014, in occasione dei 70 anni dalla Liberazione, Edi Rama ha finalmente messo mano alla memoria collettiva, aprendo alla cittadinanza il rifugio militare che Hoxha fece costruire tra il 1970 e il 1972 alle pendici del monte Dajti. Ogni ambiente del sotterraneo, furbescamente ribattezzato Bunk’Art, è oggi adibito a museo. In una delle stanze più visitate, nominata «camera di Hoxha», foto a mezzo busto del dittatore circondano una televisione d’epoca: in onda, a loop, le immagini del suo funerale. Sono indimenticabili le facce dei bambini albanesi che si assiepano davanti a quella Tv. I genitori, timorosi di un passato che hanno vissuto, in genere fanno per tirarli via; ma i piccoli insistono, ipnotizzati da una storia che in fin dei conti è anche loro. Sono quei bambini, e non vecchi eroi a cavallo, il futuro, l’unico possibile, dell’Albania. Futuri cittadini cui i governanti attuali dovranno saper fornire una memoria e una direzione: un motivo per rimanere. Quando la giovane Albania democratica si dimostrerà capace di accettare, ricostruire e raccontare in autonomia la propria complessa storia, nel cuore dei suoi giovani figli nasceranno senza dubbio nuove motivazioni, il desiderio di scriverne il seguito.

Nicola Pedrazzi*

* Nicola Pedrazzi (Bologna, 1986) è giornalista pubblicista e redattore dell’agenzia stampa NEV-Notizie Evangeliche. A nome dell’Università di Pavia ha speso in Albania tre anni di ricerca dottorale. È stato corrispondente da Tirana per l’Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc) e per Kosovo 2.0.




Europa unita


Un tempo i giovani vedevano l’Europa come portatrice di pace. Oggi l’Unione si associa a crisi, disoccupazione, respingimenti di migranti, paura. I populismi xenofobi guadagnano punti. Mentre l’Italia ha almeno il merito di puntare i piedi.

Per la mia generazione l’Europa unita era un bellissimo sogno, in grado di far battere il cuore. Guardavamo sereni al processo di unificazione, confidando in un avvenire di pace, cooperazione e sviluppo non solo per noi europei, ma per il mondo intero. A scuola e nelle università ci parlavano di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Konrad Adenauer, spiegandoci che il progetto di un’Europa forte e coesa era il frutto della loro grande statura politica e morale.

Nel corso degli anni questo sogno si è pian piano sgretolato sotto le rigide imposizioni del mercato, gli egoismi nazionali e lo strapotere delle tecnocrazie. Oggi nessun giovane sogna grazie all’Europa, anzi l’appartenenza europea suscita apprensione, è considerata, a ragione o a torto, la causa della disoccupazione e dell’impoverimento delle nuove generazioni.

Se si chiede a un giovane cosa rappresenti per lui l’Unione europea, la risposta più benevola è: burocrazia, eccesso di regole, costi esagerati, vertici inconcludenti. Ancora più triste sarebbe una risposta come: l’Europa è un giogo per i più deboli, un’inespugnabile fortezza per i poveri del mondo.

Non è una bella Europa quella che non apre le braccia a chi fugge dalla guerra e dalla miseria, che non si commuove di fronte alle migliaia di esseri umani che affogano nel Mediterraneo, che lascia soffrire di stenti e freddo chi si ammassa lungo i suoi confini.

Le idee e le parole che influenzano le scelte dei politici europei sono paura, minaccia, respingimenti, muri. Le stesse idee e parole che circolano tra la gente e ispirano il voto popolare più rozzo.

Ne consegue che l’accordo sulle quote, che pure riguarda numeri trascurabili – un totale di 160mila trasferimenti entro il 2017 – è bloccato da mesi, mentre l’Ue ha deciso di versare alla Turchia 3 miliardi di euro (e altri 3 nel 2018), perché si faccia carico dei migranti che essa non vuole, invischiandosi malamente con l’arrogante Recep Tayyp Erdogan che calpesta sistematicamente i diritti umani e viola le convenzioni inteazionali.

Si è creato un orribile circolo vizioso tra governanti e governati dove nessuno ha l’autorevolezza di proporre una visione differente.

Per questo ci ha favorevolmente colpito la presa di posizione di Matteo Renzi che, lo scorso novembre, ha posto il veto sul bilancio europeo, un gesto che, nella pratica, ha solo un effetto dimostrativo, ma riveste un alto significato politico: non vogliamo che si costruiscano muri con il denaro che l’Italia versa alla Ue.

Anche Emma Bonino, già stimata commissaria Ue e convinta europeista, ha predisposto una sorta di prontuario sull’immigrazione in cui sfata i falsi miti che alimentano sospetto e rifiuto.

Dimostra ad esempio che la cosiddetta invasione degli stranieri è un inganno: nell’Unione europea, su 510 milioni di residenti, solo il 7% è costituito da immigrati (35 milioni). La quota di stranieri varia notevolmente tra i paesi europei: il 10% in Spagna, il 9% in Germania, l’8% nel Regno Unito e in Italia, il 7% in Francia. Paradossalmente i paesi più ostili all’accoglienza degli immigrati sono quelli che ne hanno di meno: la Croazia, la Slovacchia e l’Ungheria, ad esempio, ne hanno circa l’1%.

Nel mondo ci sono 16 milioni di rifugiati, ma solo 1,3 milioni sono ospitati nei 28 paesi dell’Unione europea, meno del 10%. Nel mondo i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,6 milioni), il Libano (1,1 milioni) e la Giordania (664mila).

E ancora, in Europa solo il 5,8 per cento della popolazione è di religione islamica, mentre il terrorismo – che tuttavia ha ben poco a che fare con la vera religione – colpisce molto di più al di fuori dei confini europei: le nostre vittime rappresentano meno dell’1% del totale, perché le maggiori e continue stragi avvengono in Siria, Afghanistan, Iraq, Nigeria, Niger e Somalia, proprio nei paesi da cui fugge la maggioranza dei migranti.

Nel dibattito e nelle scelte europee sull’immigrazione, l’Italia si distingue per umanità e capacità, e sono in gran parte italiani i mezzi e il personale, civile e militare, di pattuglia nel Mediterraneo, dove soccorrono decine di migliaia di esseri umani stremati. Non diamo retta alle proteste sguaiate della minoranza xenofoba, che purtroppo esiste anche nel nostro paese, godiamoci l’orgoglio di essere cittadini di una nazione che incarna nei fatti i valori della civiltà europea.

Sabina Siniscalchi