Compagni di viaggio


In questi mesi tutte le comunità diocesane e parrocchiali sono impegnate ad approfondire i temi che i vescovi Italiani hanno sottoposto alla nostra riflessione. Si tratta dell’attuazione di quel Sinodo di tutta la Chiesa, voluto da papa Francesco, per offrire a ogni comunità cristiana l’opportunità per una conversione pastorale in chiave missionaria ed ecumenica.

Colpisce come il primo passo proposto dai vescovi per realizzare questo cammino sinodale sia quello di sentirci tutti «compagni di viaggio», persone in cammino non solo con coloro che si dicono credenti e praticanti, ma con ogni membro della società. Pare di risentire il mandato di Gesù ai primi discepoli: «Andate ovunque e annunziate che il Regno di Dio è presente tra noi». Non si tratta tanto di mettere in atto alcune iniziative, ma di fare crescere in noi un «sentire» di fraternità e di solidarietà verso tutti, come di viandanti che battono lo stesso cammino, fianco a fianco e sanno fare propri le gioie e i dolori, le fatiche e i successi dei loro compagni di viaggio.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, questo invito a una partecipazione sinodale rimanda all’esemplarità dei due sacerdoti che sono stati protagonisti nella nascita dei nostri due Istituti: il beato Giuseppe Allamano e il canonico Giacomo Camisassa. Di quest’ultimo ricordiamo quest’anno il centenario della morte. Veramente essi sono stati compagni di viaggio, camminando fianco a fianco per ben 42 anni. Una vicinanza e collaborazione che oggi leggeremmo come autentica «sinodalità». Il padre Domenico Fiorina, già superiore generale dell’Istituto, ha saputo descrivere efficacemente il loro «camminare insieme»: «Vi era impegno nei due di studiare personalmente i problemi in tutti gli aspetti, mettendo poi in comune i risultati a cui ciascuno era giunto. Tutto era visto in senso unitario, quasi come l’azione di una persona sola in cui l’intelligenza, la bontà, la volontà si fondevano in unità. Ognuno portava in questo studio se stesso con tutta libertà, senza costrizioni o timori. Ognuno però teneva il suo posto. Così che non mancava all’Allamano la serena e libera necessità di dovere prendere e fissare una decisione, né mancava al Camisassa la sincera e voluta accettazione di questa decisione e l’impegnata volontà e azione per eseguirla». Questo è un passo importante che tutti noi siamo chiamati a compiere, in questo cammino sinodale. Possa l’esemplarità dei nostri due fondatori essere luce nel discernimento e spinta all’impegno.

padre Piero Trabucco


L’Eucaristia: pane della vita

Il beato Giuseppe Allamano trovava nell’eucaristia il nutrimento della sua vita spirituale
di sacerdote e missionario e voleva che i suoi missionari fossero dei «sacramentini» nel senso
che proprio dall’eucaristia quotidiana dovevano trarre la forza e l’entusiasmo di svolgere l’opera missionaria a cui si erano consacrati.

Comunione con Gesù

Nel discorso sull’Eucaristia, riportato dall’evangelista Giovanni, Gesù si autodefinisce «il pane della vita» (Gv 6,35) e spiega: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). In sostanza, Gesù promette e illustra il mistero che realizzerà nell’ultima cena: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo…» (Mt 26,26.27), che a sua volta anticipa il mistero della morte e risurrezione del Signore. Ecco perché la Messa non è solo «sacrificio», ma anche «banchetto» e «comunione».

Il significato e l’importanza della comunione eucaristica, collegata con il sacrificio eucaristico, sono stati illustrati da san Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica «Mane nobiscum Domine» (Signore rimani con noi), che ha accompagnato la Chiesa durante l’anno dell’Eucaristia (ottobre 2004-2005): «Alla richiesta dei discepoli di Emmaus che Egli rimanesse con loro, Gesù rispose con un dono molto più grande: mediante il sacramento dell’Eucaristia trovò il modo di rimanere in loro. Ricevere l’Eucaristia è entrare in comunione profonda con Gesù. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4)».

Nutrimento indispensabile

L’Eucaristia è un pane del quale non si può fare a meno: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53). Sull’Eucaristia come cibo, cioè nutrimento e forza per la vita spirituale, come pure sulla sua necessità per la vita, l’Allamano è molto esplicito. Non guarda tanto alla dignità della persona che riceve l’Eucaristia, quanto alla forza vitale che promana da essa in favore della persona.

Il 6 dicembre 1912, inaugurando la cappella della prima casa madre delle suore missionarie, così si espresse: «Gesù si pose stamane in questo santo Ciborio anche per farsi cibo delle anime vostre; anzi questo è il fine principale della sua dimora. Da quest’altare Egli vi ripete: venite e mangiate il mio pane, che è pane di vita».

L’incontro con Gesù nella comunione eucaristica è un momento importante. L’Allamano insegna a desiderarlo ardentemente e a prepararsi, perché sia realizzato nel modo più fervoroso possibile. I suoi suggerimenti sono semplici, pratici, e sicuramente risentono della sua esperienza personale: «Se ci svegliamo di notte, e al mattino appena alzati, immaginiamo che il Signore ci dica come a Zaccheo: “Scendi presto, perché oggi devo fermarmi nella tua casa”; e discesi in Cappella, al più presto possibile, diciamo al Signore: “Stamane starò e ti vedrò, ti conoscerò, o Signore”. Queste sembrano piccolezze, ma servono molto; siamo tanto materiali che abbiamo bisogno di queste cose».

«Tre atti servono a infervorarci. L’atto di fede: pensare che proprio là c’è Gesù. Proprio Gesù in corpo, sangue, anima e divinità, proprio vivo com’è in cielo. Avere questo pensiero di fede. Poi umiltà: “Signore, non sono degno”, le parole del centurione, ed esamino le mie miserie. E poi desiderio, amore: “Vieni Signore, non tardare”, desiderarlo di cuore, il Signore vuole amore. Questi tre atti si potrebbero cominciare dalla sera, facendo la preparazione remota alla Comunione. Questi tre atti ci aiutano a fare la comunione con più devozione».

Nutrimento quotidiano

Per l’Allamano l’Eucaristia è «pane da mangiare ogni giorno». Egli era fautore convinto della comunione frequente, giornaliera, pur vivendo in un periodo in cui ciò era poco o quasi nulla attuato anche negli ambienti religiosi. Secondo le testimonianze dei sacerdoti che erano stati in seminario con lui, l’Allamano era tra i pochi seminaristi che frequentavano la comunione ogni giorno. Questa sua esperienza l’ha trasmessa ai suoi missionari e missionarie, pur lasciando ovviamente piena libertà. L’Eucaristia non solo nutre per la vita, ma crea unità. Anche questo aspetto è sviluppato nella già citata Lettera Apostolica «Mane nobiscum Domine»: «Questa speciale intimità (con Gesù) che si realizza nella “comunione” eucaristica non può essere adeguatamente compresa né pienamente vissuta al di fuori della comunione ecclesiale. In effetti, è proprio l’unico pane eucaristico che ci rende un corpo solo. Lo afferma l’apostolo Paolo: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,17).

Nel mistero eucaristico Gesù edifica la Chiesa come comunione, secondo il supremo modello evocato nella preghiera sacerdotale: “Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Se l’Eucaristia è sorgente dell’unità ecclesiale, essa ne è anche la massima manifestazione. L’Eucaristia è epifania di comunione».

Centro di unità

L’Allamano, a sua volta, immagina l’Eucaristia come centro di unità, all’interno dell’Istituto, specialmente in due modi. L’Eucaristia (il tabernacolo vivo) è centro della casa, a cui tutto tende. Ovviamente per casa intende non i muri, ma la comunità.

Inoltre, l’Eucaristia crea e garantisce l’unità perché è Gesù che dal tabernacolo forma i missionari e dà loro una fisionomia unica secondo l’ispirazione originaria. Nella conferenza del 21 dicembre 1919, l’Allamano afferma: «Non dovete accontentarvi di divenire religiosi, sacerdoti, missionari solo per metà; ci vuole proprio il superlativo. E per questo dobbiamo pregare molto Gesù nel tabernacolo; è Lui che deve formarci. I superiori sono solo delle paline che indicano il viaggio per andare a Lui; è Gesù che deve poi fare. Egli ci formerà».

padre Francesco Pavese


Preti, cioè missionari

L’esempio è… Allamano

Presentiamo una sintesi della tesi* di dottorato in missiologia di padre Luca Bovio, missionario della Consolata e segretario nazionale della Pontificia unione missionaria in Polonia, dove lavora dal 2008. Partendo dalla vita e dal pensiero del beato Giuseppe Allamano, sacerdote diocesano di Torino e fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata, l’autore vuole dimostrare che la missione universale fa parte del Dna costitutivo di ogni sacerdote o, più semplicemente, che «prete e missionario» sono… la stessa cosa.

Sono molti gli studi, gli approfondimenti e gli articoli scritti su Giuseppe Allamano dai suoi missionari e missionarie in oltre un secolo di storia, così come esiste una solida bibliografia su di lui, scritta da persone non appartenenti all’Istituto.

L’idea portante della mia tesi di laurea è nata mettendo insieme «la lettura delle Conferenze del Fondatore, raccolte da padre Igino Tubaldo, e il servizio che da anni svolgo in Polonia per le Pontificie opere missionarie, incontrando centinaia di seminaristi, e i numerosi contatti coi sacerdoti nelle parrocchie». Dall’insieme è nato il tema di questo lavoro, che si potrebbe riassumere così: «Ogni sacerdote per sua natura è missionario. Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano».

Missionario… a chilometro zero

Indipendentemente dal lavoro e dal servizio pastorale svolto, la vita dell’Allamano e il suo insegnamento dicono a tutti e, in modo particolare ai sacerdoti, che occorre vivere in pienezza il proprio sacerdozio, uniti misteriosamente per partecipazione a Cristo, sommo e unico sacerdote (Eb 8,1-9). Questa chiamata al sacerdozio trova nella missione la sua naturale realizzazione, non nel senso stretto che tutti i sacerdoti devono partire per la missione (anche se una parte, certamente, dovrebbe farlo), ma che tutti devono avere in sé uno spirito missionario.

L’Allamano, pur nutrendo un sincero desiderio (ancora da seminarista) di partire per le missioni, non riuscì mai a realizzare questo progetto, a causa dei noti problemi di salute. Tutta la sua vita sacerdotale è stata vissuta nella città di Torino, tra il santuario della Consolata (di cui era rettore) e l’adiacente Convitto per i giovani sacerdoti, le conferenze settimanali ai missionari in Casa Madre e gli esercizi spirituali al clero nelle Valli di Lanzo, presso il santuario di S. Ignazio. I viaggi più lunghi che intraprese nella sua vita furono quelli a Roma, per incontrare il papa e recarsi alla congregazione di Propaganda Fide. Mai uscì dai confini dell’Italia.

Mancano completamente i viaggi nelle missioni. Eppure, il suo sacerdozio, vissuto in tanti e diversi incarichi, ha in sé una straordinaria prospettiva missionaria.

Come Cristo, sacerdoti per l’umanità

Come Segretario nazionale della «Pontificia unione missionaria» in Polonia, ho visitato quasi tutti i seminari diocesani polacchi e alcuni di quelli dei religiosi dove ho presentato la vocazione missionaria evidenziando il legame tra sacerdozio e missione lasciandomi ispirare dall’insegnamento di Giuseppe Allamano.

Nonostante gli eventi tragici che hanno toccato la storia della Polonia negli ultimi secoli e il secolarismo che avanza, la Chiesa in questo paese è una presenza significativa.

Nel paese ci sono molti sacerdoti e dal confronto con la figura dell’Allamano, potrebbero trovare aspetti arricchenti per la loro vita sacerdotale, e scoprire che la missione non è un elemento lontano o aggiuntivo al sacerdozio, ma è quell’orizzonte di santità a cui tutti i sacerdoti sono chiamati.

Nel pensiero dell’Allamano la dimensione missionaria è profondamente unita al suo sacerdozio. La missione, per lui, è anzitutto un modo di essere sacerdote prima che fare delle opere, le quali lui stesso non disdegnava, essendone attivo promotore.

La chiave per comprendere il suo essere sacerdote missionario è la sua apertura di cuore e di mente. Egli fu un sacerdote che desiderò profondamente donarsi a Dio e ai fratelli, unendo in sé la dimensione particolare con quella universale. Proprio servendo in verità e profondità le persone incontrate ogni giorno, restò aperto al richiamo dell’umanità intera per la quale Cristo ha donato la sua vita.

Il rapporto tra sacerdozio e missione non è immediato, anzi spesso appare separato nel modo di pensare di chi distingue tra «sacerdoti diocesani» e «sacerdoti missionari». Tuttavia da un punto di vista teologico non c’è differenza tra sacerdozio e missione: ogni sacerdote è per sua natura missionario. Ogni sacerdote, infatti, partecipa dell’unico e universale mistero della salvezza e da questa ampia prospettiva, scaturisce una profonda unità tra sacerdozio e missione.

Occorre, perciò, superare questa divisione e trovare un’unità, fondata su un punto vista teologico e non solo pastorale; quella stessa unità che si può vedere, in modo evidente, nella vita dell’Allamano.

La forma del sacerdozio (o il servizio pastorale) presenta delle differenze: abbiamo sacerdoti diocesani, ci sono sacerdoti missionari, altri professori e insegnanti, o impegnati ancora in vari campi caritativi, o pastorali. Tuttavia, la forma esterna non può mai essere ridotta o separata dalla natura interna, dall’orizzonte universale salvifico di Cristo a cui ogni sacerdote partecipa.

padre Luca Bovio

* Ogni sacerdote è per sua natura missionario.
Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano
, IMC, Varsavia 2020.

 

 




Cari missionari: umanoidi / padre Luigi Bruno / domande sulla Messa


Umanoidi

Caro padre Gigi,
è tempo di populismi. La Chiesa vive momenti molto travagliati in questa società che ci presenta un mondo sotto sopra. Come credere ai valori civili che ogni individuo dovrebbe esprimere? Ogni cristiano che crede in Dio, frequentando la madre Chiesa dovrebbe seguire l’insegnamento del vangelo e professarlo. In realtà nella Chiesa ci sono tanti che si professano credenti in Cristo ma considerano i rifugiati alla stregua di insignificanti umanoidi da lasciare al loro destino di morte.

Quanti i cristiani nella trappola salviniana, irretiti da slogan che il vento semina nei cuori.
Uno tsunami il senso più vero della venuta di Gesù Cristo, l’Amore! Nel giorno dedicato al rifugiato (20 giugno) dedico loro una mia poesia.

Rifugiato o rifiutato

Cara e bella Italia
Culla del cristianesimo
Dimentico e superficiale
Pieno di niente
Tanta la tradizione
Trionfo dell’edonismo
Dove cadono a pezzi
Sentimenti e valori
Richiamati dal vangelo sempre
Siamo diventati mummie
Imbalsamati nei profumi
Una vita nelle contraddizioni
Banderuole soggiogate
Porte aperte delle chiese
Fedeli senza anima
Come i porti
chiusi all’amore
Cosa ci porterà il vento?
Un mondo sotto sopra
Milioni di rifugiati rifiutati
Da paure ingiustificate.

Giovanni Besana
20/06/2018


Padre Luigi Bruno

Nasce a Barge (Cuneo) il 1° febbraio 1931. Studia nei seminari della diocesi di Torino a Giaveno, Chieri e Rivoli dal 9 settembre 1942 al 27 giugno 1954, quando è ordinato sacerdote dal card. Maurilio Fossati.

Fino al 1956 è nel Convitto ecclesiastico vicino al santuario della Consolata a Torino; dal 1956 al 1958 viceparroco a Caramagna e fino al 1963 nella parrocchia di san Massimo a Torino.

Nel 1963 chiede di entrare nell’Istituto Missioni Consolata e il 2 ottobre 1964 fa la sua professione religiosa a Bedizzole (Brescia).

Nel settembre del 1965 parte per il Kenya, nella prima missione del Meru, Mikinduri. E poi Chuka, Kiirua, Mujwa. È insegnante e padre spirituale al seminario di Nkubu, rettore del seminario filosofico della diocesi di Meru a Nairobi. Diventa poi assistente del maestro dei novizi a Sagana e direttore vocazionale a Sagana e a Nairobi. Nel 1992 comincia la missione di Chiga-Kisumu, imparando una lingua nuova.

Nel 1996 ritorna in Italia e lavora nell’animazione e amministrazione. In seguito, per alcuni anni, è direttore spirituale nel Collegio S. Paolo a Roma. Ritornando poi a Torino, finché la salute glielo ha permesso, si è dedicato al ministero della confessione presso il Santuario della Consolata. Nel 2015 ha dovuto ritirarsi ad Alpignano presso la Residenza Beato Giuseppe Allamano nella comunità dei missionari anziani ed ammalati.

Il Signore lo ha chiamato a sé il 24 giugno 2018, Solennità di San Giovanni Battista, patrono della città di Torino.

Nel suo testamento riassume così alcuni tratti della sua vita:

«Voglio ringraziare con sincera fede il buon Dio per la vocazione sacerdotale, diocesana prima e missionaria poi. L’enciclica Fidei Donum fu l’inizio della mia illuminazione sulla urgente necessità del lavoro missionario a tempo pieno. Della diocesi di Torino è sempre rimasto in me un grande e affettuoso ricordo. All’Istituto Missioni Consolata vada il mio “grazie” vivissimo per avermi accolto nella sua famiglia con benevola pazienza, così com’ero, già formato e con a base una formazione diocesana, con scarsa possibilità, a 33 anni, di ulteriori visibili cambiamenti e miglioramenti».

Padre Luigi ha sempre vissuto con entusiasmo e zelo il suo essere sacerdote e missionario. Ha aiutato molti seminaristi e giovani sacerdoti attraverso la direzione spirituale. Ha sempre svolto con disponibilità il ministero pastorale e aveva un amore particolare per la liturgia che voleva ben fatta. La Consolata, che lui tanto amava, lo accolga nella completa e piena liturgia del cielo.

padre Michelangelo Piovano
25 giugno 2018


Ancora domande sulla messa

Nel racconto dell’istituzione è più corretto dire «per voi e per tutti in remissione dei peccati» o «per molti». Se la direttiva di Benedetto XVI porta la data del 3 maggio 2012, perché l’Italia non si adegua?

Perché si dice «Signore non son degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto…» e non piuttosto «non son degno che tu entri nella mia casa» (intesa come anima)?

Tempo addietro ho ascoltato una conferenza sul «Padre nostro» nella quale si sosteneva che sarebbe ora di cambiare il testo e dire «non ci abbandonare nella tentazione» piuttosto che «non ci indurre in tentazione». In fin dei conti sarebbe la versione che leggo nel vangelo, o forse, mi hanno cambiato anche quello?

Emanuela
12/04/2018

Gesù sapeva il greco, tanto da essere in grado di scambiare anche delle battute, ma normalmente parlava in aramaico. Per questo fin dall’inizio del cristianesimo c’è stato il problema della traduzione fedele delle sue parole, visto che il Vangelo è stato presto annunciato a gente che non parlava aramaico ma greco. Traccia di questo è il fatto che gli evangelisti a volte riportano delle parole direttamente in aramaico. Vedi ad esempio il «Talita kum» del Vangelo di Marco. Ora, quando si traduce ci si imbatte in sfumature di significato in certe espressioni che sono veramente difficili da rendere e allora si scelgono le parole o le circonlocuzioni più vicine e fedeli, anche se non letterali.

Molti – tutti

Quando è stata fatta la prima traduzione della messa in italiano, si è voluto sì mantenere la fedeltà letterale al testo latino che era patrimonio secolare della tradizione cristiana, ma nello stesso tempo si è cercato di introdurre tutti gli adattamenti necessari a rendere la traduzione più fedele non alla lettera ma al significato profondo, senza ambiguità, per rendere il testo comprensibile al discepolo di oggi. Per questo la Conferenza episcopale italiana, e molte altre nel mondo, hanno accettato senza esitazione la traduzione «versato per voi e per tutti» che rende bene il significato più vero delle parole riportate da Luca e Paolo («per voi») e da Matteo e Marco (per / in favore di / per amore di «molti» / delle «moltitudini»). Infatti, secondo i biblisti e i linguisti il «pro multis» del latino non significa esclusione di alcuni, ma inclusione di tutti e tradurrebbe il termine greco «polloi» che a sua volta traduce la parola semitica «rabbiym», che indica «una grande moltitudine» e implica anche la nozione «tutti». È la traduzione che cerca di rendere nel modo migliore il senso originale delle parole di Gesù, che in ogni caso, non presupponevano alcuna contrapposizione tra «molti» e «tutti».

Sull’argomento è intervenuto papa Benedetto XVI con una lettera del 14 aprile 2012 al presidente della Conferenza episcopale tedesca. Il testo della lettera è complesso e non è certo questo il luogo per farne una presentazione. Rivela comunque come negli anni del dopo Concilio c’è stato un grosso dibattito sui temi della traduzione e della interpretazione, provocato dall’esistenza, accanto a quelle eccellenti, di traduzioni sciatte o che hanno addirittura banalizzato i testi sacri. Questo ha dato motivo alla linea più severa della fedeltà letterale di prevalere su quella più interpretativa. Per questo, scrive il papa: «In questo contesto, è stato deciso dalla Santa Sede che, nella nuova traduzione del Messale, l’espressione “pro multis” debba essere tradotta come tale, senza essere già interpretata. Al posto della versione interpretativa “per tutti” deve andare la semplice traduzione “per molti”», anche se il papa è «consapevole che [tale traduzione] rappresenta una sfida enorme per tutti coloro che hanno il compito di esporre la Parola di Dio nella Chiesa». «Per questo motivo – continua papa Benedetto -, nel momento in cui, in base alla differenza tra traduzione e interpretazione, si scelse la traduzione “molti”, si decise, al tempo stesso, che questa traduzione dovesse essere preceduta, nelle singole aree linguistiche, da una catechesi accurata, per mezzo della quale i Vescovi avrebbero dovuto far comprendere concretamente ai loro sacerdoti e, attraverso di loro, a tutti i fedeli, di che cosa si trattasse. Il far precedere la catechesi è la condizione essenziale per l’entrata in vigore della nuova traduzione». Tale catechesi da una parte deve far capire come la morte di Gesù sia davvero per tutta l’umanità, e dall’altra come nella celebrazione eucaristica tale dono sia affidato ad una comunità concreta («voi», «molti»), che ha poi il dovere/missione di esserne testimone verso tutti.

«Non c’indurre» o «non ci abbandonare»?

Non è cambiato il Vangelo, ma solo la traduzione. Gesù con molta probabilità in aramaico ha detto «non lasciarci/farci entrare in tentazione». Gli evangelisti hanno poi scritto in greco, la lingua comune allora in tutta l’area attorno al Mediterraneo. Il verbo greco eis-enenk?s, tradotto in latino è in-ducas, in italiano in-durre. Tale espressione, letteralmente corretta, ha però perso il senso permissivo (lasciare/permettere) dell’espressione aramaica di Gesù. Dio permette le prove, ma non è lui a tentare. Per questo la nuova traduzione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana del 2008 ha reso la richiesta con «non abbandonarci alla tentazione».

Così scriveva Paolo Farinella:
«Alla» o «nella» tentazione? In greco c’è la preposizione «eis» che non indica solo direzione (verso la – alla) ma con-penetrazione/con-toccamento (dentro – nella) che esige un contatto. Forse non esiste una traduzione corretta in assoluto: non abbandonarci «alla tentazione» può significare ogni volta che si presenta la tentazione; «nella tentazione» può indicare una forma permanente di tentazione (vedi l’esigenza di «pregare per non cadere in tentazione» – Mt 26.41). Che si usi una traduzione o l’altra, il significato potrebbe essere parafrasato con «non abbandonarci “mai” perché viviamo in uno stato permanente di tentazione» (MC 10/2017 pag. 32).

Papa Francesco stesso ha ricordato, durante un’intervista su Tv2000 il 6 dicembre scorso, che «anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice: “Non mi lasci cadere nella tentazione” …». E ha aggiunto che «Sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto. Un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito». «Quello che ti induce in tentazione – ha affermato Papa Francesco – è Satana, quello è l’ufficio di Satana».

Perché allora questa versione (del Padre nostro) non è ancora usata nella preghiera e nella messa? Semplicemente perché i vescovi italiani non hanno ancora pubblicato la nuova versione del messale nei quali sarà certamente inclusa la nuova traduzione usata nella Bibbia del 2008. La prima edizione del messale è del 1973, la seconda del 1983. Quando uscirà la nuova edizione (la terza) del messale in italiano? Non si sa. Restiamo in attesa. L’assenza di questa nuova edizione spiega anche il perché si continua ancora ad usare l’espressione «per tutti» nelle parole della consacrazione. Intanto, nell’incertezza, si continuano ad usare i messali vecchi, spesso ridotti in condizioni pietose.


Chiudiamo la forbice delle diseguaglianze

Una nuova campagna per il bene comune, perché siamo una sola famiglia umana, nessuno escluso

Perché un’iniziativa sulla diseguaglianza? «L’iniquità è la radice dei mali sociali», così scrive Papa Francesco nella Evangelii Gaudium (202), invitandoci a lavorare sulle cause strutturali di un sistema economico che uccide, esclude, scarta uomini, donne e bambini. La diseguaglianza segna in maniera profonda tutte le società del pianeta, che nei vari contesti e territori devono trovare le basi per la propria stessa sopravvivenza, e di quella delle generazioni future. Tutto questo causa delle ferite profonde, e genera malcontento sociale, rabbia, paura e rassegnazione: sentimenti di chi si percepisce escluso e che, nonostante i propri sforzi, vede le proprie condizioni diventare sempre più fragili, vulnerabili, precarie. Ad aggravare la situazione il fatto che la paura diventi il facile collante per un’agenda politica che crede di affrontare i problemi approfondendo i solchi che attraversano la società e il pianeta, e creando muri che generano nuove esclusioni e conflitti.

Chiudere la forbice delle diseguaglianze è dunque la nuova campagna, l’imperativo che vogliamo assumere come priorità per garantire ad ogni donna e ogni uomo che vive su questo pianeta la possibilità di vivere una vita dignitosa e piena, libera dalla paura e dal bisogno, in questa generazione e nelle generazioni future, affinché le migrazioni siano una scelta libera.

Si tratta di un impegno che completa e supera quello sui temi della povertà e dell’esclusione sociale: significa infatti interrogarsi circa le cause di queste, e sulle conseguenze concrete dei meccanismi attraverso cui la povertà stessa si produce e si riproduce.

Significa porre attenzione agli ostacoli che incontrano le iniziative volte a ridurre la distanza tra chi ha troppo e chi non ha abbastanza; significa mantenersi attenti alla concentrazione sproporzionata del benessere e delle opportunità, ma anche del potere e dello spazio operativo che questo squilibrio rischia di perpetuare ed aggravare. Significa infine cercare nuove soluzioni per una piena universalizzazione dei diritti, a partire dai ceti sociali più vulnerabili, cercando pratiche di emancipazione dai territori, dalle comunità locali, esempi positivi di creazione del bene comune, da cui sia possibile evincere linee guida per una politica trasformativa.

La campagna «Chiudiamo la forbice: dalle diseguaglianze al bene comune, una sola famiglia umana» pone questo tema all’attenzione di tutti, declinandolo in tre ambiti in particolare:

  • quello della produzione e del consumo del cibo,
  • quello della pace e dei conflitti,
  • quello della mobilità umana nel quadro delle nuove sfide sociali e climatiche, tra loro connesse, come ci indica l’enciclica Laudato Si’.

Un’ampia alleanza di soggetti promotori, aderenti e media partners. Un nuovo sito, un documento base, tre concorsi nazionali, materiali per approfondimenti, l’apporto (social e non solo) di tutti, strumenti per azioni diffuse sui territori che hanno già contribuito all’impostazione della campagna che si caratterizza per un approccio partecipativo e inclusivo. In linea con i contenuti.

Una campagna triennale, lanciata in occasione del terzo anniversario dell’uscita della Laudato Si’, per indicare l’ispirazione e il traguardo. Un mondo più giusto e solidale.

Per saperne di più: info@chiudiamolaforbice.it

www.chiudiamolaforbice.it