Lo scorso 13 novembre, il Somaliland ha tenuto la sua quarta elezione presidenziale dal 1991. Cioè dall’anno in cui la regione – composta dai territori settentrionali della Somalia – ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza da Mogadiscio. Da quel momento, il Somaliland elegge un proprio Governo e si è dotato di un Parlamento. Emette una sua moneta (lo scellino del Somaliland) e ha propri passaporti. Ma, finora, nessuno Stato della comunità internazionale ne ha riconosciuto l’indipendenza. E, soprattutto, la Somalia continua a rivendicare la propria sovranità su questo territorio.
Le elezioni
Ciononostante, l’esercizio della democrazia in Somaliland continua. Addirittura, alcuni esperti lo annoverano tra gli Stati de facto «più stabili» al mondo. Quest’anno, a sfidarsi erano in tre. Ma era chiaro che a contendersi la massima carica dello Stato sarebbero stati il presidente uscente Muse Bihi Abdi, leader del Peace, unity and development, e l’ex speaker del Parlamento e capofila dell’opposizione Abdirahman «Irro» Mohamed Abdullahi del Somaliland national party. L’outsider era Faysal Ali Warabe del Justice and welfare party.
Alla fine, con il 64% dei consensi si è imposto Abdirahman, ex diplomatico di grande esperienza. La politica internazionale infatti è stata uno dei temi più caldi del dibattito pre elettorale, assieme alla preoccupazione per il crescente costo della vita. Molti elettori si sono interrogati sul peso internazionale dei candidati e su ciò che avrebbero potuto fare, una volta eletti, per promuovere il riconoscimento dell’indipendenza del Somaliland. Le posizioni erano molto diverse.
Da un lato, c’era Abdi che puntava sul memorandum d’intesa «port-for-recognition» (un porto per il riconoscimento) siglato a gennaio 2024 con il Primo ministro etiope Abiy Ahmed. Infatti, se l’Etiopia si è assicurata l’affitto del porto di Berbera, il Somaliland ha ottenuto che la sua richiesta di un riconoscimento internazionale venisse tenuta in «profonda considerazione». La firma del patto però ha causato un’escalation di tensioni diplomatiche con la Somalia, oltre al coinvolgimento (anche militare) di altri Stati della regione. E così, dall’altro lato, c’era «Irro» che dipingeva il presidente uscente come un attore profondamente divisivo.
Il memorandum
Alla fine ha vinto proprio lui, Abdirahman. Ma la situazione che si trova a gestire è decisamente complessa, con il Somaliland stretto tra Etiopia e Somalia. Il bagaglio diplomatico di «Irro» sarà fondamentale per tentare di sbrogliare la complessa matassa che è diventato il Corno d’Africa. Tentando, al contempo, di ottenere il tanto agognato riconoscimento internazionale.
Già nel 2019, l’Etiopia aveva acquistato una partecipazione del 19% nel porto di Berbera. Ora con il memorandum ne ha ottenuto l’affitto per cinquant’anni, garantendosi venti chilometri di costa sul Mar Rosso per le proprie operazioni commerciali e a una base navale. Si trattava di riavere quello sbocco sul mare che Addis Abeba aveva perso nel 1993 con l’indipendenza dell’Eritrea e che l’aveva costretta a dipendere per tre decenni dal porto di Gibuti (da cui, ancora oggi, transita il 95% del traffico commerciale marittimo etiope).
Per l’Etiopia, avere un accesso diretto al mare è fondamentale anche per affermare il proprio status di grande potenza regionale. Tant’è che Abiy Ahmed ha affermato: «L’Etiopia è un’isola circondata dall’acqua, ma è assetata. Il Mar Rosso e il Nilo ne determineranno il futuro. Sono profondamente interconnessi al nostro Paese e saranno le fondamenta del suo sviluppo o della sua scomparsa». Il riferimento, chiaro, era al dibattito sull’accesso al Mar Rosso. Ma anche alle tensioni con l’Egitto per la Grand renaissance dam, la diga che l’Etiopia ha innalzato sul Nilo blu e che, secondo Il Cairo, mina le sue risorse idriche.
Tensioni con l’Egitto, dunque. Ma anche con Gibuti che non apprezza un accordo che riduce i flussi commerciali nel suo porto. E, soprattutto, cresce il malcontento della Somalia, indispettita dalla promessa etiope di tenere in «profonda considerazione» la richiesta del Somaliland di un riconoscimento. Mogadiscio ha definito l’accordo «oltraggioso» e dichiarato che non avrebbe ceduto nemmeno «un millimetro» del proprio territorio. Il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud ha poi rincarato la dose, dicendo: «Non staremo a guardare, mentre la nostra sovranità viene compromessa».
Così in agosto, Somalia ed Egitto hanno firmato un patto di sicurezza: entrambi sono intenzionati a opporsi alla politica di potenza di Abiy Ahmed. Il Cairo ha inviato equipaggiamento militare pesante e diversi aerei a Mogadiscio. Una dimostrazione di forza che ha irritato l’Etiopia.
Decidere se andare avanti e rendere il memorandum un accordo definitivo – con il rischio, come lui stesso ha denunciato in campagna elettorale, di incendiare ulteriormente la regione – sarà ora una delle prime questioni scottanti nelle mani di «Irro».
Aurora Guainazzi
Etiopia. Calma armata
Le montagne del Tigray sono alte, aspre, piene di gole e anfratti. Un luogo ideale per nascondersi e nascondere. Per organizzare una guerriglia che duri nel tempo e logori l’avversario. Così devono averla pensata i tigrini. Terminata la guerra contro il potere centrale di Addis Abeba, non avrebbero smobilitato completamente il loro arsenale, ma lo avrebbero conservato in tanti piccoli arsenali sulle montagne in attesa di tempi migliori in cui riprendere la lotta.
Così la pensa il capo di stato maggiore della difesa dell’Etiopia, Berhanu Jula, che, in un’intervista rilasciata nei giorni scorsi a Lulawi, un media informatico filo-governativo etiope con sede negli Stati Uniti, ha detto che il Tplf (Fronte popolare di liberazione del Tigray) possiederebbe ancora armi leggere e pesanti anche se, al momento, non sarebbe più in grado di organizzare un’offensiva contro il governo centrale.
Quella dei tigrini è una strategia antica. Dopo aver condotto il lungo conflitto che ha portato negli anni Novanta alla caduta del dittatore Menghistu Hailè Mariam, i leader del Tigray hanno conservato il loro arsenale ben nascosto sulle montagne. Per anni le hanno custodite, finché nel 2020 sono rispuntate fuori quando le tensioni tra il governo di Abiy Ahmed e il Tplf si sono intensificate dopo il rinvio delle elezioni. Il governo etiope ha lanciato un’operazione militare con il supporto delle truppe eritree e delle forze locali della regione di Amhara. La risposta tigrina è stata durissima. Nonostante le vittorie iniziali del governo, il conflitto si è prolungato e ha avuto un impatto devastante sulla popolazione civile. Sono pervenute numerose denunce di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, tra cui omicidi di massa, stupri e saccheggi. Inoltre, la regione del Tigray ha subito una grave crisi umanitaria, con milioni di persone sfollate e a rischio di carestia. Le restrizioni all’accesso umanitario e i blocchi agli aiuti internazionali hanno aggravato la situazione.
Nel 2022, dopo diversi tentativi falliti di mediazione internazionale, le parti in guerra hanno concordato un cessate il fuoco, consentendo agli aiuti umanitari di entrare in alcune aree colpite. Nell’intesa raggiunta tra le parti a Pretoria (Sudafrica) c’era anche una clausola che prevedeva la consegna da parte dei tigrini dell’armamento pesante e leggero a loro disposizione. A due anni da quell’accordo, però, pare che parte delle armi sia stato nascosto e sottratto alla consegna.
Il fatto che il movimento tigrino sia ancora armato, secondo Berhanu Jula, «è un problema» ma, ha aggiunto, il governo federale si sta consultando con il governo ad interim della regione del Tigray affinché la situazione non vada fuori controllo. Ha sottolineato che, se il gruppo armato dovesse fare movimenti minacciosi, «la Difesa prenderà misure».
Perché il Tplf non è stato disarmato? L’alto ufficiale etiope ha risposto che il problema del disarmo, della smobilitazione e della reintegrazione è legata alla mancanza di finanziamenti. Ha però dichiarato che sono in corso lavori per disarmare 75mila combattenti del Tplf, anche se non ha specificato i tempi. Secondo il governo federale, «il Tplf non è più in grado di rovesciare il governo con la forza».
Che il Tplf non abbia però intenzione di disarmare completamente è confermato anche da un’altra notizia apparsa sul quotidiano Addis Maleda. «Sebbene alcune scuole abbiano ripreso le attività, molte non funzionano ancora correttamente a causa della presenza militare», ha dichiarato Ato Redai G. Ezger, vicedirettore dell’Ufficio regionale per l’istruzione del Tigray, sottolineando che più di 550 scuole vengono ancora utilizzate come campi militari.
Le tensioni tra i tigrini e il governo centrale sono destinate a riaccendersi? Difficile dirlo ora. Certo l’Etiopia sta vivendo una serie di spaccature etniche interne che ne stanno minando la compattezza e l’unità. In questo scenario, il Tigray potrebbe nuovamente rivendicare la sua autonomia. E le armi potrebbero essere tirate fuori dagli arsenali sulle montagne.
Enrico Casale
Somaliland. L’accordo della discordia
Il Paese cerca il riconoscimento internazionale, mentre l’Etiopia cerca il mare. I due annunciano di aver siglato un accordo. Ma la Somalia non ci sta e rivendica la sua sovranità su un territorio autonomo – di fatto – dal 1991. I grandi della terra si schierano per l’integrità territoriale somala, che in realtà non esiste.
Non c’è. Sulle cartine geografiche non si trova. Ufficialmente non ha una capitale, né confini. Non fa parte di grandi organizzazioni internazionali. Non ha rapporti (ufficiali) con altri Paesi. Il Somaliland è una nazione fantasma. Eppure esiste. Ha un presidente, un parlamento e istituzioni democratiche. Ha una posizione strategicamente rilevante all’imbocco del Mar Rosso e una propria economia, anche se molto povera. Da 33 anni chiede un riconoscimento ufficiale ma, finora, nessun Paese al mondo gliel’ha mai accordato. Almeno finora, perché dal primo gennaio il Somaliland è entrato con prepotenza e astuzia nella politica africana e rischia di minare i già fragili equilibri della regione orientale del continente.
Una terra pacifica
Per comprendere meglio la tormentata vicenda del Somaliland bisogna fare un salto indietro nella storia e, in particolare, al 1960, anno che rappresenta una svolta per la Somalia. Un tempo divisa tra la colonia italiana, al Sud, e quella britannica (Somaliland), al Nord, al momento dell’indipendenza si forma un unico Paese, all’insegna di un nazionalismo che vuole superare le divisioni causate dal passato coloniale. La Somalia vive una breve primavera democratica per poi trasformarsi in una dittatura sotto il pugno di ferro del presidente Mohamed Siad Barre, un ex carabiniere, molto vicino ai governi di Roma.
Il suo regime è particolarmente repressivo e dura un ventennio ma, progressivamente, si indebolisce fino a crollare definitivamente nel 1991. Sgretolandosi, lascia un vuoto di potere che viene presto occupato dai signori della guerra e dalle loro milizie. Nelle regioni meridionali, un tempo ex colonia italiana, si scatena un conflitto civile i cui effetti si trascinano fino a oggi. Nel Nord del Paese quella che era l’ex colonia britannica prende le distanze dal Sud e dalle lotte fra le varie cabile (gruppi clanici, ndr).
Nel 1991, di fronte al collasso delle istituzioni di Mogadiscio (la capitale, nel Sud), il Somaliland dichiara la propria indipendenza, elegge Hargeisa come propria capitale e crea nuove istituzioni e un esercito. Per un trentennio rappresenta un modello di stabilità in una regione dominata dai conflitti (pensiamo alla guerra civile nella vicina Somalia, a quella tra Eritrea ed Etiopia, a quella in Tigray). In verità, qualche tensione la vive anche il Somaliland che lotta contro cellule di terrorismo islamista e contro il Puntland, la confinante regione somala, con la quale ha una disputa territoriale. Fondamentalmente, però, rimane un Paese pacifico.
Dal punto di vista economico intrattiene relazioni informali con l’Etiopia e ha stretti rapporti commerciali e industriali con Taiwan, altro Stato paria a livello mondiale. Le grandi organizzazioni internazionali e regionali e i principali attori della politica internazionale continuano a negare ad Hargeisa quel riconoscimento politico che ne sancirebbe l’indipendenza. La comunità internazionale, da sempre, ribadisce la volontà di mantenere l’unità territoriale somala e la stessa Somalia continua a rivendicare la propria sovranità sulla regione settentrionale.
Una nuova intesa
Lo stallo si rompe il primo gennaio 2024. Etiopia e Somaliland annunciano di aver siglato un’intesa che prevede un accesso facilitato della prima al porto di Berbera e la possibilità per le forze armate etiopi di costruire una base navale sul Golfo di Aden. L’accordo è stato cercato con determinazione soprattutto da Addis Abeba. Con l’indipendenza dell’Eritrea nel 1993, l’Etiopia si è trovata senza uno sbocco al mare. I porti di Massaua e di Assab che, fino ad allora, erano serviti per l’export delle merci attraverso il Mar Rosso, passarono sotto la sovranità di Asmara. La successiva guerra combattuta da Eritrea ed Etiopia alla fine degli anni Novanta ha precluso definitivamente le banchine degli scali eritrei alle aziende etiopi. Gli unici sbocchi al mare rimasti per Addis Abeba sono quelli di Port Sudan e di Gibuti che però sono lontani e male collegati, almeno fino a pochi anni fa, quando sono state costruite migliori tratte ferroviarie e stradali.
Per l’Etiopia la ricerca di uno sbocco al mare diventa una priorità assoluta. Il 19 ottobre, il premier Abiy Ahmed dichiara: «Un Paese di 150 milioni di abitanti non può essere tenuto in una prigione geografica. E come non è un tabù discutere del Nilo con Sudan ed Egitto non deve esserlo per il Mar Rosso e l’Oceano Indiano».
Successivamente, rincara la dose citando un famoso generale, Ras Alula, che nel XIX secolo aveva dichiarato che il Mar Rosso è il confine naturale dell’Etiopia e che Addis Abeba «vuole ottenere un porto con mezzi pacifici. Ma se ciò fallisce, useremo la forza».
L’opposizione internazionale
Da qui le trattative a 360 gradi e la disponibilità del Somaliland a siglare un accordo dietro la velata promessa di riconoscimento politico da parte etiope. L’intesa che ne è scaturita cozza però contro una serie di scogli diplomatici. Stati Uniti, Unione europea, Cina, Unione africana e Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa, ndr) la condannano, fin dal primo momento. Tutti si proclamano a favore dell’integrità della Somalia che, da sempre, rivendica la propria sovranità sulla regione settentrionale.
Molly Phee, sottosegretario di Stato per gli Affari africani degli Stati Uniti, dichiara, secondo quanto riporta il sito Shabelle media, che la violazione della sovranità della Somalia da parte dell’Etiopia potrebbe essere «un ostacolo alla guerra contro al-Shabaab (milizia jihadista legata ad al Qaeda che da anni opera in Somalia, ndr)». E aggiunge: «Siamo preoccupati che l’accordo Somaliland-Etiopia possa ostacolare la nostra lotta comune che, negli ultimi anni, ha visto anche Addis Abeba in prima linea». Il governo Usa inoltre afferma di sostenere i colloqui tra il governo federale di Mogadiscio e quello di Hargeisa sul futuro del Paese all’insegna dell’unità.
Anche la Cina si dice preoccupata per l’intesa. Pechino è interessata alla stabilità della regione orientale dell’Africa (strategica per le rotte commerciali Europa-Asia), ma anche alla situazione interna. Un eventuale riconoscimento del Somaliland rischierebbe di diventare un precedente che Taiwan potrebbe far valere nei confronti della Cina continentale. «La Cina – dichiara Mao Ning, portavoce del ministro degli Esteri di Pechino – sostiene il governo federale della Somalia nella salvaguardia dell’unità nazionale, della sovranità e dell’integrità territoriale. Ci auguriamo che i Paesi dell’area gestiscano bene il dossier attraverso il dialogo diplomatico e raggiungano uno sviluppo comune attraverso una cooperazione amichevole».
Equilibri regionali a rischio
L’intesa non può non avere ricadute anche sugli assetti regionali. Il primo a schierarsi contro l’accordo è l’Egitto. Il Cairo, insieme a Khartoum (Sudan), ha un annoso contenzioso con Addis Abeba sul dossier della Grande diga del millennio sul Nilo Azzurro, in territorio etiope. I due Paesi a valle temono che questa struttura riduca i flussi di acqua del Nilo mettendo in crisi le rispettive economie. Il Cairo cerca quindi in qualsiasi modo di contenere le manovre di Addis Abeba per poter avere più carte da giocare sul piano negoziale. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi si schiera subito a fianco di Mogadiscio e dichiara che l’intesa è «una violazione della sovranità somala». Ancora più duro il ministro degli Affari esteri egiziano, Sameh Shoukry che, in un intervento tenuto alla Lega Araba, definisce l’accordo «un atto di aggressione» e ammonisce Addis Abeba dall’avventurarsi in «politiche unilaterali». Per gli Emirati arabi uniti, l’avventurismo di Abiy è un’opportunità e un rischio: l’Etiopia potrebbe diventare una potenza del Mar Rosso e un alleato degli Emirati, ma nuove tensioni nel Corno potrebbero mettere a repentaglio l’influenza di Abu Dhabi nella regione. L’Arabia Saudita è invece turbata dal modo in cui si sta comportando l’Etiopia. Se Abiy dovesse esagerare, Riad potrebbe superare la sua diffidenza nei confronti dell’Eritrea e sostenerla.
La Somalia, colpita direttamente dall’intesa, ritira il proprio ambasciatore da Addis Abeba. Il presidente Hassan Sheikh Mohamud dichiara nullo l’accordo tra Etiopia e Somaliland. Il premier Hamza Abdi Barre alza i toni e avverte: «L’Etiopia non può interferire nelle terre somale. Se tentassero un simile intervento, si ritirerebbero portando con sé i loro morti».
Le tensioni toccano, però, lo stesso Somaliland. Il 13 febbraio, le due camere del Parlamento diffondono una nota congiunta nella quale rifiutano l’accordo del governo con l’Etiopia. I membri del parlamento dichiarano «illegale» e «dannoso» l’accordo per l’unità del popolo del Somaliland. «Abbiamo rifiutato l’accordo e la sua attuazione e chiediamo al governo di fermare e ritirare il memorandum d’intesa», si legge nella nota. La firma dell’accordo ha infatti rivitalizzato le tensioni interne, in particolare quelle con l’Awdal, provincia che da tempo lotta per la riunificazione con lo Stato somalo. In allerta anche le milizie claniche nella regione che minacciano una resistenza armata contro il presidente Muse Bihi se il memorandum d’intesa dovesse procedere. E anche lo Stato fantasma potrebbe sprofondare nell’instabilità.
Enrico Casale
Guerra in Tigray. Le braci restano accese
La guerra interna in Etiopia è durata due anni. È intervenuta l’Eritrea e diverse altre potenze estere si sono «posizionate», in particolare fornendo armi. Un anno fa, la firma del cessate il fuoco, ma il conto delle vittime è elevatissimo e il Tigray è da ricostruire.
Due anni di combattimenti intensi. Di avanzate e di ritirate da ambo le parti. Di battaglie tra creste vertiginose e valli aspre. Una guerra fratricida, piena di vendette maturate in anni di tensioni represse. Un conflitto che ha fatto scricchiolare le fondamenta dell’Etiopia. Nel Tigray, tra il 2020 e il 2022, si sono confrontati l’esercito federale, che rispondeva agli ordini del governo di Addis Abeba, e le milizie tigrine, agli ordini del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Ma tra gli attori sono comparsi anche le milizie amhara e l’esercito eritreo (che oggi è ancora presente nel territorio etiope). A un anno dalla firma del cessate il fuoco che cosa è rimasto sul terreno? Qual è l’eredità di quei durissimi 24 mesi che hanno segnato la regione settentrionale del Paese?
Le radici
Facciamo un passo indietro. La guerra in Tigray è scoppiata nel 2020, ma le radici del conflitto sono molto più profonde. I tigrini sono stati il nerbo delle forze che hanno destituito, negli anni Ottanta e Novanta, Menghistu Hailè Mariam. Alleate agli eritrei hanno condotto una guerriglia che ha deposto il «negus rosso», ha portato all’indipendenza dell’Eritrea e alla nascita, in Etiopia, di un regime di cui proprio i tigrini sono stati il centro per quasi un trentennio. Decenni duri nei quali dall’alleanza con gli eritrei si è passati a un’aperta contrapposizione tra Addis Abeba e Asmara, culminata nella guerra del 1998. Una guerra, quest’ultima, che, anche quando le armi sono state messe a tacere, ha lasciato un lunghissimo strascico di tensioni tra Etiopia ed Eritrea.
Solo l’avvento al potere del premier Abiy Ahmed (2018) ha portato a una svolta. Il nuovo leader, di etnia oromo, ha siglato una storica pace con l’Eritrea (nello stesso anno) e ha progressivamente messo ai margini il Tplf, che ha perso sempre più potere e si è arroccato nella propria regione di appartenenza. Le continue frizioni tra il governo federale di Addis Abeba e il Tplf hanno portato a un conflitto aperto nel gennaio del 2020. L’esercito federale ha condotto un’offensiva che ha, inizialmente, messo in un angolo le milizie tigrine. Solo nel giugno 2021 lo stato maggiore di Macallè è riuscito a prendere l’iniziativa e a lanciare una controffensiva che ha portato i propri reparti a 200-300 chilometri da Addis Abeba.
Nel frattempo, la disputa ha visto scendere in campo nuovi attori. A fianco del governo federale si sono schierate le milizie amhara, la seconda etnia dell’Etiopia che si contende con i tigrini alcune zone di confine tra le due regioni. Pochi mesi dopo è scesa in campo, a fianco del premier Abiy, anche l’Eritrea che, come abbiamo visto, aveva un antico conto da saldare con la dirigenza tigrina, ma, soprattutto, aveva pretese territoriali su una zona che confina tra Eritrea e Tigray. A supportare i tigrini è invece arrivato l’Esercito di liberazione oromo (Ola), formazione armata della frangia più estremista del popolo oromo (l’etnia più numerosa dell’Etiopia).
Gli scontri sono stati durissimi e a subire le conseguenze più forti è stato il Tigray. Senza corrente elettrica, senza collegamenti al web, senza medicine e con cibo scarso a scontare gli effetti più duri dei combattimenti è stata la popolazione civile. Amnesty International ha anche, a più riprese, denunciato i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati soprattutto dai soldati eritrei nel nord del Tigray. Accuse rigettate da Asmara, ma che sono state confermate anche dai Medici per i diritti umani e dall’Organizzazione per la giustizia e la responsabilità nel Corno d’Africa che hanno denunciato le continue aggressioni sessuali, durante e dopo il conflitto, perpetrate dagli eritrei a danno delle donne tigrine.
Fine del conflitto
Nel 2022, il Tigray ha iniziato a cedere di fronte all’offensiva dell’esercito federale. Tra agosto e settembre 2022, l’entrata in scena dei velivoli senza pilota forniti ad Addis Abeba da Turchia, Iran ed Emirati arabi uniti ha permesso un’offensiva dell’esercito federale che ha messo in ginocchio i miliziani tigrini. Impossibilitati a sostenere ulteriormente lo scontro, i vertici del Tplf hanno quindi accettato di sedersi al tavolo in colloqui di pace mediati dall’Unione africana.
Il 2 novembre 2022 Addis Abeba e Macallè hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine al conflitto. Il bilancio di due anni di guerra è tragico. Secondo alcune stime sarebbero state circa 500mila le vittime, alle quali si aggiungerebbero due milioni di sfollati interni.
Il Tigray è distrutto, ma anche lo Stato federale avverte forti scricchiolii nel suo assetto istituzionale. «Addis Abeba – riporta una ricerca dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano – ha sempre sottolineato il carattere di questione interna [del conflitto], rivendicando la propria piena sovranità nazionale e il connesso diritto e dovere, in quanto governo legittimo, di applicare la legge su tutto il territorio nazionale, imponendo quindi l’autorità centrale sulla ribellione “terrorista” del Tigray». Una visione che mette in dubbio la costruzione federale dello Stato a vantaggio di un forte potere centrale. «Il Tplf – continua la ricerca Ispi – ha insistito nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo ritenuto illegittimo per essere rimasto in carica nel 2020 dopo la scadenza del suo mandato, il duro intervento armato con violazioni indiscriminate a danno dei civili e il prolungato isolamento del Tigray che ha causato una gravissima crisi alimentare e umanitaria».
L’internazionale
La guerra in Tigray ha però avuto anche forti ricadute internazionali. L’Europa ha subito preso le distanze da Addis Abeba, e Bruxelles ha imposto un embargo delle armi tanto verso l’Etiopia quanto verso l’Eritrea. Gli Stati Uniti, un tempo fedeli alleati del premier Abiy, si sono dimostrati molto critici nei suoi confronti. Una tensione che ha raggiunto il culmine con la sospensione dell’Etiopia dall’African growth and opportunity act, la legge statunitense che prevede agevolazioni commerciali in favore dei Paesi che rientrano entro certi canoni prefissati. A trarne vantaggio sono state la Cina e la Russia. Pechino ha dimostrato subito un sostegno incondizionato ad Addis Abeba e ha criticato sia le sanzioni sia l’interventismo di Usa e Ue. Anche la Russia ha sostenuto il premier Abiy parlando della guerra come «un affare interno» nel quale non interferire.
Altri due attori «minori» hanno tratto beneficio dal conflitto: la Turchia e l’Iran. Ankara ha riallacciato rapporti, fino ad allora freddi, con Addis Abeba. E ciò le ha garantito fruttuosi contratti nel settore della difesa, che hanno fruttato alle casse dei colossi turchi della sicurezza 51 milioni di dollari nel solo 2021. Non dissimile l’atteggiamento di Teheran che, come sottolinea la ricerca Ispi, «ha visto nelle tensioni tra Stati Uniti e Addis Abeba un’opportunità per mantenere profondità strategica nel Corno d’Africa».
La testimonianza
«L’Etiopia è lo specchio delle emergenze dell’Africa. Il Nord, al confine con il Somaliland, è stato investito da ondate di siccità. Il Sud è stato colpito dalle inondazioni. A Ovest devono fare i conti con 500mila rifugiati sudsudanesi e nella regione di Gambella con 80mila rifugiati sudanesi. E poi il Tigray che è uscito provato da due anni di guerra civile», a parlare è Giovanni Putoto, medico, responsabile della programmazione del Cuamm medici con l’Africa, organizzazione da anni impegnata nell’assistenza medica nel continente. Putoto è reduce da un recente viaggio in Tigray dove la sua organizzazione è stata chiamata a intervenire per supportare il sistema sanitario locale duramente colpito dalla guerra.
La tensione, racconta, non è terminata. I tigrini devono fare i conti con le rivendicazioni dei vicini amhara su territori confinanti. Non solo, ma devono continuare a sopportare la presenza dei reparti eritrei che non hanno abbandonato il territorio etiope. «Nel nostro viaggio – continua – non abbiamo visto militari eritrei. Sappiamo però che ci sono. Ce lo hanno testimoniato numerosi tigrini che abbiamo incontrato. Occupano ampie fasce di territorio al confine tra Etiopia ed Eritrea. Asmara non ha firmato l’accordo di pace e la loro presenza è un dossier che deve ancora essere affrontato e risolto da Addis Abeba».
Gran parte dei morti, spiega Putoto, sono stati civili: uomini, donne, bambini vittime degli scontri e delle privazioni causate dal conflitto. A questi si aggiungono gli sfollati. Sono migliaia, perlopiù concentrati nelle periferie delle città. Solo nel nord ovest del Tigray sono 400mila, la maggior parte all’interno dell’abitato di Shire. Le condizioni della popolazione sono drammatiche. La malnutrizione acuta e grave è elevata, soprattutto nei bambini. Una situazione aggravata dalla sospensione degli aiuti in cibo da parte del Programma alimentare mondiale disposta a seguito dello scandalo della sottrazione di derrate da parte delle autorità etiopi.
I leader tigrini hanno denunciato la morte per inedia di almeno 50mila persone a causa del mancato arrivo degli aiuti alimentari. Cifre che non possono essere verificate, ma che tracciano la situazione drammatica della regione. «Il sistema sanitario è al collasso – osserva Putoto -. In tutto il Tigray un solo ospedale è in grado di fare parti cesarei e trasfusioni di sangue, parametri minimi per stabilire se una struttura sanitaria funziona. Gli altri ospedali sono chiusi o sono stati intenzionalmente distrutti dalle truppe eritree. Solo il 20-30% dei centri sanitari è operativo. Il personale sanitario è deceduto o non lavora perché senza retribuzione. Mancano quindi operatori e farmaci. Le uniche strutture che funzionano sono quelle di proprietà della Chiesa cattolica che hanno fatto un lavoro preziosissimo. Anche le scuole sono chiuse. I ragazzi e le ragazze crescono per strada, lontano dalle aule».
Il Tigray ha di fronte a sé la necessità di ricostruire. «È una sfida enorme – continua Putoto – perché non si tratta solo di riabilitare le infrastrutture distrutte o danneggiate, ma di ricreare i quadri professionali che sappiano guidare questa ricostruzione. C’è tantissimo da fare per restituire ai tigrini un sistema scolastico, sanitario e produttivo funzionante».
Enrico Casale
La storia di un missionario formatore in Etiopia
Una vita in seminario
Padre Antonio Vismara ha dedicato la sua vita all’Etiopia, pur avendo lavorato anche in Kenya e Italia. La sua vocazione è stata quella di fare il formatore di altri missionari. E ha pure avuto la fortuna di avere a fianco un gruppo di appoggio inossidabile.
Padre Antonio Vismara è nato nel 1942 a Ossona, in provincia di Milano. Terzo figlio, dopo un fratello e una sorella. Ottenuto il diploma da disegnatore tecnico scopre la vocazione e intraprende il percorso per diventare missionario. Nel giugno del 1972 è ordinato sacerdote. Alla fine dello stesso anno parte per l’Etiopia e inizia la sua missione a Meki.
Lo incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata a Torino, dove vive dal 2021.
«Fin dall’inizio il fondatore (Giuseppe Allamano) ha sognato l’Etiopia, ma noi (missionari in quel paese, ndr) diciamo che questo sogno non si è mai realizzato», ci confida con un sorriso sornione.
Perché? Gli chiediamo. Oggi ci sono diversi missionari etiopici nell’istituto, questo è già un bel risultato. «Il governo non ha mai realmente accettato i missionari, volendo piuttosto progetti di sviluppo sociale. E neppure la Chiesa ortodossa ci ha mai voluti – continua padre Antonio -. Noi eravamo sul posto con dei visti di lavoro, realizzavamo progetti, e a fianco abbiamo fatto chiese, parrocchie, comunità cristiane, che sono molto attive anche oggi». Le difficoltà per ottenere visti e permessi di soggiorno ci sono sempre state, ma negli ultimi anni si sono inasprite. È quasi un dire: «bastiamo noi, non vogliamo più stranieri».
Oltre a diversi missionari etiopi e alcuni keniani, come missionari della Consolata oggi sono presenti nel paese padre Edoardo Rasera, padre Marco Martini e fratel Vincenzo Clerici.
Padre Antonio apprezza molto i missionari etiopi: «Sono molto fedeli, perché attingono dalla lunga tradizione dei monaci».
Ma andiamo con ordine. Padre Antonio ha iniziato il suo lavoro a Meki, sede del vicariato nel 1973, poi ha lavorato anche a Modjo, nello stesso vicariato. I suoi incarichi sono stati fin da subito nel campo della formazione dei nuovi missionari, ruolo che ha mantenuto sempre: «Una vita in seminario», ci dice ridendo. Seguiva gli aspiranti missionari con lezioni sulla spiritualità dell’istituto, incontri personali, e con il discernimento. Aveva studiato teologia tra Torino e Washington e aveva fatto anche un corso per formatori.
«Negli anni Ottanta lavoravo con il vescovo Yohannes Woldegiorgis. Quando il vescovo morì (nel 2002, ndr), mi chiesero di sostituirlo. Ma dissi loro, “no, qui ci vuole un etiope”. L’Etiopia è troppo complicata, occorreva un locale per districarsi», dice, quasi a giustificarsi.
Dopo l’Etiopia, ha lavorato per tredici anni al seminario di Bravetta a Roma, e poi otto in Kenya, al seminario di Nairobi.
È nel 2005 che viene richiamato in Etiopia dove è diventato superiore regionale e, successivamente, formatore al seminario di Addis Abeba: «Tenevo lezioni sulla nostra identità come missionari della Consolata, al pomeriggio, dopo i corsi universitari. Poi ero a disposizione per i cosiddetti dialoghi personali, perché la teologia insegnata in classe pone delle domande, ma la scuola soltanto non può rispondere perché sono questioni troppo personali». L’ultimo periodo etiopico il missionario lo ha passato nuovamente a Modjo.
In tutti questi anni padre Antonio è stato accompagnato da un gruppo di amici, il «Gruppo Meki». Costituitosi nel 1973 a Ossona, nella sua parrocchia di provenienza, è composto da volontari, lo ha sempre appoggiato raccogliendo e inviando fondi per i suoi progetti sul campo, e facendo qualche visita. «Il gruppo è ancora attivo, dopo cinquant’anni. Io scrivo loro e vado a trovarli regolarmente. Loro continuano ad appoggiare le missioni a Meki», conclude con soddisfazione.
L’Etiopia è un sogno di Giuseppe Allamano, che fin dagli inizi, vede nel cardinal Massaia un’ispirazione. Ma le difficoltà sono tante, e i suoi primi missionari partono per il Kenya nel 1902. Dieci anni dopo ci riprova, e la sua tenacia, unita alla scelta delle persone giuste, porta all’apertura di alcune missioni in un territorio ostile. Inizia così una storia appassionante che sarà influenzata dai futuri eventi mondiali.
Fino dalla fondazione dell’Istituto Missioni Consolata il beato Giuseppe Allamano pensa di mandare i suoi in Etiopia, a continuare l’opera del cardinale Guglielmo Massaia (1809-1889), che è stato missionario cappuccino nella regione dei Galla (sud ovest). Le difficoltà a entrare in quel Paese, però, fanno sì che i primi quattro partano per il Kenya nel 1902.
Ma il sogno dell’Etiopia resta vivo, così, dieci anni dopo, il fondatore inizia una intensa opera diplomatica, aiutato da Giacomo Camisassa e da monsignor Filippo Perlo (responsabile del gruppo in Kenya), che porta alla creazione della prefettura del Kaffa il 28 gennaio 1913 (area etiopica nel sud ovest) da parte di Propaganda Fide (l’organo della Curia romana preposto alle missioni). La nuova prefettura confina a sud con il Kenya, dove la Consolata è presente. A guidarla è scelto padre Gaudenzio Barlassina, da dieci anni missionario, proprio in quel Paese.
Un paese difficile
Il contesto è complesso e gli impedimenti molteplici. L’Etiopia è divisa in zone governate da capi locali che fanno riferimento all’impero con capitale Addis Abeba. La morte dell’imperatore Menelik II, nell’agosto del 1913, aumenta l’instabilità a causa della lotta per la successione. Inoltre, le potenze coloniali dell’area, Francia, Inghilterra e Italia, hanno interesse a espandersi nei suoi territori. I cappuccini francesi guidati da monsignor André Jarosseau, vicario apostolico di Harar, sono ostili all’ingresso di missionari italiani in una zona tradizionalmente di loro competenza, ma dalla quale erano stati cacciati (lo stesso vescovo aveva ostacolato il primo progetto dell’Allamano). Infine, il clero della Chiesa copta, dominante nell’impero, è contrario a un’espansione del cattolicesimo. Le rappresentanze italiane ad Addis Abeba esprimono pure loro un parere contrario (e non tarderanno a mettere i bastoni tra le ruote).
Nonostante tutto, Camisassa da Torino e Perlo dal Kenya, lavorano per organizzare l’arrivo dei missionari della Consolata e l’apertura di missioni nel Kaffa. Prende piede l’ipotesi di una penetrazione dal Kenya, attraverso Moyale, città di frontiera sotto controllo britannico.
È nel novembre del 1914 che la carovana affidata alla guida di padre Angelo Dal Canton, parte da Nyeri, in Kenya, per iniziare il primo avventuroso tentativo di condurre una spedizione esplorativa. Monsignor Barlassina, già nominato prefetto apostolico, ne viene tenuto fuori.
Le difficoltà iniziano nel nord del Kenya, nell’attraversare 500 km di zona desertica e senza stazioni di rifornimento. Dal Canton è con due fratelli, Aquilino Caneparo e Anselmo Jeantet, sette portatori, cammelli e muli carichi di acqua e provviste.
La carovana non ha i permessi per entrare nel Paese. I missionari, però, ottengono un permesso di transito, ma come commercianti.
I rischi e le difficoltà sono elevatissimi, nonostante la tenacia dei missionari. La carovana, pur riuscendo a entrare in Etiopia, è poi costretta a ripiegare verso il Kenya un anno dopo.
In seguito, si pensa a una seconda carovana da sud, che non partirà mai. Le indicazioni delle fonti diplomatiche italiane, che hanno interesse nell’installazione di connazionali nel Kaffa, sono, infatti, di «ottenere un permesso non solo di transito ma di “stabilire sedi di commercio” per mercanti missionari, escludendo “ogni propaganda religiosa o proselitismo”», ma Giuseppe Allamano vuole che «i suoi entrino a viso aperto, senza nascondere la propria identità di missionari».
La via più semplice
A questo punto è Barlassina che, dopo aver aspettato ed essere stato escluso dal primo tentativo, prende l’iniziativa. Nell’ottobre 1916 dal Kenya si sposta a Gibuti passando da Mogadiscio, poi, in treno, arriva ad Achachi e in seguito, a dorso di mulo, nei panni di un «turista», raggiunge Addis Abeba il 25 dicembre installandosi nel miglior albergo della città, il Bollolakos. Qui mantiene la massima discrezione per restare in incognito. Avvisa mons. Jarosseau, che non lo vede di buon occhio, ma lui è appoggiato da Propaganda Fide, anch’essa avvisata.
Monsignor Barlassina, ancora lontano dal Kaffa, inizia il suo lavoro di diplomazia e di conoscenza del Paese. Si fa conoscere e si fa ben volere, come era nel suo carattere.
Ottiene un incontro con l’erede al trono, il ras Tafari nel marzo dell’anno successivo (si veda cronologia pag. 42). Riesce a spiegargli i suoi obiettivi: «esplicare la nostra attività ed essere utili alla popolazione […] essere utili allo sviluppo intellettuale del popolo con coltivazioni e commerci […]». Tra i due si approfondirà una conoscenza reciproca e un rispetto che saranno molto utili. L’erede al trono è però condizionato dal vescovo copto e dal suo clero: non può farsi vedere troppo aperto verso i cattolici. Le autorità etiopiche dicono no a una «Missione cattolica».
Monsignor Barlassina comprende la questione: «Farà il missionario ma a modo suo, vestendosi da mercante» (cfr. libro di Crippa in bibliografia). Il governo italiano, intanto, moltiplica le pressioni per la fondazione di una società commerciale perché vuole ottenere vantaggi dalla presenza dei missionari sul territorio. Monsignor Perlo, dal Kenya, sostiene questa via. Ma, mentre questa strada stenta, compare l’uomo della provvidenza: il signor Felice Gullino, un vero commerciante incontrato ad Addis da Barlassina. Gullino, tramite accordi privati, senza cioè l’interessamento della rappresentanza italiana, ottiene i permessi necessari per aprire due concessioni della «Società Felice Gullino e compagni», che altro non saranno che le prime missioni della Consolata in Etiopia.
Intanto Barlassina, argomentando che «la nostra opera al principio sarà solo morale e materiale, ma sempre benefica ed efficace […]», ottiene il permesso di procedere da Torino e da Propaganda fide, ricevendo felicitazioni da quest’ultima per «il suo tatto e la sua prudenza» e i risultati ottenuti.
La prima missione
Il 15 ottobre 1917 arrivano ad Addis dal Kenya padre Delfino Bianciotto e fratel Carlo Angrisani. Con una carovana, accompagnati dal signor Gullino, entrano nella zona del Kaffa chiamata Leka, e si installano a Ghimbi (oggi Gimbi). Indossano vestiti civili e affittano tre «tucul» (capanne) nei pressi del mercato, per poi costruire una casetta e aprire un negozio. È questa la prima missione-agenzia commerciale della Consolata in Etiopia. Un anno più tardi, padre Giovanni Emilio Toselli aprirà a Billo, sempre nel Kaffa. Il viaggio da Addis a Ghimbi è un’avventura. Nonostante abbiano i permessi, numerosi sono i posti di blocco tra i territori di capi e capetti e le imposte da pagare per passare, a rischio di dover fare dietro front. Inoltre, ci sono i predoni che infestano alcune zone. I missionari incontrano persone locali e non, che li aiutano e li proteggono. Percorrono così 430 km in circa 22 giorni.
Rispetto al Kenya, l’Etiopia è un altro mondo. Qui il modo di fare missione è ben diverso: non si può agire allo scoperto, a causa dell’ostilità dei preti copti. Si rischia di essere denunciati ed espulsi. Si tratta dunque di un «apostolato occulto», e lo sarà per molto tempo.
Barlassina, rimasto in capitale, può contare sull’appoggio dell’Allamano, con il quale c’è vicinanza e comprensione. Frequenti e dettagliati sono i resoconti del neo prefetto al fondatore.
Padre Bianciotto studia quali sono i commerci possibili a copertura della missione. Parla di pelli di animali e cereali, di fabbricazione del sapone, di filatura del cotone, di agricoltura e di allevamento.
I padri sono impressionati dal commercio degli schiavi, che fiorisce all’interno del Paese. E proprio questi saranno tra i primi a ricevere l’attenzione dei missionari, in quanto sono gli ultimi nella scala sociale. Occorre «il coraggio dei profeti e la prudenza dei pastori» (cfr. Crippa). Per ogni mossa falsa, si rischia di essere scoperti: ogni ministero pubblico è proibito. Tutte le iniziative sono esperimenti da valutarsi nel tempo.
La carovana del Blas
Monsignor Barlassina (detto Blas), non ha ancora messo piede nel Kaffa, la sua prefettura apostolica. All’inizio del 1919 organizza una carovana, con la quale vuole fare un ampio giro di perlustrazione di quel territorio. Parte con padre Toselli, che è arrivato a ottobre del 1918. Vuole toccare Billo, Ghimbi, Gore, Didu, Kaffa, Gimma, Lìmmu.
Questo viaggio verrà ricordato come «la carovana del Blas».
È così che Barlassina entra in contatto con una realtà importante: i cattolici (e loro discendenti) che si erano convertiti grazie ai missionari del cardinale Massaia, e che poi sono stati costretti a praticare in segreto, o a uniformarsi ai riti copti. Sono incontri delicati: da entrambe le parti occorre fare molta attenzione. Il prefetto intuisce che il recupero e l’assistenza di queste comunità cattoliche clandestine costituirà una priorità per il suo ministero. I «pagani» verranno in seguito, senza essere dimenticati. Particolarmente toccante è l’incontro con un vecchio prete cattolico, ordinato dal cardinale Massaia.
La Consolata si espande
Nel 1925 si possono contare sette missioni nel Kaffa e attività ad Addis Abeba: Andreaccia-Irgalem, Umbi-Saio, Magi, Ciaha, Comto (Lechemti), Bonga e Addis Abeba. Billo è stata chiusa nel 1920.
Barlassina, che nel 1904 ha partecipato alle Conferenze di Murang’a in Kenya (cfr. MC ottobre 2022), decide che è tempo di radunare i confratelli per riflettere sulla metodologia missionaria da adottare. Nascono così le Conferenze di Umbi, tenutesi nel gennaio del 1925.
Nel frattempo, il Blas, fin dal 1923, ha richiesto l’arrivo di suore e le prime sei sono arrivate nel marzo del 1924. Tre destinate nell’interno e tre ad Addis Abeba hanno l’utilissima qualifica di infermiere.
Nelle conferenze si discutono le Norme e raccomandazioni per la prefettura del Kaffa, un insieme di regole per i missionari. Si delineano, inoltre, le priorità dell’azione.
Particolare attenzione si dà ai «cattolici occulti», cercando di dare loro lavoro e facendo in modo che le famiglie vivano nei pressi della missione, per dare coraggio e riportarli alla normalità del culto.
In secondo luogo, i praticanti di religioni tradizionali (detti pagani) sono favoriti, anche perché sono i più disprezzati. Con i copti occorre invece fare molta attenzione, per i rischi di denuncia.
A livello di opere, le missioni-agenzie di commercio si occupano di cure mediche (soprattutto grazie alle suore), di scuole, in prevalenza per mestieri e primaria, e poi di catecumenato. Importante è la scuola voluta dal Blas e diretta da padre Luigi Santa nella capitale.
Molte attività sono però quelle commerciali di paravento, che comunque permettono ai missionari di entrare in contatto con la gente di diverse estrazioni e fedi. Sono creati mulini, piantagioni di tè e caffè, allevamenti.
Un’altra caratteristica peculiare è che le missioni sono a molti giorni di carovana una dall’altra, e che i viaggi sono utili per trovare cattolici occulti.
Ordini superiori
Nel 1933 monsignor Gaudenzio Barlassina viene richiamato in Italia, in quanto nominato superiore generale dell’istituto, in sostituzione di monsignor Perlo, che a sua volta era succeduto ad Allamano. A malincuore deve lasciare l’Etiopia, ma obbedisce, e il bilancio del suo lavoro è molto positivo. Come prefetto è nominato padre Santa, inizialmente con padre Mario Borello incaricato della procura di Addis Abeba.
Nel 1935 le truppe italiane invadono l’Etiopia senza dichiarazione di guerra. I missionari, diventati nemici, sono espulsi.
Ritornati al seguito degli invasori, nel 1936, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e la vittoria sul campo degli inglesi, i missionari della Consolata sono espulsi in via definitiva tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942. L’ultimo a partire è proprio monsignor Luigi Santa.
Delle 43 stazioni missionarie aperte, solo due restano attive, gestite da due sacerdoti etiopi.
Ma il sogno dell’Etiopia resta vivo.
Marco Bello
Bibliografia:
Giovanni Crippa, I Missionari della Consolata in Etiopia, dalla prefettura del Kaffa al vicariato di Gimma(1913-1942), ed. Missioni Consolata 1998.
Giovanni Tebaldi, L’ultimo carovaniere, Gaudenzio Barlassina 1880-1966, ed. Emi 2004.
La Consolata in Etiopia: 1970, atto secondo
Il ritorno in punta di piedi
I missionari della Consolata non mollano. E nel 1970 tornano in Etiopia. Questa volta non come mercanti, ma come «Fatima fathers». Si confrontano con i difficili anni della dittatura marxista e poi della carestia. Ma resistono. Di nuovo sono importanti alcune figure guida, come padre De Marchi e padre Bonzanino.
Il sogno del beato Allamano per l’Etiopia resta vivo nei suoi missionari, e nel 1970 la Consolata rimette piede nel Paese, con discrezione, sotto il nome di Fatima fathers, assumendo alcune missioni (Meki e Shashemane) nel vicariato di Harrar, centro est.
A fine giugno, il superiore generale, padre Mario Bianchi, incontra il vicario apostolico di Harrar, monsignor Urbani Marie Person, per accordarsi sulla presenza dei missionari della Consolata a Meki, a metà strada tra Addis Abeba e Awasa. Incontra pure i padri Comboniani, operanti nella zona.
Per le trattative dirette viene incaricato padre Giovanni De Marchi che, nel 1971, con padre Lorenzo Ori, apre il centro di Meki. Qui si contano 600mila abitanti, di cui la metà musulmani, 250mila aderenti a religioni tradizionali, 50mila copti, 2.500 protestanti e appena 150 cattolici. È un’area Oromo-Arsi (musulmani) e Shoa-Oromo (cristiani).
Nel 1975 i missionari della Consolata sono dieci, guidati dal carismatico padre De Marchi, e operano a Meki, ad Addis Abeba, a Shashemane, aperta nel 1972, e nel 1973 a Gambo (missione con lebbrosario che ospita oltre 100 lebbrosi) e Gighessa (missione e centro per bambini poliomielitici).
Tempi difficili
Il lavoro missionario in Etiopia non è facile, anche per le esigenze e i continui controlli del governo, il quale, più che missionari, desidera persone esperte in promozione umana, e impone una pesante burocrazia.
A Meki, la missione dedicata a Nostra Signora di Fatima è bene avviata e organizzata, con case per i padri e le suore, cappella, scuole, laboratori di tecnica, falegnameria, ospedale.
Nel 1980 proprio a Meki viene creata una nuova prefettura apostolica, che viene affidata all’istituto. Viene nominato amministratore padre Giovanni Bonzanino e, nonostante sia destinato a diventare vescovo, i missionari propendono per un sacerdote locale, e così Yohannes Woldegiorgis diventa il primo vescovo di Meki (1981).
La Prefettura apostolica di Meki copre un’area di 156mila km² (la metà dell’Italia), con una popolazione di oltre tre milioni di abitanti, di cui ottomila cattolici. I missionari della Consolata sono diciannove, dei quali uno solo è etiopico, e occupano nove missioni. Oltre all’evangelizzazione si dedicano al servizio dei più poveri: a Gambo gestiscono un ospedale e un centro di controllo per la lebbra; a Gighessa e ad Asella dirigono due centri per bambini con disabilità fisiche e mentali; a Shashemane reggono una scuola per ciechi, lebbrosi e disabili; a Meki dirigono una piccola scuola tecnica a livello accademico. La concessione agricola a Gambo, proprietà della Diocesi, è messa a disposizione della missione per il sostentamento di tutte le attività. Il terreno è ancora in gran parte foresta e solo 100 ettari sono coltivabili.
I missionari operano dunque su due settori: quello sociale, che caratterizza la loro presenza, e quello pastorale per la creazione di comunità cristiane.
Missione e rivoluzione
Il contesto politico, in questi anni, è molto complesso. L’imperatore Selassié viene deposto nel 1974, dopo una serie di scioperi, manifestazioni studentesche e proteste generali contro l’assolutismo del Negus, e a causa della mancanza di cibo.
Un comitato delle forze armate, diretto dal generale Aman Andon, abolisce la monarchia e proclama la repubblica. Nel 1977 assume il potere il colonnello Menghistu Hailé Mariam, che instaura un regime di «socialismo scientifico»: nazionalizza ogni settore produttivo, statalizzando suolo e sottosuolo, ponendo fine al latifondismo.
Con il «terrore rosso», fra il 1977 e il 1978 stronca ogni opposizione con migliaia di esecuzioni sommarie. Nel 1977 l’esercito deve affrontare le ribellioni in Eritrea e nell’Ogaden (Somalia). L’Etiopia è appoggiata dalla Russia e da Cuba. Nel contempo scoppia la guerriglia dei contadini del Tigray.
Verso la fine del 1980, padre Bonzanino scrive una nota positiva: «La rivoluzione ha un volto meno ostile e persino favorevole ad opere socio-caritative a cui attendono i missionari della Consolata per essere accettati dal governo». Poi aggiunge: «Si spera persino in una primavera di vocazioni». In effetti a Nazareth c’è un seminario e ad Addis Abeba padre Francesco Ponsi, insegna alla National University di Addis Abeba, ma anche al seminario minore.
Nel 1984 il paese incomincia a risentire degli effetti della siccità iniziata nel 1982 che uccide più di 500mila contadini, minacciando la vita di oltre 5 milioni di persone.
I missionari della Consolata aprono una ventina di centri per la distribuzione di viveri. A coadiuvare il Prefetto apostolico è soprattutto il padre Paolo Angheben. Nel 1986, il superiore generale dell’Imc, Giuseppe Inverardi, dopo una visita in Etiopia, scrive: «Il futuro è incerto e imprevedibile, cioè precario. Non è il caso di passare alla denuncia. È faticoso confrontarsi con una forza che agisce non ispirandosi alle necessità ma ad una ideologia». Il regime è antireligioso. È perciò comprensibile un senso di amarezza e di frustrazione nei missionari in attesa di tempi migliori.
Alcuni si chiedono: «Cosa deve fare un missionario nella rivoluzione?». Altri lasciano il Paese. Occorre la capacità di mantenere l’equilibrio missionario. Tante sono le difficoltà burocratiche e fiscali create dal governo per la gestione di scuole, ospedali, lebbrosari, o anche solo per ottenere un lasciapassare.
Ma i cambiamenti mondiali e la caduta del Muro di Berlino (novembre 1989) portano il regime a ridimensionare le proprie posizioni e strategie. Nel marzo 1991, Menghistu fugge in fretta e furia dal paese, e gli succede, come capo del governo, Meles Zenawi.
Il dialogo con i copti
Un’opera altamente benemerita favorita dai missionari della Consolata in Etiopia è quella delle varie iniziative ecumeniche con i cristiani copti. La Chiesa ortodossa copta, con 16 milioni di fedeli, ha iniziato un dialogo con la Chiesa cattolica. E i missionari sono all’avanguardia, mirando non al proselitismo, ma alla collaborazione. Oltre a curare le scuole, i ciechi e i lebbrosi, i missionari della Consolata proseguono nelle varie iniziative ecumeniche in un clima di vera fratellanza.
Lo sviluppo della presenza dell’Imc in Etiopia è dipeso dalla capacità coraggiosa e intelligente di padre Giovanni De Marchi prima, e di padre Giovanni Bonzanino poi. Questi ha guidato i missionari dal 1979, fino alla sua morte prematura nel gennaio 1983.
adattamentodatesti di Igino Tubaldo
Cronologia essenziale
1889. Menelik II diventa imperatore d’Etiopia, unificando i regni di Scioà, Oromo, Amara e Tigré. È l’inizio della dinastia Salomonide.
1913, 28 gennaio. Eretta la Prefettura del Kaffa.
1913, 12 dicembre. Morte di Menelik II, breve regno del nipote Ligg Jasu, seguito da una conflittuale divisione di potere tra l’imperatrice Zauditù, e il ras Tafari, successore designato.
1914, novembre. Primo tentativo di carovana dei Missionari della Consolata, travestiti da mercanti, dal Kenya verso il Kaffa. La guida padre Dal Canton.
1916, 25 dicembre. Monsignor Barlassina, partito da Mombasa (Kenya) arriva ad Addis Abeba, «ben camuffato».
1917, ottobre. I padri Bianciotto e Angrisani, entrati nel Leka, aprono la prima missione a Ghimbi. Un anno più tardi, padre Toselli aprirà la missione di Billo.
1919, gennaio. «Carovana del Blas»: mons. Barlassina compie un ampio viaggio di perlustrazione nel Kaffa, per vedere dove aprire le altre missioni.
1923. Ammissione dell’Etiopia nella Società delle Nazioni. Il Paese si impegna a rispettare le libertà fondamentali, abolire la schiavitù, garantire la libertà di culto e di educazione.
1924, 3 marzo. Arrivo delle prime sei suore della Consolata ad Addis Abeba. Impossibile nasconderle a causa degli abiti.
1925, gennaio. I missionari della Consolata presenti in Etiopia si riuniscono per pregare e fare il punto sul metodo: «Conferenze di Umbi».
1930. Sale al potere il ras Tafari Maconnen, con il nome di Hailé Selassié, in seguito alla morte improvvisa dell’imperatrice Zauditù.
1935, 3 ottobre. L’Italia invade l’Etiopia senza dichiarazione di guerra.
1936, 5 maggio. Gli italiani arrivano ad Addis Abeba, l’imperatore scappa in esilio, l’Etiopia è annessa all’Africa orientale italiana. Vengono iniziate opere di infrastrutture e abolita la schiavitù che coinvolgeva ancora nove milioni di persone.
1941. Cade l’impero coloniale italiano, l’Etiopia è liberata dagli inglesi. Torna l’imperatore Selassié (secondo regno). I missionari italiani sono espulsi.
1955. Costituzione dell’Etiopia.
1970. I missionari della Consolata tornano in Etiopia sotto il nome di Fatima fathers. Sono guidati da padre De Marchi e poi da padre Bonzanino.
1974, 12 settembre. Colpo di stato a opera di un gruppo di ufficiali dell’esercito. Deposto dal Derg (giunta militare al potere), Selassié scompare misteriosamente nel 1975.
1975, 12 marzo. Proclamata la fine del regime imperiale e la nascita dello Stato comunista.
1977. Prevale Menghistu Hailé Mariam che instaura il regime di «terrore rosso».
1980. La prefettura apostolica di Meki viene affidata alla Consolata.
1984-85. Grande siccità e carestia, muore circa un milione di persone.
1987. Il Paese prende il nome di Repubblica democratica popolare d’Etiopia, la dittatura è sostituita dal monopartitismo.
1991. Il negus perde l’appoggio dell’Urss e scappa in esilio, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf) fonda la Repubblica federale democratica d’Etiopia.
Meles Zenawi, leader del Fronte popolare di liberazione del Tigray, resta a capo del governo di transizione dal 1991 al 1995.
1995. Prime elezioni multipartitiche. Zenawi nominato primo ministro e poi confermato alle elezioni del 2000.
1998-2000. L’Etiopia è in guerra con l’Eritrea. Terminerà con l’accordo di Algeri.
2005. Le elezioni, considerate le prime realmente multipartitiche, e quelle del 2010, vedono Zenawi riconfermato.
2012. Zenawi muore improvvisamente ed è sostituito da Hailé Mariam Desalegn, confermato alle elezioni del 2015.
2018, 15 febbraio. Desalegn rassegna le dimissioni. Un mese dopo Abiy Ahmed Ali, presidente dell’Organizzazione democratica del popolo Oromo, uno dei quattro partiti di coalizione al governo, è designato leader dell’Eprdf, il 2 aprile è eletto primo ministro dal parlamento, è il primo premier oromo dell’Etiopia.
Ma.Bel.
La Consolata in Etiopia negli anni 2000: le sfide di oggi
Gli eredi di Barlassina
Il sogno del beato Allamano sull’Etiopia continua ancora oggi e, dopo oltre 100 anni, è portato avanti anche da molti missionari e missionarie etiopici. Le sfide non sono lontane da quelle di un tempo: l’esiguo numero di cattolici, le difficoltà burocratiche, i problemi economici e le continue guerre interne.
Asella, Meki, Shashemane, Alaba, Gambo, Weragu, Minne, Modjo, Ropi e, più tardi, Shambu: sono le missioni dove i missionari della Consolata hanno lavorato e continuano tutt’ora a lavorare. Dopo anni di impegno nel creare comunità cristiane, le missioni di Asella, Shashemane, Meki e Ropi sono state passate al clero locale che continua le attività iniziate della Consolata.
Gambo, conosciuta per il suo ospedale e per il villaggio dei lebbrosi, continua a essere servita dall’Imc anche se l’ospedale tre anni fa è stato consegnato al governo della regione Oromia. La missione, oltre a continuare a dare supporto all’ospedale, sostiene con aiuti economici tanti lebbrosi che abitano nella zona, molti dei quali sono anziani e vivono grazie all’aiuto ricevuto.
Il gruppo oggi
Oggi i missionari della Consolata che lavorano in Etiopia sono diciassette, di cui dieci etiopici, tre italiani e quattro keniani.
Da sempre, l’attività missionaria comprende sia la cura pastorale delle comunità cristiane, sia le attività di sviluppo sociale e umano. I missionari, in collaborazione con due congregazioni femminili, portano avanti due asili, a Modjo e a Shambu,
e due cliniche mediche con reparto maternità, a Weragu e ancora a Modjo.
Sempre in Modjo, oltre al seminario propedeutico, i missionari gestiscono un centro di animazione e spiritualità missionaria, molto apprezzato sia per ritiri che per convegni.
Piccole comunità
Una delle caratteristiche delle missioni della Consolata in Etiopia, è la loro presenza in zone abitate in prevalenza da popolazioni di fede musulmana e con piccole comunità di cattolici. Si va dalle poche decine di fedeli in Modjo a qualche migliaio in Weragu. Questa è una delle sfide maggiori, sia dal punto di vista dell’evangelizzazione che finanziario. Nonostante la generosità delle comunità cristiane, l’esiguo numero e povertà dei loro membri, in maggioranza contadini, rende difficile l’auto sostentamento delle missioni. Senza gli aiuti provenienti dai benefattori dell’Italia e di altri paesi, sarebbe impossibile gestirle.
Il numero esiguo dei fedeli non è solo un elemento delle nostre missioni, ma una caratteristica dei cattolici in Etiopia che sono meno del 1% della popolazione, la quale si aggira intorno ai 115/120 milioni di abitanti.
Sono quindici i missionari della Consolata di origine etiopica. Otto giovani seminaristi stanno studiando teologia nei vari seminari internazionali dell’Imc, e saranno ordinati nei prossimi anni. Nel seminario propedeutico di Modjo ci sono dieci giovani in discernimento vocazionale e altrettanti nel seminario di Addis Abeba che stanno studiando filosofia.
Le sorelle
Oltre ai missionari della Consolata, sono presenti nel Paese le missionarie della Consolata che per anni hanno condiviso la stessa missione.
Arrivarono in Etiopia nel 1924. Al momento hanno una missione in Addis Abeba che funge anche da casa di formazione con otto ragazze in discernimento vocazionale.
Senso di insicurezza
In molti avranno sentito parlare in questi ultimi anni dell’Etiopia. La guerra che si è combattuta nel Tigray, nel nord del paese, tra il Tplf (Fronte popolare per la liberazione del Tigray, ndr) e il governo etiope, ha lasciato una triste eredità di sofferenza e di morte per milioni di persone. Si calcola che circa 500mila etiopi siano morti durante i due anni di guerra. Alla fine del 2022 si è firmato in accordo di pace promosso dall’Unione africana.
Nonostante le armi abbiamo cessato di sparare, gli odi etnici permangono e tutt’ora esiste un senso di insicurezza nel Paese a causa delle continue tensioni che nascono tra le varie realtà.
Recentemente una specie di scisma si è verificato all’interno della chiesa ortodossa causato dalle rivendicazioni dei cristiani di etnia oromo. La crisi ha coinvolto anche politici, sia a livello locale che nazionale, e la componente politica nazionalista è fondamentalmente alla base di diverse di queste rivendicazioni.
Aumentano le disuguaglianze
La divisione tra coloro che vivono nell’abbondanza e coloro che a fatica riescono ad avere un pasto al giorno si sta facendo sempre più acuta.
Fa impressione vedere nella capitale Addis Abeba un aumento di auto di lusso nuove, mentre in altre zone del Paese la gente fa la fame. A causa della guerra, ci sono ancora milioni di rifugiati interni che vivono in campi gestiti dalle agenzie dell’Onu o dalle autorità locali. A tutto questo si è aggiunta recentemente una carestia in alcune zone come il Borana e la Somalia etiopica. Oltre a migliaia di animali, sono morti decine di bambini per malnutrizione e malattie connesse.
Mancanza di unità
L’Etiopia è un paese ricco di risorse naturali e umane, con tradizioni e una cultura millenaria, nonostante ciò, ha raramente avuto periodi di pace negli ultimi cent’anni.
Come in ogni situazione umana, molti dei problemi di questo Paese sono riconducibili alla povertà della leadership. Tutt’ora non esiste una coscienza nazionale condivisa, piuttosto ci si identifica con la propria etnia a scapito di una visione unitaria di Paese.
Le tensioni indipendentiste sono molto forti tra i vari gruppi etnici. La sfida maggiore per i politici presenti e futuri è quella di creare un senso di unità nazionale.
La corruzione, come in tanti altri paesi del continente, è dilagante (nella classifica dell’indice di percezione della corruzione Cpi di Transparency international, l’Etiopia si trova al 94° posto su 180 paesi, in peggioramento, mentre l’Italia è al 41°, ndr).
Nonostante le difficoltà presenti e le sfide dell’evangelizzazione, i missionari della Consolata continuano la loro missione fiduciosi in un futuro migliore sia per il Paese che per la Chiesa.
Marco Marini
Una storia e uno sviluppo economico senza pari
Identità e globalizzazione
L’Etiopia è un paese molto particolare. Di storia cultura millenaria, fatica a trovare un’unità. Al contrario, molti conflitti vengono ancora regolati con le armi. L’economia galoppante sta ora rallentando, mentre importanti risorse, come la terra, sono state svendute a privati e all’estero.
Il 12 gennaio 2015, in occasione degli auguri per il nuovo anno ai rappresentanti del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, papa Francesco parlava di «globalizzazione uniformante che scarta le culture stesse, recidendo così i fattori propri dell’identità di ciascun popolo».
Se si guarda ai secoli passati, dagli antichi fasti di Aksum alle complesse dinamiche feudali, l’Etiopia è senza dubbio il Paese africano che può vantare la storia più peculiare. Se si guarda ai tempi recenti, con l’accettazione degli investimenti cinesi e il boom edilizio nella capitale, sembra invece una delle nazioni macinate dalla «globalizzazione uniformante» di cui parlava il papa. Quale di queste due tendenze prevale nel caratterizzare l’attualità etiope? Abbagliati dalle cifre da capogiro che le statistiche economiche hanno evidenziato negli ultimi anni, si sarebbe tentati di pensare alla seconda. Tra il 2000 e il 2020, infatti, il Paese ha fatto registrare una crescita del Pil di quasi il 9% annuo, diventando la quarta potenza economica del continente dietro a Nigeria, Sudafrica e Angola. Come tale ricchezza sia distribuita tra i suoi 120 milioni di abitanti, è tutto un altro discorso. Inoltre, per gli effetti della pandemia da Covid-19 e della guerra in Tigray, nel 2021 tale crescita è scesa al 2%, contro il 6% dell’anno precedente.
Ma cos’è che cresceva? Come è noto, i numeri delle statistiche economiche riportano solo quanto viene ufficialmente contabilizzato e quindi escludono l’economia informale, quella sulla quale si basa il sostentamento della maggioranza degli abitanti dell’Africa subsahariana. Non di rado, poi, accade che una crescita in certi settori, classicamente indirizzati all’esportazione, provochi un impoverimento di altri, spesso proprio quelli che riguardano gli strati più poveri della popolazione. Ne sanno qualcosa contadini e pescatori nigeriani che si sono ritrovati terre e acque inquinate dalle fuoriuscite di petrolio provenienti dagli impianti della Shell.
A differenza di ciò che è avvenuto in Angola e Nigeria, lo sfruttamento delle risorse di idrocarburi etiopi, presenti nella regione dell’Ogaden ed estratte dalla società cinese Poly-Gcl, è iniziato solo nel 2018, e richiederà tempo prima di entrare a regime. Una volta tanto, quindi, è stata l’economia agricola quella su cui si è puntato. Conformemente ai dettami del mercato globale, ci si è concentrati sulle esportazioni così da favorire l’ingresso di moneta pregiata: quasi il 60% dei redditi etiopi derivanti da valuta estera provengono dal caffè, che rappresenta oltre un quarto dell’export. Altri prodotti di vario tipo, dai fiori recisi ai semi oleosi, hanno concorso ad aumentare i profitti, contribuendo, secondo le statistiche ufficiali, a dimezzare la povertà estrema che nel 1995 affliggeva ancora il 45% della popolazione.
Investimenti e grandi opere
La crescita economica basata sul settore agricolo ha favorito una certa industrializzazione, seppur limitata ad alcune zone nelle quali si sono adottate agevolazioni fiscali e forniti servizi logistici per attrarre capitali d’investimento. Sono comunque aumentate anche le industrie manifatturiere destinate al mercato interno, quelle che molti analisti ritengono essere una delle chiavi per lo sviluppo dell’Africa. Infine, nel febbraio 2022 è entrata in funzione sul Nilo Azzurro la diga del «Grande rinascimento etiope», il maggiore impianto idroelettrico del continente che, con i suoi 5.200 megawatt, raddoppierà presto la produzione energetica dell’Etiopia.
Nondimeno, tale successo ha avuto un rovescio della medaglia, essendosi prodotto anche a seguito di pratiche di land grabbing. Valutando le risorse effettive del Paese, nel 2003 il governo aveva messo a fuoco l’idea che uno sviluppo industriale sarebbe potuto essere finanziato da uno sviluppo agricolo destinato all’esportazione. Su questa base, nel 2010 è stato varato un piano quinquennale di crescita e trasformazione a seguito del quale l’anno successivo, oltre a spingere, mediante agevolazioni fiscali, molti piccoli proprietari a dedicarsi a coltivazioni indirizzate ai mercati esteri, l’Etiopia ha siglato ben 406 contratti di sfruttamento commerciale della terra, per un totale di un milione di ettari concessi in locazione pluridecennale a imprese nazionali o straniere. Per attrarre gli investitori, i canoni di affitto sono stati tenuti molto bassi (da 1 a 5 euro all’anno per ettaro); inoltre, l’inizio dei pagamenti veniva posposto di 3-6 anni e, avvenendo in valuta locale, assicurava un grande risparmio alle imprese affittuarie, le quali avrebbero potuto beneficiare della ovvia svalutazione a cui la moneta nazionale, il birr, sarebbe andata incontro in periodi così lunghi (basti dire che, se vent’anni fa il cambio con l’euro si aggirava su un valore 10, adesso è vicino a 60).
Le conseguenze di tale politica erano considerevoli su una popolazione che per l’85% opera nel settore agricolo, per di più in certi casi ancora in regime di sussistenza.
Negli studi macroeconomici delle grandi agenzie di sviluppo, la parcellizzazione della proprietà terriera in Etiopia è il fattore che da ormai lungo tempo viene indicato come l’ostacolo principale al progresso del Paese. D’altra parte, fino a meno di mezzo secolo fa, era ancora in vigore il potere imperiale e l’usufrutto della terra era regolamentato da complesse norme consuetudinarie e feudali elaborate nel corso dei secoli.
Menghistu
Con il colpo di Stato che nel 1974 ha deposto Hailé Selassié, l’ultimo imperatore d’Etiopia, il Paese è passato sotto la dura dittatura comunista del maggiore Menghistu Hailé Mariam, con conseguente nazionalizzazione delle proprietà, terra inclusa, e, nel 1984, reinsediamenti di contadini (in totale, un milione e mezzo di persone) dal nord al sud che hanno provocato una forte mortalità per malaria (i nuovi arrivati non disponevano di difese immunitarie specifiche), conflitti con gli abitanti del posto e sconvolgimento delle rotte di transumanza.
A seguito di una lunga e sanguinosa guerra di liberazione, nel 1991 Menghistu è stato sconfitto e la nuova Etiopia, sotto la guida del nuovo leader Meles Zenawi, oltre a concedere l’indipendenza all’Eritrea, si è data la formula originale di una Repubblica federale organizzata su base etnica. Siccome però le persone, a differenza dei territori, si muovono e si mischiano, i confini regionali sono rimasti incerti, tanto che trovare delle cartine unanimemente riconosciute è stato un problema ricorrente.
All’inizio, il decentramento di potere alle regioni è risultato abbastanza marcato, poi si è progressivamente ridotto. L’affitto della terra, infatti, è stato legalizzato nel 1996 e sottomesso alle diverse legislazioni regionali. Ma cinque anni dopo, anche a causa di episodi di corruzione e inefficienza, il governo centrale ha avocato a sé la gestione dei contratti riguardanti superfici superiori ai 5mila ettari.
Dopo il decesso di Meles Zenawi, nel 2012 la funzione di primo ministro è passata a Hailé Mariam Desalegn, dello stesso partito del suo predecessore. Pertanto, il nuovo piano quinquennale di crescita e trasformazione, varato nel 2015 nonostante le manifestazioni di piazza avvenute nel 2014, ha ricalcato le linee guida del precedente. E proprio il problema della sottrazione delle terre è stato alla base, negli ultimi mesi di quell’anno, delle proteste scoppiate fra la popolazione oromo che, costituendo circa un terzo degli etiopi, è la più numerosa del Paese.
La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era rappresentata dal piano di espansione edilizia di Addis Abeba, che prevedeva la confisca di molte terre prima adibite ad agricoltura e a pascolo. Gli scontri, intensificatisi nel 2016, hanno provocato diverse centinaia di morti a causa dei tentativi di repressione governativa. Per di più, proprio in quel biennio l’Etiopia veniva colpita dalla peggiore siccità degli ultimi 30 anni, con un aumento di 10 milioni nel numero di persone a rischio di insicurezza alimentare.
Abiy, oromo e premio Nobel
Nel 2018, di fronte a una protesta che non sembrava intenzionata a scemare, Desalegn ha rassegnato le dimissioni e, dopo che i due precedenti capi di governo erano stati entrambi di etnia tigrina, il parlamento ha affidato la guida del Paese ad Abiy Ahmed, un Oromo.
L’inizio del suo mandato ha rappresentato una vera e propria svolta, con la liberazione di detenuti politici, la riabilitazione di gruppi di opposizione che erano stati messi al bando, l’abolizione della censura sulla stampa, la nomina di una donna sia alla presidenza dello Stato sia a quella della Corte suprema e, soprattutto, la tanto agognata pace con l’Eritrea, provvedimento che nel 2019 ha fatto conseguire ad Abiy il premio Nobel per la pace. Sembrava un sogno, l’inizio di una nuova era di prosperità. Peccato che l’anno dopo l’Etiopia era di nuovo in guerra.
Stato (non) monolitico
Per capire questo tragico ritorno al passato, bisogna partire dalla considerazione che l’Etiopia non è mai stata, e non lo è tutt’ora, uno Stato monolitico. La sua è una storia di molti popoli, ognuno con la sua cultura, la sua religione e i suoi modi di vita. Popoli che non di rado sono stati in conflitto tra loro, stringendo alleanze ogni volta diverse, pronte a sciogliersi per costituirne altre a seconda dei bisogni. E, in quest’ottica, disposti a coalizzarsi quando la minaccia era esterna e l’interesse comune.
Ne sa qualcosa l’Italia che, il primo marzo 1896, ha subito ad Adua la più grande sconfitta militare mai occorsa a uno Stato coloniale in terra d’Africa: le nostre autorità, avendo constatato i forti contrasti tra i vari gruppi feudali di allora, non avrebbero mai immaginato che questi riuscissero a unirsi così efficacemente, e in breve tempo, per mettersi al servizio di un potere imperiale che molti di loro consideravano opprimente.
Ciò che in Etiopia è sempre stato combattuto è il tentativo di uniformare tutto. Non a caso, l’appiattimento collettivista imposto dalla dittatura comunista di Menghistu negli anni ‘70 non ha tardato a trovare un’opposizione sempre più determinata, fino a giungere al suo rovesciamento nel 1991. Quel ribaltamento è stato possibile anche grazie all’alleanza tra i due leader dei fronti di liberazione del Tigray e dell’Eritrea, subito però di nuovo divisi all’indomani del successo e addirittura in guerra tra loro pochi anni dopo: il conflitto tra Asmara e Addis Abeba del 1998-2000, che ha causato diverse decine di migliaia di morti per parte, è scoppiato apparentemente per futili rivendicazioni territoriali ma soggiaceva a una tensione che covava da tempo.
Due anni dopo la fine delle ostilità, una commissione internazionale appositamente costituitasi ha decretato che l’area contesa fosse da assegnarsi all’Eritrea, ma l’Etiopia ha rifiutato tale deliberazione per 16 anni, fino a quando, un paio di mesi dopo la sua nomina, Abiy non ha deciso di accettarla. La cosa non è piaciuta ai dirigenti regionali del Tigray, che consideravano la striscia contesa, circostante la cittadina di Badme, come territorio proprio.
Per di più, nell’autunno 2019, il premier etiope ha fondato una nuova formazione politica, il Partito della prosperità, con l’intenzione di riunire le varie componenti della coalizione di governo. Il potente Fronte popolare di liberazione del Tigray, che fino ad allora aveva tirato le file della politica nazionale, ha deciso di non aderire, passando di fatto all’opposizione.
L’uso delle armi
E qui veniamo a uno dei grandi difetti dell’Etiopia, forse il più grande: il ricorso alle armi. Studiandone la storia, non si può evitare di provare sgomento di fronte alla successione di sanguinosi conflitti armati esplosi con troppa facilità. A questa deriva ha contribuito senz’altro la compresenza di culture forti, ciascuna sostenuta da grande orgoglio nazionalista. Poi anche la difficoltà di condividere risorse, terra e acqua in primis. Queste da sempre oggetto di scontro, ora lo sono ancora di più a seguito della recente crescita demografica, del cambiamento climatico e del land grabbing. In più, con la vertiginosa crescita economica degli ultimi anni, si sono aggiunti i lucrosi affari di compagnie di tutto il mondo.
Quando nel 2020, a seguito della pandemia da Covid-19, il governo etiope ha deciso di rinviare le elezioni, le autorità tigrine non hanno nascosto il loro disaccordo e hanno deciso di organizzarle autonomamente nella propria regione. Se tale chiamata alle urne, svoltasi a settembre, aveva tutto il sentore di un tentativo di secessione, ben più grave è stato l’attacco «preventivo» compiuto dall’esercito regionale tigrino contro alcune basi regionali federali nella regione, uccidendo molti soldati e impossessandosi di gran parte degli armamenti lì presenti. L’escalation militare così innescata ha portato a un’ennesima terribile guerra, con la solita sequela di fasi alterne a favore di uno o dell’altro dei contendenti, massacri compiuti anche contro i civili da ambo le parti, due milioni di sfollati in stato di enorme indigenza, smantellamento dei già precari servizi sanitari, abbandono delle attività agricole, destrutturazione dei tessuti sociali, spese militari esorbitanti per dotarsi dei più recenti ritrovati della tecnologia bellica, nonché oltre 600mila morti.
A rendere il conflitto ancora più cruento è stato l’ingresso dell’Eritrea a fianco dell’esercito federale etiope, contro gli odiati vicini del Tigray. Qualche speranza di pace si è fatta strada dopo gli accordi, siglati a Pretoria il 2 novembre scorso, che prevedono il disarmo dell’esercito tigrino, nonché il ritiro di quello eritreo e delle milizie regionali amhara che appoggiavano le forze armate federali. Nel contempo, però, sembrano riacutizzarsi le tensioni contro la regione oromo.
Progresso e retaggi feudali
Quando ci siamo ormai addentrati nel XXI secolo da oltre 20 anni, l’Etiopia continua a presentare un’incredibile coesistenza di eccellenze nel campo del progresso e di retaggi feudali. Addis Abeba, sede dell’Unione africana e di ben 115 ambasciate, è uno dei principali centri politici internazionali fin dagli anni ‘60, ma il Paese sembra proprio non riuscire a trovare una formula di governo che possa soddisfare le circa 80 etnie in esso presenti. I «fattori propri dell’identità di ciascun popolo» e la «globalizzazione uniformante» di cui parlava il Papa, in Etiopia non risultano opposti, ma si coniugano in un mix micidiale dagli effetti troppo spesso tragici. Come non ricordare Abraham Demoz, il linguista eritreo che, nel 1968, aveva scelto l’eloquente titolo «I molti mondi dell’Etiopia» per un suo intervento presso la Royal african society di Londra? La relazione dello studioso iniziava così: «L’Etiopia è la disperazione del classificatore compulsivo».
Alberto Zorloni
Il Paese in cifre
Repubblica federale di Etiopia
Superficie: 1.127.127 km2 (3,7 volte l’Italia).
Popolazione: 121 milioni (2022).
Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 175/191 (2021).
Pil procapite annuo [PPP$]: 2.360.
Nota:PPP$ significa «dollari in parità di potere d’acquisto», tiene conto dei livelli dei prezzi nel paese.
Hanno firmato il dossier:
Marco Marini
Missionario della Consolata, è in Etiopia dal 2017. È stato superiore dei missionari in Etiopia fino al 2022 e ora è amministratore. Ha lavorato anche in Kenya, Italia, Canada. È stato consigliere generale dell’Imc.
Alberto Zorloni
Veterinario tropicalista, ha lavorato in diverse attività di sviluppo in Etiopia e in altri paesi africani. Tra le sue pubblicazioni: Etiopia, una storia africana, ed. Dissensi, 2016; Ripartire da ieri, Emi, 2015.
Marco Bello
Giornalista, direttore editoriale MC.
Si ringraziano
Fratel Domenico Brusa per i suoi appunti e la consulenza sulla presenza Imc in Etiopia. Padre Marco Marini per il suo apporto da Addis Abeba.
Foto e copertine
Tutte le foto del dossier (se non specificato) provengono dall’Archivio fotografico storico dell’Imc e furono realizzate su lastre fotografiche. Le più antiche risalgono alla fine degli anni ‘10 del secolo scorso.
Crisi e conflitti da non dimenticare
Alle dieci situazioni di crisi segnalate a gennaio 2021 dal centro di ricerca International crisis group si sono aggiunti, nel corso di questi primi sei mesi, anche il peggioramento del conflitto nel Nord del Mozambico e un aumento dell’incertezza nella già fragile zona del Sahel, dopo la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby Itno.
Si tratta di conflitti o tensioni in sei paesi – Afghanistan, Etiopia, Venezuela, Libia, Somalia e Yemen – e in una regione, il Sahel, delle difficili relazioni tra Usa e Iran e fra Turchia e Russia e del cambiamento climatico, una crisi che, a detta del gruppo di ricerca (e non solo), sta già toccando numerose popolazioni e creando i presupposti per i conflitti del futuro, che dipenderanno non dal clima in sé ma da come questo modifica la disponibilità di risorse naturali come l’acqua e la terra e da come questi mutamenti verranno governati.
Africa, conflitti vecchi e nuovi
Il continente che conta più situazioni critiche è l’Africa. Il conflitto nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, non è ancora risolto, come ha spiegato lo scorso aprile Enrico Casale nel suo articolo per questa rivista@ e come confermano diversi media internazionali fra cui il New York Times@, che riporta la relazione resa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal sottosegretario Onu per gli affari umanitari, Mark Lowcock. I soldati dell’Eritrea, alleata del governo etiope in questo conflitto, non si sono ritirati come annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed ma, al contrario, sono rimasti nel Tigray e si sono resi responsabili di massacri, pulizia etnica e violenze sessuali.
Altro paese africano che fatica a trovare pace è la Somalia: lo scorso aprile il presidente Mohamed Abdullahi «Farmajo», il cui mandato quadriennale si è concluso a febbraio, ha ottenuto dal Parlamento un rinvio di due anni delle elezioni presidenziali. Secondo l’International crisis group@, questa estensione di fatto del mandato presidenziale – che ha già ricevuto forti critiche da Nazioni Unite, Usa, Unione Europea, Unione Africana e Regno Unito – ha almeno due conseguenze dannose.
La prima è l’aumento delle tensioni politiche, con alcuni leader degli stati federati o delle regioni che compongono il paese che appoggiano il presidente e altri – come è il caso dei presidenti degli stati del Puntland e del Jubaland – che si sono invece radunati intorno ad alcuni candidati dell’opposizione.
La seconda conseguenza è che le divisioni si sono manifestate anche all’interno delle forze armate e della polizia: il capo nazionale della polizia Hassan Hijar Abdi ha licenziato il capo della polizia di Mogadiscio, Sadiq «John» Omar, dopo che quest’ultimo aveva inviato i suoi uomini al Parlamento per impedire lo svolgimento della seduta in cui sarebbe stato approvato il rinvio delle elezioni, definendo l’estensione di fatto del mandato presidenziale un colpo di mano. Quanto alle forze armate, secondo le fonti dell’Icg, diversi soldati del reparto di élite Gorgor avrebbero abbandonato le basi dell’esercito somalo per ritirarsi nelle roccaforti dei rispettivi clan, mentre gli anziani di questi clan hanno chiarito che qualunque tentativo di Mogadiscio di disarmare le loro truppe locali innescherebbe combattimenti su larga scala.
Lo stallo politico e le dispute tra le forze di sicurezza, conclude Icg, stanno rafforzando i militanti di Al Shabaab che, incoraggiati dal ritiro parziale delle truppe etiopi e statunitensi alla fine del 2020, hanno già intensificato gli attacchi e ripreso gli assalti contro obiettivi militari somali e stranieri. La guerra fra il governo somalo e Al Shabaab dura da quindici anni.
Il groviglio del Sahel
Oltre a Etiopia e Somalia, il think tank menziona l’intricata e tesa situazione del Sahel, la fascia a Nord del deserto del Sahara che si estende dal Senegal all’Eritrea e che sta assistendo a un aumento della violenza interetnica e all’espansione dell’influenza jihadista, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger.
Dal gennaio 2013 nell’area è impegnato l’esercito francese, intervenuto su richiesta del governo del Mali con l’operazione Serval per fermare l’insurrezione dei ribelli tuareg del Mouvement national de libération de l’Azawad (Mnla), avvenuta l’anno prima nel Nord del paese. La ribellione dei Tuareg, favorita dal riversarsi in tutta la zona di grandi quantità di armi dalla Libia dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi e il saccheggio dei suoi arsenali, ha dato il via a una serie di avvenimenti, fra cui il colpo di stato che ha estromesso il presidente maliano Amadou Toumani Touré e l’espansione nel Mali settentrionale dei gruppi islamisti, da Ansar Dine, sospettato di legami con Al-Qaeda, ad Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). All’operazione Serval è seguito nell’aprile 2013 l’invio di una «Missione Onu per la stabilizzazione del Mali» (Minusma) e, nel 2014, una seconda operazione francese, denominata Barkhane.
Eppure, scrive il Crisis group, dopo sette anni «resta difficile affermare che la situazione nel Sahel sia migliorata. Al contrario, i conflitti continuano ad aumentare di intensità e si moltiplicano i teatri di scontri violenti in tutta la regione». Una delle cause di questo mancato miglioramento sarebbe lo sbilanciamento degli interventi sulla componente militare, a scapito di quella che mira allo sviluppo e al rafforzamento della governance. Il Mali vive una profonda crisi quanto alla capacità di fornire servizi di base ai propri cittadini e di risolvere attraverso il dialogo e la mediazione le contese interetniche, anche molto violente, presenti soprattutto nelle aree rurali. Viceversa, le forze jihadiste – composte da numerosi gruppi, coalizzati principalmente nel Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) e nello Sato islamico nel grande Sahara – sono in grado di inserirsi in modo efficace in questi contrasti, offrendo protezione e appoggio in cambio di influenza e di reclute, minando così ancora di più il ruolo e la credibilità dello stato.
È anche per la già grande fragilità dell’area che le possibili conseguenze della morte del presidente del Ciad Idriss Déby Itno, avvenuta il 19 aprile scorso, suscitano particolare apprensione. Déby è morto mentre si trovava nel Nord del paese a visitare le truppe ciadiane impegnate a contenere l’attacco dei ribelli del «Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad» (Fact nell’acronimo francese) che hanno le proprie basi in Libia. Sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate combattendo, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. Aveva appena vinto le elezioni per la sesta volta dopo aver governato il paese «con il pugno di ferro per tre decadi»@ ed era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti, in quanto al comando del migliore esercito dell’area.
Il generale Mahamat Idriss Déby, figlio trentasettenne del defunto presidente, gli è succeduto mettendosi alla testa di un consiglio militare di transizione che dovrebbe portare in 18 mesi il paese a nuove elezioni; ma questo atto ha già attirato diverse critiche, dal momento che la costituzione ciadiana prevede che siano il presidente dell’Assemblea nazionale o, in mancanza di questo, il vice presidente, a guidare il paese in caso di morte del capo dello stato.
Cabo Delgado, migliaia di sfollati
«Quando abbiamo visitato Pemba lo scorso dicembre abbiamo assistito alla tragedia di mezzo milione di sfollati. Le cose continuano a peggiorare». Così twittava a fine marzo@ monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, nel regno di eSwatini (ex Swaziland), riferendosi alla visita che aveva effettuato nella capitale della provincia di Cabo Delgado, Nord del Mozambico, insieme ad altri vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa meridionale agli inizi del 2021. Nel post sul suo blog in cui raccontava di quella visita, il vescovo riportava che «Pemba, con una popolazione di 200mila persone, ha accolto 150mila sfollati»@.
In una nota del 21 aprile 2021, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur, o Unhcr nell’acronimo inglese), aggiornava a 700mila il numero degli sfollati, ai quali si stavano aggiungendo in quei giorni altre 20mila persone costrette a lasciare la città costiera Palma, a trenta chilometri dal confine con la Tanzania, dopo che era stata colpita circa un mese prima da una serie di attacchi islamisti@.
I rapporti mensiliCrisis watch dell’Icg@ sono utili per ricostruire l’inizio e l’intensificazione dell’attività jihadista nell’area, che vede il suo esordio il 5 ottobre 2017 quando a Mocimboa da Praia, città portuale a circa 300 chilometri da Pemba, tre stazioni di polizia vennero attaccate da un gruppo che si chiama Ahlu sunna wal jammah (Aswj), noto anche come Al Shabaab, benché non abbia legami con l’omonimo somalo (Al Shabaab, peraltro, significa semplicemente «i giovani» o «la gioventù»).
Lo scorso marzo il Dipartimento di stato americano aveva classificato Aswj come uno dei rami dello Stato islamico in Africa centrale, insieme al gruppo Adf (Allied democratic forces), attivo fra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo@.
Il legame con l’Isis, tuttavia, non appare così forte e netto, dice il centro studi Acled (Armed conflict location & event data project@) creato da docenti dell’Università del Sussex, nel Regno Unito, e attivo nel raccogliere ed elaborare dati sugli eventi e i luoghi che riguardano i conflitti armati. Proprio la rivendicazione degli attacchi di Palma da parte dello Stato islamico, fatta utilizzando immagini false e rivendicazioni vaghe, farebbe pensare a un ruolo assai ridotto dell’Isis «centrale» nel determinare le strategie e le scelte operative di Al Shabaab, che rimane gestito da leader locali orientati a scopi altrettanto locali.
Venezuela, insufficienza di cibo
A oggi, sono 5,4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il paese, e chi è rimasto si trova a far fronte a grandi disagi per procurarsi i beni di prima necessità. Le principali difficoltà riguardano sempre l’elevata inflazione e la mancanza di carburante che limita i trasporti di persone e di merci.
Padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata attualmente a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, raccontava via whatsapp lo scorso aprile che gli indigeni warao «superano la mancanza di carburante viaggiando in curiara [canoa, ndr] (tre giorni all’andata e altrettanti al ritorno) per acquistare sapone e dentifricio nel porto di Barrancas. Chi viaggia raccoglie gli ordini anche da anziani e ammalati che non possono remare per sei giorni. Ogni famiglia viaggia almeno una volta al mese in questo modo. Adesso stanno cominciando a viaggiare anche a Mariusa, verso la costa Nord del Delta, per procurarsi farina, o zucchero, o vestiti, scambiando i prodotti con banane o con l’artigianato locale».
Lo scorso aprile il governo venezuelano guidato da Nicolás Maduro ha raggiunto un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam) per fornire cibo a 185mila bambini in età scolare@. Secondo le stime pubblicate nel 2020 dallo stesso Pam, un venezuelano su tre non ha accesso a quantità sufficienti di cibo per soddisfare i requisiti nutrizionali minimi. Il governo non ha pubblicato i dati sulla malnutrizione infantile negli ultimi quattro anni ma gli ultimi disponibili, del 2017, ne registravano un aumento pari al 30%.
Chiara Giovetti
Conflitti nel mondo
È praticamente impossibile ricordare tutte le situazioni di conflitto esistenti nel mondo. Ci limitiamo qui a riportare i paesi in conflitto secondo il Centro studi del Council on foreign relations (aprile 2021).
Guerre civili: Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Sud Sudan.
Violenza criminale: Messico.
Guerre o tensioni fra stati: India e Pakistan, USA e Iran, Corea del Nord.
Instabilità politica: Libano, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.
Violenza settaria: Myanmar, Repubblica Centrafricana, Nigeria.
Dispute territoriali: Russia/Ucraina, Turchia/ gruppi armati curdi, conflitto israelo-palestinese, conflitto in Nagorno-Karabakh, dispute territoriali della Cina con Filippine e Vietnam nel Mar Cinese meridionale, tensioni fra Cina e Giappone nel Mar Cinese Orientale.
Altre fonti, come il citato Crisis watch, affermano di seguire oltre 70 situazioni di conflitto in tutto il mondo, tra cui segnalano un peggioramento in: Mozambico, Niger, Senegal, Bangladesh, Bolivia, Paraguay, Indonesia, Giordania, Arabia saudita, Irlanda del Nord e altri paesi.
Chi.Gio.
Etiopia: La breve ferocia
testo di Enrico Casale |
Un conflitto velocissimo e, al tempo stesso, violentissimo. Questa è stata la guerra in Tigray scoppiata il 4 novembre 2020 e durata un mese (ma combattimenti continuano tuttora nelle montagne) con gravi conseguenze umanitarie.
È un conflitto dalle radici profonde, quello al quale abbiamo assistito nel novembre scorso in Etiopia, per questo, allo scopo di comprenderne le ragioni, bisogna ripercorrere la storia del paese degli ultimi decenni.
Dei cento milioni di abitanti dell’Etiopia, il 6-7 per cento abita nella regione settentrionale del Tigray, confinante con l’Eritrea. Essi appartengono all’etnia tigrina, la stessa che è in maggioranza in Eritrea.
Negli ultimi cinquant’anni, pur essendo minoranza, i Tigrini hanno sempre ricoperto un ruolo determinante nel paese.
Potere tigrino
Siamo negli anni Settanta. Dalle montagne del Tigray, aspre e altissime, parte la resistenza contro la sanguinosa dittatura di Menghistu Haile Mariam, l’uomo che nel 1974 ha rovesciato l’imperatore Haile Selassie, e con lui la millenaria dinastia salomonide.
Proprio su quelle montagne, i Tigrini creano le loro basi, e conducono una guerriglia durissima.
In questa lotta si serra un’alleanza storica tra eritrei, guidati da Isayas Afeworki, e Tigrini etiopi, guidati da Meles Zenawi.
Quando nel 1991 questi due attori riescono, in alleanza con altre forze regionali, ad abbattere il regime dell’odiato «negus rosso», conquistando il potere, l’Eritrea si avvia all’indipendenza, e Meles Zenawi diventa premier, sostenuto dal Tigray people’s liberation front (Tplf, Fronte popolare di liberazione del Tigray).
Meles rimane al potere fino alla morte nel 2012. Sono anni duri nei quali, nonostante venga introdotto nel paese un sistema federale, il potere è concentrato saldamente nelle mani dei Tigrini che lo gestiscono con fermezza, senza grande rispetto delle altre etnie, in particolare gli Amhara, che per secoli sono stati l’anima della classe dirigente etiope, e gli Oromo, che, sebbene rappresentino l’etnia maggioritaria, sono sempre stati esclusi dal potere politico ed economico.
La vendetta
Con la morte di Zenawi, per i Tigrini iniziano i problemi. Progressivamente sono messi ai margini, in un processo che subisce un’accelerazione nel 2018, dopo l’arrivo di Abiy Ahmed al potere.
Abiy, primo ministro etiope, è un oromo con una lunga carriera militare all’ombra dei Tigrini. Arrivato al governo, da un lato, apre spazi alle etnie oromo e amhara, dall’altro restringe l’influenza dei Tigrini.
La mossa che scatena lo scontro con il Tplf data il 21 novembre 2019, quando Abiy dà vita al nuovo Prosperity party (Partito della prosperità), tramite la fusione di tre dei quattro partiti che componevano il Fronte democratico rivoluzionario popolare etiope (Eprdf), e di altri cinque partiti affiliati. I partiti includono l’Oromo democratic party (Odp), il Southern ethiopian people’s democratic movement (Sepdm), l’Amhara democratic party (Adp), la Harari national league (Hnl), l’Ethiopian somali people’s democratic party (Espdp), l’Afar national democratic party (Andp), il Gambella people’s unity party (Gpup) e il Benishangul Gumuz people’s democratic party (Bgpdp).
Una mossa che non viene accolta bene dai leader del Tplf, i quali, infatti, ne rimangono fuori e si arroccano nel Tigray.
A settembre 2020, nonostante i divieti imposti dal premier Abiy, si svolgono le elezioni per il rinnovo delle istituzioni regionali nel Tigray, vinte, come facilmente previsto da tutti i media nazionali e internazionali, con ampio margine dal Tplf.
Il parlamento di Addis Abeba taglia i rapporti con l’esecutivo del Tigray, dichiarandolo illegittimo, e annuncia che da questo momento in avanti avrà a che fare solo con le strutture amministrative locali (comuni, amministrazioni distrettuali, ecc.) per mantenere «i servizi di base» a favore della popolazione.
La goccia che fa traboccare il vaso è l’occupazione di una base militare dell’esercito federale da parte delle milizie del Tplf. È guerra.
Conflitto breve e feroce
Come tutti i conflitti civili, anche quello in Tigray è durissimo, non solo per i combattenti, ma anche per la popolazione civile.
«La situazione era già drammatica prima della guerra – spiega Fessaha Alganesh, dottoressa italoeritrea, da anni attiva nell’aiuto agli eritrei ospitati nei campi profughi del Tigray -, con l’invasione delle locuste, i campi distrutti, la carenza di cibo, l’epidemia di Covid-19. A queste piaghe bibliche, si sono aggiunti i combattimenti sul terreno e i bombardamenti dal cielo».
Presto si diffondono notizie di stragi. A Mai Kadra, il 9 novembre, sembra che siano uccise decine di persone di etnia amhara. Nella città di Axum, che gli ortodossi etiopi considerano santa perché lì sarebbe conservata l’Arca dell’Alleanza, è segnalata una strage di centinaia di Tigrini che avrebbero impedito l’accesso ai luoghi santi da parte delle milizie. Diverse sono poi le segnalazioni di incidenti, inclusi attacchi di artiglieria su aree popolate, attacchi deliberati ai civili, esecuzioni extragiudiziali e saccheggi diffusi.
Non si conosce l’esatto numero dei morti in combattimento. Si sa però che 950mila civili sono costretti ad abbandonare le proprie case e i propri villaggi.
Migliaia di Tigrini fuggono in Sudan per cercare rifugio dalle bombe e dalle violenze. «Ho parlato con una donna che è riuscita ad arrivare in un campo profughi sudanese – continua Alganesh -. Mi ha detto che quando sono iniziati i bombardamenti intorno al suo villaggio, presa dalla paura, si è caricata il figlio più piccolo in spalla e ha preso per mano quello più grande. Ha percorso, senza nulla da mangiare, decine di chilometri per cercare un rifugio sicuro. È drammatico quanto sta succedendo. I civili fanno fatica a capire che senso abbia questa guerra».
Questa situazione impedisce l’accesso degli operatori umanitari, cosa che rende impossibile verificare sul campo tutte le denunce di violazioni dei diritti umani.
«Se i civili sono stati deliberatamente uccisi da una o più parti in conflitto, queste uccisioni costituiscono crimini di guerra. Ci sarà bisogno di indagini indipendenti, imparziali, approfondite e trasparenti per stabilire la responsabilità e garantire la giustizia», dichiara la responsabile delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, che descrive gli incidenti «strazianti» e «spaventosi».
In un mese, l’esercito federale di Addis Abeba, coadiuvato dalle milizie amhara, invade tutta la regione.
Analisti militari accusano l’Eritrea di essere scesa in campo. Il governo di Asmara, che nel 2018 ha siglato un accordo di pace con Addis Abeba, avrebbe accettato volentieri di sostenere l’esercito etiope per vendicarsi di quella dirigenza tigrina che per una ventina di anni gli si era contrapposta.
A puntare il dito contro l’Eritrea sono soprattutto gli Stati Uniti. Grazie a immagini satellitari, comunicazioni intercettate e numerosi report, gli Usa avrebbero raccolto le prove del coinvolgimento dei soldati di Isaias Afewerki. Tra i loro reparti ci sarebbero anche numerosi somali che Mogadiscio aveva inviato ad addestrarsi nei campi militari eritrei e che si sarebbero trovati a combattere contro i Tigrini.
In Somalia il caso è sollevato in parlamento, ma il governo del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmaajo non offre risposte convincenti e, al momento, si sa solo che alcuni militari di Mogadiscio sono morti (anche se le autorità affermano che sono morti durante l’addestramento).
Quella che sembra una vittoria semplice, però, potrebbe trasformarsi in una sorta di Vietnam per gli etiopi. Le forze del Tigray hanno ripiegato sulle montagne. Si sono rifugiate in una regione che conoscono bene, dove per anni hanno combattuto contro il regime di Menghistu e dove, si dice, abbiano sempre tenuto in efficienza, e ben forniti di armi, alcuni rifugi.
Il Tigray oggi
«A Macallè la situazione sembra tranquilla, apparentemente pacifica. Non si vedono poliziotti per strada. Ci sono solo alcuni agenti della polizia federale nella stazione principale e nelle vie principali. Le strade sono pattugliate da soldati armati che si muovono su veicoli equipaggiati con mitragliatrici. Ci sono alcuni posti di blocco in punti strategici della città, come i valichi. L’elettricità arriva nelle case, i telefoni funzionano, ma non ci sono collegamenti Internet. Il cibo è disponibile, il sistema bancario funziona, i prezzi sembrano normali». Sono queste le impressioni di un testimone, rientrato da poco dal Tigray e che vuole mantenere l’anonimato. Le sue parole trasmettono un’immagine tranquilla della capitale del Tigray, ma la realtà pare più complessa. «Le persone – continua la nostra fonte – sono caute, alcune non vogliono uscire di casa, non vogliono essere chiamate, altre sono traumatizzate. Le donne hanno paura a uscire perché temono di essere violentate. Tutti raccontano storie orribili dei giorni in cui, a novembre, la capitale del Tigray è stata al centro dei combattimenti».
La nostra fonte conferma che gli scontri sul campo non sono terminati, e che i miliziani del Tplf stanno continuando a combattere sulle montagne. «Abbiamo udito spari di artiglieria pesante – ricorda -. Apparentemente erano lontani, ma erano talmente forti che li abbiamo sentiti all’interno della nostra abitazione con porte e finestre chiuse. La salva è durata per circa 10-15 minuti poi è finita all’improvviso com’era iniziata».
Da più parti si segnala la presenza di soldati eritrei, somali, emiratini, miliziani amhara. La nostra fonte non ha visto di persona i militari di Asmara, né quelli somali o emiratini, ma ha raccolto testimonianze sulla loro presenza. «Da quanto mi hanno raccontato – osserva la nostra fonte -, gli eritrei avrebbero annesso una striscia di confine settentrionale a Nord di Adigrat. Gli eritrei sono temuti per la crudeltà e i saccheggi. Mi hanno raccontato che spesso ucciderebbero civili innocenti vendicandosi per le perdite subite durante i combattimenti».
La nostra fonte ha raccolto testimonianze anche sui miliziani di etnia amhara, sui somali e sugli emiratini. «Secondo quanto mi hanno detto le persone del posto – continua -, anche i miliziani amhara saccheggerebbero il territorio. Per quanto riguarda i somali, sono stati visti da testimoni oculari nelle loro uniformi vicino a Macallè. Farebbero parte di quei reparti che erano stati inviati in Eritrea per addestrarsi e si dice siano stati impiegati per combattere nel Tigray. Gli Emirati arabi uniti invece avrebbero schierato propri droni facendoli decollare dalla loro base in Eritrea, anche se la loro presenza è stata denunciata solo dai media vicini al Tplf».
Quale futuro?
Quello in Tigray è stato un conflitto locale che avrà profonde ricadute a livello nazionale.
La sconfitta del Tplf ha (al momento) messo la sordina a un forte movimento di fronda che minacciava direttamente il potere di Abiy Ahmed. In questo senso, la sconfitta invia un messaggio ad altre importanti forze etnonazionaliste, come l’Oromo liberation front, e quelle che hanno destabilizzato la tormentata regione di Benishangul-Gumuz.
L’allontanamento del Tplf dalla politica nazionale può inoltre essere visto, come è scritto in uno studio elaborato per Ispi da Aleksi Ylönen, del Center for international studies di Lisbona, come una mossa «per promuovere l’unità e l’armonia etnica», portando «a una ripresa della popolarità e alla fiducia in un progetto nazionale comune».
Rimuovere il Tplf da un ruolo preminente nella politica e nell’economia nazionali e garantire che non riprenderà il potere nel processo di liberalizzazione economica, è scritto nell’analisi di Ylönen, «sembra essere stato cruciale nei calcoli dell’amministrazione Abiy», perché favorirebbe «una graduale apertura dell’economia» rispetto alla visione localista dei Tigrini.
Il premier dovrà però ora pagare un prezzo elevato per il sostegno ricevuto da Asmara e dalle milizie amhara. Molto probabilmente alle truppe eritree sarà concesso il permesso di occupare quelle aree nel Tigray assegnate all’Eritrea nella decisione della Commissione per i confini Eritrea-Etiopia del 2002 (al termine della guerra del 1998-2000). A loro volta le milizie amhara potranno riprendere il controllo delle terre che erano state ritenute rubate durante il governo del Tplf.
Enrico Casale
Hawassa: Un lago di plastica
Testo di Paola Strocchio – foto di Alessandro Lercara |
Un’esperienza positiva di lotta per la tutela dell’ambiente
È un lago tra i più belli dell’Africa, ma si sta riempiendo di bottiglie usate. Gli ippopotami le schivano e i pesci ne mangiano i frammenti. Poi gli uomini si nutrono di quei pesci. Ma una Ong italiana ha pensato a un sistema per salvare questo angolo di mondo, creando pure lavoro.
I numeri parlano chiaro: ogni anno, otto milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani. Di questi otto, quasi quattro e mezzo vanno a finire nel mare che circonda l’Africa. E la situazione non è certo più rosea sulla terraferma, al punto che il continente africano sta soffocando nella plastica. Una sorta di paradosso, ma solo in apparenza: perché la plastica, simbolo per antonomasia del consumismo dei paesi più ricchi, rischia di affossare paesi che invece si ritrovano tuttora a fare i conti con situazioni economiche instabili e difficili.
Come l’Etiopia, per esempio. Nel paese con la maggior crescita economica del mondo, in passato non è mai stata presa nemmeno in considerazione l’idea di attuare un piano per la gestione dei rifiuti, in particolare della plastica. Una situazione complessa, resa ancora più delicata da una crescita demografica importante e da un tanto recente quanto incontrollato sviluppo economico.
I numeri raccontano di una crescita vertiginosa dell’impiego del Pet, il polietilene tereftalato (utilizzato per le bottiglie di plastica, ndr): dal 2001 al 2010 si è registrato un aumento di bottiglie in plastica da un milione e duecentomila a qualcosa come 21 milioni. E le previsioni sono ancora più catastrofiche: dicono che si potrebbe arrivare, già alla fine del prossimo anno, a centinaia di milioni di bottigliette in distribuzione.
La soluzione? Il riciclo pare essere l’unica strada percorribile, anche se le difficoltà non mancano.
Ci prova una Ong torinese che da quasi quarant’anni è impegnata a trecentosessanta gradi nella difesa dei diritti dei bambini, il Cifa, che proprio in Etiopia sta portando avanti un progetto cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) e, tra gli altri, dalla fondazione Otb (Only the brave, solo i coraggiosi). Nome omen, insomma, perché il progetto, che si chiama «100percentoplastica», ha obiettivi tanto ambiziosi quanto importanti: ripulire l’ambiente partendo proprio dalla plastica, una delle maggiori fonti di inquinamento a livello mondiale e anche locale.
Bottiglie nel lago
Nel Sud dell’Etiopia, nella zona di Hawassa (anche Auasa, ndr), città turistica famosa anche per il suo lago, fino a qualche tempo fa si assisteva a un fenomeno allarmante. In particolare durante la stagione delle piogge, dalle botole dei canali sotterranei presenti in città (immaginate tombini grandi il doppio di quelli che siamo abituati a vedere in Italia, ma privi di qualunque tipo di copertura), si alzavano vere e proprie montagne di bottiglie di plastica che venivano spinte dall’acqua diretta verso il lago. La penuria di acqua potabile, del resto, unita alla credenza difficile da estirpare secondo cui bere l’acqua potabile del rubinetto, può causare carie ai denti e altre malattie, ha spinto le persone a comprare acqua in bottiglie. Di plastica, appunto. E poco importa, a chi vive ad Hawassa e nei suoi dintorni, che negli ultimi anni sia stata cambiata la fonte dell’acquedotto e che quindi quell’acqua non sia più una minaccia reale, perché quella paura, quella che i denti possano diventare neri, è radicata più che mai.
«Non mi fido – ci racconta un uomo di circa cinquant’anni, Joseph, che su richiesta organizza tour turistici per chi vuole visitare l’Etiopia -. Mi hanno detto che hanno cambiato l’acqua, ma io non voglio perdere i miei denti. Mio padre, quando è morto, ne aveva soltanto quattro in bocca. Io morirò con i denti, perché bevo solo l’acqua delle bottigliette». Già, le bottigliette. Quelle stesse che, mancando un sistema di raccolta e riciclo, peggiorano un quadro già di per sé molto critico.
Intanto la natura chiede disperatamente aiuto: gli ippopotami si ritrovano loro malgrado a nuotare nel lago di Hawassa, uno degli angoli più suggestivi della zona, schivando bottiglie di plastica, giorno e notte. Immagini dolorose cui gli abitanti si sono abituati. I pesci, quegli stessi che vengono poi serviti nei ristoranti lungo il lago, si cibano anche di frammenti di plastica. E quella microplastica, dopo essere finita nell’apparato digerente dei pesci, è destinata al nostro, di stomaco. «Secondo me sono buoni lo stesso – continua Joseph -, nessuno è mai stato male a mangiare i pesci del lago».
Un progetto per salvare l’ambiente
Se è vero che le credenze e le tradizioni sono difficili da estirpare, è altrettanto vero che è urgente intervenire con un piano strutturato, per provare a contenere il problema. La strada intrapresa è quella di creare nuove figure professionali, che vengono chiamate «collector». È a loro che viene affidato il compito di raccogliere le bottiglie di plastica allo scopo di dare origine a un circolo virtuoso di riciclo e recupero.
Quelle bottiglie che sarebbero finite ammucchiate al ciglio della strada o nei fiumi e nel lago, finiscono invece in un impianto fuori città (centro di raccolta, ndr), dove vengono prima schiacciate e poi imballate. Calcolatrice alla mano, ogni bottiglia pesa indicativamente trenta grammi e in un giorno mediamente una tonnellata di bottiglie viene indirizzata in un altro centro che si trova nella capitale Addis Abeba. Si tratta di oltre 33mila pezzi. Arrivate in capitale, vengono poi trasformate in farina di pet, per rientrare nel ciclo industriale della plastica e produrre nuovi oggetti.
Insomma, un circolo virtuoso che è davvero in grado di cambiare la vita di tante persone, con ricadute positive anche sull’ambiente. E per chi ne è coinvolto il passo dall’arrancare in mezzo a una discarica comunale alla ricerca di qualcosa di vendibile o in qualche modo riciclabile, all’arrivare alla professione di raccoglitore ufficiale è relativamente breve.
«Ho capito che la plastica è pericolosa – racconta Barakat -. L’ho capito perché mi hanno spiegato che ha un tempo di deterioramento molto lungo, che rischia di creare problemi a tutti noi e anche all’ambiente. Ora, quando devo comprare un oggetto, mi fermo a pensare a quanto tempo lo dovrò usare. Se posso, cerco di fare una scelta consapevole. Soprattutto adesso che anche io faccio la collector e che la plastica la vedo da vicino. Vivo con mia madre e con le mie sorelle in un villaggio vicino ad Hawassa, e anche a loro sto spiegando che se non facciamo qualcosa rischiamo di affogare nella plastica. Grazie a questo lavoro riesco a guadagnare i soldi che mi servono per comprare i libri. Ho diciotto anni, e voglio tornare a studiare a scuola». Come Barakat, altre dieci donne sono state inserite nel progetto di riciclo e sono riuscite a conquistare una fetta di dignità: alcune di loro riescono addirittura a integrare il loro lavoro coltivando un piccolo orto e vendendone i prodotti. Altre allevano animali da cui riescono a ricavare cibo e latte, preziosi anche da rivendere.
I supereroi del riciclo
Oltre a operare sul campo, formando i collector, il progetto del Cifa, tramite i suoi operatori, sensibilizza gli studenti delle scuole, dove il terreno è più fertile. «Entriamo anche nelle scuole portando uno spettacolo teatrale che abbiamo studiato per sensibilizzare al rispetto dell’ambiente e all’importanza del riciclo – spiega Silvia Vanzetto, capoprogetto per il Cifa in Etiopia -. Anche le istituzioni hanno compreso l’importanza e l’utilità del progetto e lo hanno accolto con grande favore. Ci sostengono, e per noi è davvero molto importante».
All’interno del progetto le donne sono fondamentali. Proprio loro, spesso considerate a torto l’anello più debole della società, in particolare in Africa, hanno visto cambiare radicalmente la loro vita. C’è chi è riuscita a conquistarsi una fetta di autonomia, addirittura con la possibilità di pagare le spese scolastiche per i propri figli. E soprattutto c’è chi davvero sta comprendendo che ciascuno di noi, anche in minima parte, può dire la sua nella lotta all’inquinamento ambientale. Come Seren, che di mestiere fa la parrucchiera. «Consegno sempre la plastica ai collectors – ci spiega, orgogliosa -, e ho cambiato anche il mio stile di vita. Oltre a fare le treccioline alle donne del villaggio, da un po’ di tempo preparo anche la birra in casa. Riutilizzo le bottiglie il maggior numero possibile di volte, per non inquinare troppo. Quando non sono più adatte a contenere la birra, le consegno ai raccoglitori in modo che siano smaltite, e così riesco a dare una nuova vita alla plastica ancora prima di riciclarla».
E poi ci sono i «supereroi», quelli che raccolgono la plastica dalle strade e rendono l’Etiopia meno esposta al rischio soffocamento da plastica. Un ruolo fondamentale, il loro, che è diventato famoso anche grazie ai numerosi flash-mob che i ragazzi organizzano anche per strada. Le persone, incuriosite, si fermano, guardano e ascoltano. E spesso comprendono l’importanza del rispetto per l’ambiente, che è un patrimonio davvero universale e che merita tutte le tutele possibili.
Lo spettacolo di cui ci ha parlato Silvia racconta le minacce della plastica, anche impiegando maschere spaventose che volutamente incutono timore, ed è una rappresentazione di tutte le fasi del progetto. L’obiettivo è quello di raccontare la filiera e di invitare i ragazzi alla responsabilità dipingendo il collector come un supereroe che salva il paese dalla plastica. Gli spettatori sono soprattutto studenti e ragazzi, proprio come quelli che si trovano sul palco. Hanno tutti più o meno la stessa età, provengono da situazioni simili e riescono quindi a immedesimarsi e riconoscersi ancora di più nella rappresentazione. Ma il messaggio arriva anche agli adulti, come Seleme, il capitano della piccola flotta di battelli che navigano il lago di Hawassa, tra i più importanti della Rift Valley. «Dopo aver visto il flash-mob anti inquinamento degli studenti, sono rimasto molto colpito. Ora ho qualcosa a cui pensare stanotte». Non solo lui. Perché senza fare qualcosa di concreto la cultura del riciclo e della circolarità resterà un obiettivo mai raggiunto.
Paola Strocchio
Sulle vie d’Etiopia con le scarpe da corsa
Testo di Luca Lorusso, foto di Domenico Brusa (AfMC)
Trentanove anni di missione tra Kenya ed Etiopia, raccontati con semplicità e gratitudine. Tante persone incontrate e amate tra le loro povere abitazioni. Tanti ragazzi istruiti nelle scuole della Consolata. Tanti amici musulmani, ortodossi e protestanti. Tanti chilometri fatti di corsa per tenersi in forma e contemplare le meraviglie del creato.
«Ad Addis Abeba, in Etiopia, sono stato 13 anni, dal 1997 al 2010. Mi è piaciuto quel periodo perché vicino a noi c’erano i rifugiati dall’Eritrea. Inizialmente vivevano sotto le tende dell’Unhcr. Dato che sono dovuti rimanere lì diversi anni, alla fine si sono fatti la capanna.
Ho conosciuto diversi bambini di quel campo perché la nostra casa era proprio lì attaccata. Parlavano tigrino. Alcuni bimbi venivano nel nostro campo sportivo a giocare. Qualcuno era cattolico e frequentava la chiesa. La maggioranza era ortodossa. C’era qualche musulmano. Alla fine entravo nel campo senza problemi.
Gli ultimi anni, con alcuni ragazzini di 12-13 anni abbiamo fatto un gruppo per la corsa: venivano a chiamarmi e andavamo a correre. Facevamo tre o quattro chilometri. Era interessante, perché c’era la gente che batteva le mani, ci dava i nomi dei campioni etiopici».
Nato nel 1940 in Valle d’Aosta, fratel Vincenzo Clerici si è laureato in Fisica a Torino e ha insegnato all’Istituto tecnico commerciale di Chieri fino al 1970. Poi la missione l’ha chiamato, e lui ha risposto.
Fratel Vincenzo, come sei arrivato in missione?
«Quando ero giovane, negli anni ‘60, Giovanni XXIII e Paolo VI parlavano dei giovani che lasciavano la loro patria con spirito missionario. Io mi sentivo uno di loro. Desideravo fare il missionario anche se non come religioso. Quando mi è venuta l’idea delle missioni sono andato all’ufficio della diocesi, e lì mi hanno detto: “Chiedi ai missionari della Consolata”. Così nel 1970 sono andato in Kenya grazie a padre Giovanni De Marchi. Dice: “Tu sei insegnante e in Kenya c’è il boom delle scuole. Puoi lavorare come insegnante e vivere in missione”. Così sono andato a Mugoiri, vicino a Marang’a, dove c’erano alcuni padri anziani che anni prima erano stati internati nei campi di concentramento in Sudafrica.
Ho fatto le cosiddette scuole Harambee (termine che in Kenya significa “insieme”; si usa quando è necessario uno sforzo comune per realizzare un obiettivo, ndr). Ho fatto prima un contratto di due anni e poi un altro di tre anni».
Come hai maturato la decisione di diventare fratello?
«Finiti quei cinque anni, ho fatto l’aggregazione all’istituto: ero laico, ma membro dei missionari della Consolata. A quel punto sono andato a insegnare matematica e fisica a Sagana dove c’era una scuola tecnica molto ben attrezzata. Lì ho incontrato i fratelli della Consolata. Erano cinque. Mi sono trovato bene con loro, ed è stato lì che mi è venuta la vocazione. “Perché non essere anche io fratello? Facciamo lo stesso lavoro, stessa vita, stesso orario”.
Il postulato l’ho fatto a Sagana mentre insegnavo. Per il noviziato sono tornato in Italia, un anno alla Certosa di Pesio con padre Peyron alla fine degli anni ‘70, e poi un anno a Bedizzole. Dopo questi due anni sono tornato a Sagana per un altro anno».
Nel 1981, hai ricevuto la nuova destinazione in Etiopia.
«L’Etiopia è un paese molto diverso dal Kenya, la vita è più semplice. Anche lì insegnavo in una scuola tecnica a Meki, e poi provvedevo i materiali per la falegnameria. Caricavo fino a 7 quintali di legna sul camioncino. Facevo 100 km con le ruote davanti che rimanevano quasi sollevate».
Poi sei tornato in Kenya per un altro breve periodo.
«Quando abbiamo ceduto Meki alla diocesi, alla fine del 1988 sono tornato in Kenya per tre anni. C’erano alcuni fratelli kenioti a Langata che si specializzavano in qualche mestiere».
E quando sei tornato in Etiopia, dove sei stato?
«Nel 1992 sono stato ad Addis Abeba e poi ad Asella, nella casa “etsanat masaderia”, la casa dei bambini: c’erano orfani e alcuni handicappati. Era un bel gruppo.
Dopo Asella sono stato a Gambo per tre anni, fino al 1997. Anche lì facevo commissioni varie e mi interessavo un po’ della scuola, anche se non insegnavo più.
Gambo è vicino alla foresta, è un posto isolato. Per cercare libri per la scuola facevo quasi 40 km. Dopo Gambo, sono stato ad Addis Abeba per 13 anni, al nostro seminario di filosofia e nella procura della casa regionale».
È il periodo in cui correvi con i ragazzi del campo dei rifugiati?
«Sì, mi è piaciuto quel periodo».
E dopo Addis Abeba, sei arrivato a Modjo.
«Sì, nel 2010. Modjo è una cittadina di 50mila abitanti dove si respira aria di campagna. Nella strada davanti alla missione vediamo passare quasi solo calessi tirati da cavalli. Sono un po’ sgangherati, ma quelli sono i taxi.
Le case sono ancora tradizionali: casette a un solo piano con un pezzetto di terreno davanti.
Vicino a Modjo c’è la “città dei container” che arrivano da Gibuti. C’è la dogana, quindi ci sono centinaia di container fermi. Di lì passa l’autostrada che va da Addis a Nazareth (Adama in Oromo). Una grossa città a 20 km da noi».
Com’è la comunità di Modjo?
«I cattolici sono pochi: alcune famiglie. Poi ci sono ragazzini adolescenti ortodossi che ci frequentano. La chiesa è una bella struttura costruita da padre Zordan. Il cardinale ha voluto che diventasse anche un santuario dedicato alla Consolata.
Quando sono arrivato a Modjo c’era ancora il seminario minore. L’ultimo anno di secondaria. Lì facevo un po’ di ripetizioni la sera. Adesso il seminario è stato riaperto dopo un periodo di chiusura. Io faccio l’economo della missione. Dopo una vita, non lavoro più con le scuole».
Com’è l’economia della città?
«Fuori dalla città ci sono cinque fabbriche di pellami, di solito gestite da indiani o pachistani. Ci lavorano molti giovani. Altra attività molto diffusa è il commercio: il mercato, i negozietti. Altro impiego è quello della dogana. Poi a Modjo ci sono almeno cinque banche e molti distributori di diesel e benzina perché la città è un luogo di passaggio, sia da Gibuti che dal Sud le strade s’incrociano a Modjo per arrivare ad Addis Abeba.
Fuori dalla città ci sono villaggi tipici tradizionali nei quali le persone lavorano la terra. Diversi giovani di Modjo lavorano ad Addis Abeba o a Nazareth e tornano nei week end».
Come si presenta il territorio?
«Modjo è in una zona semiarida. La città è piatta, si trova nella Rift Valley. Attorno ci sono colline sulle quali viene coltivato grano e teff, un cereale locale.
Noi lavoriamo con la gente della città. Ma abbiamo tre cappelle fuori. Una a 4 km in zona rurale, una in una piccola cittadina a 15 km e la terza è a 11 km sulle colline. In quest’ultima operano tre famiglie. In due di queste cappelle c’erano due asili informali. Uno gestito da una suora, l’altro da una maestra. Ma il governo centrale ha chiesto di renderli degli asili formali, di tre anni, con il personale. Quindi l’attività è stata ridotta a semplice accoglienza il sabato e la domenica».
In Etiopia, su 108 milioni di abitanti, i cattolici sono pochi: intorno agli 800mila. Quasi tutti gli altri sono musulmani (37 milioni), ortodossi (47 milioni) o protestanti (20 milioni).
«Penso che nella nostra parrocchia siano elencate un centinaio di persone sul registro dei battesimi. Ci sono una ventina di adolescenti. Poi qualche famiglia con i bambini piccoli. La domenica ci sono una cinquantina di persone a messa. Le celebrazioni qui sono fatte con il rito orientale, perché Modjo è sotto la diocesi di Addis Abeba, mentre pochi chilometri più in là, a Meki, c’è il rito latino».
Come sono le relazioni con i musulmani?
«Le persone non hanno nessun problema. La convivenza è buona. I musulmani sono gentili: c’è un negoziante in città che mi fa sempre lo sconto. Vicino alla missione vive una famiglia della quale sono molto amico. La mamma è originaria di Gambo, ha tre bambini ed è moglie di un musulmano. Qualcuno della sua famiglia è cristiano. Qualche volta vado a prendere il caffè da loro. Quello tradizionale ci vuole un’ora per prepararlo: prendono i grani, li lavano, li abbrustoliscono, poi li pestano nel mortaio e intanto fanno bollire l’acqua. Due o tre amiche della signora, che incontro quando vado da lei, hanno tutte la croce appesa al collo. Sono ortodosse e non hanno problemi a indossarla. Stanno assieme, chiacchierano, si aiutano».
Che lingua si parla a Modjo?
«In Etiopia si parlano ottanta lingue. In città da noi sanno tutti l’amarico, però molti sono Oromo. In campagna la maggioranza sono Oromo. Gli Amara sono ortodossi. Gli Oromo dell’Ovest, invece, sono per lo più protestanti. Mentre gli Oromo dell’Est sono per la gran parte musulmani.
C’è un problema politico che riguarda gli Oromo, ci sono quelli che vogliono l’indipendenza da Addis Abeba, quelli che vedono male il programma di sviluppo del governo che fa molti contratti con la Cina».
Si sente il problema dell’emigrazione in Etiopia?
«In Etiopia i giovani hanno come obiettivo di andare all’estero, negli Usa specialmente, anche perché durante il marxismo gli Usa facilitavano gli esuli. Oggi molti hanno parenti negli Usa o in Canada.
Altri emigrano nella penisola arabica e in Libano. In particolare ragazze che vanno a fare le collaboratrici domestiche.
C’è un’organizzazione che procura l’alloggio e paga il viaggio. Le donne restituiscono l’anticipo ricevuto con i primi stipendi presi nel paese. Conosco una ragazza, mamma di due bambini, che è di Gambo e ora sta a Beirut. Lavora in una famiglia cristiana. I bambini e il marito sono a Gambo, e lei manda aiuti».
Qual è l’aspetto che ti piace di più del popolo Etiope?
«A Modjo ero andato a una festa patronale di una chiesa ortodossa in una zona di campagna. La chiesa è bella, su una collina. Cento metri più in basso ci sono grotte scavate nel tufo dove vivono dei monaci. A quella festa vanno migliaia di persone.
Quando sono arrivato a sei chilometri di distanza, ho iniziato a vedere la strada piena di auto parcheggiate. Allora ho lasciato lì l’auto e ho fatto un’ora e mezza di strada a piedi. C’era con me un ragazzino, sua cugina di nome Marta e un’altra ragazzina, Ghennet. Avevano 12 anni. Quando siamo arrivati alle grotte dei monaci, lì c’erano dei ragazzi che raccoglievano la sabbia perché consideravano quella come terra benedetta.
Al ritorno, i ragazzi erano stanchi e io non ricordavo neppure bene dove fosse l’auto. A un certo punto il ragazzo è andato avanti a cercare acqua perché sentiva sete. Dopo un altro po’, a causa della folla, ho perso di vista Marta. Siamo rimasti solo io e Ghennet. Quando siamo arrivati alla macchina, Marta non c’era. Ero in ansia per lei. Dopo un po’, una coppia si è avvicinata e mi ha detto: “La ragazzina sta arrivando”. Io non li conoscevo. Non erano neppure di Modjo. Però mi hanno visto lì ad aspettare e hanno capito.
Ecco. Gli etiopici sono così, sono gentili. È gente aperta».
C’è un brano biblico che ti accompagna in modo particolare nella tua missione?
«Mi piacciono i Salmi. In particolare il 63:
“O Dio, tu sei il mio Dio, / all’aurora ti cerco, / di te ha sete l’anima mia, / a te anela la mia carne, / come terra deserta, / arida, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho cercato, / per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita, / le mie labbra diranno la tua lode.
Così ti benedirò finché io viva, / nel tuo nome alzerò le mie mani”».
Luca Lorusso
Una visita ai monaci ortodossi
«Le chiese ortodosse si trovano spesso su cocuzzoli di montagna, con piccoli villaggi nelle vicinanze. La chiesa di Tekle Haymanot, 60 km a Nord Est della capitale, si trova su un piccolo ripiano a metà di una valle molto scoscesa, nel distretto di Bereh. Il posto è legato alla storia della Chiesa etiopica perché il santo Tekle Haymanot (nome che significa Pianta della fede) è stato riformatore del monachesimo nel XIII secolo e fondatore del monastero Debre Libanos.
Attorno alla chiesa si estendono campi sassosi dove si coltiva il grano. Ci sono un piccolo villaggio, una sorgente di acqua cui si attribuiscono proprietà curative, e un gruppo di capanne abitate dagli studenti della chiesa (quelli che noi chiameremmo “seminaristi”), qui soprannominati kollò tamari, da tamari, studente, e kollò, grano abbrustolito, perché hanno la tradizione di elemosinare nelle case il cereale.
A pochi minuti dal villaggio sulla ripida costa della montagna, vivono, in alcune grotte, dei monaci eremiti. C’è anche una piccola chiesa rupestre, scavata a mano nel tufo della montagna e dedicata a San Michele.
Facemmo una visita a quella chiesa il giorno della festa di Tekle Haymanot. Vedemmo un giovane monaco di pochissime parole. Non rispose subito alla nostra richiesta di visitare le grotte, ma fece capire che era possibile. Prima di tutto bisognava togliersi le scarpe, come usano i fedeli nei luoghi sacri. Poi, con mia sorpresa, il monaco ci condusse ai piedi della ripida scarpata che avevamo appena salito, e ci portò all’imbocco di una grotta scavata a mano. Feci presente che non avevamo niente per illuminare il tunnel, ma rispose che non era necessario. Ci fece prendere per mano come a formare una catena e iniziò a salire nel buio più completo.
Il cunicolo aveva a tratti delle impennate brusche, dove avevi l’impressione di cadere nel vuoto. Dopo un tempo che parve molto più lungo del reale arrivammo ad alcuni scalini scavati nella roccia. Qui il monaco ci fece fermare e andò ad aprire una porta. Finalmente vedemmo di nuovo la luce del giorno e ci accorgemmo di essere arrivati a pochi metri dalla chiesa di San Michele.
In seguito un altro monaco mi spiegò che il cunicolo rappresenta l’inferno (Sheol). Quando esci e ti trovi nella luce, sei come alla porta del Paradiso».
Corno d’Africa:
Cosa cambia sotto il sole eritreo
Con la firma del 16 settembre a Gedda, l’Eritrea sembra aver perso il suo
maggior nemico: l’Etiopia. Sono passati due anni di guerra e 18 di guerra
fredda. Il piccolo paese che si affaccia sul Mar Rosso si è sigillato nei suoi
confini diventando la peggiore dittatura d’Africa. Cosa cambierà per i suoi
abitanti? Ci saranno aperture? Intanto sembra si sia innescato un effetto
domino che potrebbe portare a un cammino verso la pace in tutta l’area.
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna
che tutto cambi». Sostituite il principe Tancredi a Isaias Afewerki, Salina ad
Asmara e il gioco è fatto. Nulla meglio del celebre romanzo «Il gattopardo» di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa riesce a spiegare l’attuale situazione
dell’Eritrea. La pace con l’Etiopia sembra aver portato un grande cambiamento
nel piccolo paese affacciato sul Mar Rosso ma, al momento, poco è davvero
mutato rispetto al passato. Il regime è ancora lì, intatto. La sua presa sulla
politica e sulla società è ancora fortissima. La Costituzione non è stata
emanata. Non esiste un sistema giudiziario indipendente. I più elementari
diritti umani e civili non sono tutelati. Le forze armate non sono state
smobilitate. Pochi detenuti politici sono stati liberati. Certo, l’intesa con
Addis Abeba ha portato a un miglioramento delle condizioni di vita, perché nel
paese sono arrivate più merci.
Economia in ripresa
La proposta
di pace avanzata il 6 giugno dal premier etiope Abiy Ahmed al presidente
eritreo Isaias Afewerki ha spiazzato l’Eritrea. Negli ultimi vent’anni lo stato
di non belligeranza con Addis Abeba, seguito al conflitto del 1998-2000 tra i
due Paesi, era servito al regime di Asmara per giustificare il suo potere.
Invocando la «minaccia etiope», Afewerki ha imposto un regime di rigida
autarchia economica accompagnata da una forte stretta politica.
Con la pace
firmata il 9 luglio e poi ratificata il 16 settembre a Gedda (Arabia Saudita),
l’Eritrea ha perso il suo principale nemico e, con esso, ogni pretesto per non
introdurre garanzie democratiche. In realtà, nel paese poco è cambiato. Le
piccole trasformazioni sono avvenute soprattutto in campo economico. «Con
l’apertura delle frontiere con l’Etiopia, prevista dagli accordi di pace –
osserva Erminia Dell’Oro, scrittrice italo-eritrea -, i prezzi dei generi
alimentari e di prima necessità sono fortemente calati. Il teff, cereale base
della cucina eritrea ed etiope, fino a pochi mesi fa costava moltissimo e la
gente soffriva la fame, perché doveva pagare cifre elevate. Oggi il costo è
calato, nei mercati ce n’è maggiore disponibilità grazie alle importazioni
dall’Etiopia. Da anni, la mia famiglia voleva rifare la facciata della casa, ma
aveva soprasseduto perché il cemento e gli intonaci costavano troppo. Adesso i
prezzi sono calati e stiamo progettando di mettere in campo i lavori».
La povertà
però è diffusa. «Servirebbero politiche che favoriscano la
reindustrializzazione del paese – spiega una giovane asmarina che vuole
mantenere l’anonimato -. Il paese deve recuperare la sua vocazione commerciale.
Pensiamo solo all’importanza dei nostri porti, in particolare Massaua e Assab.
Se ben sfruttati possono diventare lo sbocco al mare per tutto il Corno
d’Africa. L’Eritrea deve però investire per ricostruire quel tessuto
industriale e artigianale un tempo così fiorente (cotonifici, birrifici,
aziende artigiane, ecc.). Solo questo ci può garantire un flusso costante di
entrate e maggiore occupazione».
Attualmente
in Eritrea non c’è lavoro. La povertà è palpabile. «Girando per le strade si
vedono mendicanti che chiedono l’elemosina – continua la scrittrice -. Un
tempo, una cosa simile era impensabile. Molti giovani sono fuggiti e le
famiglie sono composte dai nonni che, tra mille difficoltà, crescono i nipoti».
La povertà
è evidente, anche se si guardano i palazzi e le strade di Asmara. «La nostra
capitale – conclude la ragazza asmarina – è come una donna che da giovane era
bellissima ma è invecchiata male e oggi è piena di rughe. Le strade sono
dissestate e piene di buche. Gli edifici, un tempo splendidi, frutto dei
progetti dei migliori architetti italiani, dimostrano i segni degli anni.
Vent’anni di stato di guerra hanno lasciato segni profondi. Ma sono convinta
che, appena ci saranno le condizioni, Asmara tornerà al suo antico splendore».
Stallo politico
La politica
però rimane un tabù. Nelle strade, nei luoghi pubblici, nelle scuole non si
parla del presidente, del governo, del partito di maggioranza. C’è paura.
L’apparato repressivo, che fa leva su una capillare rete di informatori, non è
stato smantellato. «Nel paese non c’è dibattito – continua Erminia -. Tra la
gente comune c’è una grande ammirazione per il premier etiope Abiy Ahmed. Un
primo ministro giovane, dinamico, che ha saputo superare una crisi politica
lunga vent’anni. Di Isaias Afewerki si parla poco o nulla. C’è la speranza che
sappia guidare una trasformazione del paese. Anche se molti ne dubitano».
I problemi
degli ultimi vent’anni sono ancora tutti sul tavolo. La Costituzione
democratica, redatta alla fine degli anni Novanta, non è mai entrata in vigore.
Quindi non c’è una Carta che garantisca i più elementari diritti civili. Nel
paese non si tengono regolari elezioni, non c’è un parlamento e sistema
giudiziario indipendente. Alcuni oppositori sono stati rilasciati, ma la
maggior parte sono ancora in una delle 350 prigioni del paese. «Quello di
Asmara – sottolinea Mussie Zerai, sacerdote dell’eparchia di Asmara – è uno dei
regimi politici più duri del mondo, una dittatura che ha soppresso ogni forma
di libertà, annullato la Costituzione del 1997, soppresso di fatto la
magistratura, militarizzato l’intera popolazione per quasi tutta la vita. Una
dittatura che ha creato uno stato prigione. Anche di recente sono stati
arrestati oppositori, sono state chiuse scuole cattoliche e islamiche, sono
stati sbarrati otto centri medici e ospedali cattolici, mentre il patriarca
della chiesa ortodossa Abune Antonios, fermato nel 2004, si trova ancora agli
arresti dopo ben 14 anni».
Negli anni,
il regime ha arruolato migliaia di ragazzi e li ha schierati alla frontiera con
l’Etiopia. Questi militari di leva, per i quali non era e non è prevista una
data certa di congedo, non sono ancora stati smobilitati. «La pace – spiega un
altro religioso che vuole mantenere l’anonimato – non ha portato a uno
snellimento delle forze armate. Nonostante la minaccia etiope sia venuta meno,
i reparti sono ancora a pieno organico. Nessun giovane è tornato a casa. La
gente inizia a chiedersi perché. Che senso ha tenere una struttura così grande
e costosa?».
E le
persone continuano a fuggire. Se in passato si scappava di nascosto, attraversando
la frontiera di notte per non farsi bloccare dalle guardie di confine, oggi lo
si fa alla luce del sole. Grazie all’apertura della rotta aerea Asmara-Addis
Abeba, molti eritrei si recano in Etiopia e da lì verso altri paesi africani o
verso l’Europa. «L’Eritrea – ci dice Tekle Haile, eritreo, storico oppositore
del regime, da anni in esilio in Italia – ha siglato un trattato di pace di cui
non si conoscono i contenuti. L’opposizione, oggi frazionata, ma che nei
prossimi mesi darà vita a un unico soggetto, teme che il nostro paese sia stato
svenduto all’Etiopia. Che ne sarà dei nostri porti? Delle nostre strade? Dei
nostri ponti? Della nostra economia? Non vorremmo che, dopo trent’anni di
guerra di indipendenza, un altro conflitto durato tre anni seguito da vent’anni
di dura non belligeranza, ora l’Eritrea torni a essere una sorta di provincia
di Addis Abeba. Questa incertezza economica e questo regime così oppressivo
fanno paura e la gente continua a fuggire».
Enrico Casale
Chi è l’artefice del cammino di pace
Abiy Ahmed: come ti rivolto il Corno
La pace tra Eritrea ed Etiopia ha un
protagonista: è il premier etiope Abiy Ahmed. È stato lui l’artefice dell’apertura
nei confronti di Asmara. Ma questo è solo uno dei tasselli della politica di
riforma con la quale sta trasformando nel profondo il suo paese.
Multietnico
Abiy Ahmed, 42 anni, cristiano riformato, ma figlio di un papà
musulmano e una mamma cristiana ortodossa, è un oromo, appartiene cioè
all’etnia maggioritaria, sebbene sempre discriminata. Arrivato al potere,
nell’aprile 2018 ha avviato una serie di grandi cambiamenti. Oltre ad
annunciare, fin dal suo primo discorso tenuto il 2 aprile, la necessità di un
dialogo con l’Eritrea, ha promosso una riconciliazione nazionale, ordinando il
rilascio di migliaia di prigionieri politici e legalizzando i gruppi di
opposizione, a lungo definiti «organizzazioni terroristiche». In campo
economico ha promesso di rilanciare l’economia etiope (che viaggia già a
percentuali di crescita intorno all’8-9%) scommettendo sul sistema produttivo e
privatizzando alcune imprese statali. Anche la pace con l’Eritrea potrà avere
profondi risvolti in campo economico: l’Etiopia potrà infatti sfruttare i porti
di Massaua e di Assab, più vicini e meglio collegati di quelli di Gibuti e Port
Sudan.
Pace nel Corno d’Africa
Proprio la pace con l’Eritrea ha creato una sorta di effetto
domino che, dopo anni di forti tensioni, sta riportando stabilità in tutto il
Corno d’Africa. Dopo l’intesa fra Asmara e Addis Abeba, il premier Abiy Ahmed e
il presidente Isaias Afewerki hanno infatti aperto un tavolo di trattativa con
il presidente somalo Mohamed Abullahi Mohamed «Farmajo». Da questo tavolo, il 6
settembre è nato il Joint
high level committee, una commissione
formata dai tre governi che mira al rafforzamento dei loro legami politici,
economici, sociali e culturali, oltre che garantire il perseguimento e il
mantenimento della pace e della sicurezza in tutta l’Africa orientale. Un passo
avanti importantissimo se si tiene conto che la Somalia è stata per anni un
teatro in cui Eritrea ed Etiopia si sono scontrati per interposta persona. Non è
un caso che, nel 2009, l’Onu ha imposto ad Asmara l’embargo sull’importazione
delle armi per il sospettato supporto eritreo ai militanti islamisti somali di
Al Shabaab (milizia da sempre feroce avversaria dell’Etiopia).
La creazione di questa commissione ha rappresentato la base per
porre un altro tassello della stabilità regionale: la pace tra Eritrea e
Gibuti. Le tensioni tra i due paesi risalgono al 1996, quando l’ex Somalia
francese ha accusato Asmara di un attacco presso il villaggio di Ras Doumeirah.
L’episodio non si è trasformato in guerra aperta, ma le tensioni si sono
trascinate fino al 2010 quando, grazie alla mediazione del Qatar, le due
nazioni sono arrivate a un accordo sulle dispute territoriali. Nel 2017 le
tensioni sono tornate ad accendersi quando Gibuti si è apertamente schierata a
favore della coalizione saudita contro il Qatar, mentre l’Eritrea ha continuato
a professarsi amica di Doha. Proprio grazie alla mediazione di Etiopia e
Somalia, la frattura è stata ricomposta e a metà settembre i presidenti eritreo
Isaias Afewerki e gibutino Ismail Omar Guelleh hanno siglato un’intesa di
collaborazione.
Diffidenze
È ormai chiaro che le aperture di Abiy Ahmed hanno dato il via a
un processo di distensione che va oltre la stessa Etiopia e investe l’intera
regione. Una regione, il Corno d’Africa, che negli ultimi 25 anni ha conosciuto
guerre civili lunghissime (Somalia) e tensioni tra stati (Gibuti, Eritrea ed
Etiopia) che hanno frenato la crescita economica e sociale.
Non tutti però apprezzano la politica di apertura del premier di Addis Abeba. La diffidenza arriva dall’etnia tigrina (che in Etiopia rappresenta solo il 7% della popolazione) che ha gestito il potere dall’inizio degli anni Novanta, ma anche dagli apparati di sicurezza e da alcune frange delle forze armate. Riuscirà Abiy Ahmed a superare queste resistenze? La popolazione è dalla sua parte. E anche la comunità internazionale, se è vero che il Wall Street Journal lo ha definito «la più grande speranza per il futuro democratico dell’Etiopia».