Bangladesh. La sceicca si conferma al potere

Lo scorso 7 gennaio si sono svolte in Bangladesh le prime elezioni del 2024. Nessuna sorpresa dalle urne: ha stravinto l’«Awami League» (222 seggi parlamentari su 300), il partito della premier Sheikh Hasina Wazed, giunta al quinto mandato, il quarto consecutivo. Una vittoria scontata anche perché ottenuta dopo che il «Bangladesh nationalist party» (Bnp, guidato da un’altra donna, Khaleda Zia), il principale partito d’opposizione, si era ritirato dalla competizione elettorale, giudicandola – con molte ragioni – gravemente viziata.

La premier Sheikh Hasina, 76 anni, è al suo quinto mandato, il quarto consecutivo: una vita al potere. (Screenshot da «The Daily Star»)

La leader Sheikh Hasina, 76 anni, viene da lontano. Nel 1971, suo padre, Sheikh Mujibur Rahman, era stato l’artefice della separazione del paese (già Pakistan orientale o Bengala orientale) dal Pakistan, dopo una guerra con almeno 3 milioni di morti.

Nel corso degli ultimi 15 anni il potere della premier e del suo partito si è però trasformato in autoritarismo. Molti membri dell’opposizione sono stati arrestati o processati, e la libertà di parola è stata soffocata.

Altri due fatti di rilievo hanno caratterizzato i governi di Hasina: l’accoglienza di quasi un milione di profughi di etnia rohingya, popolazione islamica perseguitata nel confinante Myanmar; i pessimi rapporti con l’economista Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace 2006, fondatore della Grameen Bank, probabilmente il più noto bangladese al mondo.

Anche alle ultime elezioni non sono mancate le violenze. Il 9 gennaio The Daily Star, il principale quotidiano in lingua inglese del Paese, riportava due notizie contrapposte, molto significative: da una parte la reazione degli Stati Uniti che hanno giudicato le elezioni non libere e non giuste, dall’altra quella della Cina che si è congratulata con i vincitori per il successo elettorale.

Il Bangladesh conta oltre 171 milioni di abitanti, al 90 per cento di religione islamica (e un 9 per cento di induisti). Con i suoi 1.315,1 abitanti per chilometro quadrato, possiede una delle più alte densità demografiche al mondo. Nonostante l’impetuosa crescita economica degli ultimi anni (più 6-7 per cento all’anno, incremento dovuto soprattutto all’industria dell’abbigliamento), il Paese rimane una nazione povera, diseguale e con un alto tasso di emigrazione. Vivono all’estero 7,5 milioni di bangladesi. In Italia, ce ne sono oltre 150mila (secondo i dati ministeriali), formando la più numerosa comunità del Paese asiatico in Europa.

Dalle elezioni in Bangladesh si possono trarre alcune lezioni di carattere generale: l’autoritarismo e e la trasformazione dei governi in principati (nel senso descritto da Machiavelli) sono tendenze mondiali sempre più diffuse; la contrapposizione tra i paesi a democrazia occidentale e gli altri è destinata ad acuirsi sotto la spinta di Cina e Russia; non basta essere donna per rendere la politica migliore.

Paolo Moiola




Taiwan. In gioco la stabilità mondiale?

 

Il 13 gennaio è sempre più vicino. Sarà quello il giorno in cui Taiwan deciderà il suo prossimo presidente. Una scelta che non determinerà solo il futuro di quella che la Cina considera una La lunga campagna elettorale ha vissuto il suo culmine sabato 30 dicembre, quando si è svolto il primo e unico dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza della Repubblica di Cina, il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto. Si tratta tradizionalmente del momento decisivo, visto che a dieci giorni dalle urne viene imposto il blocco di tutti i sondaggi.

Il dibattito è stato dominato dal tema delle relazioni intrastretto, su cui sono emerse le grandi differenze tra i candidati. Tutti e tre dicono di voler mantenere lo status quo, ma ognuno propone una ricetta diversa per farlo, svelando non solo diverse strategie politiche, ma anche un diverso sentimento identitario sul sottile filo che corre tra il definirsi «cinese» oppure «taiwanese».

Il favorito, Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp, sigla in inglese), ha giocato in difesa. Noto per le sue posizioni a favore dell’indipendenza formale di Taiwan, l’attuale vicepresidente ha provato a porsi in perfetta continuità con la presidente uscente, la moderata Tsai Ing-wen. Durante il dibattito, Lai ha ribadito l’impegno a mantenere la pace e si è detto disposto al dialogo con Pechino, ma senza fare concessioni sulla sovranità e soprattutto sottolineando la necessità del rafforzamento dell’esercito e di nuovi acquisti di armi dagli Stati Uniti. Ha poi attaccato i rivali definendoli «filocinesi», presentando il voto come una «scelta tra democrazia e autoritarismo», e alludendo dunque a un possibile rischio di «inglobamento» in caso di vittoria del Kuomintang (Kmt), il partito nazionalista tradizionalmente più dialogante con Pechino.

Hou Yu-ih, il candidato del Kmt, ha invece descritto le elezioni come una «proposta» di Xi Jinping: ha infatti reiterato il rifiuto a «un paese, due sistemi», il modello di fatto fallito a Hong Kong che Pechino vorrebbe applicare anche a Taiwan.

Il terzo incomodo, Ko Wen-je, è in realtà apparso a molti come il più convincente dei tre durante il dibattito. Soprattutto dai più giovani che hanno commentato sui social. Ko, ex sindaco di Taipei e leader del Taiwan People’s Party (Tpp), si racconta come l’unica possibile novità nel tradizionale bipolarismo taiwanese. Durante il dibattito ha più volte esaltato il suo Sui rapporti intrastretto descrive il Dpp come «troppo anticinese» e il Kmt «troppo filocinese», proponendosi come depositario della linea di «riduzione del rischio», coniata da Unione europea e Stati Uniti: «Taiwan può diventare un ponte tra Washington e Pechino invece che un punto di tensione», sostiene, anche se non ha elaborato una proposta concreta per riavviare il dialogo.

Il favorito è senza dubbio Lai, che negli ultimi sondaggi disponibili era dato in vantaggio con una forbice che a seconda dei casi variava tra i 3 e i 10 punti. Al secondo posto Hou, con Ko non lontano. L’alleanza tra i due, naufragata a fine novembre, avrebbe con ogni probabilità messo fine al dominio del Dpp che dura dal 2016. Portando a un abbassamento delle tensioni militari con Pechino, ma a un prevedibile aumento del pressing politico per arrivare a un accordo che lo stesso Kmt non può garantire. Nel discorso di fine anno, Xi Jinping ha ribadito che la «riunificazione è una necessità storica». Un avvertimento che non cambierà i calcoli dei taiwanesi alle urne.

Molto importante poi il risultato delle elezioni legislative. Secondo tutte le proiezioni, nessun partito dovrebbe avere la maggioranza allo yuan legislativo (il parlamento unicamerale). Ciò significa che un’ipotetica presidenza Lai partirebbe azzoppata, con potenziali problemi nel far passare una serie di riforme e provvedimenti, a partire da quelli in materia di difesa. Uno scenario instabile che potrebbe non dispiacere a Pechino, che potrebbe provare a far leva sulle divisioni interne per guadagnare posizioni anche a livello politico.

Lorenzo Lamperti, da Taipei




Congo Rd. Elezioni o parodia?

Il 20 dicembre scorso i congolesi sono stati chiamati a eleggere il presidente della Repubblica, 500 deputati dell’Assemblea nazionale (Parlamento), quelli delle 26 Assemblee provinciali e, per la prima volta con la nuova Costituzione, i membri di circa 300 Consigli municipali. Gli elettori erano 44 milioni sui 100 milioni di abitanti. Queste cifre danno anche una misura di quanto giovane sia la popolazione.

I vescovi hanno incoraggiato i fedeli a partecipare al voto, chiedendo anche: «Diamo mandato ai nuovi leader che hanno dimostrato senso del bene comune, amore per la patria e generosità nei loro progetti sociali». I vescovi hanno a messo in guardia verso chi semina l’odio tribale e pure sulla compravendita dei voti. Coloro che usano pratiche simili «sono moralmente discutibili e vogliono prendere il potere tramite mezzi fraudolenti, non per servire, ma per servirsene, e continuare ad asservirci».
Il processo elettorale che doveva iniziare alle 6 del mattino del 20 e concludersi la sera, si è protratto ancora fino al giorno seguente giovedì 21, a tarda notte. Alcuni seggi nelle provincie del Bas-Uélé, Sud Kivu e Tanganyka, hanno addirittura aperto venerdì mattina, perché non avevano ricevuto i materiali. Ma anche nella capitale Kinshasa molti sono stati i casi problematici rilevati dagli osservatori elettorali.
Difficoltà logistiche per il raggiungimento dei seggi (ci sono ancora le piogge e molte strade sono impraticabili), ritardi nella consegna del materiale elettorale, ma anche problemi tecnici alle macchine per il voto (sono elettroniche e spesso le batterie risultavano scariche), hanno causato chiusure temporanee e lunghe code per il voto.
In alcune zone, inoltre, sono stati segnalati anche casi di violenze.

Secondo la Ceni (Commissione elettorale nazionale indipendente), i congolesi sono riusciti a votare nel 97% dei seggi, il che sarebbe, secondo loro, un ottimo risultato, viste le dimensioni e la cattiva rete di comunicazione del Paese. Gli osservatori, invece, ritoccano questo numero al ribasso.
La Ceni parla ufficialmente di un tasso di partecipazione elevato, e dichiara di voler presentare i primi risultati già oggi. In realtà per quelli definitivi si dovrà attendere almeno una settimana.
Il candidato di gran lunga favorito è il presidente uscente, Félix Tshisekedi, mentre altri nomi importanti sono Moise Katumbi (ricco uomo d’affari già governatore del Katanga), Martin Fayulu (politico influente, già deputato) e il premio Nobel per la pace Denis Mukewge.

«Queste elezioni sono una parodia», ci dice John Mpaliza, attivista congolese per i diritti umani. Gli altri candidati avrebbero potuto non presentarsi, ma in quel modo ci sarebbe stato un candidato unico (il presidente uscente, ndr), invece così hanno anche fatto vedere i brogli e i malfunzionamenti del sistema elettorale». Si riferisce alla Ceni guidata da Denis Kadima. In effetti
ci sono state irregolarità nella pubblicazione delle liste elettorali, sull’indicazione del seggio in cui votare, problemi con i documenti d’identità, cancellazione liste elettorali. Questioni denunciate da Fayulu, Mukewge e anche la Cenco (Conferenza episcopale nazionale del Congo).
Tra qualche giorno o settimana si conosceranno i risultati della consultazione elettorale, che per il presidente paiono scontati.

Marco Bello




Turchia. Nelle mani del sultano


Lo scorso maggio si sono chiuse le elezioni presidenziali. Da vent’anni al potere, Recep Tayyip Erdoğan ha vinto ancora. Le speranze di molti, soprattutto giovani e intellettuali, di vedere il tramonto del sultano si sono infrante. Tra crisi economica, politica estera ondivaga, islamizzazione e restrizioni delle libertà individuali, il futuro del paese rimane molto incerto.

Istanbul. Quando atterro nella metropoli turca – è il 13 maggio, vigilia delle elezioni -, il clima è tesissimo. Le strade sono tappezzate di bandiere e striscioni con i volti e gli slogan dei candidati. In questi giorni sono state arrestate 78 persone, la maggior parte attivisti e giornalisti, accusati di aver postato sui social media contenuti «inopportuni» contro Erdoğan. Alcuni reporter, all’ingresso in aeroporto, si sono visti anche rifiutare il permesso d’ entrata, ragione per la quale mi sono presentato, alle autorità, come semplice turista. I contendenti alla presidenza sono: l’attuale presidente Erdoğan e il settantaquattrenne Kemal Kılıçdaroğlu, principale oppositore del sultano. Kılıçdaroğlu rappresenta la sinistra, la sua è una visione liberale e inclusiva di tutte le etnie presenti in Turchia. Il terzo candidato è l’outsider: Sinan Oğan, esponente dell’Unr, un partito di estrema destra ma comunque sempre di opposizione. Nella corsa alla presidenza era presente un quarto candidato: Muharrem Ince, ritiratosi dopo essere stato vittima di una pesante campagna diffamatoria. Il terremoto del 6 febbraio ha cambiato qualcosa nell’opinione pubblica. Molto ha pesato la cattiva gestione dei soccorsi da parte del presidente, il quale ha favorito l’invio di aiuti in alcuni luoghi, rallentando invece quelli verso le zone a lui ostili, come quelle a maggioranza curda. Inoltre, l’altissimo livello di corruzione presente in Turchia si è nuova-

mente palesato quando si è scoperto che le enormi cifre destinate alla messa in sicurezza degli edifici a rischio non sono mai state impiegate o, comunque, sono state usate solo parzialmente. Tutto questo ha aperto gli occhi a molti elettori, soprattutto i più moderati, che hanno spostato il proprio voto su Kılıçdaroğlu. Ad oggi, le preferenze degli abitanti di Istanbul, così come quelle di tutto il popolo turco, sono divise quasi perfettamente a metà.

A Sultanahmet, uno dei quartieri più famosi della città, luogo dove sorgono la Moschea Blu e Aya Sophia, un numeroso gruppo di persone già festeggia la vittoria di Erdoğan. I sostenitori sventolano bandiere della Turchia cantando che: «C’è solo un uomo in grado di guidare il Paese».

È blindata Sultanahmet, polizia e militari hanno transennato le strade impedendo l’accesso a qualsiasi veicolo, tutta la zona è sorvolata da elicotteri. Proprio qui, questa sera, si terrà il discorso di chiusura della campagna elettorale di Erdoğan.

Al posto dei classici manifesti elettorali, la Turchia era addobbata con migliaia di bandiere che mostravano il volto dei candidati; qui il volto di Erdogan. Foto Angelo Calianno.

Un «dedem» come avversario

Il modo di comunicare dei due principali candidati, fino a ora, è stato totalmente opposto. Altisonante quello di Erdoğan che ha parlato spesso dal palazzo presidenziale, circondato dai suoi uomini e dai militari come in una continua parata.

Kılıçdaroğlu, invece, ha spesso postato video su internet dalla sua cucina, quella di una normalissima casa. Per la sua età, i modi pacati e le buone maniere, l’avversario di Erdoğan è stato soprannominato dai suoi elettori più giovani: «dedem» (mio nonno, in turco).

Arrivo nel quartiere di Besiktas, una delle roccaforti di Kılıçda- roğlu, il 14 maggio. Anche questa mattina c’è molta tensione, le strade sono semideserte in una calma irreale. Massiccia è la presenza di militari e polizia. Malgrado tutti i candidati abbiano chiesto, ai propri elettori, di non uscire per strada e di non manifestare, si ha molta paura che, qualsiasi sarà il risultato, possano esserci scontri e violenze. Incontro il mio interprete, ha appena votato per Kılıçdaroğlu: «Sono venuto qui a lavorare con te in segreto. Lavoro per una compagnia gestita dalla famiglia di Erdoğan, potrei perdere il mio posto se si venisse a sapere che sto collaborando con un giornalista. Potrei comunque anche perderlo se dovesse vincere Kılıçdaroğlu, ma non mi importa. Siamo stanchi di questa situazione, cambierei volentieri lavoro se questo dovesse significare avere un presidente diverso».

Mentre ci rechiamo in una delle scuole adibite a sede elettorale, un gruppo di anziani richiama la nostra attenzione mostrandoci, con le dita, il segno «V» di vittoria.

«Questa notte finalmente potremmo riavere una vera democrazia – spiega uno di loro -. Sono pensionato, ho lavorato come rappresentante commerciale in giro per la Turchia e per l’Europa. Molti vedono il nostro Paese ancora come un luogo dalla mentalità chiusa, ma il desiderio di molti di noi è quello di convivere con tutte le nostre religioni ed etnie: musulmani, cristiani, curdi, turchi, tutti pacificamente. La politica di Erdoğan è sempre stata incentrata su odio e divisione. Ma questa sera, sarà la fine di tutto questo».

Arrivato davanti a una scuola, noto moltissimi giovani che camminano avanti e indietro tra le aule e l’ingresso: sono volontari, sostenitori di Kılıçdaroğlu. Sono qui per assicurarsi che non ci siano brogli e che tutto avvenga regolarmente. I timori di irregolarità in queste elezioni sono ben giustificati. Solo pochi giorni fa, a Mardin, sono state sequestrate migliaia di schede elettorali finte. La presenza di tutti questi volontari fa ben sperare che, davvero, questa possa essere la fine di Erdoğan.

Una donna danza attorno la bandiera raffigurante il volto dell’avversario di Erdogan. Foto Angelo Calianno.

Meglio l’anonimato

Un altro quartiere da sempre liberale, e opposto all’attuale presidente, è quello di Kadikoy. Situato sul golfo del Mar di Marmara, pieno di locali e luoghi di ritrovo, Kadikoy è il ritrovo dei giovani artisti e intellettuali di Istanbul.

Avvicino alcuni di loro, seduti a un tavolo di un caffè. Discutono di quello che potrebbe essere il risultato finale di questa notte. Uno di loro dice: «Io penso che vincerà Kılıçdaroğlu, ma la vittoria non sarà schiacciante, sarà un testa a testa fino alla fine. Noi ci siamo laureati da poco, lavoriamo per multinazionali straniere che hanno delle sedi qui, ma, per colpa di Erdoğan, siamo sottopagati. Il nostro stipendio si aggira sulle 15mila lire al mese (circa 600 euro), ne paghiamo 10mila di affitto. I costi aumentano, i nostri stipendi rimangono uguali. Erdoğan ha trasformato la Turchia in un Paese di manodopera a basso costo per aziende occidentali. Questa è la realtà».

Cosa fareste se dovesse vincere Erdoğan?, chiedo. «Io penso che cercherei un modo di andar via – risponde un altro ragazzo -. Penso che se continueremo con Erdoğan al potere, questo Paese andrà sempre più verso un’islamizzazione estrema, fino a somigliare a un vero regime, come quello iraniano».

Domando: «Come festeggerete questa sera se dovesse vincere Kılıçdaroğlu?». «Non penso che festeggeremo – dice una ragazza del gruppo -. Sinceramente, io ho paura che ci possano essere scontri e che delle persone possano rimanere uccise. Soprattutto se dovesse vincere “dedem”. I sostenitori di Erdoğan uscirebbero in strada per sfogare la loro rabbia su chi sta celebrando. Per questo, tutti i leader politici ci hanno rivolto degli appelli a non uscire di casa, qualsiasi sarà il risultato».

Prima di andare via, chiedo il permesso di poter scrivere i loro nomi, ma i ragazzi hanno paura e si rifiutano. Uno di loro aggiunge: «Questo, però, dillo. Scrivi che i giovani di Istanbul sono così terrorizzati da Erdoğan da non poter dare nemmeno il proprio nome».

Fila di votanti in una scuola del quartiere di Besiktas. Foto Angelo Calianno.

«Occorrerebbe una rivoluzione culturale»

Continuando a camminare nel quartiere di Kadikoy, arrivo a un’altra sede elettorale. Sono le 16, c’è ancora un’ora a disposizione, dopodiché, le elezioni saranno chiuse. Anche le scuole di Kadikoy pullulano di volontari che controllano l’effettiva regolarità della votazione.

Tra questi ragazzi, si avvicina un uomo. Si chiama Omer Faruk, è uno scrittore ed editore turco:

«Rimarrò qui fino allo spoglio delle cartelle. Non mi fido assolutamente di quello che può succedere. Il problema in ogni caso, anche se dovesse vincere Kılıçdaroğlu, rimane. La Turchia è un Paese che ha ancora una mentalità troppo arretrata. Un Paese che, per metà, vota ancora per Erdoğan è un Paese che ha bisogno di un cambiamento radicale. La Turchia è ancora schiava della religione. Gli estremisti, che rappresentano la maggior parte dei suoi elettori, hanno ancora troppo potere nella società. Anche cambiando governo, questo Paese ha bisogno di affrontare una rivoluzione culturale».

Un gruppo di ragazzine chiacchierano dopo aver pregato nella moschea di Fatih; come quasi tutte le donne qui, indossano il tradizionale chador. Foto Angelo Calianno.

Gli elettori di Erdoğan

Nella metropoli turca, chi sono i sostenitori di Erdoğan? Molti sono imprenditori, anche stranieri, residenti qui da anni. Nel Paese sono stati tanti gli investimenti edilizi illeciti, soprattutto a Istanbul, città della quale Erdoğan è stato anche sindaco. In molti casi, qui basta pagare una tangente per ottenere permessi di costruzione, anche dove non sarebbe possibile. Un’altra nutrita parte di elettori, fedelissima, la si trova tra i musulmani conservatori.

Un terzo gruppo è rappresentato dalle persone facilmente influenzabili, vittime della interminabile campagna mediatica di Erdoğan che, con la sua famiglia, controlla quasi tutti i canali di comunicazione del Paese.

Camminando per Istanbul è facile capire quali quartieri siano a lui devoti. Luoghi, ad esempio, come il quartiere di Fatih, parte della città dove risiedono i musulmani più estremisti. Le strade sono decorate da bandiere che raffigurano il suo volto, quasi tutte le donne indossano il tradizionale chador, e praticamente nessuno vuole rilasciare dichiarazioni riguardanti le elezioni. I pochi commenti che riesco a raccogliere sono soltanto lodi alla grandezza del presidente e slogan per la sua sicura vittoria.

Per aspettare il risultato dello spoglio elettorale, mi sposto a Taksim, una delle piazze principali della città. Qui, nel 2013, si svolsero le proteste contro il governo di Erdoğan. La polizia represse i manifestanti con un bagno di sangue: 11 morti e quasi novemila feriti. Anche questa notte si teme che possa accadere la stessa cosa. Quindi, le misure di sicurezza sono eccezionali.

Alle 23, quando cominciano a uscire le prime proiezioni, le poche persone in giro cominciano ad andar via. Per strada rimaniamo solo in pochi giornalisti stranieri, molti collegati in diretta Tv con i propri Paesi. I sostenitori, di tutti e tre i leader, rimangono a distanza ai margini della piazza, seduti in cerchio a osservare l’aggiornamento dei risultati dai loro cellulari.

È circa l’una di notte quando viene dato l’annuncio, anche se non ancora ufficiale, i giochi sembrano fatti: Erdoğan ha chiuso le votazioni con poco più del 49%, Kılıçdaroğlu al 44% e Oğan appena sopra il 5%. A fine mese si tornerà al voto.

Ragazzi e ragazze intervistate in uno dei caffè di Kadikoy; con le dita mostrano il simbolo del cuore, marchio distintivo dei sostenitori di Kılıçdaroğlu durante la sua campagna elettorale. Foto Angelo Calianno.

Il ballottaggio spegne la speranza

È il 28 maggio. Rispetto a due settimane fa, le speranze di un cambiamento sembrano affievolite. Rispetto al primo turno di elezioni, i giorni che hanno preceduto il ballottaggio hanno visto una campagna elettorale ancora più aggressiva. Erdoğan, in particolare, ha usato tutto il suo potere mediatico per gettare discredito su Kılıçdaroğlu, accusandolo anche di essere simpatizzante dei terroristi del Pkk.

Erdoğan controlla l’85% dei media turchi, tra cui i principali giornali e televisioni. Il suo governo ha posto pesanti censure su Twitter, YouTube e Facebook. Già nella prima parte delle elezioni, la disparità di visibilità tra i due contendenti è stata abissale. Secondo Rsf (Reporter senza frontiere), Erdoğan ha ottenuto 60 volte la visibilità di Kılıçdaroğlu. Sulle Tv nazionali, i minuti messi a disposizione a Kılıçdaroğlu sono stati appena 30, contro le 32 ore per Erdoğan. Il candidato Oğan ha espressamente chiesto ai suoi elettori di votare per Erdoğan, mentre il suo partito si è dissociato da queste dichiarazioni, appoggiando Kılıçdaroğlu.

Gruppi armati di bastoni, coltelli e catene, inoltre, si sono recati in alcune scuole nel quartiere di Kadikoy, vandalizzandole, così da scoraggiare gli elettori ad andare alle urne. Si è stimato che quest’atto abbia abbassato l’affluenza del 10%. In questo caso, tutti voti in meno per Kılıçda-roğlu.

Le speranze si spengono definitivamente alle 22, quando Erdoğan, dal palazzo presidenziale, annuncia la sua vittoria: rimarrà presidente per altri 5 anni, avendo ottenuto il 52,16% dei voti. In conferenza stampa, Kılıçdaroğlu dichiara che queste sono state le elezioni più scorrette della storia recente. Prega i suoi elettori di tenere viva la lotta per la democrazia.

Il nuovo governo di Erdoğan si troverà a fronteggiare il malcontento di quasi il 50% della popolazione, la ricostruzione delle regioni distrutte dal terremoto di febbraio, e un’inflazione che sfiora l’80%.

Non da ultimo, le ambigue amicizie del presidente con Cina e Russia, una lenta, ma costante, islamizzazione del Paese e le continue violazioni dei diritti umani, fanno guardare con preoccupazione a quello che potrebbe accadere in Turchia nei prossimi cinque anni.

Angelo Calianno

A Sultanahmet, uno degli ultimi discorsi pubblici dei sostenitori di Erdogan, prima della chiusura della campagna elettorale. Foto Angelo Calianno.

Erdoğan e la politica estera: Più Mosca e Pechino che Bruxelles

La posizione geografica della Turchia, da sempre, la rende uno dei luoghi strategici più importanti di tutto il Medioriente, essendo un punto di connessione tra Asia ed Europa. Con 1.148 imprese registrate sul territorio, la Cina è uno dei principali investitori in questo Paese. La Turchia è il ventitreesimo maggior destinatario di investimenti cinesi nel mondo. La maggior parte delle aziende di Pechino si occupano di trasporti e logistica, utilizzando la rete ferroviaria (che hanno contribuito a modernizzare) e quella marittima. Importantissimi poi sono gli investimenti cinesi sulle telecomunicazioni: società di telefonia, infrastrutture per la rete 5G. Le banche cinesi, come la Bank of China, hanno partecipato al finanziamento della costruzione della centrale termica di Hunutl e di diversi gasdotti.

Un altro importantissimo, e storico, alleato della Turchia sin dalla fine della guerra fredda, è la Russia.  Mosca fornisce quasi la metà del gas naturale importato, oltre che il 25% delle importazioni di petrolio. La Russia sta costruendo la prima centrale nucleare turca. Il commercio bilaterale, sull’asse Mosca-Ankara, valeva 26 miliardi di dollari nel 2019: da un lato importazioni turche di energia e grano, dall’altro gli acquisti russi dei prodotti agricoli turchi. Preoccupano molto alcuni accordi, tra Mosca e le banche turche, che hanno introdotto la possibilità di pagare con «carta Mir». Mir è un circuito di pagamento russo che si avvale di conti virtuali e carte di credito, un sistema potrebbe aiutare la Russia ad aggirare le sanzioni occidentali.

Uno dei principali rivali politici della Turchia, in questi anni, sono stati gli Emirati Arabi Uniti. I due Paesi si sono accusati a vicenda nell’ultimo decennio: Erdoğan ha ritenuto colpevoli gli Emirati Arabi di aver appoggiato il tentativo di colpo di Stato del 2016. Gli Emirati Arabi hanno lamentato il sostegno turco ai Fratelli musulmani durante le rivolte arabe. Dal 2021 però, dopo un’intensa attività diplomatica, i due Paesi hanno ripreso a dialogare.

L’interesse degli emiratini a investire in Turchia è concreto. Su tutti: l’Abu Dhabi investment authority. Il piano economico, messo in standby durante le elezioni, potrebbe diventare sempre più intenso adesso.

Senza tregua è la lotta dell’attuale presidente contro l’etnia curda. Continui sono gli arresti ingiustificati di giornalisti, attivisti, tutti per presunta affiliazione al Pkk, spesso senza prove concrete. L’ultimo atto, in questo senso, è stato il bombardamento della Turchia nel Rojava, la regione curda nel nord della Siria, a novembre e dicembre del 2022. Bombardamenti e tentativi di invasione che Erdoğan riprende con ogni pretesto.

Infine, una delle questioni più complesse dei governi di Erdoğan degli ultimi 20 anni, è stata il rapporto con l’Unione europea e i Paesi occidentali. Pur avendo avviato dal 2005 i negoziati di adesione alle Ue, l’entrata ufficiale della Turchia è in stallo dal 2018, soprattutto per i continui passi indietro del Paese in materia di democrazia. Censure ai media, arresti arbitrari e la dubbia posizione sulla guerra in Ucraina, vedono oggi la Turchia più lontana che mai dall’Europa.

An.Ca.

La moschea di Fatih, situata nell’omonimo quartiere; questa moschea, una delle più grandi di Istanbul, fu costruita nel 1463 sul sito della chiesa bizantina dei Santi Apostoli. Foto Angelo Calianno.

Turchia: Da paese laico a paese islamico

Da Kemal Atatürk a Erdoğan

Nonostante la Turchia abbia una costituzione di ispirazione laica, con Erdoğan al potere, gli ultimi 20 anni costituiscono uno degli esempi più longevi di politica islamista in Medioriente. L’orientamento all’islam di Erdoğan è cominciato fino dalla sua giovinezza. Nato a Kasimpasa, quartiere povero di Istanbul, viene mandato dal padre a studiare in una scuola religiosa. Negli anni perfeziona lo studio del Corano e della vita di Maometto. Durante l’adolescenza, si unisce all’ala giovane di partiti islamico-nazionalisti, anti occidentalisti e anti semiti come l’Mnp (Milli selamet partisi). Malgrado, a un certo punto, questi partiti vengano banditi per aver violato la Costituzione turca, Erdoğan continua la sua militanza, formandosi poi con l’ideologia sulla quale si baserà per tutta la sua carriera politica: populismo e anti kemalismo (termine indicante la politica di Kemal Atatürk, ndr).

Il primo grande successo di Erdoğan arriva nel 1994, quando diventa sindaco di Istanbul. In pochi anni raccoglie milioni di consensi, facendo leva soprattutto sul «vittimismo» di molti musulmani che, dalla formazione di uno Stato turco di stampo laico, quello di Atatürk, non hanno più trovato lo spazio e l’importanza del passato.

Dal 1924, per ordine di Atatürk, in Turchia è presente un organo chiamato: Diyanet (dal turco «Diyanet işleri başkanlığı»), ovvero Direttorio per gli affari religiosi). Inizialmente il Diyanet era un ufficio nato per supervisionare gli affari religiosi, costituito per proteggere la Repubblica turca da pressioni e infiltrazioni religiose estremiste. Con Erdoğan però, esso cambia totalmente ruolo. Da quando il presidente è salito al potere, nel 2002, il Diyanet si occupa della promozione dell’Islam sunnita, sia in Turchia che all’estero, e della divulgazione dei valori della vita tradizionale. Negli ultimi 10 anni, il budget del governo destinato al lavoro del Diyanet è stato quadruplicato, oggi conta 150 mila dipendenti. Ultimo atto di questo organo amministrativo, sono state pesanti tassazioni sulle bevande alcoliche e il divieto di servirle a bordo di arei nelle tratte domestiche. Oggi Erdoğan è considerato uno dei principali leader dell’islam nel mondo. È stato soprannominato il nuovo sultano o califfo. Nel 2019, nella lista della Royal islamic strategic studies centre, si è classificato come uno dei 500 musulmani più influenti del mondo.

Angelo Calianno

Fedele all’interno della moschea di Fatih, quartiere dove vivono le persone più devote ai dettami dell’islam. La maggior parte degli abitanti di questa zona proviene dall’estremo est dell’Anatolia. Foto Angelo Calianno.

 

 




Guatemala. Democrazia in affanno


Il paese è andato al voto senza troppe speranze dicambiamento. Le possibili candidature innovative sono state bloccate da cavilli. La stampa è sempre più imbavagliata e il sistema di lotta alla corruzione è stato smantellato. I guatemaltechi sono in fuga da miseria e violenza verso gli Stati Uniti. Eppure, dal primo turno elettorale, è arrivata una sorpresa.

Città del Guatemala. Passeggiare per la capitale del Guatemala nel giugno 2023 non lascia spazio a dubbi. Si è chiaramente in uno Stato alla soglia del suo Election Day. Non è necessario essere appassionati di politica per rendersene conto. A ogni passo ci si imbatte in enormi cartelloni elettorali che rivestono pali della luce, spartitraffico, piazzali e attraversano le superstrade che dalle periferie portano verso il centro. Fotografie di candidati sorridenti e nomi di partiti si ammucchiano uno sull’altro senza un ordine preciso, alle fermate dei bus, di fronte ai mercati e in tutti gli angoli, anche dei quartieri più marginali della città, dove le facce in carne e ossa delle persone raffigurate in quei cartelloni probabilmente non sono mai state. O meglio, si fanno vedere proprio adesso, all’ultima ora, per fare proseliti, cercare voti e convincere a votare anche chi dalla politica si è sempre sentito escluso.

Il 25 giugno 2023 i cittadini del paese più a nord del Centroamerica sono stati chiamati alle urne per eleggere il nuovo presidente. La campagna elettorale, iniziata a marzo, non ha lasciato spazio a grandi novità, anzi è stata il riflesso di un sistema antico e consolidato dove a fare da padrona, in un Paese che al 60% è indigeno, è una ridotta oligarchia bianca di destra, incarnata in grandi proprietari di impresa e veterani di guerra, ancora oggi discendenti direttamente dai coloni spagnoli.

Gli esclusi

Le novità, in teoria, ci sarebbero anche potute essere, ma sono state messe fuorigioco fin dall’inizio. All’appello dei 23 candidati in lizza per le elezioni è mancato la coppia presidenziale formata dal sodalizio tra la leader del Comité de desarrollo campesino (Codeca), di origine maya mam, Thelma Cabrera, e l’ex procuratore per i diritti umani, famoso per la sua lotta contro la corruzione, Jordán Rodas, entrambi candidati per il partito di sinistra Movimiento de liberación de los pueblos (Mlp). Il Tribunale supremo elettorale ha bocciato la candidatura di Rodas e, di conseguenza, anche quella di Cabrera, a causa di un’indagine aperta contro di lui per presunte irregolarità avvenute durante il suo incarico come procuratore, che però non gli era mai stata notificata. Una secchiata d’acqua fredda per i due candidati che ha rappresentato uno stop per Thelma Cabrera che, con il 10,9% dei voti, si era piazzata al quarto posto già nelle precedenti elezioni e, di fatto, avrebbe avuto la possibilità di raggiungere buoni risultati anche in questa tornata. All’esclusione dei due candidati del Mlp, si è affiancato anche quella del candidato di destra Roberto Arzú, figlio dell’ex presidente Alvaro Arzú e, all’ultima ora, del favorito da tutti i sondaggi, il leader de partito Prosperidad ciudadana, Carlos Pineda, per supposte irregolarità avvenute durante l’assemblea del partito.

L’elemento che più colpisce in questa vicenda è il ruolo di «tagliatore di teste» giocato dal Tribunale elettorale supremo che (anche alla conclusione del primo turno, ndr), invece di garantire l’iscrizione dei candidati presidenziali in un contesto democratico, ha abusato del proprio potere per escludere le candidature che sarebbero potute essere d’ostacolo al potere attuale, rappresentato da Alejandro Giammattei, presidente uscente (che non si è potuto ricandidare perché il mandato è unico), conservatore di destra, che da sempre rappresenta gli interessi dell’oligarchia. Human rights watch e numerose organizzazioni internazionali, già a gennaio, avevano espresso inquietudine di fronte alle frodi elettorali, dichiarando che «queste elezioni si sarebbero svolte in un contesto di deterioramento dello stato di diritto, in cui le istituzioni incaricate di monitorare le elezioni hanno poca indipendenza e credibilità. La decisione del Tribunale elettorale supremo del Guatemala di impedire ad alcuni candidati di partecipare alle elezioni presidenziali del 2023 si basa su motivazioni dubbie, mette a rischio i diritti politici e mina la credibilità del processo elettorale».

Chi comanda il paese

Frode, corruzione e fragile democrazia sono parole chiave per comprendere le elezioni in Guatemala dove l’astensionismo rimane sempre il protagonista, attestandosi intorno al 40% (come nel 2019), un dato che riflette lo scoraggiamento e la sensazione che nulla possa cambiare di fronte agli interessi di una élite economica e militare che favorisce senza mezze misure i suoi candidati di punta.

Tra questi ultimi c’è Zury Ríos Sosa, figlia minore dell’ex dittatore del Guatemala Efraín Ríos Montt, condannato nel 2013 a 50 anni di carcere per il crimine di genocidio durante il conflitto armato interno durato 30 anni e conclusosi nel 1996. Sebbene la sentenza sia stata annullata per cavilli burocratici, la Costituzione del Guatemala proibisce ai consanguinei dei dittatori, fino al quarto grado di parentela, di potersi presentare come presidente o vice. Tuttavia, la candidatura della figlia di Ríos Montt è stata accettata, permettendole di presentarsi alle elezioni percorrendo una strada spianata grazie all’esclusione di tre candidati che avrebbero potuto darle filo da torcere.

In pole position dei sondaggi, oltre a Zury Ríos Sosa, c’erano Edmond Mulet, 72 anni, del partito Cabal (Esatto, in italiano), e Sandra Torres, 67 anni, moglie dell’ex presidente Álvaro Colom, e candidata di Unidad nacional de la esperanza (Une).

Entrambi hanno un profilo che, seppure differente, è offuscato da presunti scandali e macchie difficili da cancellare.

La prima dama di Une, sconfitta proprio da Giammattei nelle elezioni precedenti, è stata arrestata nel 2019, poi prosciolta, per il reato di associazione illecita e finanziamento elettorale non registrato del suo stesso partito.

Traffico di adozioni

Edmond Mulet, nonostante abbia sempre respinto le accuse e sia stato assolto in un processo, è legato alle adozioni illegali di minori guatemaltechi avvenute nella decade inclusa tra gli anni Ottanta e Novanta, durante il conflitto armato interno. A partire dal 1977 il Guatemala aprì le porte alle adozioni internazionali e, l’allora avvocato trentenne Mulet, partecipò come legale a una organizzazione che facilitava le pratiche di adozioni per motivi che, lui stesso, ha sempre dichiarato essere umanitari. Proprio in quegli anni le richieste di bambini in adozione da parte di Europa, Stati Uniti e Canada aumentarono a dismisura e si creò una redditizia rete di traffico. Migliaia di bambini, dati in adozione e dichiarati in stato di abbandono, in realtà venivano prelevati dalle comunità distrutte dal conflitto armato, rapiti nelle strade e nei parchi, o direttamente dagli ospedali, in assenza del consenso dei genitori o dietro un misero pagamento che a volte le famiglie più povere si vedevano costrette ad accettare. Molti avvocati coinvolti nelle reti di traffico si occupavano di falsificare documenti, velocizzando le procedure di adozione.

Come riportato dalla Corte interamericana dei diritti umani, in quegli anni il Guatemala si è distinto per essere il terzo paese al mondo per numero di adozioni internazionali, dopo Russia e Cina, realizzate in maniera irregolare «senza un ufficio notarile e senza alcun coinvolgimento degli organi statali». Nel 1981, Mulet è stato arrestato con l’accusa di essere coinvolto nelle reti di traffico e successivamente scagionato dall’organismo giudiziale di competenza «per mancanza di sufficienti motivi per portare il processo alla fase pubblica».

A giugno, il collettivo Aquí Estamos formato da alcuni dei bambini, oggi adulti, adottati tra Canada e Stati Uniti, e tornati in Guatemala per cercare le proprie famiglie biologiche, hanno organizzato una conferenza stampa per denunciare la candidatura a presidente di persone coinvolte con il traffico di bambini, tra cui Mulet, ma anche Zury Ríos Sosa, in quanto figlia del dittatore che, con la violenza scatenata negli anni della guerra, ha distrutto o ridotto in povertà molte famiglie.

Oggi, invece, Mulet è un diplomatico apprezzato all’estero per la sua carriera internazionale come ex ambasciatore del Guatemala negli Stati Uniti e presso l’Unione europea, ex direttore della Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (Minustah) e sottosegretario generale dell’Onu per le operazioni di pace nel 2007. Il candidato di Cabal, inoltre, è un intellettuale vicino al mondo giornalistico che ha dichiarato, diversamente da altri candidati, l’importanza della libertà di espressione severamente a rischio nel Paese e ha dimostrato vicinanza al pool anticorruzione attivo in Guatemala fino al 2018.

Farsa elettorale

Di fronte a questo panorama politico, il Paese, in buona parte, ha la sensazione che le elezioni siano una farsa, una porta falsamente democratica da cui entrerà in scena un governo autoritario che non farà altro che rappresentare gli interessi delle lobby economiche e militari da sempre al governo. Si ripeterà una gestione arbitraria delle istituzioni, che adatterà la legge alle proprie necessità e colpirà duramente tutti gli oppositori, così come fino a oggi è stato fatto dal presidente Alejandro Giammattei. Due esempi su tutti sono la persecuzione degli operatori di giustizia che, negli scorsi anni, si sono dedicati a sradicare la corruzione nel Paese e, di riflesso, il bavaglio stretto intorno ai giornalisti che si sono distinti per inchieste scomode sul governo.

Il caso Zamora

Caso paradigmatico è quello del processo contro José Rubén Zamora Marroquín, detto Chepe, 66 anni, giornalista riconosciuto a livello nazionale e internazionale per centinaia di inchieste contro la corruzione nel Paese, direttore del secondo quotidiano più diffuso del Guatemala, «El Periódico». Il giornalista, da quasi un anno, è in carcere accusato per riciclaggio di denaro, ricatto e traffico di influenze, nonostante non ci siano prove determinanti della sua colpevolezza.

A metà giugno è stato condannato a sei anni. Il suo giornale ha chiuso i battenti il 15 maggio scorso a causa del collasso finanziario dovuto al sequestro dei conti correnti stabilito dal pubblico ministero dopo l’incarcerazione di Zamora il 29 luglio 2022. Erano passati cinque giorni dall’uscita di un reportage incentrato sulla corruzione del presidente del Guatemala, che è stato al centro di centinaia di altre inchieste de El Periódico, tra le quali quella che rivelava lo scandalo dell’acquisto di vaccini a prezzi gonfiati di cui avrebbero beneficiato persone vicine all’esecutivo.

Zamora ha affermato più volte di sentirsi un prigioniero politico, in uno stato in cui il potere giudiziario, legislativo e governativo sono cooptati dalle oligarchie economiche in sodalizio con politici, giuristi corrotti e bande criminali che, di fatto, stanno riportando il Paese a una condizione simile a quella antecedente il 1996, quando ci fu il ritorno della democrazia.

L’attacco a Zamora e, di conseguenza, la chiusura del suo quotidiano, è un avvertimento a tutta la stampa nazionale. Annichilire il famoso giornalista significa mandare a tutti i suoi colleghi il messaggio che a esprimersi liberamente si rischia il carcere.

Contro i giudici

Questa minaccia si trasforma in una vera e propria vendetta nel caso della persecuzione del pool di giudici, molti dei quali operativi nella Fiscalía especial contra la impunidad (Feci), che lavorava a fianco della Comisión internacional contra la impunidad en Guatemala (Cicig), organismo dell’Onu istituito nel paese nel 2006 per indagare sui gravi casi di corruzione. La Cicig è stata smantellata nel 2018 dall’allora presidente Jimmy Morales, che ha pure dichiarato Iván Velásquez, direttore della commissione, «persona non gradita» e lo ha cacciato dal Paese. Famosa è l’immagine in cui l’esercito scorta il funzionario in aeroporto.

Da quel momento, uno dopo l’altro, tutti gli operatori di giustizia scomodi al governo e allo status quo sono stati perseguitati in differenti forme, a partire dal rinomato magistrato anticorruzione Juan Francisco Sandoval, direttore della Feci, che è stato sollevato dall’incarico e sostituito da Rafael Curruchiche, segnalato dal Dipartimento di stato degli Stati Uniti come persona «impegnata in azioni che minano processi o istituzioni democratiche, in atti di significativa corruzione o di ostruzione delle indagini su di essi».

Sandoval è stato costretto a fuggire all’estero, così come altri ventiquattro operatori di giustizia all’epoca attivi nelle indagini anticorruzione, per sfuggire alla caccia alle streghe lanciata dal nuovo gruppo di giudici della Feci scelto dai settori politici più conservatori del Guatemala.

Che fa il popolo

A fare da pubblico alla lenta morte dello stato di diritto in Guatemala ci sono circa 17 milioni di cittadini, per lo più esclusi dalle logiche di potere e da qualsiasi scelta politica. Secondo la Banca mondiale, il 59% della popolazione vive in condizione di povertà e i numeri, come è successo in tutto il mondo, sono aumentati con la pandemia. Oggi meno di un chilo di pomodori al mercato costa 1,2 euro e in qualsiasi supermercato non si trova un prodotto di base, neppure mezzo chilo di fagioli, a meno di un euro.

Molte persone decidono di migrare verso gli Stati Uniti in condizioni precarie, in viaggi nei quali mettono a rischio la propria vita, ma che diventano quasi un obbligo quando si vive in condizione di precarietà economica.

Oggi nel paese nordamericano è presente una comunità guatemalteca, regolarmente residente, di circa un milione e mezzo di persone a cui si aggiunge un numero, difficile da quantificare, di lavoratori che vivono nel paese senza documenti.

Nonostante le rimesse siano la prima voce del prodotto interno lordo guatemalteco, solo tre candidati alla presidenza, tra cui Mulet, hanno fatto campagna elettorale per intercettare gli elettori all’estero, che, come riporta il giornale Los Angeles Times, hanno fatto arrivare dalla California un chiaro messaggio alla dirigenza del paese: «ristabilite lo stato di diritto».

Nonostante petizioni per il ritorno a una democrazia reale, e non solo di facciata, arrivino da più voci nazionali e internazionali, bisognerà aspettare il 20 agosto per sapere chi sarà il o la presidente del Guatemala, e capire se davvero esiste la volontà da parte di chi verrà eletto di sfidare lo status quo e dare una svolta a un sistema in cancrena che lascia poca immaginazione per il futuro.

Simona Carnino


Al primo turno del 25 giugno è arrivata in testa Sandra Torres, con circa il 15,8%, mentre la sorpresa è stato il secondo posto di Bernardo Arévalo, del movimento Semilla (semente) di centro sinistra. Dato all’ottavo posto dei sondaggi, ha invece sfiorato il 12%. Il 20 agosto si terrà il ballottaggio tra i due. A meno di eventuali, nuovi interventi del Tribunale elettorale, il solo vero protagonista delle elezioni guatemalteche.




Anche Puno è in Perù


Nel paese andino è uscito di scena un altro presidente: il maestro Pedro Castillo è passato dal palazzo presidenziale al carcere. Dallo scorso dicembre, il Perù è guidato, per la prima volta nella sua storia, da una donna, Dina Boluarte. La situazione è però esplosiva. Le proteste continuano. Anche a causa di un Congresso che (per ora) rifiuta l’anticipo delle elezioni al 2023.

In piedi davanti alla lavagna, la scolara scrive e riscrive più volte la stessa frase: «Puno è Perù» (Puno si es el Perù). La scolara ha le fattezze di Dina Boluarte, dallo scorso 7 dicembre nuova presidente in sostituzione di Pedro Castillo, passato dal palazzo al carcere. La vignetta – semplice e drammatica – ricorda quanto in troppi hanno dimenticato: la rivolta che in questi mesi ha sconvolto il paese andino ha profonde ragioni culturali e storiche. Il Perù da sempre dimenticato – quello delle popolazioni quechua e aymara della sierra – dice basta alle umiliazioni e alle ingiustizie.

È vero: la situazione è sfuggita di mano, ma non si possono liquidare i manifestanti semplicemente qualificandoli come «vandali, terroristi, comunisti».

Anche in base a un banale conto: la quasi totalità delle vittime (oltre 60, a inizio febbraio) si contano tra di loro. Proviamo allora a riavvolgere il nastro degli eventi per capire come si è arrivati a questo punto.

Uomini della polizia schierati a difesa del commissariato di Puno, un epicentro della protesta (19 gennaio 2023). Foto Juan Carlos Cisneros – AFP.

Pedro Castillo

Nell’aprile del 2021 era arrivato al seggio elettorale a cavallo e indossando un sombrero (vistoso, ma tipico di quella zona rurale). Vinte le elezioni, il 28 luglio era entrato in carica come presidente. Raggiunto il culmine, la sua parabola discendente era però iniziata quasi subito. Si è chiusa lo scorso 7 dicembre, quando Pedro Castillo Terrones è passato direttamente dal palazzo presidenziale di Lima al carcere di Barbadillo (distretto di Ate), dopo un fallito tentativo di autogolpe (con dissoluzione del congresso [parlamento, ndr] e governo d’emergenza).

La sua avventura alla guida del paese andino è durata meno di 17 mesi ma con ben cinque governi e settanta ministri. Un periodo contrassegnato da troppi errori, sia per l’incompetenza (incapacità e ingenuità) del presidente che per la forza della destra (spesso definita derecha bruta y achorada), padrona del Congresso e del potere economico.

Con 33 milioni di abitanti, il Perù è un paese ricco ma – identicamente a tutti gli altri stati latinoamericani – con enormi disparità economiche. Secondo dati ufficiali, nel paese ci sono 8,6 milioni di poveri, pari al
25,9 % della popolazione (Inei, maggio 2022). Pedro Castillo Terrones, maestro di scuola primaria e sindacalista, aveva vinto le elezioni presidenziali soprattutto con i voti delle regioni rurali più povere, battendo (per un soffio) l’eterna esponente della destra, Keiko Fujimori, figlia prediletta di Alberto Fujimori, il dittatore incarcerato dal 2007 per scontare una condanna a 25 anni.

L’errore decisivo

Difficile trovare successi nell’anno e mezzo di presidenza Castillo. Ad aprile 2022, proteste di piazza contro il rialzo dei prezzi del carburante portano a scontri con le forze dell’ordine e paralizzano il paese. Nello stesso mese il presidente si fa notare per una proposta di legge sulla castrazione chimica dei violentatori. A maggio, il suo progetto di riforma della Costituzione del 1993 (risalente, dunque, all’epoca fujimorista) attraverso un’assemblea costituente viene bocciato dal Congresso. Il 6 dicembre, poche ore prime di una nuova (la terza) mozione di messa in stato d’accusa («moción de vacancia», «impeachment») da parte del Congresso, Castillo si rivolge ai peruviani con un messaggio televisivo: «Fratelli e sorelle del Perù […]. Stasera confermo che non ho mai rubato un solo sol al mio paese. Non ieri, non oggi, né mai. Sono onesto. Un uomo di campagna che sta pagando gli errori per la sua inesperienza ma che non ha mai commesso alcun reato. […] Voglio ribadire, dalla casa di tutti i peruviani, il palazzo del governo, che sono un democratico che rispetta la Costituzione, le istituzioni, il giusto processo, lo stato di diritto e l’equilibrio dei poteri. Continuerò a lavorare instancabilmente, per promuovere la riattivazione e la crescita economica per raggiungere ogni angolo del paese con opere e sviluppo che generino l’eguaglianza che tanto desideriamo».

Parole del tutto condivisibili, ma clamorosamente disattese poche ore dopo con il suicidio politico dell’autogolpe.

Per il Perù, tuttavia, quella dell’ex presidente Castillo non è una storia particolarmente originale viste le disavventure giudiziarie dei predecessori (Alejandro Toledo, Ollanta Humala, Alan García, Pedro Pablo Kuczynski, Martín Alberto Vizcarra). Eppure, il male oscuro del paese non pare trovare genesi nei suoi presidenti. Stando a un’inchiesta di Ipsos Perù (del 22 settembre), è il Congresso a essere considerato come la più corrotta tra le istituzioni peruviane e quella che meno agisce per combattere la corruzione. Molto netto è anche il giudizio del Centro Bartolomé de las Casas secondo il quale «il sistema politico nel suo complesso sta attraversando un processo di disprezzo, disaffezione e diffidenza che mina la fattibilità della democrazia in Perù».

Dina Boluarte

La presidente Dina Boluarte, della quale i manifestanti chiedono le dimissioni. Foto Andina.

Alla massima carica dello stato è subentrata la vicepresidente Dina Boluarte, avvocata di 60 anni con un percorso politico tortuoso alle spalle (era alleata di Castillo). Nella storia del paese, è la prima donna ad assumere la carica di presidente, il 131° in 201 anni di vita repubblicana. Dovrebbe rimanere nel ruolo fino alle prossime elezioni anticipate, ma su quando esse avverranno, al momento (6 febbraio) non c’è accordo: il Congresso ha bocciato più volte l’anticipo a ottobre 2023, tanto da spingere la stessa presidente a presentare un progetto di legge per stabilire la data. Fin dall’inizio, la sua presidenza è stata segnata, soprattutto nel Sud del paese (Puno e Cusco, in particolare), dalle proteste di piazza (blocchi stradali, invasioni di strutture pubbliche, incendi di commissariati e tribunali, saccheggi di negozi e supermercati) di chi rifiuta l’imposizione del nuovo corso politico. Proteste che hanno lasciato sul terreno almeno una sessantina di morti, una ventina nella sola giornata del 9 gennaio (dati Defensoria del pueblo). I manifestanti hanno sempre respinto le accuse di aver fatto ricorso, per primi, alla violenza incolpando gruppi d’infiltrati che avrebbero agito per screditarli. Difficile appurare la verità, anche se varie fonti confermano che «los Ternas» (poliziotti del «Grupo Terna» che agiscono in borghese) siano stati particolarmente attivi durante le manifestazioni. Quello che è certo è che le forze dell’ordine hanno risposto con una violenza ingiustificata. Come denunciato anche dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e dalla (pur timida) Organizzazione degli stati americani.

«Basta», è stato costretto a titolare El Comercio, il quotidiano dell’élite peruviana dopo la citata giornata del 9 gennaio. Il giornale ha scritto che molti manifestanti (non – si noti bene – la gran parte o la maggioranza di essi) sono scesi in strada in maniera pacifica e che «la risposta dello stato non è stata la più adeguata». «È necessario – ha scritto il quotidiano la República in un suo editoriale («Paren la matanza») – che si fermi il massacro, nel quale sono coinvolti un governo che si disinteressa, usa la violenza in maniera indiscriminata e agisce come se nulla stesse accadendo, e un Congresso incapace e che volta le spalle alla realtà» (10 gennaio).

Più netto César Hildebrandt, uno dei più noti giornalisti peruviani, secondo il quale non c’è nulla di eroico nella resistenza di una presidenta rifiutata dal 70% dei cittadini (secondo inchieste Iep e Ipsos). Sul settimanale da lui diretto, si legge (3 febbraio): «Ogni giorno c’è più tensione tra la presidente della repubblica e il capo del consiglio dei ministri (Luis Alberto Otárola). Questo rende ancora più debole un governo che deve affrontare un Congresso inamovibile e l’indignazione della strada. Il paese sembra un tunnel senza uscita».

Andare alle elezioni quanto prima è una soluzione suggerita (3 febbraio) anche da The Economist, il noto settimanale internazionale (che certamente non è una voce vicina alla sinistra).

Centinaia di manifestanti radunati davanti alla cattedrale (barocca) di San Carlos Borromeo, nella piazza principale di Puno, il 9 gennaio 2023. Foto Juan Carlos Cisneros – AFP.

Lima e gli altri

Gianni Vaccaro, cooperante italiano di area cattolica che abita con la famiglia peruviana alla periferia di Lima, ci dice: «Capisco i manifestanti. La popolazione che ha votato per Castillo – quella del mondo rurale, del Sud andino e della sierra in generale – sostiene che il suo voto non è stato rispettato e per questo chiede che presidenta e Congresso se ne vadano».

«Questa – sostiene il nostro interlocutore – è una manifestazione storica, perché è il mondo rurale che protesta, proprio contro i privilegi di Lima, che ovviamente è indifferente. Per Lima intendiamo la sede rappresentativa dell’élite di sempre, quella che, dal 1821 (anno dell’indipendenza, ndr), ha ereditato il colonialismo spagnolo per esercitare un colonialismo interno». Si è parlato – obiettiamo – anche d’interferenze esterne (dei paesi vicini e dell’ex presidente boliviano Evo Morales): «Un’altra volta l’idea coloniale, classista e razzista che, se il mondo rurale protesta, è perché qualcuno lo sta manipolando».

«Non può essere – conclude – che il Congresso, simbolo della Lima escludente e razzista, abbia sempre la partita vinta». D’altra parte, se quasi il 60% dei cittadini considera giustificate le proteste della piazza significa che anche Puno, Cusco e la sierra fanno parte del Perù.

Paolo Moiola


IL PERÙ SU MC
Paolo Moiola, Wilfredo Ardito Vega, Gianni Vaccaro, Perù, 1821-2021. Duecento anni sono pochi, dossier, agosto-settembre 2021,.


La Chiesa peruviana davanti alla crisi

Mons. Carlos Castillo celebra la messa nella cattedrale di Lima avendo sull’altare le fotografie delle 49 persone morte durante le manifestazioni (15 gennaio 2023). Foto Ernesto Benavides – AFP.

«il popolo sovrano ha diritto di decidere»

Una società al limite della guerra civile non poteva non trovare riflessi all’interno della Chiesa cattolica del paese. Proviamo a ripercorrere le tappe di questa escalation di eventi drammatici.

In dicembre, poche ore dopo il tentativo di golpe, la Conferenza episcopale della Chiesa cattolica (Cep) – istituzione ancora forte nel paese andino – emette un comunicato per stigmatizzare «la incostituzionale e illegale decisione del signor Castillo» ed esprimere fiducia nelle istituzioni democratiche.

La novità più interessante è, però, il comunicato interreligioso del 22 dicembre. «Interreligioso» nel senso pieno del termine visto che è sottoscritto da tutti i rappresentanti delle confessioni religiose presenti nel Perù: dai cattolici agli evangelici (di varie denominazioni), dagli islamici agli ebrei, dagli ortodossi ai mormoni.

«Riconosciamo la dura crisi sociale e politica, che non è di oggi, ma ha radici profonde in una storia di disparità e disuguaglianze», si legge nelle prime righe. La richiesta dei firmatari è precisa: «La grave situazione richiede uno sguardo che non si riduca solo all’immediato, ma si estenda alle politiche di lungo e medio periodo, dove l’istruzione e il lavoro siano l’elemento centrale, per il bene di tutti i peruviani». Il documento si conclude con queste parole: «Chiediamo pace, tranquillità, unità e riconciliazione sulla base di un ampio processo di ascolto e dialogo nazionale».

Meno legata alla situazione politica peruviana, ma sicuramente significativa, è invece la lettera di auguri natalizi firmata da mons. Héctor Miguel Cabrejos Vidarte, presidente sia della Cep che del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano). In essa, il prelato sottolinea, infatti, la necessità di far fronte ai bisogni di «coloro che non hanno le tre T assicurate “Techo, Trabajo, Tierra” (tetto, lavoro, terra)».

Successivamente, davanti alle decine di morti di Juliaca (Puno, 9 gennaio 2023), la Conferenza dei vescovi peruviani denuncia gli eventi «come conseguenza della distorsione del diritto alla protesta, facendo ricorso all’illegalità; e, per altro lato, per l’uso eccessivo della forza (da parte di forze armate e polizia, ndr). Entrambe le situazioni sono da condannare e per entrambe occorre, prontamente, individuare i responsabili. È necessario distinguere le giuste proteste dal resto […]. Camminiamo uniti per costruire la pace nel nostro amato Perù».

Ancora più significativa è la celebrazione nella cattedrale di Lima di domenica 15 gennaio. Per l’occasione, sui gradini che portano all’altare principale vengono collocati sei pannelli con le foto delle vittime degli scontri. Mons. Carlos Castillo, arcivescovo della capitale e primate del paese, legge i nomi di tutti i 49 morti (le vittime fino a quel momento, ndr) e tiene un’omelia che, pur incentrata sul dolore per le morti e la violenza, non risparmia nessuno.

«Oggi mediteremo su cosa significhi tutto ciò che sta accadendo. Alla Chiesa compete una riflessione fondamentale di natura spirituale. Le indagini, le interpretazioni politiche, economiche e sociali, corrispondono ad altri ambiti. Noi non andiamo né a destra né a sinistra, né al centro, noi andiamo in fondo».

«Ci sono modi pacifici di organizzarci per risolvere le grandi necessità di ogni regione povera del Perù – dice ancora l’arcivescovo -. Non abbiamo bisogno di liquidare lo Stato che tanto è costato per costruirlo e che oggi  viene osteggiato per interessi meschini ed egoistici».

Tre giorni dopo, in occasione del 488.mo anniversario della fondazione di Lima, lo stesso arcivescovo officia una messa e un Te Deum con la presenza della presidenta Dina Boluarte, del sindaco Rafael Lopez Aliaga e del presidente del Congresso José Williams. A dimostrazione che la Chiesa peruviana, in questo drammatico momento storico, ha scelto di ricoprire una posizione super partes. Così, nel comunicato del 20 gennaio, i vescovi del Perù offrono la propria disponibilità «per mediare e per costruire ponti d’incontro».

Pochi giorni dopo, davanti alla presidenta è molto esplicito mons. Paolo Rocco Gualtieri, da pochi mesi nunzio apostolico nel paese andino: «Quando una parte della società cerca di godere di tutto ciò che il mondo offre come se i poveri non esistessero, questo, a un certo punto, ha le sue conseguenze. Ignorare l’esistenza dei diritti degli altri, prima o poi, provoca qualche forma di violenza inaspettata, come stiamo assistendo in questi giorni» (25 gennaio).

Se le gerarchie cattoliche – a parte qualche eccezione – sono legate a una sorta di diplomazia dell’equidistanza, meno lo sono alcuni sacerdoti. Come padre Luis Zambrano, prete diocesano e parroco della parrocchia Pueblo de Dios a Juliaca, diocesi di Puno, luogo del massacro del 9 gennaio: «Sono d’accordo che la via d’uscita più urgente sia che [Dina Boluarte] si dimetta dalla presidenza e faccia qualcosa affinché anche il Congresso si sciolga e si tengano le elezioni generali nel 2023. Si tratta di darle un consiglio affinché faccia quel gesto di distacco, quella rottura necessaria, pensando al futuro del Perù. […] Sarà un primo passo che calmerà un po’ l’attuale sconvolgimento sociale. Il tempo delle parole è passato. Ora solo un gesto può alleggerire questa situazione estrema».

In una situazione che non trova vie d’uscita condivise, il 3 febbraio anche la Chiesa ufficiale rompe però gli indugi attraverso un nuovo comunicato della Cep: «Il popolo sovrano ha diritto di decidere sui destini della nostra patria attraverso elezioni trasparenti e giuste per rinnovare i poderi esecutivo e legislativo».

Paolo Moiola

Mons. Cabrejos, presidente della Cep e del Celam. Foto Conferencia episcopal peruana – Cep.




È tempo per una nuova Colombia


Dallo scorso 7 agosto il paese latinoamericano è guidato da Gustavo Petro e Francia Márquez, un politico di sinistra e un’afrocolombiana. In queste pagine Angelo Casadei, missionario della Consolata, racconta il proprio stupore davanti a un cambio considerato epocale.

Arrivai in Colombia per la prima volta nel 1986, poco dopo l’assalto e la terribile strage (101 morti) al Palazzo di giustizia di Bogotá, compiuta dal gruppo guerrigliero M-19 (novembre 1985).

In quegli anni, il paese era in pieno boom (bonanza, in spagnolo) della coca e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, avevano trovato nel traffico della droga un mezzo per finanziare la loro guerra contro lo stato. Era pure il tempo del grande narcotrafficante Pablo Escobar (1949-1993), che con la sua guerra mise in ginocchio l’intero paese.

Il 9 marzo del 1990 l’M-19 depose le armi (pagando l’accordo con l’assassinio di molti suoi leader) e iniziò a partecipare attivamente alla vita politica: all’assemblea costituente e al rinnovo della Carta costituzionale (1991), nella quale le popolazioni indigene e gli afrocolombiani, fino ad allora invisibili, trovarono finalmente spazio con diritti e doveri.

Il neo presidente colombiano Gustavo Petro (a destra) con l’ex presidente Álvaro Uribe in una riunione avvenuta a Bogotà lo scorso 29 giugno, poco dopo la vittoria elettorale. Foto Gustavo Petro’s Press Office – AFP.

Gli anni di Uribe

Nel 2002, le elezioni presidenziali furono vinte da Álvaro Uribe Vélez che aveva creato un suo partito. Una volta salito al potere, Uribe iniziò una guerra sfrenata contro la guerriglia e in modo particolare contro le Farc, definendo queste un gruppo terrorista davanti alla comunità nazionale e internazionale.

Quando – era il 2005 – per la seconda volta tornai in Colombia, trovai una popolazione esausta per tanta violenza e una guerra di cui non vedeva la fine. Nel 2006, Uribe venne riconfermato presidente governando fino al 2010. Suo successore venne eletto Juan Manuel Santos, già ministro della difesa del suo governo. Santos però si allontanò dalla politica uribista facendosi promotore di un accordo di pace.

Nel 2014 venne rieletto proprio per portare a termine questo percorso di pacificazione che, dopo un lungo e travagliato cammino, si chiuse con gli accordi firmati in territorio neutrale, a Cuba, il 26 settembre 2016.

Nel 2018, alla presidenza del paese arrivò Iván Duque, un altro delfino di Uribe, anzi una sua brutta copia che avrebbe alimentato il malcontento tra la popolazione, soprattutto tra i giovani i quali, mossi anche da gruppi di sinistra, nel 2021 avrebbero organizzato i paros nacionales (scioperi nazionali) contro alcune riforme governative che ancora una volta andavano a favorire il sistema politico vigente e le classi più elevate.

Il 19 giugno 2022 (nel secondo turno elettorale), dopo un’intensa campagna con tensioni e conflitti, il popolo colombiano ha eletto presidente della Repubblica Gustavo Francisco Petro Urrego e Francia Elena Márquez Mina come vicepresidente.

Il villaggio di Hericha, sul fiume Orteguaza (Caquetá). Foto Angelo Casadei.

Una svolta storica

Sicuramente l’elezione di Gustavo Petro e Francia Márquez segna un cambio profondo nella storia colombiana, un punto di rottura nella politica nazionale e internazionale. L’elezione di un ex guerrigliero di sinistra e di una donna afro proveniente da una classe povera è qualcosa d’impensabile fino a qualche anno fa.

La Colombia è stata sempre governata da politici della destra e dai ricchi che dominano il paese fin dall’indipendenza dalla Spagna (luglio 1810). Pertanto, quello che è successo il 19 giugno 2022 è una pagina nuova e inaspettata.

È un fatto che queste elezioni abbiano dato un «giro» completo alla politica della Colombia, un paese «dove si vive il classismo, il razzismo, la violenza e la paura dei poveri», come direbbe la giornalista Yolanda Ruiz.

Esse hanno rappresentato l’emergere dell’«altra Colombia», della Colombia emarginata e messa alla periferia della vita. Esse hanno significato l’emergere di gruppi e settori storicamente discriminati ed esclusi, come sono i giovani, le donne, gli afrocolombiani, gli indigeni, i contadini e le minoranze sessuali.

Analizzando il risultato delle votazioni, un’altra impressione è che il paese ha messo in luce una forte polarizzazione politica sia per il numero di candidati presentatisi sia per le poche migliaia di voti che hanno separato Gustavo Petro dal suo rivale Rodolfo Hernández.

Alla fine di tutto nessuno ignora che l’elezione di Gustavo Petro e di Francia Márquez rappresenta una grande sfida per il paese e per il mondo: per la sua novità e per i possibili ostacoli che si potranno incontrare lungo questo nuovo cammino.

È sicuramente vero che sono molti i rischi che aleggiano sulla presidenza di Gustavo Petro. I maggiori sono la frattura sociale, lo scontento diffuso, la violenza. L’opposizione di certo non lo lascerà governare facilmente, come pure gli enti di controllo, gli apparati della giustizia, i gestori della finanza pubblica, e lo stesso esercito. In una parte dei colombiani c’è, inoltre, il timore che la Colombia intraprenda una strada come quella del vicino Venezuela.

La realtà è molto diversa. Ci troviamo davanti a un popolo lavoratore che, in questi anni, ha sostenuto l’economia, anche nei duri momenti della pandemia. Penso che, se la Colombia avesse voluto un cambiamento, in questo momento storico non avrebbe potuto che trovarlo nel presidente eletto.

La scuola elementare – una costruzione in legno e una in cemento – de La Macarena (Solano, Caquetá). Foto Angelo Casadei.

Una coppia unica

Gustavo Petro ha una grande esperienza politica che ha coltivato e sperimentato prima come sindaco di Bogotà, poi facendo parte dell’opposizione.

Petro è stato anche l’unico dei candidati che avesse un progetto di governo chiaro e preciso che punta molto sulla pace, la giustizia, l’educazione, l’ambiente e sull’appoggio alle classi povere. D’altra parte, per prima cosa, il neopresidente ha chiesto collaborazione all’opposizione per governare insieme e fare crescere il paese.

Al suo fianco, Petro si trova Francia Márquez, altra grandissima novità della storia politica colombiana: un evento nell’evento.

È, infatti, la prima volta che una donna afrocolombiana, proveniente dalle classi povere e madre sola, arriva nelle alte sfere del potere. Si tratta di una forma di rivincita storica del popolo afrocolombiano, discriminato ed escluso. Speriamo che sia questo l’inizio di un grande processo di emancipazione e di consolidamento dell’altra Colombia, quella emarginata, ghettizzata e senza dignità.

L’Uribismo di Iván Duque

Qual è il bilancio sul governo uscito di scena? Non è facile esprimere un giudizio sulla presidenza di Iván Duque. La sua elezione aveva significato il ritorno al potere dell’«uribismo». Duque è stato il successore di Juan
Manuel Santos, un altro discepolo di Álvaro Uribe che però, una volta eletto, aveva preso le distanze dal maestro (soprattutto firmando un accordo di pace mai accettato dall’ex presidente).

Iván Duque è stato eletto presidente come il consacrato di  Álvaro Uribe. Grazie a quest’ultimo, egli è passato dall’anonimato a figura di primo piano nella politica nazionale. Anzi, secondo alcuni, Duque è stato una specie di reincarnazione di Álvaro Uribe e il suo progetto si è identificato con l’«uribismo».

La presidenza di Iván Duque può essere classificata come una sorta d’esperimento. L’apparente improvvisazione nella selezione dei membri dell’esecutivo (con continui cambiamenti) e l’attuazione d’iniziative e progetti estemporanei ne sono la prova.

Sul suo bilancio complessivo ci sono pareri differenti: la presidenza Duque ha cioè generato sentimenti contrastanti, alcuni di approvazione, altri di disapprovazione.

Mons. Luis Castro, missionario della Consolata e intermediario nel processo di pace colombiano, morto lo scorso 2 agosto 2022. Foto Paolo Moiola.

Mons. Luis Castro, costruttore di pace

Nel percorso colombiano verso la pace va ricordato mons. Luis Augusto Castro Quiroga, missionario della Consolata, morto a 80 anni lo scorso 3 agosto. Lui è stato coinvolto in prima persona negli accordi di pace: è stato ai colloqui di Cuba, ha parlato a favore delle vittime, ha dialogato con molti ex guerriglieri. È sempre stato in favore dell’accordo di pace, perché – diceva – «un cattivo accordo è sempre meglio che la guerra».

Non è diventato cardinale di Bogotá perché ha sempre parlato chiaro per la pace e contro la politica di guerra dell’allora presidente Uribe.

A parte l’opera di mons. Castro, in questi ultimi anni, la Chiesa cattolica colombiana ha avuto notevoli cambiamenti impegnandosi di più in ambito sociale.

Nell’ultimo processo elettorale, non si è allineata con nessuno dei candidati alla presidenza. Al secondo turno, ha rispettato le proposte dei candidati rimasti in lotta: quella di Gustavo Petro e quella di Rodolfo Hernández. E ha invitato a esercitare il diritto al voto. In occasione delle ultime elezioni la partecipazione è stata, in effetti, molto alta rispetto alle votazioni precedenti. Finalmente molti giovani hanno esercitato il loro diritto di scelta.

All’inizio della mia seconda esperienza missionaria in Colombia, i superiori mi avevano destinato a Remolino del Caguán (Caquetá), terra di narcotraffico e con una forte presenza di guerriglia. All’epoca, quando m’incontravo con alcuni comandanti delle Farc, tutti mi confermavano che, per cambiare la situazione, bisognava arrivare al potere a tutti i costi e, l’unico modo – argomentavano ,- era attraverso le armi perché il sistema politico colombiano – incentrato su 46 famiglie che da oltre 200 anni detengono il potere – si disinteressava delle classi più povere della nazione.

La storia ha invece preso un cammino diverso con gli accordi di pace, lo scioglimento delle Farc e, infine, la vittoria di un ex guerrigliero e di una donna afrocolombiana.

Il popolo colombiano

Vivendo in questo bellissimo paese ormai da anni, sono stato testimone delle sue mille contraddizioni con un popolo che, da decenni, vive in mezzo alla violenza e all’ingiustizia, ma nonostante tutto rimane pieno di speranza e con una voglia di vivere straordinaria; un popolo accogliente, felice e sempre pronto a fare festa; un popolo lavoratore, mal retribuito ma con una grande capacità di superare le avversità per costruire un futuro diverso e migliore.

Angelo Casadei

 


Archivio MC

Articoli e video sulla Colombia:

Il gesuita padre Rengifo, presidente della Cev, mostra un volume della relazione finale della Commissione da lui presieduta.


La relazione finale della Cev

450.664 morti (ma «c’è un futuro se c’è verità»)

«Portiamo un messaggio di speranza e futuro per la nostra nazione violata e spezzata. Verità scomode che sfidano la nostra dignità, un messaggio per tutti come esseri umani, al di là delle opzioni politiche o ideologiche, delle culture e delle credenze religiose, dell’etnia e del genere». E ancora: «Invitiamo a guarire il corpo fisico e simbolico, multiculturale e multietnico che formiamo come cittadini e cittadine di questa nazione».

Sono due passaggi iniziali di Hay futuro si hay verdad, la relazione finale della Commissione della verità (Comisión del esclarecimiento de la verdad, Cev), presentata a Bogotà lo scorso 28 di giugno. Un lavoro di ricostruzione storica presieduto dal sacerdote gesuita Francisco José de Roux Rengifo, durato quattro anni e passato attraverso migliaia di interviste a testimoni, vittime e carnefici.

i numeri della guerra

«C’è un futuro se c’è verità» sarebbe una lettura appassionante se non fosse il «racconto» di una guerra interna che, tra il 1985 e il 2016 (anche se, in realtà, il conflitto colombiano ebbe inizio già negli anni Sessanta), ha prodotto 450.664 omicidi (80% civili, 20% combattenti, 91% uomini, 9% donne).

Secondo i dati raccolti dalla Cev, i responsabili di questi morti sono per il 45% i paramilitari, per il 21% le Farc e per il 12% le forze dello stato.

Gli omicidi, però, sono soltanto uno degli aspetti della guerra civile. Sono stati conteggiati 121.768 casi di scomparsa (desaparición forzada) e 50mila sequestri (opera questi al 40% delle Farc e al 24% dei paramilitari). Senza dimenticare i reclutamenti forzati: sono stati almeno 30mila le bambine e i bambini reclutati attorno ai 15 anni per entrare nelle Farc o nei gruppi paramilitari.

Infine, un altro numero drammatico: 7.752.964 persone sfollate (più del 10% della popolazione colombiana), con il 51% di adulti e il 49% di minori, 52% di donne e 48% di uomini. Una «moltitudine errante» che ha dovuto abbandonare case, terreni, animali, amicizie. Oltre che per i contadini (campesinos y campesinas, dice la relazione), il conflitto armato è stato particolarmente distruttivo per le comunità etniche, indigene e afrocolombiane.

La sfida odierna

Il primo volume (su 10 totali) della relazione finale si chiude parlando di riconciliazione. «Riconciliazione significa accettare la verità come condizione per la costruzione collettiva e superare il negazionismo e l’impunità. Significa prendere la decisione di non uccidersi mai più e togliere le armi dalla politica. Significa accettare che siamo molti – in varia misura, per azione o omissione – i responsabili della tragedia. Significa rispettare l’altro, al di là dei retaggi culturali e della rabbia accumulata. Che non ci sia più impunità. Che quelli che continuano la guerra lo capiscano che non hanno il diritto di continuare a farlo […]. Che dobbiamo costruire dalle differenze con speranza e fiducia collettiva».

Il lavoro della Cev è stato straordinario ed encomiabile. Ora, però, arriva il difficile: passare dalle parole ai fatti, dalla guerra alla costruzione della pace. Vedremo se i colombiani ne saranno capaci. Vedremo se Gustavo Petro e Francia Márquez saranno in grado di spingere il paese nella giusta direzione. Detto questo, è inutile negare quanto la speranza tende a nascondere: la sfida sarà enorme. Come già hanno mostrato le prime settimane di governo: il 2 settembre, sette agenti di polizia sono stati uccisi in un attentato nel dipartimento di Huila.

Paolo Moiola

Immagine simbolica dell’espansione economica di Pechino in America Latina, spesso subentrando a Washington. Foto CBN News.


 Le relazioni internazionali dei governi latinoamericani

Da Washington a Pechino?

La nuova Colombia nata con l’elezione di Gustavo Petro va ad allungare l’elenco di paesi latinoamericani guidati da rappresentanti delle sinistre. Ad oggi, infatti, sono in carica Andrés Obrador in Messico, Alberto Fernández in Argentina, poi Luis Arce in Bolivia, Pedro Castillo in Perú, Xiomara Castro in Honduras, Gabriel Boric in Cile, oltre ai tre leader più discussi: Nicolás Maduro in Venezuela, Miguel-Diaz Canel a Cuba e, soprattutto, Daniel Ortega in Nicaragua. In attesa dei risultati delle elezioni di questo ottobre quando, in Brasile, l’ex presidente Lula potrebbe sostituire Jair
Bolsonaro, uomo dell’ultradestra, distruttore dell’Amazzonia e imputato di genocidio.

Sono presidenti di sinistra (pur con una pluralità di sfumature, anche consistenti, di rosso) che si trovano a governare paesi con alcuni tratti comuni. Il primo è dato da società caratterizzate da enormi diseguaglianze con i ricchi che s’intascano la gran parte delle ricchezze, come raccontano i rapporti delle Nazioni Unite (Pnud). Una disparità sociale ed economica che viene amplificata dal colore della pelle e dall’etnia: afrodiscendenti e indigeni sono sempre discriminati rispetto ai bianchi e ai meticci, come ha evidenziato anche la pandemia da Covid-19.

Altro tratto comune è la religione cristiana e la sua influenza sulle società latinoamericane. Tutti i paesi sono a maggioranza cattolica, ma le nuove Chiese evangeliche e pentecostali, schierate a destra (senza se e senza ma), stanno crescendo anno dopo anno, spostando milioni di voti.

La tela cinese

E poi c’è il rapporto con gli Stati Uniti, un rapporto che potremmo definire di odio e amore. Odio che nasce dagli errori storici fatti da Washington nel continente, a iniziare dal golpe cileno del 1973. Amore perché è in quel paese che milioni di latinoamericani vorrebbero trasferirsi (come dimostrano le ininterrotte ondate migratorie). Nel frattempo, negli ultimi decenni, in America Latina è arrivata in forze la Cina con il suo capitalismo di stato. Verso Pechino non esiste (e probabilmente mai esisterà) un’attrazione, ma c’è un forte interesse economico per i suoi investimenti nell’area. Com’è stato confermato nel corso del 14.mo Summit dei Brics (l’alleanza a trazione cinese tra Brasile, Russia, India, Sudafrica e appunto Cina), organizzato da Pechino lo scorso 23 giugno.

Gli Stati Uniti e i paesi occidentali (con l’Unione europea in testa) possono ancora recuperare il terreno perduto in America Latina. Se faranno emenda degli errori del passato e se metteranno da parte gli atteggiamenti neocolonialisti, puntando invece su relazioni di pari dignità.

Paolo Moiola

Verso il porticciolo di Hericha sul fiume Orteguaza (Solano, Caquetá). Foto Angelo Casadei.




Perù: 1821-2021. Duecento anni sono pochi

Sommario

 

 


Il maestro venuto dalle Ande

Le elezioni e un bicentenario difficile

Prima la pandemia con 200mila morti, poi un’elezione che ha portato il paese sull’orlo di un golpe  «trumpismo andino») e di una guerra civile. Il Perù festeggia il bicentenario (1821-2021) della propria indipendenza in un clima molto teso.

Era il 28 luglio del 1821 quando il generale José de San Martín, uno dei liberatori delle Americhe, da un palco in piazza Mayor (Plaza de Armas) di Lima proclamò l’indipendenza dall’impero spagnolo. Nell’anno della pandemia, il Perù celebra non soltanto il bicentenario della propria indipendenza da Madrid, ma anche l’inizio di un nuovo quinquennio presidenziale.

Le elezioni dell’11 aprile e del 6 giugno sono state vinte dal maestro Pedro Castillo, atipico e imprevisto candidato della sinistra. Secondo l’organismo elettorale peruviano (Onpe), la differenza in suo favore è stata di 44.176 voti. Pochi, ma sufficienti per un sistema democratico che rispetti il «principio di maggioranza». Keiko Fujimori, la candidata della destra, figlia prediletta dell’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori (in carcere con una condanna di 25 anni per violazione dei diritti umani e corruzione), non ha però accettato la sconfitta dando il la a una lunga sequela di ricorsi legali al Tribunale elettorale nazionale (Jurado nacional de elecciones, Jne) e di pesanti azioni di disturbo (tentativi di corruzione del Jne, dichiarazioni golpiste di ex ufficiali delle Forze armate, manifestazioni di piazza, ecc.).

Eppure, anche gli osservatori dell’Organización de estados americanos (Oea) hanno sancito la regolarità del processo elettorale. Mentre Ned Price, portavoce del Dipartimento di stato degli Stati Uniti, si è felicitato con le autorità peruviane per «aver amministrato in sicurezza un altro turno di elezioni libere, giuste, accessibili e pacifiche, anche nel mezzo delle importanti sfide dovute alla pandemia di Covid-19» (22 giugno).

(Photo by Ernesto BENAVIDES / AFP)

Pedro Castillo

Il vincitore, José Pedro Castillo Terrones, maestro elementare, sindacalista e rondero (persona appartenente a gruppi rurali di autodifesa, ndr), ha prevalso principalmente nel Perù rurale, quello dimenticato dallo stato (soprattutto nei campi – fondamentali – della sanità e dell’istruzione) e impoverito da un sistema economico ingiusto.

Come abbiamo accennato all’inizio, la sua è stata una vittoria di stretta misura, ma ottenuta in condizioni proibitive. Contro di lui, candidato proveniente da Puña (Chugur, Cajamarca), un paesino della sierra (come è chiamata in Perù la regione delle Ande) dove anche le donne indossano un sombrero, è stata infatti orchestrata una campagna di disinformazione a tutto campo, sia in patria che all’estero (qui, sotto la guida del premio Nobel Mario Vargas Llosa). In Perù, si sono schierati contro Castillo i gruppi imprenditoriali, la classe medio alta di Lima, la quasi totalità dei media (per l’80 per cento appartenenti al gruppo de El Comercio) e quella parte di popolazione urbana abbagliata dall’assistenzialismo dei fujimoristi (finanziatori di «comedores» e «vasos de leche»). Castillo è stato chiamato «terruco» (terrorista) e «serrano» (peruviano di serie B), ma ha resistito a bugie e offese, rispondendo con grande moderazione.

Keiko Fujimori

La sconfitta, Keiko Fujimori, leader di Fuerza popular, è tuttora in libertà condizionata. Nell’aprile 2020 era stata rilasciata dalla prigione dove scontava la carcerazione preventiva a seguito di una lunga serie di capi d’accusa. Sconfitta nel segreto dell’urna (per la terza volta di seguito nella sua carriera politica), la signora Fujimori ha scatenato le sue truppe: un centinaio di avvocati, appartenenti agli studi più prestigiosi del Perù, e i suoi sostenitori, tra cui La Resistencia (un gruppo violento di matrice fascista), che protestavano per le strade di Lima. L’unico argomento utilizzato per attaccare l’avversario è stato il suo (presunto) comunismo. Se i seguaci di Keiko hanno mostrato cartelli del tipo «No al fraude comunista de la Onpe» o «Mi familia le dice no al comunismo», quelli di Castillo hanno issato cartelli che ricordavano l’essenza della democrazia: «Mi voto se respeta» (visto che i voti questionati sono quelli delle zone rurali, dove ha vinto il maestro).

L’azione destabilizzante di Keiko Fujimori non si spiega soltanto con la sua sete di potere, caratteristica probabilmente ereditata dal padre. Si spiega soprattutto sulla base dei suoi legami (anche finanziari) con l’oligarchia peruviana che domina il paese – materialmente e culturalmente – fin dal 1821.

Keiko Fujimori (Photo by Miguel Yovera / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

Il nuovo colonialismo

Il colonialismo non è finito con una data sui libri di storia. Ne ha parlato molto Aníbal Quijano, sociologo peruviano scomparso nel 2018. Il professore è andato oltre quel concetto generico per parlare di «colonialidad» (colonialità), intesa come «modello di potere».

Senza però fare ricorso al pensiero accademico, è sufficiente riportare quanto affermato in un’intervista da Eduardo Adrianzén, drammaturgo molto conosciuto nel paese: «C’è ancora una mentalità coloniale che non vuole considerare alla pari il cittadino amazzonico, andino o il peruviano che non è di una grande città o che non vive secondo i valori di questa. Il pensiero culturale egemonico-urbano-limegno pretende di essere l’unico e il solo corretto e proprio qui sta il problema, ed è per questo che vedi le élite dei dinosauri disperate perché non vogliono perdere il controllo. […] Oserei dire che il cittadino limegno medio ha quattro filtri che si attivano appena incontra qualcuno: il colorimetro (il colore della pelle), il vestimetro (i vestiti che indossa), l’odorimetro (l’odore che emana), il parlometro (come parla, se è istruito o no)» (La República, 27 giugno). Non si tratta di esagerazioni: il Perù è un paese razzista. «È un razzismo sotterraneo, ma che diventa esplicito sui social network», ha spiegato il sociologo Farid Kahhat (Bbc News, 2 luglio).

Golpe, stallo e resistenza

Per spiegare la situazione peruviana si è parlato di un «golpe lento», di un «trumpismo andino», paragonando il Perù agli Stati Uniti di Trump. Tutto vero com’è vera una pandemia che, soprattutto per carenze strutturali, ha già fatto oltre 200mila morti e mandato sul lastrico quell’enorme fetta di popolazione che vive di lavoro informale.

Le prime conseguenze dell’estenuante stallo politico sono state quelle solite, pesanti ma quasi noiose nella loro prevedibilità: svalutazione del sol, la moneta nazionale, rispetto al dollaro, caduta della Borsa (per mano degli immancabili speculatori), fuga di capitali (dei ricchi, ovviamente). Più una conseguenza più piccola, ma significativa: una decina di giornalisti delle televisioni Canal 4 (America Tv) e Canal N si sono dimessi o sono stati licenziati per non aver seguito la linea editoriale della proprietà (il citato gruppo de El Comercio) che imponeva di appoggiare Keiko Fujimori. Tanto di cappello – anzi, di sombrero (come quello sempre indossato da Castillo) – per questi giornalisti peruviani. Anche la Chiesa cattolica (approfondimento a pag. 39), dopo essere stata molto suggestionata dalla propaganda contro il (presunto) comunismo del vincitore, ha seguito la via indicata da papa Francesco chiedendo di riconoscere senza ulteriori indugi la vittoria di Pedro Castillo.

Dal 28 luglio 2021

Sono trascorsi duecento anni dall’indipendenza del Perù dalla Spagna, ma il processo di liberazione non è terminato. Come abbiamo visto, i retaggi del colonialismo (e della colonialidad) sono ancora ben presenti e radicati nel paese andino. Premesso questo, il 28 luglio 2021 segna un nuovo inizio, che sarà difficile, complicato, imprevedibile. Per ora è questa la sola certezza.

Paolo Moiola


Da una parte (e dall’altra)

La Chiesa cattolica peruviana e le elezioni

Sacerdoti e vescovi erano schierati in maggioranza contro il maestro Castillo. Poi, la rotta è stata corretta per merito dell’intervento (silenzioso) di papa Francesco.

Sono stati mesi complicati anche per la Chiesa cattolica peruviana, istituzione molto influente nel paese andino. Vescovi e sacerdoti sono intervenuti nel dibattito elettorale sia dai pulpiti delle chiese che da quelli dei social media. E sovente si sono schierati, scegliendo una parte.

Le avvisaglie di una lotta senza esclusione di colpi iniziano già a marzo quando il padre Jaime Ruiz del Castillo, missionario spagnolo e vicario generale della diocesi di Moyobamba (San Martín), fa parlare molto di sé per le feroci critiche all’«abortista» Veronika Mendoza, all’epoca principale candidata della sinistra, e per l’appoggio a Rafael López Aliaga (Renovación popular), membro dell’Opus Dei.

Un imprevisto di nome Castillo

Dopo il primo turno elettorale, celebrato l’11 aprile, la situazione cambia con il passaggio al secondo turno di Keiko Fujimori e, soprattutto, di Pedro Castillo, vincitore inatteso ed esponente di una sinistra vecchia maniera.

Si tratta di un cambiamento importante del quadro generale visto che Pedro Castillo e Keiko Fujimori hanno posizioni molto simili, se non coincidenti, sulle tematiche dirimenti in ambito religioso: aborto, matrimonio omosessuale, diritti Lgbt, eutanasia non rientrano nelle agende programmatiche dei due contendenti.

Tra vescovi e sacerdoti l’opposizione al maestro Castillo si concentra sulla sua adesione al marxismo, immediatamente declinato come adesione al comunismo duro e puro. E questo nonostante le ripetute smentite pubbliche dell’interessato: «Non siamo comunisti, non siamo chavisti, non siamo terroristi. Siamo lavoratori come ognuno di voi» (Andina, 28 aprile).

Una battaglia ideologica

Visto il clima esasperato, tra il primo e il secondo turno elettorale, la Conferenza episcopale peruviana (Cep) si unisce al Coordinamento nazionale per i diritti umani (Cnddhh), all’associazione civile Transparencia e all’Unione delle Chiese cristiane evangeliche del Perù (Unicep) per proporre ai due candidati l’accettazione di un accordo denominato «Proclama cittadino: giuramento per la democrazia», un patto in dodici punti per il rispetto della democrazia, delle istituzioni e dei diritti umani. Il 17 maggio, entrambi i contendenti firmano l’accordo durante un incontro pubblico trasmesso dalle televisioni. Il proclama, lodevole nelle intenzioni, non sortisce però gli effetti sperati e non abbassa i toni del confronto elettorale.

Nello stesso giorno, durante l’omelia nella parrocchia di Santa Mónica, a San Isidro, ricco distretto di Lima, il padre Pablo Augusto Meloni Navarro, sacerdote e medico, ricorda ai fedeli che «il comunismo è intrinsecamente perverso», come già aveva affermato papa Pio XI nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937. Senza mai citarne il nome, il padre critica lo slogan «palabra de maestro» utilizzato da Pedro Castillo (di professione maestro), affermando che il solo maestro è Gesù Cristo.

Il 24 maggio, monseñor José Antonio Eguren Anselmi, arcivescovo di Piura e Tumbes e membro del Sodalicio de Vida cristiana, in una lettera aperta scrive tra l’altro: «Lo faccio come un qualsiasi peruviano, che non vuole per il suo paese che il totalitarismo comunista distrugga la nostra libertà, i nostri diritti e la nostra indipendenza».
Lo stesso giorno, in favore di telecamere, Keiko Fujimori si reca alla sede della Cep per incontrare monseñor Miguel Cabrejos, presidente della stessa e del Consejo episcopal latinoamericano (Celam).

Il giorno seguente, la Cep rende pubblica una Carta al pueblo de Dios in cui, al punto 6, si condanna il comunismo come «un sistema perverso» e, al medesimo tempo, «il capitalismo selvaggio che riduce l’essere umano al consumismo e alla ricerca del profitto a ogni costo».

Lo stesso 25 maggio, nell’infuocato dibattito interviene anche padre Omar Sánchez Portillo, segretario generale della Caritas di Lurín, molto presente su YouTube con omelie e interviste. Il sacerdote lamenta che il clero e i fedeli stiano zitti davanti al pericolo comunista che comprometterebbe il futuro del Perù e che è nemico della Chiesa come sancito dal numero 2.425 del Catechismo della Chiesa cattolica (che rifiuta sia il «comunismo ateo» sia «il capitalismo che privilegia il mercato sulla persona», ndd).

Il 30 maggio, a una settimana dal secondo turno elettorale, monseñor Javier del Río Alba, arcivescovo di Arequipa, afferma: «Sappiamo tutti che il marxismo-leninismo è un’ideologia atea. Di conseguenza, tutto il programma e tutte le idee partono dalla negazione dell’esistenza di Dio; e sappiamo anche che, per questa ideologia, la religione è considerata come un nemico che deve scomparire». Il prelato specifica che la firma sul «Proclama cittadino» non significa che la Chiesa cattolica appoggi il candidato Pedro Castillo.

Il crocefisso di Keiko

monseñor Pedro Barreto

Dopo i risultati del secondo turno e davanti all’escalation di recriminazioni (soprattutto da parte di Keiko Fujimori), interviene monseñor Pedro Barreto, cardinale e gesuita, arcivescovo di Huancayo e primo vice presidente della Cep, il più conosciuto e aperto tra i vescovi del paese: «Invito tutti i cittadini e i partiti politici ad aspettare e rispettare scrupolosamente i risultati ufficiali di questo secondo turno. Mettere in discussione e parlare di frode, di golpe, insomma di tante altre cose, è irresponsabile e non possiamo accettarlo» (9 giugno).

A stemprare la situazione ci pensa papa Francesco incontrando a Roma prima (il 16 giugno) monseñor Cabrejos e, il giorno seguente, monseñor Carlos Castillo Mattasoglio, arcivescovo di Lima. Il pontefice invia una benedizione speciale «perché ci sia pace, unità e si trovino le vie migliori per risolvere i problemi del Perù, pensando sempre agli emarginati e ai poveri». Circolano foto con grandi sorrisi e abbracci. Viste le divisioni create dalle elezioni, quello di papa Francesco è un intervento necessario ma non sufficiente.

Il 26 giugno Keiko Fujimori, brandendo un crocefisso, prega in Plaza Bolognesi davanti ai suoi sostenitori: «Signore Dio onnipotente, Signore Gesù, ti chiediamo, oggi che il nostro paese è così polarizzato, diviso, pieno di paura e incertezza, che tu ci dia forza, speranza, amore, gioia, fede nel nostro futuro. Oggi siamo qui riuniti perché vogliamo conoscere la verità, vogliamo giustizia elettorale e che il popolo venga rispettato».

Lo stesso giorno, in Plaza San Martín, non lontana da quella dell’antagonista, Pedro Castillo, vincitore (virtuale) delle elezioni, si dimostra più laico e, per l’ennesima volta, ripete: «Non siamo chiavisti, non siamo comunisti, siamo democratici», ribadendo che il suo obiettivo politico è «non più poveri in un paese ricco, parola di maestro».

Correzione di rotta e mediazione

Sempre il 26 giugno, la Cep dirama un comunicato in cui, al punto 2, si dice di rispettare il risultato indicato dagli organi elettorali. Quattro giorni dopo è mons. Carlos Castillo a parlare stigmatizzando l’utilizzo dei simboli religiosi e il ritardo nella proclamazione del vincitore (Vatican News, 30 giugno). È un’evidente correzione di rotta, che fa infuriare la destra fujimorista (Aldo Mariátegui, Perú21, 2 luglio). Pertanto, vista la situazione pericolosamente polarizzata, è molto probabile che papa Francesco dovrà far sentire ancora la sua voce.

Paolo Moiola


Perù, tempi di maccartismo

La conversazione

Dopo le elezioni del 6 giugno, abbiamo conversato con Wilfredo Ardito Vega, professore all’Università Pontificia di Lima, esperto di diritti umani e scrittore. Ecco cosa ci ha raccontato.

«È difficile capire cosa ha vissuto il Perù in questo ultimo anno e mezzo», esordisce Wilfredo Ardito Vega, da noi raggiunto via WhatsApp nella sua casa di Lima. Noto professore universitario e scrittore, il nostro interlocutore non vuole iniziare a rispondere su elezioni e politica senza prima aver ricordato i 200 mila morti causati dal virus nel suo paese, cifre che portano il Perù ad avere il record del più alto tasso di mortalità per Covid-19 al mondo.

(Photo by Carlos MAMANI / AFP)

Sono 44.176 voti in più

Professore, andiamo alla situazione politica. Secondo l’organismo elettorale (Onpe), tra i due candidati alla presidenza ci sono stati 44.176 voti di differenza. Pochi, ma questa è la democrazia. Perché Keiko Fujimori e i suoi alleati stanno facendo di tutto per sovvertire il risultato elettorale? È una mossa disperata o un preciso disegno politico?

«Perché Keiko e i suoi alleati non vogliono la democrazia: vogliono il potere. Per questo hanno usato e stanno usando tutti i mezzi a loro disposizione, dalle campagne di destabilizzazione sui social network all’incitamento al golpe. Gestiscono diversi scenari contemporaneamente: annullare i voti, annullare tutte le elezioni, generare terrore nella popolazione. Bisogna però distinguere diversi settori: il partito di Fujimori, chiamato Fuerza popular, in pratica una mafia legata a gruppi malavitosi; i settori della destra conservatrice, dove sono presenti uomini d’affari, militari e alcuni leader religiosi; infine, c’è un settore, formato principalmente da gente di classe media e alta, fortemente influenzato dai media come la televisione (America, Willax) e il gruppo de El Comercio (si veda tabella a pag.43, ndr), che crede davvero che il Perù debba essere salvato dal comunismo. Va notato che costoro identificano il comunismo con Sendero Luminoso, il gruppo maoista assetato di sangue che causò molte morti negli anni Ottanta».

Lei non parla di «lotta politica», ma di «maccartismo» (sviluppatosi negli Usa negli anni Cinquanta, fu un’avversione esasperata verso persone ritenute comuniste, ndr). Come spiega l’utilizzo di un termine tanto pesante?

«Lotta politica vuol dire usare mezzi legali per arrivare al potere, significa dibattito e idee. In Perù, si è aperta una scena violenta in cui molte persone che hanno votato per Keiko non solo attaccano in modo razzista e classista coloro che hanno preferito Castillo, ma anche quelli della propria classe sociale, se essi hanno votato per il maestro, se hanno votato in bianco, nullo o non votato. Tutti sono accusati di essere comunisti, terroristi e nemici del paese. C’è una violenza molto grande nelle reti sociali e in altri spazi con insulti e attacchi a familiari, amici di scuola, colleghi di Università e di lavoro. Hanno anche stilato liste per non comprare in negozi tenuti da “comunisti” o “traditori di classe”. Sui social network viene chiesto esplicitamente di protestare davanti alle case di artisti, giornalisti, politici che non hanno votato per Keiko fino a quando loro e le famiglie non lascino il paese. Il linguaggio dell’intolleranza è tipico dei peggiori momenti della Guerra fredda, ma la cosa patetica è che nessuna delle persone vessate è comunista, ma gli aggressori sono convinti che lo siano».

Giustizia: carcere sì, carcere no

La magistratura ha chiesto che la signora Fujimori torni in carcere. Prima di queste elezioni, lei ha affermato che la pratica giudiziaria della «carcerazione preventiva» verso Keiko e verso altri era una misura esagerata. La sua critica dipende dal fatto che lei è un difensore dei diritti umani e un garantista?

«Sì, è così. Come difensore dei diritti umani, mi sembra che l’applicazione della carcerazione preventiva nel nostro paese sia attuata in modo sproporzionato. Anche nel caso di Keiko Fujimori, all’inizio la misura mi sembrava esagerata, ma ora, dopo tutte le azioni golpiste che il suo gruppo sta promuovendo, penso che sarebbe stata una misura giustificata.

Il pubblico ministero, infatti, aveva già chiesto un intervento sul partito di Fuerza popular per aver costituito un’organizzazione criminale sotto la facciata di un’organizzazione politica. Il provvedimento non era però stato accolto dai giudici in quanto alcuni avevano ritenuto che potesse essere percepito come una persecuzione politica. Tuttavia, i fatti di oggi evidenziano che sarebbe stato un provvedimento necessario e che questo gruppo non avrebbe mai dovuto partecipare alle elezioni».

(Ad aprile 2020, la signora Keiko è stata messa in libertà condizionata; a giugno 2021, il pubblico ministero ha chiesto il suo ritorno in carcere per violazione della stessa, ma la misura non è stata concessa, ndr).

Il Perù è un paese con grandi potenzialità, ma con grandi o enormi diseguaglianze. Le diversità programmatiche tra Castillo e Keiko sono proprio sull’economia: il primo è per un cambio importante (che fa paura all’oligarchia), la seconda è per la continuità con l’attuale sistema di libero mercato. È così?

«In verità, il principale cambiamento che Castillo propone si riferisce a una nuova Costituzione che sostituisca quella approvata nel 1993 da Fujimori (Alberto, padre di Keiko Fujimori, ndr). Sul piano economico, vuole che le società estrattive paghino per i loro profitti e vuole anche porre fine all’interferenza dei gruppi del potere economico nelle decisioni della politica. Tuttavia, mi sembra che la sua forza più grande sia rendere visibili i discriminati e gli esclusi, la cui miseria è stata accresciuta dalle decisioni prese da Vizcarra (presidente da marzo 2018 a novembre 2020, seguito da Merino per soli cinque giorni e, infine, da Sagasti, ndr) per cercare di combattere la pandemia. Provvedimenti sproporzionati e disastrosi, ma accettati con calma dai settori medio e alto. Per i poveri si è invece evidenziata la lontananza dello stato dai loro problemi».

(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP)

Quel «comunista» di Pedro Castillo

Quasi nove milioni di voti a testa. Lima (11 milioni di abitanti) ha però votato in larga misura per Keiko Fujimori, mentre il Perù rurale e andino ha votato per Castillo. Si può dire che esistano due paesi diversi?

«Il Perù è una società molto complessa. Nelle proteste avvenute a Lima in favore di Keiko, alcuni giovani avevano magliette con scritte in inglese (Better dead than red, No commies) che mostravano la loro assoluta distanza dagli altri peruviani, ma erano convinti che fosse un modo efficace di esprimersi. Gli abitanti di Lima sono più suscettibili alle campagne mediatiche dei gruppi di potere. Sono stati terrorizzati da settimane di immagini nei media che mostravano la crudeltà della vita in Venezuela e Cuba. I mega cartelloni stradali pro Keiko non facevano riferimento direttamente a lei, ma alla democrazia versus il comunismo. Se a questo si aggiungono razzismo, classismo e centralismo, Castillo non era più visto come un uomo di sinistra, ma come un mostro. Va aggiunto che, sebbene la popolazione di Lima abbia sofferto molto per la pandemia, l’impatto economico sul resto del paese è stato atroce. Le persone che sentono di aver perso tutto (letteralmente) sono più aperte al cambiamento. Allo stesso modo, non l’intero Perù sostiene Castillo. Come successo a Lima, anche sulla costa Nord, dove ci sono le città più sviluppate (Piura, Chiclayo, Trujillo), ha vinto Keiko».

La religione e la famiglia peruviana

Lei sostiene che la sinistra moderata di Veronika Mendoza ha perso perché ha insistito troppo su temi (aborto, unioni omosessuali, eccetera) che ai peruviani non interessano per nulla. È così?

«In realtà, pochi considerano Mendoza come moderata o più moderata. I media l’hanno presentata ugualmente vicina al chavismo e al comunismo. La differenza principale con Castillo è che lei era una candidata più vicina ai settori urbani, ma ha commesso troppi errori. In un contesto di pandemia, disoccupazione e crisi economica, la sua insistenza sui diritti sessuali e riproduttivi è sembrata del tutto fuori luogo. Inoltre, ha ignorato i sentimenti religiosi della maggior parte della popolazione, duramente colpita dalla chiusura dei luoghi di culto. Le persone di fede ritengono che, nei governi di Vizcarra e
Sagasti, siano stati presenti gruppi ideologici per imporre l’ideologia di genere e osteggiare la religione. Questa convinzione sarebbe confermata, secondo costoro, dal fatto che i centri commerciali hanno aperto i battenti sette mesi prima delle chiese e per entrare in un luogo di culto sono stati stabiliti requisiti di biosicurezza molto più severi che per entrare in un mercato o in una banca. A ciò va aggiunto il grande rifiuto che esiste tra i peruviani all’aborto e la presenza di forti movimenti di ricusazione dell’ideologia di genere, soprattutto nei settori evangelici. Mendoza era associata a tutte queste idee ed è per questo che è stata vista, al primo turno, come una candidata contro il cristianesimo. Castillo invece si è presentato con una prospettiva più vicina alla maggioranza dei peruviani sostenendo la famiglia tradizionale. Ecco perché, sui temi (fondamentali) della famiglia e della religione, lui è stato visto da molti peruviani come un moderato. A tal punto che molti peruviani bianchi hanno persino giustificato il loro voto per Keiko dicendo che Castillo è un candidato contro i diritti civili. Un pretesto per nascondere il loro pregiudizio nei suoi confronti».

Un paese razzista

Lei è anche un esperto di razzismo. Castillo è stato chiamato non soltanto «terruco», ma anche con il termine offensivo di «serrano». Il Perù è ancora un paese razzista?

«Il Perù è un paese estremamente razzista nei confronti della popolazione indigena e degli afro-peruviani. Per i bianchi dell’alta borghesia è un affronto totale che Castillo possa essere presidente. Sono disgustati nel vederlo indossare un cappello, nel sentire come parla, nel vedere il colore della sua pelle. Per questo lo paragonano a un animale, insistono che è ignorante e il loro disprezzo è rivolto anche ai suoi elettori.

È vero che ci sono stati altri presidenti con tratti andini come Alejandro Toledo, Ollanta Humala e Martín Vizcarra, ma la differenza sociale è abissale: Toledo era insegnante negli Stati Uniti, Humala ha studiato alla costosa scuola francese di Lima, Vizcarra vive nel quartiere più ricco di Lima. In Perù, al razzismo si affiancano classismo e centralismo, motivo per cui Castillo è molto più andino degli altri presidenti».

La Chiesa cattolica e la «minaccia» del comunismo

La Chiesa cattolica è un soggetto ancora importante in Perù? Come si è schierata in questa contesa tra Castillo e Keiko?

«La Chiesa cattolica ha molto peso nel nostro paese e tradizionalmente ha parlato molto contro la corruzione. Purtroppo, negli ultimi mesi, ha emesso pronunciamenti in cui non accenna a questo problema e, invece, pensa a condannare il comunismo come se questa minaccia fosse reale (il riferimento è al comunicato del 24 maggio, ndr). In questo modo, molti cattolici hanno creduto che il voto per Keiko fosse il voto cattolico. Ci sono diversi sacerdoti e vescovi che hanno seguito questa linea in modo abbastanza esplicito e la signora Fujimori di solito cita Giovanni Paolo II e Dio nei suoi comizi. Pochi altri sacerdoti religiosi, molti meno in verità, hanno messo in guardia sui problemi della povertà e dell’ingiustizia sociale. Le dichiarazioni anticomuniste della Chiesa sono state ampiamente respinte dagli elettori di Castillo, per i quali è stato deplorevole che un’istituzione così credibile abbia preso sul serio un argomento assurdo. Insomma, secondo me, la Chiesa ha perso molta credibilità da quando ha firmato quel pronunciamento. Peggio ancora, i vescovi hanno accolto Keiko Fujimori e hanno fatto una sessione fotografica amichevole (lo scorso 24 maggio, ndr), come se il suo ruolo negli scandali della corruzione fosse sconosciuto. Non c’è stato un incontro simile con Castillo, ufficialmente perché non si è presentato. D’altra parte, Castillo ha incontrato diversi leader evangelici e in vari eventi ha invitato i pastori a predicare durante il raduno».

Quindi, Castillo è legato a qualche Chiesa evangelica?

«Non mi piace molto mettere etichette. Comunque, la sua appartenenza religiosa non si sa con certezza, mentre la moglie e le figlie dovrebbero essere evangeliche».

(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP)

Il machete, il crocifisso e l’arroganza di Vargas Llosa

A Lima sono arrivati dalla sierra gruppi di ronderos per difendere la vittoria di Castillo. Da parte sua, tra un reclamo e l’altro, Keiko ha esibito il crocifisso alla folla dei suoi sostenitori. Cosa ne pensa?

«Personalmente non ho visto alcun rondero con machete e non capisco perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi. Il crocifisso è una nuova dimostrazione che Keiko ha perso tutto il pudore e vuole il supporto della gente a qualsiasi costo. Penso che quel gesto sia stato troppo anche per i cattolici».

Il premio Nobel Mario Vargas Llosa, neo fujimorista, però non demorde. Sui giornali di mezzo mondo continua a ripetere che c’è stata una frode elettorale e che il Perù è in pericolo.

«Vargas Llosa non è stato mai un buon politico. Non capisce il Perù né lo vuole capire. E si circonda solamente di un’élite arrogante come lui».

Il futuro sarà complicato

Nell’ultimo anno e mezzo, il suo paese ha vissuto prima la crisi pandemica e ora anche la crisi politica. Come vede il futuro?

«Il Perù che conoscevo nel 2019, prima della pandemia, è in frantumi. Miseria, fame, malnutrizione, disuguaglianza sono avanzate come mai prima in pochi mesi. Ci sono molte persone che hanno perso tutti i contatti con gli altri, perché vivono in isolamento. Per i bambini, gli adolescenti e gli anziani sono stati tempi particolarmente duri. Sarà molto difficile per la società peruviana rialzarsi, anche in quelle aree personali o familiari, dopo tanti danni. Molti paesi hanno affrontato situazioni drammatiche nel corso della loro storia, ma sono andati avanti, perché avevano chiaro in mente che la società doveva essere ricostruita. In Perù, la situazione è più complicata: ci sono mafie che vogliono assumere il potere e che potrebbero frenare qualsiasi tipo di ricostruzione».

Lei insegna all’Università Pontificia di Lima, una delle più prestigiose del paese. Se i suoi alunni le domandassero qualche commento sulla situazione del Perù, cosa risponderebbe?

«Direi loro che hanno dovuto vivere momenti molto difficili ma che debbono metterli da parte per non essere sopraffatti dallo scoramento. Sopravvivere in Perù è un compito difficile e ogni giorno ci sono nuove sfide. Direi loro di lasciare gli schermi dei computer, di uscire dalle loro stanze, di parlare con altre persone, di allenarsi e combattere per recuperare una condizione umana. Molti ragazzi, che nella pandemia hanno perso i loro familiari o che dovranno lasciare il college, hanno necessità di un trattamento psicologico. Come ho già detto, non sappiamo se il paese potrà essere ricostruito. Però, è importante lottare per preservare la propria integrità psicologica, fisica e morale».

 Paolo Moiola


I padroni delle notizie


NOTE:

(1) Il gruppo, appartenente alla famiglia Miró Quesada, è egemonico, detenendo il 78% della stampa peruviana. E, elemento fondamentale, raccoglie la quasi totalità della pubblicità per la stampa, le televisioni e il web (anche attraverso il sito perured.pe). A fine giugno, Juan Ricardo Macedo Cuenca, giudice costituzionale, ha dichiarato che la concentrazione dei media nelle mani del Grupo El Comercio viola la Costituzione.
(2) Per ricordare la vicinanza a Keiko Fujimori, è popolare la trasformazione di alcuni nomi: El Komercio, Keiko21, ecc.
(3) A giugno una decina di giornalisti peruviani sono stati licenziati o si sono dimessi per aver contestato la linea editoriale pro-Keiko delle televisioni appartenenti al Grupo El Comercio.
(4) América Televisión è la più importante rete televisiva commerciale del Perù. L’alleanza con la messicana Televisa le consente di trasmettere telenovelas, molto seguite nel paese.
(5) Emittente televisiva di estrema destra di proprietà della famiglia Wong, che deve la sua fortuna ai supermercati. In Perù, vige un capitalismo dominato da una ventina di famiglie guidate dai Brescia e dai Romero.
(6) Secondo il Digital News Report 2021, in Perù il sito del quotidiano El Comercio è il più visitato.
(7) Il quotidiano ospita le opinioni di Mario Vargas Llosa. Il premio Nobel è uomo di destra. Si è schierato apertamente con Keiko Fujimori e ha sostenuto l’ipotesi della frode elettorale.
(8) È la rivista dell’«Instituto de defensa legal» (Idl), editore anche dell’emittente Ideele Radio e del sito investigativo idl-reporteros.pe.

FONTI:

Reuters Institute, «Digital News Report 2021»;
OjoPublico-Reporteros sin fronteras, «Media ownership monitor, Perù»;
Pedro Maldonado, «Un pulpo de los medios de comunicación», Ideele Revista, n. 234.

A cura di Paolo Moiola
(Luglio 2021)


(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP


Il nuovo colonialismo e l’arte di arrangiarsi

Il fenomeno delle «invasioni»

Le «invasioni» di terre sono una caratteristica del Perù, soprattutto a Lima. È l’arte di arrangiarsi del popolo dimenticato e impoverito. È la risposta all’ingiustizia storica perpetrata da un’élite che si comporta esattamente come i colonialisti scacciati 200 anni fa.

Il Perù ha raggiunto l’indipendenza 200 anni fa, ufficialmente il 28 luglio del 1821. Tuttavia, almeno fino a oggi, il paese è stato costruito sulla base della (ristretta) visione del mondo che aveva e ha il piccolo gruppo dell’oligarchia peruviana, quell’élite criolla (i criollos sono i creoli, persone di origine europea nate nelle colonie dell’America Latina) discendente dei bianchi che hanno sempre gestito il potere.

Un potere che prima, al tempo della colonia spagnola, questa élite esercitava attraverso la corte dei viceré e poi, a partire dall’inizio della repubblica, si è ritrovata a gestire in proprio. Ancora oggi, il Perù è nelle mani di un gruppo ristretto (una dozzina di famiglie, conosciute come i «12 apostoli»), erede dell’élite originaria, che detiene il potere economico, sociale e culturale e definisce pertanto come deve essere il paese.

La Lima bianca e l’altra Lima

Questa élite bianca, urbana, installata principalmente a Lima (capitale per quasi 300 anni del più prestigioso viceregno dell’America Latina), ha guardato sempre al mondo occidentale come modello, dando però le spalle al resto del paese. Questo storicamente spiega come le grandi necessità della popolazione delle periferie e dell’interno del paese siano state sempre ignorate se non addirittura criminalizzate, alla luce dell’accusa di perturbare l’ordine e la pace.

Alla fine degli anni Cinquanta, questo modello ha causato le prime migrazioni dalle zone rurali alle città e soprattutto a Lima. Migrazioni definite «invasiones» dall’élite aristocratica, i cui antenati, per ironia della storia, secoli prima avevano invaso il Perù.

Fiumi di persone che scappavano dal sistema feudale del latifondismo si sono dovute conquistare uno spazio vitale per iniziare una nuova vita, occupando i terreni della desertica costa peruviana, fuori della capitale, adeguandosi a costruire ripari che avessero la parvenza di quattro pareti e un tetto. Si iniziavano così a costituire quei cinturoni di baraccopoli (asentamientos humanos, pueblos jóvenes, barriadas) abitate da esclusi e impoveriti. Esclusi e impoveriti che ancora oggi sono ignorati o criminalizzati dalla Lima bianca.

La mancanza di una vera e propria politica di stato, dovuta all’assenza di una visione realistica del paese, ha fatto sì che Lima (come tutte le maggiori città) crescesse inglobando le baraccopoli, legalizzando con successivi titoli di proprietà l’informalità delle «invasiones». Di conseguenza, oggi queste costituiscono la maggior parte del territorio di Lima metropolitana.

La particolare storia demografica della città lo dimostra: dalla fine degli anni cinquanta, Lima è passata da poco piú di un milione di abitanti ai quasi 11 milioni di oggi. Il tutto su un paese che, con una superficie quattro volte l’Italia, ha una popolazione totale di circa 31 milioni di persone. Pertanto, un terzo della popolazione del Perù vive a Lima: al centralismo politico, economico e finanziario ha fatto seguito il centralismo demografico.

Questo fenomeno di «invasiones» dalle regioni andine ed amazzoniche del Perù alle città e soprattutto alla capitale, non si è mai fermato del tutto, ma ha solo alternato periodi di maggiore o minore flusso. Ultimamente alla migrazione interna, si è aggiunta anche la necessità di case per i discendenti dei primi migranti e, in parte, anche dei migranti venezuelani, che in Perù sono più di un milione di persone.

Le invasioni, come e perché

Le ultime occupazioni, in ordine di tempo, di terreni desertici liberi avvengono proprio in concomitanza con il primo turno delle elezioni politiche generali.

Domenica 11 aprile, circa tremila persone, spinte dalla necessità di un tetto sotto cui vivere, occupano un’area nella zona conosciuta come Lomo de Corvina a Villa El Salvador, uno dei 43 distretti di Lima metropolitana, anch’esso fondato e auto costruito dal nulla sulle terre sabbiose a Sud della capitale nel maggio del 1971.

Si tratta di intere famiglie, provenienti questa volta non dall’interno del paese, ma da altre zone popolari di Lima che, disperate per non poter più pagare l’affitto per la perdita del lavoro (informale, di solito la vendita ambulante di qualsiasi oggetto commerciabile) a causa della pandemia, hanno approfittato del contesto elettorale, quando gran parte della polizia era occupata a garantire la regolare realizzazione della consultazione.

In questi giorni, di notte, centinaia di persone arrivano per occupare un terreno che appartiene all’impresa mineraria Luren. Il direttore generale dell’’azienda, Alejandro Garland, chiede alle autorità di intervenire e sgombrare subito gli invasori, avvertendo anche che l’area non è edificabile e che si tratta di una zona sismica.

Dopo quattro giorni, gli «invasori» hanno già diviso la zona occupata e ciascuno di loro ha già separato e delimitato il proprio spazio, dormendo sulle stuoie sistemate sul suolo sabbioso della collina, in tende o baracche montate alla meno peggio, scavando buche da adattare a latrine per le necessità immediate, organizzando una olla común («pentola comune»), cucinando comunitariamente il poco cibo che hanno potuto portare con sé e illuminando la notte con candele e lumi a petrolio.

La maggior parte di loro sostiene che questo gesto disperato è stato fatto per la necessità di un luogo dove vivere con la propria famiglia. «Sono venuto qui perché non potendo più lavorare, non ho più i soldi per pagare l’affitto. Se c’è un proprietario, perché non si è mai occupato di questa zona abbandonata?». Una donna assicura di avere il sostegno degli abitanti della zona, perché si ridurrebbero i casi di rapina o aggressione. Pertanto, chiede al proprietario di venire a parlare con tutti per trovare insieme una soluzione. «Vogliamo un posto dove vivere. Siamo disposti a lottare affinché ci lascino questo spazio. Non abbiamo denaro perché abbiamo perso tutto a causa della pandemia. Supplichiamo la polizia di non attaccarci».

«Non siamo trafficanti di terreno, siamo soltanto persone con grandi necessità», aggiunge un’altra persona per rispondere alle accuse di essersi messi nelle mani della delinquenza organizzata.

Attorno alla zona occupata ci sono circa 150 soldati che sorvegliano il terreno, oltre alla polizia nazionale del Perù. Questa ha assicurato che il ritiro avverrà in maniera pacifica, mentre il ministro dell’Interno, José Elice Navarro, ha detto che stanno cercando il dialogo pacifico con tutti.

Neppure il tempo di affrontare questa situazione che alcuni giorni dopo, la mattina del 13 aprile, nel Morro Solar, appartenente al distretto di Chorrillos, un altro dei 43 di Lima metropolitana, quasi 1.500 agenti di polizia arrivano per sfrattare migliaia di persone (si parla di oltre novemila). Molti occupanti si ritirano, ma un gruppo di cittadini continuano a scontrarsi con la polizia per tutta la giornata.

Secondo il reportage di Tv Perù, la televisione pubblica del paese, la polizia è entrata con i lacrimogeni per cercare di obbligare gli occupanti ad abbandonare la zona. Alcuni di loro, però, hanno iniziato a lanciare pietre e altri oggetti contundenti, per impedire alla polizia di sfrattarli dai terreni che già avevano lottizzato per costruire le proprie abitazioni. Alla fine, la polizia è riuscita a prevalere evacuando gli occupanti e impedendo un ulteriore accesso al luogo.

«Al fondo hay sitio»

Va detto che le invasiones avvenute in questo periodo elettorale sono solo alcune delle centinaia che accadono ogni anno fin dagli anni Cinquanta. Prima per sfuggire al latifondismo, poi – a partire dagli anni Ottanta – alla violenza del conflitto armato interno tra Sendero Luminoso (e, in minor parte, Mrta) e le forze armate e la polizia del Perù. E, ultimamente, anche per la migrazione climatica e come conseguenza delle concessioni di varie zone del paese alle grandi imprese multinazionali impegnate nell’estrazione di minerali, gas e petrolio.

Storicamente, in Perù non c’è mai stata una vera e propria politica di urbanizzazione e di uso del territorio. Le invasiones, la pratica dell’occupazione dei terreni, rimangono quindi come l’unica strada della popolazione disperata che, per altro, molte volte diventa vittima della mafia dei trafficanti di terreni.

Costoro occupano i terreni liberi, li lottizzano e garantiscono agli interessati che, in cambio di una certa somma di denaro, presto avranno un regolare titolo di proprietà. Normalmente questa mafia agisce in collaborazione con funzionari dei municipi dove avvengono le invasiones. Se l’occupazione ha buon esito, questi signori possono guadagnare migliaia di dollari in poche ore.

Le invasioni sono però l’unica maniera per ottenere uno spazio in cui vivere, presentandosi davanti alle autorità a occupazione compiuta. E molte volte esse, quando i terreni non hanno un particolare valore, tollerano la situazione, frenando così le tensioni sociali. Questa prassi ribadisce semplicemente la cosiddetta politica a doppio standard: lotti per autocostruzione senza alcun tipo di assistenza e servizio (acqua, elettricità, fognature, strade) per i più poveri, mentre si garantisce un’autentica formalità, crediti e zone urbanistiche di alto livello per i settori medio-alti della popolazione.

Un solo esempio basta per capire il paradosso: su una collina a Sud di Lima c’è un muro lungo circa dieci chilometri che divide vari insediamenti umani della zona d’invasione di Pamplona Alta (nel distretto di San Juan de Miraflores) dal quartiere Las Casuarinas (appartenente al distretto di Santiago de Surco), una delle zone più esclusive del Perù. È universalmente conosciuto come il «muro de la vergüenza» (della vergogna).

Secondo un recente rapporto pubblicato da Periferia (un’organizzazione peruviana specializzata in soluzioni urbane con un approccio ecologico) e Wwf Perù, quasi la metà della popolazione urbana del Perù (45,9%) vive in baraccopoli, in alloggi scadenti o con servizi idrici e igienico-sanitari assenti o inadeguati.

La gente povera afferma che l’unica politica abitativa in Perù è l’«arte dell’arrangiarsi» e, con amara ironia, ripete uno slogan ormai famoso: «Al fondo c’è spazio. Chi arriva prima se lo prende».

Giovanni (Gianni) Vaccaro


Hanno firmato questo dossier

  • Paolo Moiola – giornalista, redazione MC.
  • Wilfredo Ardito Vega – giurista, professore presso la Pontificia Universidad Católica del Perú (Pucp) di Lima, è esperto in diritti umani. Scrittore, è autore di vari libri, tra cui anche tre romanzi.
  • Giovanni (Gianni) Vaccaro – nato in Sicilia, vive a Lima dall’agosto del 1992. Con la moglie Nancy e i quattro figli ha deciso di vivere a Tablada de Lurín, periferia Sud della capitale peruviana, dove è responsabile dell’«Asociación de desarrollo solidario “Yachay Wasi de Tablada”». È rappresentante in Perù per la Focsiv.

 




Brasile: Al mercato vince Bolsonaro


A Manaus, capitale dello stato di Amazonas, dove Bolsonaro ha raccolto il 65% dei voti (50,28% nello stato, 55,2% a livello nazionale), era chiara la sua vittoria già prima dell’apertura dei seggi. In piazza e al mercato stravinceva proprio lui. Mentre i seguaci di Haddad e del Pt, pochi e timorosi, sembravano ancora crederci. Cronaca di tre giornate in strada, a cavallo delle ultime elezioni brasiliane che hanno incoronato presidente l’esponente dell’ultra destra, conversando con tassisti, venditori, professori, studenti e molti altri.


Testo e foto di Paolo Moiola


Manaus, 26 ottobre 2018. Nella città storica, quella che sorge attorno al teatro Amazonas, non ci sono manifesti elettorali ed è una rarità calpestare volantini sui marciapiedi. Non so se sia perché il risultato del secondo turno delle elezioni presidenziali è dato per scontato o perché la campagna si fa ormai soltanto sui social e su Whatsapp, che in Brasile è diffusissimo.

Qui, nello stato di Amazonas, il più vasto del Brasile, domenica 28 si voterà per il presidente e anche per il governatore. Questa è una terra di confine, coperta dalla foresta amazzonica, attraversata dal grandioso Rio delle Amazzoni (Rio Amazonas) e dai suoi affluenti, poco abitata se si esclude la capitale Manaus, un’isola urbana con oltre due milioni di abitanti (ufficiali). Una terra ricca, affascinante e fragilissima. Una terra da sempre dominata dalle destre, un tempo per motivi militari, oggi per questioni legate allo sfruttamento delle risorse naturali e alla lotta contro i popoli indigeni, gli unici legittimi proprietari di questi luoghi.

Ieri, giovedì 25, girovagando per la metropoli amazzonica, ho raccolto opinioni contrastanti. La sensazione è che il Brasile potrebbe scegliere Bolsonaro, a dispetto di un curriculum zeppo di aggettivi pesanti (o vergognosi) e di una campagna virulenta nei confronti di avversari e giornalisti. Al mattino, ho parlato con molti taxisti dell’aeroporto internazionale: tutti – nessuno escluso – hanno risposto che voteranno Bolsonaro perché il paese ha bisogno di un cambio. I taxisti costituiscono però una categoria particolare, soprattutto qui in Brasile dove Uber sta facendo razzia del mercato.

I professori di Haddad

Nel tardo pomeriggio, quando la temperatura era scesa un po’ sotto i 40 gradi toccati (e superati) nel corso della giornata, nella Plaça da Matriz, la piazza che sta tra la cattedrale (Nossa Senhora da Conceição) e il grande porto fluviale (Estação Hidroviaria do Amazonas) della città, ho notato un piccolo gruppo – non più di 6-7 persone – che si alternavano al microfono davanti a un manifesto di Fernando Haddad con alle spalle Manuela d’Ávila, la giovane candidata alla vicepresidenza. A lato dell’oratore, due sbandieratori. Nessuno dei passanti, però, si fermava per ascoltare. Soltanto alcuni passeggeri di autobus, che hanno una fermata proprio davanti alla piazza, gridavano qualcosa dai finestrini.

Forse anche per questo i manifestanti si sono interessati a me, unica persona a fermarsi ad ascoltare l’improvvisato comizio. Si sono presentati tutti con mano tesa e sorriso. Erano insegnanti di varie scuole e diverse materie. Alcuni giovani, altri sulla cinquantina. La professoressa Mariene Pantoja de Lima si è subito dichiarata militante socialista, spaventata da Bolsonaro, definito – senza giri di parole – candidato fascista, che farà marcire in galera non soltanto Lula ma tutti gli esponenti del Pt. Amaral, docente universitario, ha espresso timore per l’educazione pubblica. Una giovane insegnante di sociologia delle scuole superiori, più timida, assentiva a ogni affermazione dei colleghi. Due altre giovani professoresse hanno voluto farsi fotografare con la maglietta che recitava: «Scienze sociali, una via per la democrazia».

Ho chiesto: Haddad che possibilità ha di battere Bolsonaro che, al primo turno, ha ottenuto 16 punti percentuali in più? «Stiamo recuperando», hanno risposto all’unisono, mettendomi in mano l’adesivo «Haddad é Lula». E poi scrivendo – sul retro di un manifesto – i loro numeri di Whatsapp per restare in contatto e magari presenziare alle ultime riunioni del comitato di sostegno di Manaus.

La voce del mercato

Questo è accaduto ieri. Oggi, venerdì 26 ottobre, raccolgo opinioni al mercato coperto. Anzi, ai due mercati coperti, molto vicini ma diversi. Entrambi stanno sul lato sinistro del porto fluviale ed entrambi guardano al Rio Negro che scorre una ventina di metri oltre la strada. Il primo – Mercado municipal Adolpho Lisboa (Mercadão) – è ospitato in una storica struttura in ferro battuto, risalente alla favolosa epoca del caucciù (borracha) che portò Manaus nel mondo. Il mercato è stato ristrutturato anche – o forse soprattutto – per favorire l’accesso dei turisti. Tutto infatti pare un po’ da cartolina, soprattutto nella parte che ospita i gazebo dei prodotti dell’artigianato locale. La signora Rosi vende farine e bibite. È giovane e molto gentile: «Voto Bolsonaro perché sento di avere più affinità con lui. Il Pt è il passato». Un paio di metri più avanti c’è un banco del pesce: «Nessuno dei due. Tutti ladri sono», mi grida il venditore mentre con un coltello affilato pulisce un grosso tambaqui. E conclude: «Io voterò in bianco e metterò anche la firma».

Ben diverso è il mercato che sta un centinaio di metri più avanti, popolarmente conosciuto come il «mercato delle banane». La struttura è minimale e quasi non si nota, ma dentro si muove un universo di umanità. E di prodotti alimentari: dalla carne al pesce, dalla frutta alla verdura, dalle patate alle granaglie. Il reparto più affascinante è quello del pesce, forse perché questo viene pulito e tagliato in loco. È proprio qui che inizio la mia piccola indagine elettorale.

Il banco sull’angolo della fila porta una chiara firma evangelica: sopra il pesce, appese una accanto all’altra, ci sono le riproduzioni dei Salmi 21 e 23. «Bolsonaro o Haddad?», chiedo senza troppi preamboli alla fila di venditori in camice bianco. Quasi tutti – almeno sei persone – rispondono Bolsonaro, anche un giovane diciannovenne. Uno soltanto dice di non avere ancora deciso. Un altro precisa: «Se il Brasile fosse ben amministrato. Sarebbe un paese da primo mondo. Al pari degli Stati Uniti».

Nella foga di riprendere con la telecamera e, al tempo stesso scrivere, la penna mi cade tra i pesci pacu. Impossibile recuperarla senza portarsi dietro anche l’odore. Viene in mio soccorso una coppia di clienti. Lei raccoglie la penna e chiede che venga pulita. «Non con le mani. Con uno straccio», dice ridendo al venditore.

Lei si chiama Waldeniza Bessa ed è professoressa di architettura e urbanistica presso l’Università privata Nilton Lins. «Bolsonaro o Haddad?», chiedo imperterrito. «Bolsonaro, senza dubbi», risponde lei. E il suo accompagnatore, Valdir Rodrigues Bessa, insegnante di educazione fisica a San Paolo, dice che anche lui è per Bolsonaro.

Dal Venezuela… all’armatura di Dio

Lascio i banconi del pesce per quelli della frutta e delle verdure. Al banco segnalato con i numeri 45-47 ci sono due giovani. Faccio la consueta domanda. «Non votiamo perché siamo venezuelani», spiegano Almilcue Moreno e l’amica Kenneliz Zapata. Sono arrivati a Manaus un anno fa perché in patria la situazione economica era ormai insostenibile. Parlano molto male di Maduro, ma riconoscono che Chávez è stato un buon presidente. «Anche se era un militare», precisa la ragazza.

Mi fermo presso un altro banco evangelico, anche questo ben riconoscibile. Sulla parete, un manifesto della chiesa Paz e Vida dal titolo di «Armadura de Deus»: in esso è ritratto un uomo con un’armatura sulla quale, per ogni parte del corpo, è evidenziata la forza di cui i credenti evangelici sarebbero forniti. Denir, il proprietario, ha poca voglia di parlare di politica, ma non l’amico che è con lui, Deuti Barreto: «Bolsonaro è pericoloso per vari motivi. In primo luogo, perché è un militare e poi perché non ha un vero progetto di governo. Vince perché parla della violenza, un argomento molto sentito tra la popolazione». Approfitto della loquacità di Deuti per chiedere anche un commento su Lula: «Non è un corrotto. Lui avrebbe vinto di sicuro al primo turno e con il 70 per cento dei voti», esclama con convinzione.

Quando esco dal mercato è passato mezzogiorno e il caldo è soffocante. È tempo di rientrare in albergo. Lungo la strada, a lato della Plaça do Relogio, la piazza dell’Orologio, riparati sotto un albero, ci sono tre persone che distribuiscono volantini per Wilson Lima, candidato governatore per lo stato di Amazonas e sostenitore di Bolsonaro. «Per la presidenza abbiamo già vinto. Adesso dobbiamo vincere anche per il nostro stato», mi dicono Mauro Cezar, Roberto Carlos e Jacivania. Di lì a poco al gruppo si aggiunge un loro amico che difficilmente passerebbe inosservato dato che indossa maglia e pantaloni con i colori sgargianti della bandiera nazionale. Si chiama Paulo Goés, giornalista che fa campagna per i candidati vicini a Bolsonaro.

La speranza nel numero 13

La speranza arriva quando è già buio, dopo le 18.00. Prima, dentro al Teatro Amazonas, incontro Deilane, una giovane ventenne, studentessa di turismo che fa tirocinio come guida all’interno della struttura, l’unica vestigia storica di rilievo (risale a fine Ottocento ed è il simbolo dell’epoca del caucciù) di Manaus e dunque molto visitata. Le chiedo se sia vero che gli evangelici – che costituiscono circa il 30% dei brasiliani – votino in massa per Bolsonaro. «Tanti di loro votano per quel signore, ma non tutti. Qualcuno non ha gradito l’uso strumentale che lui fa della Parola di Dio. Io sono cattolica e così la mia famiglia: noi votiamo Haddad senza alcun dubbio». A dispetto della sua giovanissima età, Deilane è preparatissima: «Bolsonaro è un ex capitano ma per 29 anni è stato al Congresso. Il suo vice, il generale in congedo Antonio Hamilton Mourão, è più pericoloso di lui».

Poco dopo, in una via dietro allo stesso teatro, m’imbatto in una manifestazione pro Haddad. Con musica e cibo, e un buon numero di persone, soprattutto giovani, tutti con il numero 13 – l’identificativo di Haddad – appiccicato sul petto. Come Renan Feitosa, 31 anni, e Yara di 26, entrambi laureati in chimica e attualmente studenti di dottorato all’Università federale (pubblica). Sulle loro magliette è attaccato un foglio scritto a mano: «Scienza sì! Silenzio no! Per l’educazione, per la democrazia». Renan commenta: «Bolsonaro non conosce il discorso democratico. È un vero fascista». E Yara, più timida ma egualmente decisa: «È semplicemente orroroso».

La lunga giornata termina con Silvania Farias, 35 anni, psicologa, e Rosane Pinheiro, 47 anni, impiegata amministrativa. Agguerrite e fiduciose nella rimonta. Racconto loro del plebiscito pro Bolsonaro riscontrato, al mattino, tra i banchi del mercato. E loro mi danno un’interpretazione che io non avevo considerato «Al mercato tutti debbono dire Bolsonaro perché le licenze dipendono dalla municipalità (prefeitura) e l’attuale sindaco (prefeito) appartiene a un partito suo alleato».

Ecco perché si dice che la speranza sia l’ultima a morire.


Manaus, domenica 28 ottobre

La speranza dei votanti di Haddad – «Ha ormai recuperato tutto lo svantaggio», dicevano in piazza citando non ben identificati sondaggi – ha avuto vita breve, poco più di una notte. Alle cinque del pomeriggio, appena chiuse le urne (elettroniche), mi reco al centro stampa allestito presso il Tribunale regionale elettorale di Amazonas, già affollatissimo di giornalisti in fila per approfittare del buffet e di telecamere schierate davanti al grande schermo interattivo. L’istogramma delle sezioni ricevute cresce molto velocemente. I risultati affluiscono con rapidità anche dai luoghi più lontani e isolati. Alle sei, appena un’ora dopo la chiusura della votazione, lo stato di Amazonas ha già il suo nuovo governatore (Wilson Lima), ma anche a livello nazionale la situazione è molto ben delineata. Alle sette, la sala stampa è ormai vuota per metà. Jair Bolsonaro ha vinto con oltre 57 milioni di voti (55%). Sarà lui il nuovo presidente del Brasile.

Paolo Moiola

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Messico, la corruzione, madre di tutti i mali


Con 30mila omicidi all’anno e oltre 53 milioni di poveri, con ampie zone del paese nelle mani dei narcos e i difficili rapporti con l’imprevedibile Donald Trump, il compito che attende il neopresidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo) è titanico. Paolo
Pagliai, rettore dell’Università «Alta Escuela para la Justicia», individua però il principale problema messicano nella corruzione che nega i diritti fondamentali delle persone trasformandoli in «favori».


Testo di Paolo Moiola


Dal primo dicembre Andrés Manuel López Obrador detto Amlo, è il nuovo presidente del Messico. Amlo, 64 anni, era stato sconfitto nelle presidenziali del 2006 e del 2012, queste ultime molto contestate. Al terzo tentativo, lo scorso 1 luglio, ha ottenuto oltre 30 milioni di voti, pari al 53,19 per cento del totale, più del doppio del secondo arrivato, Ricardo Anaya del Partido Acción Nacional (Partito d’azione nazionale, Pan). Il neopresidente ha vinto guidando Juntos Haremos Historia (Uniti faremo la storia), una coalizione tra due partiti di sinistra (il Partido del Trabajo e il Movimiento Regeneratión Nacional, Morena) e un piccolo partito di centrodestra (il Partido Encuentro Social), dissoltosi dopo le elezioni.

Di Obrador e dei problemi del paese abbiamo parlato con Paolo Pagliai, italiano cinquantenne, sposato con una messicana, da vent’anni a Città del Messico. Dottorato in pedagogia presso la Universidad Nacional Autónoma de México (Unam), già preside della Facoltà di lettere e filosofia presso l’Università del Claustro di Sor Juana, Paolo Pagliai è attualmente rettore di un’università con un nome impegnativo, Alta Escuela para la Justicia. Esperto e appassionato di memoria storica, diritti umani e pace, il professor Pagliai è la persona giusta per parlare di un paese che, pur essendo l’undicesima economia del mondo, è però gravato da problemi giganteschi con intere regioni nelle mani dei narcos (narcotrafficanti), oltre 53 milioni di poveri e una violenza da guerra civile (29.168 omicidi nel 2017).

Andres Manuel Lopez Obrador (© PCU)

Perché Amlo è la speranza

Professor Pagliai, ci sono tre aggettivi con cui lei descriverebbe la data del 1 luglio 2018?

«Il primo luglio: teso, emozionante, euforico (in quest’ordine). Il 2 luglio (the day after): allegro, speranzoso, meraviglioso».

Nel suo editoriale del 2 luglio su La Jornada parlava della vittoria di Amlo come del trionfo di un progetto trasformatore nella politica, nel sociale, nell’economia e nell’etica. Non è una affermazione esagerata ?

Il prof. Paolo Pagliai durante una conferenza nella capitale messicana.

«No, anche se scritto su La Jornada che – durante tutta la campagna – non ha certo appoggiato con chiarezza Andrés Manuel, può apparire piuttosto sorprendente. Morena può rappresentare effettivamente quel progetto trasformatore della politica di cui il Messico e tutto il continente latinoamericano hanno tanto bisogno. Le sue idee in campo economico, sociale e perfino etico, sono indubbiamente innovative. Amlo parla apertamente di “amore” in un contesto politico mondiale cinico dove l’egoismo di classe e il neo-sovranismo la fanno da padroni: amore come motore del cambiamento, come elemento decisivo per la soluzione e la trasformazione dei conflitti, come punto di partenza per una nuova politica di sicurezza pubblica; l’amore per gli altri come strumento per il dialogo politico, anche aspro, ma sempre rispettoso dei diritti altrui. Potrebbe deluderci, è vero. Potrebbe fare esattamente il contrario di quello che dice, esiste questa eventualità. Ma, in linea di principio, le aspettative dei messicani e delle messicane che hanno votato Morena sono altissime. Siamo di fronte a un momento storico, non ci sono dubbi».

Amlo è un populista?

Molti giornali internazionali, negli Usa ma anche in Europa, parlano di una (nuova) vittoria del populismo. Amlo è un politico di sinistra, un populista, un populista di sinistra o nulla di tutto questo?

«Dipende da cosa si intende quando parliamo di “populismo”. Non credo che ci sia – oggigiorno – parola più inflazionata e mal utilizzata di questa.

Se populista è la politica che appella ai bassi istinti della maggioranza, allora io escluderei che Amlo appartenga a questa categoria di politici molto in voga. In un mondo dove chiudiamo i porti e lasciamo in mezzo al mare navi cariche di disgraziati con l’appoggio incondizionato della maggioranza degli elettori, le parole di Andrés Manuel appaiono come veri e propri trattati di “politica complessa, difficile e raffinata”. Qui in Messico, durante la campagna, c’era il “Bronco” – uno dei candidati, un indipendente (Jaime Heliodoro Rodríguez Calderón, ex Pri, ndr) – che proponeva il taglio delle mani per i ladri; il partito verde, invece, proponeva la fucilazione per i sequestratori. Il populismo, da queste parti, non manca davvero e, così come in Italia, fa appello agli istinti più bassi dell’opinione pubblica, ma quando Amlo parla di riconciliazione nazionale, di giustizia sociale includente, di ricostruzione cooperativa del paese, il suo non è certo un discorso populista. Si tratta piuttosto di una proposta politica innovatrice e, in molti sensi, coraggiosa.

Ora se invece vogliamo intendere “populismo” come essere dalla parte degli ultimi, scegliere la causa dei poveri come se fosse la causa di tutti, rappresenta una scelta che fa riferimento a un non meglio precisato populismo, beh, allora, Andrés Manuel è un presidente populista. Che cos’abbia poi a che fare questo populismo con quello che lascia che i bambini affoghino in mezzo al mare, o si rifiuta di fare una legge contro la tortura o diminuisce le tasse ai più ricchi perché la classe media torni a sentirsi importante, lascio che lo chiariscano coloro che dalle sponde della vecchia Europa osservano con sospetto quanto sta succedendo in Messico».

(David Jones Zocalo)

La classifica dei problemi

In una ipotetica classifica dei problemi messicani in che ordine di importanza metterebbe la violenza, la corruzione, le diseguaglianze? Esiste tra queste problematiche una correlazione?

«Esiste una stretta relazione tra tutti i problemi di cui patisce il Messico, ma non è quella di causa-effetto che le persone potrebbero pensare o di cui vengono convinte dal processo di semplificazione della realtà i cui principali responsabili sono i mezzi di comunicazione di massa, completamente asserviti agli interessi dei partiti politici e dei grandi gruppi industriali e finanziari.

È la corruzione la madre di tutti i nostri mali: nega i diritti fondamentali delle persone trasformandoli in “favori”, genera dipendenza dai poteri e relazioni pericolose con i più forti, riduce sensibilmente gli effetti positivi delle politiche pubbliche e annulla ogni tipo di partecipazione genuinamente democratica da parte dei cittadini. Nella lotta alla criminalità organizzata, riduce l’efficienza e l’affidabilità delle forze dell’ordine, restituisce una magistratura assolutamente incapace di fare giustizia, e dei procuratori così inquinati dagli interessi politici che non possono, in nessun modo, garantire indagini minimamente indipendenti e degne di fede.

La corruzione, dunque, è la principale fonte di insicurezza, ma – non dobbiamo dimenticarlo – sta anche alla base della grande povertà che colpisce quella che è, a tutti gli effetti, la decima potenza economica mondiale e che, malgrado questo, conta, tra i propri cittadini, oltre 53 milioni di poveri. Nel nostro sistema corrotto, la ricchezza viene distribuita in maniera iniqua, cosicché, mentre i nostri ricchi sono tra i più ricchi del mondo (secondo Forbes, il messicano Carlos Slim Helu è al settimo posto nella classifica 2018 dei miliardari, ndr), i nostri poveri appartengono alla parte più povera. Già di per sé questa sarebbe una forma di violenza inaccettabile, ma se vi aggiungiamo la sistematica negazione dei diritti umani, accesso alla salute, all’educazione, alla giustizia, ecco allora che la povertà messicana assume dimensioni veramente angoscianti. Se poi, a tutta questa angoscia, sommiamo 200mila morti e 40mila desaparecidos negli ultimi 12 anni, un numero imprecisato di cartelli narco e di organizzazioni criminali che sottraggono il controllo del territorio alle istituzioni dello stato, il lento ma inesorabile esaurimento delle riserve petrolifere, e i riflessi su scala nazionale della crisi del lavoro che si registra a livello planetario, la relazione tra i problemi che affliggono il Messico, in questo momento nevralgico della sua storia, tesse un panorama complesso che richiede soluzioni creative, originali, collaborative, plurali e – prima di tutto – nonviolente».

Per 4 euro al giorno

In tutti i paesi, il sistema economico privilegia la finanza e maltratta il lavoro. La disoccupazione e la sottoccupazione sono il problema socioeconomico per eccellenza. Com’è messo il Messico? Cosa potrà fare il governo di Amlo?

«In Messico, il lavoro non costa niente. Il salario minimo non arriva a 89 pesos al giorno (circa 4 euro, ndr). Molte famiglie, moltissime, devono sopravvivere con due o tre salari minimi, scegliendo – giorno dopo giorno – se la priorità è mangiare, proteggersi dal freddo, muoversi con un mezzo pubblico o comprare un farmaco che a volte può essere vitale: ognuna di queste opzioni esclude automaticamente tutte le altre. Siamo il paese dell’economia informale, dove più della metà dei lavori si fa in nero, senza contributi e senza assicurazioni. Professioni come insegnare nelle scuole di ogni ordine e grado, o la ricerca scientifica sono oggetto di retribuzioni basse e sempre esposte alla precarietà del mercato. Non è difficile incontrare una persona che sia ingegnere chimico o architetto e che, in mancanza di altro, abbia scelto di guidare un taxi più o meno autorizzato.

In questo contesto che definirei più di miseria che di povertà, le grandi imprese – messicane e straniere – fanno affari d’oro. Per i governi anteriori, creare posti di lavoro era un’impresa relativamente facile: in fondo bastava regolare il mercato del lavoro informale e mettere, sul vassoio d’argento delle imprese straniere, migliaia di posti di lavoro sottopagati o, come preferisco dire io, offrire al miglior offerente centinaia di schiavi. Questo scandalo, con Amlo, deve avere fine. La nuova ministra del Lavoro, Luisa Alcalde (avvocatessa di 35 anni appena) ha già annunciato un incremento sensibile del salario minimo che, in pochissimo tempo, dovrebbe addirittura raddoppiare, spingendo in questo modo verso l’alto tutti gli altri salari».

(David Ludwig) elaborazione MC/Kreativezone

I vicini del Nord

Negli Stati Uniti, Donald Trump fa il bello e il cattivo tempo, governando via tweet. Il presidente accusa il Messico di varie cose: di esportare negli Usa migranti illegali e droga, ma anche di rubare lavoro agli statunitensi con le industrie Usa delocalizzate sul territorio messicano. Questi problemi indubbiamente esistono. Come è possibile affrontarli e risolverli senza arrivare alle soluzioni drastiche proposte da Trump?

«Migliorando le condizioni di vita di milioni di messicani in Messico. Restituendo, una volta per tutte, il suo vero significato alla sicurezza umana: accesso universale alla salute, all’educazione e alla giustizia; stipendi e condizioni lavorative rispettosi della dignità umana; un accordo di libero commercio che includa anche il libero movimento delle persone. In realtà sono queste le misure drastiche e coraggiose di cui abbiamo bisogno. Quelle di Trump sono solo il riflesso becero delle pulsioni più basse dell’opinione pubblica statunitense».

 Si ha l’impressione che il Messico sia indeciso tra l’essere un paese latinoamericano o un paese più legato ai vicini del Nord, Usa e Canada. È un’impressione errata?

«Verrebbe quasi da dire che ogni Sud ha il proprio Nord e che, per ovvie ragioni, ogni Nord ha il proprio Sud. Il Messico è un paese latinoamericano dell’America Settentrionale. In questo, non c’è nessuna contraddizione. La nostra realtà è peculiare proprio grazie alla nostra posizione geografica e alle nostre caratteristiche culturali: non siamo un paese sudamericano, con buona pace dei giornalisti italiani che continuano a descriverci come tale, perché sul planisfero non ci troviamo a Sud del mondo; siamo piuttosto un paese nordamericano di cultura e lingua latine. In questo contesto di diversità, si forma la nostra ricchezza culturale e, proprio da qui, ha origine una rete di opportunità per il Messico e per tutto il continente americano. Noi, oggi, abbiamo l’occasione di proporci come ponte fra il Nord e il Sud, una sorta di cerniera tra le due Americhe: un ponte culturale, sociale, politico, economico, senza muri e con pari opportunità per tutti gli abitanti di tutti i paesi che costituiscono questo meraviglioso e variegato bi-continente. Sento che il progetto di Amlo è portatore proprio di quei principi necessari per trasformare il Messico nella terra di incontro tra tutti i popoli americani: il suo è un messaggio di dialogo, nonviolento e carico di segnali positivi e umanistici che mettono sempre al centro il bene della persona umana a prescindere dalla sua appartenenza etnica, partitica e religiosa».

Professor Pagliai, il benessere di una persona è legato alla salute e all’educazione. In Messico esistono una sanità e una educazione pubbliche?

«In Messico esistono sia un’educazione che una sanità pubblica. La qualità dei servizi è profondamente scaduta negli ultimi 25 anni,  a causa di una cultura neoliberale che ha relegato i poveri nel settore pubblico spostando i ricchi verso quello privato. Da quando l’educazione pubblica è diventata, essenzialmente, l’educazione dei poveri, la sua qualità è scesa vertiginosamente. Lo stesso dicasi per la salute: gli ospedali per poveri hanno una bassa qualità dei servizi. Il tutto, però, non è irreversibile. Siamo ancora in tempo per cambiare il senso di marcia».

Per chi votano i poveri

Amlo è stato eletto soprattutto dai poveri, ma anche Matteo Salvini e Donald Trump sono stati votati ed eletti da disoccupati, emarginati, impauriti. Dove sta la differenza? È il fallimento della democrazia?

«Vero, ma la povertà di cui parlo io è un’altra cosa, si tratta di morire di fame, di diarrea, di un raffreddore banale… Vero, ma i disoccupati che votano Salvini non sono necessariamente gli ultimi. Vivono difficoltà grandi, non possono pagare l’affitto, perdono la casa che stavano comprando, ma di lì alla fame e alla disperazione assoluta il salto è grande. Direi piuttosto che alla base del voto leghista e, solo in parte, pentastellato, c’è una buona dose di povertà culturale, quella che, con grande scandalo di alcuni, chiameremmo più volentieri “ignoranza”. Quando poi è la “paura” a scegliere, beh, allora sì, la democrazia ha fallito miseramente. E non si tratta di sminuire i problemi degli italiani – problemi indubbiamente enormi – quanto di dimensionarli su scala mondiale: molti “poveri” italiani sono convinti che la loro povertà sia come quella dei “poveri” africani che si imbarcano sui gommoni. Si sbagliano. C’è povertà e povertà. E, comunque, la povertà non santifica il povero a priori. Se per combatterla, il povero italiano finisce per aggredire il povero extracomunitario con il peso e il potere delle proprie leggi, del proprio sistema, della propria ricchezza insomma, ecco che la povertà dell’italiano diventa un motore di violenza come tanti altri. Il carburante dell’odio. Chi erano gli elettori di Hitler? Chi sono i sostenitori di Maduro? Essenzialmente poveri. Poveri che, per uscire dalla propria condizione, autorizzarono la limitazione dei diritti di tutti (compresi i propri), sopportano la violenza esercitata contro gli altri e chiedono a gran voce la criminalizzazione, la stigmatizzazione, l’emarginazione e l’espulsione degli altri poveri. Ora, se per fallimento della democrazia si intende il fallimento globale di un progetto-paese chiamato Costituzione, mi trova tristemente d’accordo».

(da vignetta di Patrick Chapatte NYT)

Una cattedra speciale

Professore, perché dedicare – in una Università messicana – una cattedra a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, giudici italiani uccisi dalla mafia? Non sarebbe stato più giusto dedicarla a martiri della giustizia messicani? Se non ci fossero giudici messicani da ricordare, ci sono stati tantissimi difensori dei diritti umani e giornalisti…

«La prima risposta che mi viene in mente è la più ovvia: perché si tratta di una cattedra straordinaria fondata in collaborazione con l’ambasciata d’Italia.

Ma, lo riconosco, potrebbe non essere sufficiente. Dunque tenterò di sviluppare una breve riflessione intorno alla collaborazione internazionale su problemi che di locale non hanno assolutamente nulla. Uno di questi, il più grave nei propri effetti immediati, è quello della criminalità organizzata.

La libera cattedra “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” per la cultura della legalità e della responsabilità è il luogo della memoria e della ricerca al servizio della lotta alle mafie che infestano il Messico e il mondo intero. I due giudici siciliani rappresentano, simbolicamente e a livello internazionale, questa lotta. È vero: ci sono 200mila morti e più di 40mila desaparecidos in questo paese, dovuti – direttamente o indirettamente – al fenomeno criminale dei cartelli, ma la nostra situazione non è esattamente quella italiana, dove abbiamo – per il momento – ancora uno stato che si contrappone chiaramente al fenomeno mafioso. Qui in Messico, la contaminazione reciproca tra stato e criminalità è praticamente costante, in una sorta di sistema osmotico che non lascia margini apparenti alla speranza.

Ecco, all’università abbiamo un memoriale dedicato ai 43 di Ayotzinapa (gli studenti scomparsi nel 2014 in circostanze mai chiarite, ndr), così come un centro di documentazione dedicato alla figura del benemerito delle Americhe, Benito Juárez (1806-1872, eroe nazionale, primo indio del continente a rivestire la carica di presidente, ndr). Per la cattedra, la scelta di due simboli “stranieri” ha messo tutti d’accordo. Quella è la magistratura che non c’è e che invece vorremmo anche qui».

Paolo Moiola
(seconda puntata – continua)