Dopo la ribellione islamista nel Nord, il Mozambico si trova alle prese con un altro grave motivo di instabilità. Le elezioni del 9 ottobre hanno portato tensione, scontri, morti, dissidio tra il partito al potere (Frelimo) e quelli di opposizione (Podemos e Renamo).
Un fardello pesante per un Paese che sembrava avere imboccato la via dello sviluppo grazie alla stabilità macroeconomica raggiunta, nel 2023, con una crescita del Pil intorno al 5%, sostenuta dai progetti di estrazione di gas naturale liquefatto, dal settore dei servizi e dalla caduta (dal 10,3% al 3,9%) dell’inflazione.
La tornata elettorale pareva giocarsi sul filo della novità. Il Frelimo, partito al potere dall’indipendenza (raggiunta nel 1975), ha presentato Daniel Chapo, 47 anni, primo candidato a non aver partecipato alla guerra di indipendenza. Chapo, sostenuto dal presidente uscente Filipe Nyusi, nella sua campagna ha sottolineato la continuità politica e lo sviluppo economico, con promesse di riforme e di contrasto alla povertà. A sfidarlo un altro candidato giovane: Venancio Mondlane, 50 anni. Ex membro della Renamo, storica formazione di opposizione e del Movimento Democrático de Moçambique, ha fondato un proprio partito, Podemos, con un’agenda di giustizia sociale e gestione equa delle risorse naturali. I dati ufficiali del voto hanno sancito la vittoria di Chapo che avrebbe ottenuto il 70,6% dei voti contro il 20% del rivale Mondlane.
I risultati sono subito stati contestati. Podemos ha dichiarato, in base a un conteggio parallelo condotto dai suoi osservatori, che il vero vincitore (con il 53%) sarebbe stato Mondlane. Le accuse di frodi elettorali, l’assenza di trasparenza e le irregolarità nel voto sono state evidenziate anche a livello internazionale. Gli osservatori dell’Unione europea e della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc) hanno segnalato mancanza di trasparenza e una gestione inadeguata delle operazioni elettorali, nonché difficoltà per gli osservatori nell’accedere ai seggi elettorali. Anche se la posizione della Sadc è stata ambigua. Il presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, ha espresso le sue congratulazioni al Frelimo e al candidato Daniel Chapo per quella che ha definito «una vittoria schiacciante», nonostante i risultati ufficiali non fossero ancora stati dichiarati. Questo gesto di Mnangagwa, che è anche presidente della Sadc, ha sollevato critiche.
Diverse manifestazioni pacifiche, organizzate dall’opposizione, sono state represse dalle autorità con l’uso della forza. Almeno cinquanta manifestanti hanno perso la vita durante gli scontri, come riferito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Il caso più eclatante è avvenuto il 19 ottobre 2024 quando l’avvocato Elvino Dias, consulente legale di Mondlane, e Paulo Guambe, leader del partito Podemos, sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano in auto a Maputo. La polizia ha dichiarato di non avere ancora identificato i responsabili, e vari gruppi per i diritti civili hanno chiesto indagini urgenti su questi omicidi, interpretandoli come un segnale di pericolo per lo stato di diritto e la sicurezza politica nel Paese.
Dopo il voto, anche Amnesty International ha denunciato l’uso di proiettili da parte della polizia contro i sostenitori di Mondlane durante le proteste, richiamando il governo a rispettare i diritti di riunione pacifica. Mondlane stesso ha dichiarato di essere stato vittima di un tentativo di omicidio in Sudafrica, dove si è rifugiato per motivi di sicurezza.
Di fronte a questa situazione, i vescovi della Conferenza dei vescovi cattolici dell’Africa Meridionale (Sacbc) hanno inviato una lettera alla Conferenza episcopale del Mozambico nella quale chiedono «la creazione di spazi di collaborazione nella governance», suggerendo un possibile governo di unità nazionale «per dare al Mozambico un futuro di speranza». E hanno concluso: «Il Mozambico merita verità, pace, tranquillità e tolleranza».
Enrico Casale
Giappone. La rivoluzione delle urne
Ci si aspettava qualche cambiamento, ma è stata quasi una rivoluzione. Le elezioni legislative di domenica 27 ottobre in Giappone si sono concluse con un risultato clamoroso. Il Partito liberaldemocratico (Pld), forza conservatrice al potere per 65 degli ultimi 69 anni, ha perso la maggioranza assoluta. Non solo. Per arrivare ai 233 seggi della Camera bassa del parlamento necessari a governare, non basta nemmeno l’aiuto del Komeito, partito di ispirazione buddhista e storico partner di coalizione. Si tratta di una vera e propria batosta, andata al di là delle più nefaste aspettative di Shigeru Ishiba, premier da nemmeno un mese.
È stato lui a decidere di convocare elezioni anticipate, sconfessando la sua stessa parola, con l’obiettivo di consolidare la leadership conquistata a settembre al voto interno al Pld. La scommessa di Ishiba si basava su due convinzioni. Primo: il poco tempo concesso all’opposizione avrebbe evitato l’ascesa del Partito costituzionale democratico (Pcd), appena riunitosi sotto la guida dell’ex premier Yoshihiko Noda. Secondo: la sua lunga carriera di outsider e critico interno al partito gli avrebbe garantito di evitare le conseguenze dello scandalo sui finanziamenti che ha portato alle dimissioni il predecessore, Fumio Kishida. Entrambe le convinzioni si sono rivelate sbagliate.
Da una parte, Noda ha portato il Pcd da 98 a 148 seggi, grazie a un audace programma di riforme sociali mirate a contrastare l’ormai atavico problema dell’aumento del costo della vita. Dall’altra, le varie retromarce di Ishiba su una serie di promesse lo hanno reso agli occhi degli elettori meno in discontinuità rispetto alle precedenti gestioni del suo partito. Durante la campagna elettorale, Ishiba ha infatti sconfessato due promesse in materia di diritti civili, che lo avevano reso popolare tra i più giovani: la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso e la cancellazione della norma che impone ai coniugi di adottare lo stesso cognome. La mazzata finale è arrivata dalle notizie di stampa, secondo cui il Pld avrebbe continuato a pagare per la campagna elettorale di diversi parlamentari allontanati per il coinvolgimento nello scandalo dei finanziamenti.
Ishiba ora deve affrontare un futuro politico incerto. Il suo mandato potrebbe essere il più breve dalla Seconda Guerra Mondiale. I suoi (unici) vantaggi sono che il Pld non ha tempo di cercare immediatamente un nuovo leader, peraltro di non facile individuazione, e che per Noda sarà quasi impossibile unire tutte le forze di opposizione, che vanno dal Partito comunista alla destra radicale.
Entro 30 giorni, il parlamento si riunirà per conferire l’incarico di governo.
Ishiba sta cercando nuovi alleati, ma lo scenario più plausibile è quello di un esecutivo di minoranza, la cui azione potrebbe essere ampiamente limitata e rivolta soprattutto all’approvazione del bilancio suppletivo di fine 2024 e (forse) di quello dell’anno fiscale 2025 il prossimo aprile. L’orizzonte temporale del possibile gabinetto di Ishiba potrebbe non andare molto più in là, mentre l’ala ultranazionalista del Pld chiede già una riorganizzazione attorno alla figura di Sanae Takaichi.
L’impatto del voto potrebbe farsi sentire anche sulla politica estera e sulle relazioni internazionali del Giappone. La contemporaneità tra l’inedita instabilità di Tokyo e le elezioni presidenziali americane è parecchio sfortunata. Il fatto che il Giappone si trovi in uno stato di incertezza non aiuta a prepararsi a un possibile Trump due o anche a un’amministrazione Harris probabilmente più aggressiva sulla Cina. A risentirne anche la proiezione di Tokyo, che negli scorsi anni era diventato un punto di riferimento per il sistema di alleanze americane e per i vicini asiatici. Nella regione appare quindi un nuovo, imprevisto, punto di domanda. Le risposte del Giappone potrebbero non arrivare così presto.
Lorenzo Lamperti
Giappone. Nuovo premier a sorpresa
«Ho gravato enormemente sui miei sostenitori e non sono riuscito a soddisfare le aspettative. È un fallimento». Shigeru Ishiba pronunciava queste parole di fronte a una manciata di giornalisti il 23 ottobre del 2020, dopo essere arrivato ultimo alle elezioni per la leadership del Partito Liberaldemocratico, la forza politica che governa il Giappone quasi ininterrottamente dal secondo dopoguerra.
Era la sua quarta sconfitta, la più umiliante, perché non avvenuta contro il suo storico e potente arcirivale Shinzo Abe, ma contro il grigio Yoshihide Suga. Appariva finita, i giorni migliori di Ishiba sembravano alle sue spalle. Quando nell’agosto scorso si è candidato per la quinta volta, subito dopo l’annuncio delle dimissioni di Fumio Kishida, in pochi prevedevano che stavolta la storia avrebbe potuto avere un finale diverso. E, invece, quella che lui stesso ha definito la «battaglia finale» è stata quella giusta. Venerdì 27 settembre Ishiba ha vinto le elezioni interne al partito, ricevendo automaticamente l’investitura a 102esimo premier del Giappone dal Parlamento nella seduta del 1° ottobre.
Ishiba ha un passato da banchiere, prima dell’ingresso in politica nell’ormai lontano 1986. Attestatosi su posizioni moderatamente riformiste, negli anni Novanta trascorre un periodo all’esterno di un partito che ritiene troppo conservatore. Salvo rientrare all’alba del terzo millennio, per ricoprire i ruoli di ministro della Difesa prima e di ministro dell’Agricoltura poi. In tanti prevedono per lui l’ascesa a posizioni apicali. Previsioni stoppate dal dominio di Abe, con cui Ishiba entra ripetutamente in rotta di collisione. Le sue posizioni critiche lo rendono un personaggio scomodo all’interno del partito, ma parecchio popolare nell’opinione pubblica.
Eppure, i maggiori favoriti alle elezioni della scorsa settimana sembravano altri. Secondo diverse previsioni dell’inizio della campagna elettorale, in pole position parevano in particolare Shunjiro Koizumi e Sanae Takaichi. Il primo, figlio dell’ex premier Junichiro, pareva il più apprezzato dal campo allargato al di fuori degli iscritti al partito. Coi suoi 43 anni e la sua aperta ostilità verso il sistema delle fazioni, i sondaggi lo davano come referente della voglia di cambiamento, fattasi più forte anche dopo il grande scandalo sui finanziamenti che ha costretto Kishida a sciogliere la maggior parte delle correnti interne. Nonostante le diverse dissoluzioni, la logica delle fazioni (vero pilastro della politica nipponica) non è scomparsa del tutto. L’inesperienza di Koizumi gli è costata il terzo posto al primo turno di votazioni, aperte a parlamentari e in egual numero a una parte degli iscritti.
Giunto secondo, Ishiba partiva sfavorito al ballottaggio contro Takaichi, aperto solo a parlamentari e gruppi partitici locali delle diverse prefetture. La ministra della Sicurezza economica uscente, che puntava a diventare la prima premier donna di sempre, aveva d’altronde l’appoggio di tutti gli ex adepti di Abe. Ma anche la fazione dell’ex premier Taro Aso, l’unica rimasta ufficialmente in piedi, aveva optato per lei. Alla fine, però, Ishiba ha prevalso per soli 21 voti. Uno scarto minimo per la tradizione del voto interno al Partito liberaldemocratico. A premiarlo i dubbi del cuore moderato del partito, guidato da Kishida, per le posizioni ultranazionaliste di Takaichi, assidua frequentatrice del santuario Yasukuni, luogo a dir poco controverso dove tra centinaia di caduti si commemorano anche 14 criminali di guerra dell’era coloniale nipponica. Una sua vittoria avrebbe rischiato di far saltare il delicato disgelo con la Corea del Sud, acuito le tensioni con la Cina e portato molte incognite anche sul fronte interno. Le sue posizioni radicali sono state viste come un serio rischio di esposizione alle critiche dell’opposizione, che nelle scorse settimane è peraltro riuscita a riorganizzarsi intorno all’influente figura dell’ex premier Yoshihiko Noda.
Ed ecco allora che la scelta è caduta su Ishiba, nonostante lui stesso non garantisca una continuità assoluta con le politiche di Kishida. Anzi, sul fronte interno il neo premier si oppone all’utilizzo del nucleare nel processo di transizione energetica, al contrario del suo predecessore. In politica estera, manterrà senz’altro l’alleanza con gli Stati Uniti ma ha il dichiarato obiettivo di ridefinirla. Secondo Ishiba, i rapporti sono troppo squilibrati. Per questo, mira a rivedere l’accordo sullo status delle forze armate e a ottenere una condivisione del deterrente nucleare. Non solo. In campagna elettorale ha dichiarato più volte che vorrebbe la costituzione di una Nato asiatica. Alla base del suo desiderio, non c’è solo la necessità di elevare la sicurezza regionale di fronte alle turbolenze con Cina, Russia e Corea del Nord, ma anche quella di mettere a punto un meccanismo militare in grado di fare parzialmente a meno degli Usa. Ishiba (e non solo lui) ha infatti dei dubbi sulla tenuta dell’impegno americano in Asia-Pacifico, soprattutto qualora alla Casa Bianca dovesse tornare Donald Trump. In una parola, Ishiba mira a un certo grado di autonomia strategica. Obiettivo che non piace a Washington e che potrebbe causare qualche attrito nel futuro prossimo tra i due alleati.
Intanto, la prima sfida di Ishiba saranno le elezioni generali del 27 ottobre. In una mossa a sorpresa, il neo premier ha infatti dichiarato che intende sciogliere le camere e procedere al voto anticipato, nonostante in campagna elettorale avesse assicurato il contrario. L’opposizione si è arrabbiata, ricordando che Ishiba aveva stabilito che il voto si sarebbe fatto solo dopo aver «consentito agli elettori di giudicare il suo operato». Ma il Partito Liberaldemocratico ha consigliato a Ishiba di provare a far fruttare subito il gradimento dell’opinione pubblica, prima di dover mettere mano agli spinosi dossier economici, i più urgenti da aprire e risolvere. E prima che Noda riesca a strutturare l’opposizione.
Mancando solo poche settimane, l’esito delle elezioni generali potrebbe apparire scontato. Ma il Giappone sta insegnando che anche a Tokyo e dintorni di scontato c’è ormai ben poco.
Lorenzo Lamperti, da Taipei
Messico. Claudia, doctora y presidenta
Lei è Claudia Sheinbaum Pardo, delfina di Amlo, il presidente uscente. Guiderà il secondo paese dell’America Latina per popolazione. Un paese in crescita ma afflitto da una violenza endemica.
Nel paese dei femminicidi – nel 2023 sono stati 827 -, dal primo di ottobre una donna, la doctora Claudia Sheinbaum, sarà alla guida del Messico. Nelle elezioni dello scorso 2 giugno ha battuto – nettamente (36 milioni di voti contro 16,5, oltre 30 punti percentuali di scarto) – un’altra donna, la senatrice di origini indigene Xóchitl Gálvez.
Il dato (ufficiale) dei femminicidi è certamente drammatico, ma la contesa elettorale tra due donne indica che nel Paese latino-americano è in corso un cambiamento radicale. Inevitabilmente lento, ma effettivo.
Forse il passo più significativo può essere individuato nel decreto del 6 giugno del 2019, soprannominato «paridad de genéro en todo». Con esso furono modificati nove articoli della Costituzione messicana per applicare la parità di genere nelle candidature e nei posti negli organi esecutivo, legislativo e giudiziario, a livello federale, statale e municipale.
I sei anni di Amlo
Claudia Sheinbaum prenderà il posto del suo mentore Andrés Manuel López Obrador (Amlo), fondatore di Morena (oggi primo partito del Paese) e presidente tanto popolare quanto controverso. Fin dalla sua entrata nell’arena politica, la missione di Amlo è stata riassunta in una frase: «Por el bien de todos, primero los pobres» (Per il bene di tutti, prima i poveri), affermazione meritoria, ma molto impegnativa. Di sicuro, dopo decenni di dominazione dei due partiti conservatori (Pan e Pri), la sua presidenza – forse catalogabile come «populismo di centrosinistra» – è stata una novità assoluta.
Nei sei anni del suo mandato la spesa pubblica per programmi sociali è aumentata in modo significativo, ma i problemi fondamentali – l’insicurezza e la povertà su tutti – non hanno trovato soluzione.
Nonostante sei aumenti del salario minimo giornaliero (passato dagli 88 pesos del 2018 agli attuali 249, pari a circa 13 euro), il livello della povertà è rimasto alto. Secondo i dati di Coneval (un organismo costituzionale autonomo), ben 46,8 milioni di persone vivono in povertà, pari al 36,3 per cento della popolazione del paese. Di queste, oltre nove milioni (7,1 per cento) sono afflitte da povertà estrema.
Per gli strani giochi della politica e dell’economia, nel sessennio di Amlo i miliardari messicani hanno visto incrementare (di molto) le proprie fortune. Dietro a Carlos Slim (diciassettesimo nella classifica mondiale di Forbes), ci sono altre 13 persone: questo ristrettissimo gruppo di privilegiati – racconta un rapporto di Oxfam Mexico – controlla l’8 per cento dell’economia complessiva del paese.
Non è andata meglio in tema di sicurezza. La politica di Amlo sintetizzata nello slogan «abrazos, no balazos» (abbracci, non proiettili) è fallita, stando al numero degli omicidi e delle sparizioni, sempre altissimo.
Nei primi quattro mesi del 2024 la media è stata di 81 omicidi al giorno. Nelle statistiche degli ultimi sei anni impressionano poi due cifre: l’uccisione di 9 sacerdoti cattolici (vedere riquadro) e di 44 giornalisti (5 nel 2023 più uno scomparso).
Secondo Article 19, organizzazione messicana indipendente e apartitica che promuove la libertà d’espressione, nel 2023 nel Paese latino-americano ci sono state 561 aggressioni a giornalisti o mezzi d’informazione, un numero più alto rispetto ai governi che hanno preceduto quello di Amlo.
Questa è la pesante eredità di Obrador. Detto ciò, chiedersi se Claudia sarà una mera esecutrice delle volontà del presidente uscente, suo grande sponsor e padre politico, è un ragionamento dal vago sapore maschilista: dubitare della sua autonomia decisionale perché donna?
Il curriculum di Claudia
Nata in una famiglia di ebrei non praticanti, padre chimico con genitori della Lituania, madre biologa con genitori della Bulgaria, laureata in fisica all’Universidad Autónoma de México (Unam), un master a Berkeley e un dottorato, Claudia Sheinbaum è stata sindaca di Città del Messico.
Da anni, Amlo parla di «quarta trasformazione» della vita messicana. Nelle sue intenzioni si tratta di un indispensabile passaggio storico dopo le precedenti tre fasi: la guerra d’indipendenza (1810-1821), il periodo della riforma (1858-1861) e gli anni della rivoluzione (1910-1917), culminati con la promulgazione della Costituzione messicana (5 febbraio 1917).
Claudia Sheinbaum ha promesso più volte che continuerà sulla strada segnata da Amlo per dare seguito alla quarta trasformazione.
Sarà poi interessante vedere come la presidenta affronterà la questione climatica in un Paese che ne sta già patendo le conseguenze con picchi straordinari di calore e gravi carenze di acqua.
Il curriculum parla a suo favore, avendo lei collaborato con gli scienziati delle Nazioni Unite riuniti nel Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Le sue scelte prima dell’elezione sono però state contraddittorie. È stata infatti accusata di aver appoggiato il Tren Maya, la grande opera di Amlo contestata dagli ambientalisti.
Sul fronte energetico, Claudia Sheinbaum ha confermato di voler incrementare le fonti rinnovabili, senza dimenticare che il Messico è l’undicesimo produttore mondiale di petrolio tramite la Pemex (Pétroleos mexicanos), compagnia interamente di proprietà statale. La presidenta afferma che non sarà privatizzata, nonostante sia gravata da molti debiti.
Il vicino di casa
Il giorno seguente alla vittoria elettorale di Claudia Sheinbaum, il presidente americano Joe Biden ha chiamato l’eletta per complimentarsi.
Tutto prevedibile, considerato che Messico e Stati Uniti condividono molti affari e molti problemi. Il Paese latino-americano è il secondo socio commerciale degli Usa dopo il Canada. Inoltre, 11 dei 12 milioni di messicani nati in patria ma che vivono all’estero risiedono negli Stati Uniti, generando un enorme flusso di rimesse. Infine, dalla frontiera settentrionale del Messico – 3.169 chilometri di lunghezza – transitano la gran parte dei migranti illegali diretti negli Usa, una delle questioni più dibattute nella contesa elettorale tra Biden e lo sfidante Trump.
Le dimensioni del problema sono evidenziate da un dato: nel solo mese di dicembre 2023, la polizia di frontiera Usa ha fermato 250mila migranti che cercavano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti.
Cosa accadrà se nelle elezioni del 5 novembre dovesse prevalere il candidato repubblicano? Durante la lunga e scorrettissima campagna elettorale, Trump ha affermato che, dopo la sua vittoria (che lui dà per certa) farà espellere milioni di immigrati senza documenti. Secondo il Pew research center, questi sono circa 11 milioni. Di questi 4,1 milioni (il 40 per cento) sono messicani, risultando di gran lunga il principale gruppo di immigrati senza documenti (irregolari), precedendo nell’ordine quelli provenienti da El Salvador, India, Guatemala e Honduras.
La previsione
Oltre ai problemi citati, la situazione messicana è complicata da un’altra questione rilevante, interna al Paese.
Il presidente Amlo ha, infatti, proposto un pacchetto di venti riforme costituzionali, alcune molto interessanti (su diritti e ambiente), altre più opinabili (su organi giudiziari e guardia nazionale).
Per essere approvate, esse necessitano una maggioranza qualificata sia alla Camera che al Senato. Vedremo cosa accadrà in questi mesi di transizione tra le due presidenze.
Avendo in mente quanto accaduto alle (poche) colleghe latinoamericane elette alla medesima carica, possiamo prevedere che Claudia Sheinbaum, doctora y presidenta, avrà un compito duro.
Ed è molto probabile, anzi quasi certo, che sarà osservata e valutata con più severità rispetto a un presidente maschio.
Paolo Moiola
La Chiesa cattolica messicana e la neopresidente
BUONI PROPOSITI
Al contrario di altri paesi latinoamericani, in Messico la Chiesa cattolica ha resistito meglio all’erosione di fedeli per mano delle Chiese evangeliche. Stando ai dati dell’ultimo censimento (Inegi, 2020), i cattolici sono il 77,2 percento della popolazione. Questo non significa che non ci siano problemi. Per esempio, la Chiesa cattolica messicana ha avuto un rapporto piuttosto conflittuale con il presidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo). A parte le tematiche sensibili (aborto, eutanasia, gender), l’accusa principale è di non aver fatto abbastanza contro la violenza del crimine organizzato. Violenza di cui è stata vittima la stessa Chiesa: durante la presidenza di Amlo sono stati ben nove i sacerdoti assassinati.
Di discendenza ebraica, la neopresidente ha spesso affermato di essere cresciuta in una famiglia laica con entrambi i genitori che si professavano atei. Questo non le ha impedito di incontrare papa Francesco in Vaticano lo scorso 15 febbraio.
Dopo la sua vittoria, la Conferenza episcopale messicana (Cem) ha rilasciato un comunicato di felicitazioni e di speranza.
«Oltre a sottolineare il privilegio di essere la prima donna a raggiungere la più alta carica del Paese, eleviamo le nostre preghiere affinché, con la responsabilità e la saggezza che la carica richiede, e cercando sempre il bene comune, possa condurre il Messico verso orizzonti migliori», ha scritto, tra l’altro, la Cem nel suo messaggio.
Pa.Mo.
Sudafrica. Sconfitto l’Anc
Il 1994 fu un anno storico per il Sudafrica. Con la fine dell’apartheid e l’apertura democratica, l’African national congress (Anc), il vecchio movimento di liberazione nazionale guidato da Nelson Mandela, vinse le elezioni con il 63% dei consensi.
Trent’anni dopo, il partito è sceso per la prima volta al di sotto della maggioranza assoluta. Un declino che era in atto da tempo, quantomeno dalla presidenza Zuma, caratterizzata da continui scandali di corruzione e da una cattiva gestione delle risorse statali.
I risultati
Come previsto dai sondaggi, l’Anc si è fermata al 40%, crollando nettamente rispetto al 57% del 2019. Il colpo si è sentito anche a livello provinciale: il partito ha perso la maggioranza assoluta nel KwaZulu Natal, Gauteng e Northern Cape. L’Anc ha pagato le accuse di corruzione che hanno colpito i suoi membri, la disoccupazione dilagante e la stagnazione economica.
Ma soprattutto ha sofferto l’ascesa di un nuovo movimento politico: l’uMkhonto we Sizwe (Mk), fondato a fine 2023 da Jacob Zuma, ex presidente dell’Anc e del Sudafrica (2009-2018). L’Mk ha avuto successo a livello nazionale con il 14,6% dei consensi e ha sfiorato la maggioranza assoluta (45%) nella sua roccaforte, il KwaZulu Natal. L’Mk ha eroso voti all’Anc ma anche agli Economic freedom fighters (Eff), fermatisi al 9,5% (10,8% nel 2019).
La Democratic alliance (Da) si è invece confermata il maggiore partito di opposizione con il 21,8% e si è assicurata per un altro quinquennio il governo della provincia del Western Cape.
Gli scenari futuri
L’assenza della maggioranza assoluta impone all’Anc di creare un governo di coalizione. Un qualcosa di mai visto finora a livello nazionale, ma che localmente si è già verificato più volte. Dalla pubblicazione ufficiale dei risultati (2 giugno), i partiti hanno quattordici giorni per tentare di costituire delle alleanze e individuare il futuro presidente. Il 16 giugno infatti, il nuovo Parlamento si riunirà e il suo primo compito sarà nominare il capo dello Stato.
Un punto sembra fermo: l’Anc – in quanto partito che ha ricevuto la maggioranza dei voti – sarà il leader della nuova coalizione e molto probabilmente esprimerà il futuro presidente. Un governo che non la includa è altamente improbabile, oltre che complesso da costituire.
La questione quindi è con quale o quali partiti l’Anc deciderà di allearsi. Secondo alcuni osservatori, il suo alleato naturale sono gli Eff di Julius Malema, ex leader dell’ala giovanile dell’Anc. Ma i rapporti tra gli esponenti dei due partiti sono tesi e manca un’intesa sulla riforma della terra, questione centrale per gli Eff. La proposta avanzata da Malema in campagna elettorale – alleanza in cambio del ministero delle Finanze – è già stata rifiutata dall’Anc. Inoltre, questa coalizione avrebbe comunque bisogno del supporto di almeno un altro partito per garantirsi la maggioranza.
L’opzione più caldeggiata dai mercati e dal mondo imprenditoriale è un’alleanza tra Anc e Da. La coalizione includerebbe i due maggiori partiti del Paese ed escluderebbe le formazioni più radicali. Anc e Da condividono posizioni conservatrici sull’economia, ma divergono nettamente in politica estera: se l’Anc ha accusato Israele di genocidio dei palestinesi; la Da rigetta le accuse. Tuttavia, il leader della Da, John Steenhuisen, ha annunciato di voler fare tutto il possibile per evitare la “doomsday coalition” (la coalizione della fine del mondo) tra Anc, Mk ed Eff.
Zuma, il reale vincitore
A emergere come reale vincitore delle elezioni è stato Zuma. Il suo Mk ha superato ampiamente le previsioni dei sondaggi, ponendosi come interlocutore significativo per il nuovo governo. Infatti, con l’eccezione di un’alleanza tra Anc e Da, in tutti gli altri casi l’Mk potrebbe portare i voti necessari per arrivare alla maggioranza.
Nonostante abbia denunciato che le elezioni sono state rubate, Zuma ha in effetti aperto a negoziati con l’Anc. Ma ha anche posto una condizione: sostituire l’attuale presidente, Cyril Ramaphosa.
Democrazia che funziona
Il voto ha confermato il funzionamento delle istituzioni democratiche sudafricane: l’Anc ha accettato i risultati annunciati dalla Commissione elettorale e invitato gli altri partiti a collaborare per dare un governo al Paese. Non ha tentato di mantenere il potere, sconfessando o manipolando i risultati, come avviene in altri Stati della regione (ad esempio, Zimbabwe e Mozambico).
Il Sudafrica quindi è il primo Paese dell’Africa australe dove l’erede di un movimento di liberazione nazionale ha accettato la sconfitta elettorale e si è reso disponibile a creare una coalizione. Confermando la forza delle sue istituzioni democratiche.
Aurora Guainazzi
Sudafrica. Il tramonto dell’Anc?
Oggi in Sudafrica si tengono le elezioni nazionali e provinciali. Oltre a scegliere le autorità locali, i cittadini eleggono i membri dell’Assemblea nazionale, ai quali spetterà scegliere il futuro presidente.
Il voto è considerato il più importante da quando il Paese è tornato alla democrazia nel 1994 dopo la fine dell’apartheid. Per la prima volta in trent’anni, l’African national congress (Anc), il partito di Nelson Mandela, rischia di perdere la maggioranza in Parlamento e di dover costituire un inedito governo di coalizione.
Gli schieramenti
Il leader dell’Anc e presidente uscente, Cyril Ramaphosa, è ancora il candidato di punta del partito. Se l’Anc dovesse superare il 50% dei consensi, Ramaphosa si confermerà alla guida del Paese anche per i prossimi cinque anni. In caso contrario (secondo i sondaggi l’Anc si fermerà al 40%), il partito di governo dovrà creare una coalizione con almeno un’altra tra le forze che siederanno nel nuovo Parlamento. Una prospettiva complessa, vista la distanza ideologica e politica con molte di esse.
Gli Economic freedom fighters (Eff) di Julius Malema sono un partito di sinistra dal programma radicale, stimato all’11,5%. Nonostante Anc ed Eff si siano già alleati in passato a livello provinciale, la distanza è forte, soprattutto per quanto riguarda le nazionalizzazioni su ampia scala al centro del programma degli Eff.
La Democratic alliance (Da), movimento di centrodestra dato al 22%, è l’attuale principale oppositore dell’Anc a livello nazionale. Il suo leader è John Steenhuisen. Durante la campagna elettorale, il partito ha rilasciato un video dove la bandiera sudafricana bruciava. Descritto come un avvertimento di quanto accadrà nel Paese se l’Anc dovesse creare una coalizione con altri partiti, il filmato mostra le profonde tensioni che attraversano il Sudafrica.
L’ultima forza principale dell’opposizione è l’Inkantha freedom party (Ifp). Il partito conservatore – che dovrebbe fermarsi al 4,5% – è guidato da Velenkosini Hlabisa. Espressione del nazionalismo zulu, l’Ifp ha la propria roccaforte nella regione del KwaZulu-Natal.
L’Mk e Zuma
A queste forze, che costituiscono la fetta maggiore dell’attuale opposizione parlamentare, si aggiunge un nuovo movimento che probabilmente si aggiudicherà una propria quota di seggi: l’uMkhonto we sizwe (Mk), attualmente all’8,5%. Il suo leader è Jacob Zuma, ex presidente dell’Anc e del Sudafrica tra il 2009 e il 2018.
Il ritorno sulla scena di Zuma – figura tanto controversa quanto ancora apprezzata – ha creato scompiglio nel Paese e contribuito a erodere il consenso dell’Anc. Accusato di corruzione, nel 2018 Zuma era stato costretto a dimettersi da capo dello Stato e leader del partito. In entrambi i casi era stato sostituito da Ramaphosa. Condannato a quindici mesi di carcere, ne ha scontati tre prima di essere graziato dal suo successore.
La Costituzione sudafricana impedisce l’elezione di chi ha ricevuto sentenze superiori a dodici mesi. Per questo, il 20 maggio, la Corte costituzionale ha escluso Zuma dalla lista dei candidati dell’Mk. Il volto dell’ex presidente apparirà comunque sulla scheda elettorale in quanto leader del partito, ma non potrà essere eletto.
Trent’anni di speranze disattese
Nell’immaginario comune, le elezioni del 1994, vinte dall’Anc di Mandela, dovevano segnare la nascita di uno Stato dove tutti avrebbero avuto pari dignità e diritti, indipendentemente dal colore della pelle. Trent’anni dopo, molte speranze sono state disattese.
La corruzione dell’élite politica è un fenomeno endemico. Diversi leader dell’Anc – tra cui Zuma e lo stesso Ramaphosa – si sono appropriati di fondi pubblici, impedendo che venissero destinati a servizi, lotta alla povertà e riduzione delle disuguaglianze.
Nel 2022, la Banca mondiale aveva definito il Sudafrica lo Stato con la maggiore disuguaglianza nel mondo. Il 10% più ricco (perlopiù bianco) possedeva l’80% della ricchezza del Paese. Mentre la popolazione nera (l’80%) era ed è ancora oggi in condizione di forte svantaggio economico e sociale.
La disoccupazione, un problema strutturale, a fine 2023 riguardava il 32% dei sudafricani, la metà dei quali giovani. Mentre più del 60% della popolazione viveva al di sotto della soglia nazionale di povertà. Tassi elevati anche a causa della stagnazione economica (dal 2012, la crescita media del Pil è dello 0,8% annuo) e del debito in ascesa (stimato al 74% del Pil a fine 2024).
Elevati livelli di violenza, xenofobia nei confronti dei lavoratori stranieri e costanti blackout della rete elettrica sono altre problematiche del Paese.
Sono queste le reali questioni a cui la classe politica sudafricana dovrebbe porre attenzione.
Aurora Guainazzi
Indonesia, La metamorfosi del generale
La consultazione del 14 febbraio scorso si è conclusa con la netta vittoria del candidato del presidente uscente. L’anomalia apparente è che non fa parte del suo partito. Nella realtà hanno prevalso giochi e alleanze ben consolidate.
Quartier generale delle forze armate indonesiane a Giacarta, 28 febbraio. Il presidente Joko Widodo mette entrambe le mani sulle spalle di Prabowo Subianto (presidente in pectore), gli dice qualcosa e gli conferisce il grado di generale a quattro stelle onorario, il più alto possibile per l’esercito dell’Indonesia. «Questa onorificenza è una forma di apprezzamento – dice Widodo, prima di attaccare i baveri con quattro stelle d’oro sul blazer di Prabowo -, ribadisce la sua devozione al popolo e al Paese. Vorrei congratularmi con il generale». Da qualche giorno è arrivato un messaggio di congratulazioni della Casa bianca per le elezioni del 14 febbraio: il presidente Joe Biden, fervente organizzatore di summit per la democrazia, si dice «ansioso» di collaborare con la nuova leadership e «rafforzare la cooperazione con un partner strategico».
È il 28 febbraio. Eppure, fino a qualche anno fa una scena del genere sarebbe sembrata possibile solo in una sorta di universo parallelo. Già, perché nel 1998 Prabowo era stato costretto a lasciare l’esercito e a venire congedato con disonore per le molteplici accuse di violazioni dei diritti umani a suo carico che sarebbero state perpetrate quando era tenente generale e comandante delle Kopassus, le forze speciali dell’esercito. La tortura di ventidue attivisti, rapimenti e sparizioni, la repressione delle proteste degli oppositori del dittatore Suharto, le violenze contro i movimenti autonomisti di Papua e Timor Est. Un curriculum non proprio scintillante per Prabowo, che di Suharto era peraltro l’ex genero, e che gli era costato la proibizione di recarsi negli Stati Uniti. Il divieto è durato fino al 2020, quando la misura è stata revocata per consentire a Prabowo, in qualità di ministro della Difesa indonesiano, di andarci.
«Dare a Subianto un titolo onorifico a quattro stelle, con i suoi precedenti militari e le accuse di coinvolgimento in casi di violazione dei diritti umani, metterà in imbarazzo l’onore e la dignità delle forze armate indonesiane», ha dichiarato ad Ap (Associated press) Gufron Mabruri, direttore esecutivo dell’organizzazione non governativa Imparsial.
Da nemici ad amici
La scena del 28 è oggi nell’ordine delle cose. Prabowo, infatti, due settimane prima, ha stravinto le elezioni presidenziali indonesiane. Non c’è stato nemmeno bisogno del secondo turno come prevedevano quasi tutti gli analisti: l’ex generale ha ottenuto quasi il 60% già al primo turno, superando nettamente il 50,1% necessario per evitare il ballottaggio contro il secondo classificato.
Non si è trattato di un exploit improvviso, ma di un successo costruito con pazienza e in modo meticoloso, giunto peraltro tramite il sostegno di quello che fino a un certo punto era stato il suo acerrimo rivale: Widodo (famigliarmente chiamato Jokowi). Sì, proprio colui che appunta la quarta stella sul petto di Prabowo.
È cambiato davvero tutto dal 2014, l’anno in cui Widodo aveva sconfitto per la prima volta Prabowo alle presidenziali. L’ex generale, ai tempi, si presentava spesso ai comizi in sella a un cavallo, pronunciando discorsi infuocati contro l’avversario paventando politiche protezioni- stiche e suscitando parecchi timori per i suoi stretti legami con le forze islamiste radicali. Un aspetto, questo, non trascurabile nel Paese con la popolazione musulmana più vasta del mondo.
Nel 2019, al secondo tentativo di raggiungere la presidenza, Prabowo aveva nominato l’ex leader dell’ala giovanile del gruppo islamista Muhammadiyah, Dahnil Simanjuntak, come suo portavoce personale.
In entrambe le tornate elettorali, Prabowo aveva rifiutato di ammettere la sconfitta. Nel 2019 aveva accusato Widodo di brogli elettorali, scatenando una delle peggiori ondate di violenza politica degli ultimi decenni in Indonesia. Centinaia di persone erano rimaste ferite durante gli scontri tra i sostenitori di Prabowo e la polizia dopo l’annuncio dei risultati del voto. E almeno sei sono state uccise.
L’Indonesia era sembrata sulla soglia di una guerra intestina. Poi, all’improvviso, era cambiato tutto. Dopo una serie ravvicinata di incontri tra i due, dagli insulti si era passati ai selfie. Dalle accuse di brogli si era passati alla nomina di Prabowo nella squadra di governo di Widodo, come ministro della Difesa. Era parsa una mossa utile a «neutralizzare» politicamente l’ex generale.
Alleanze interne
Il capitale politico di Widodo e la futura eleggibilità del suo partito dipendevano anche dalla sua capacità di mantenere un’alleanza con la società civile islamica, si pensava allora. E aveva bisogno del sostegno di gruppi come Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah per governare efficacemente. Insomma, la mossa di Jokowi era stata letta come la risposta alla necessità di dare stabilità al suo secondo mandato. Senza contare che era già emerso lo storico progetto di spostare la capitale da Giacarta a Nusantara (vedi box), nel Kalimantan orientale, sull’isola del Borneo. E Prabowo è una sorta di «zar» di quella zona, dove la sua famiglia possiede vasti terreni per circa 220mila ettari e detiene un’importante capitale politico.
La decisione di Widodo di tenersi vicino Prabowo si sarebbe, invece, rivelata essere più profonda. In vista delle elezioni di febbraio, infatti, il presidente uscente (ancora molto popolare nell’opinione pubblica indonesiana) ha deciso di appoggiare proprio il suo ex rivale e invece del candidato del suo Partito democratico indonesiano di lotta. Widodo ha mollato senza tanti complimenti Ganjar Pranowo, ex governatore di Giava centrale e suo teorico erede designato, lasciandolo completamente spiazzato visto che questi aveva costruito la sua immagine e la sua campagna come l’unico in grado di dare continuità alle politiche del compagno di partito. È arrivato persino terzo, dietro il candidato indipendente Anies Baswedan, ex governatore di Giacarta. Anche lui, in realtà, sperava di ricevere l’appoggio di Widodo, di cui aveva scritto per anni i discorsi prima di venire nominato ministro dell’Istruzione.
E invece Jokowi ha scelto proprio Prabowo. E non si è limitato a dargli un appoggio indiretto, ma ha addirittura piazzato il proprio figlio, Gibran Rakabuming Raka, nel ruolo di numero due del suo ex rivale e dunque eventuale futuro vicepresidente. Mossa, quest’ultima, controversa visto che Gibran ha solo 36 anni e la legge indonesiana indica nei 40 anni l’età minima per candidarsi a presidenza o vicepresidenza. Un ostacolo serenamente superato grazie a una sentenza della Corte costituzionale, che ha rimosso il vincolo di età per chi avesse vinto in precedenza un’elezione locale. E Gibran è sindaco della città di Surakarta. Il sospetto, di una sentenza ad personam è acuito da un particolare non trascurabile: a capo della Corte costituzionale di Giacarta c’è nientemeno che il marito della sorella di Widodo.
L’immagine e i social
Tra gli elettori indonesiani, c’è anche chi è rimasto scandalizzato della netta vittoria di Prabowo. Tanto che sono state organizzate diverse proteste, dopo l’annuncio dei risultati ufficiali, nelle quali centinaia di persone hanno chiesto l’impeachment di Widodo per «interferenze» nel processo elettorale. Eppure, nelle urne non tutti hanno considerato il poco invidiabile passato di Prabowo, forse anche grazie al fatto che questi ha ripulito la sua immagine con una semplice quanto astuta strategia sui social media. A livello ufficiale non ha più utilizzato i toni incendiari del passato, soprattutto sui social più seguiti dai giovani. Instagram e TikTok sono stati invasi dai video di Prabowo in versione affabulatore e con un’immagine da zio o nonno simpatico e un po’ imbranato, ma bonario e ovviamente dotato di tanta saggezza. Balletti improbabili, sorrisi e foto ricordo, aneddoti personali e il gatto Bobby hanno reso simpatica una figura di cui in tanti non ricordano, o nemmeno conoscono, gli scheletri nell’armadio.
D’altronde, la maggioranza degli elettori ha meno di 40 anni. Molti di loro non hanno ricordi nitidi della dittatura di Suharto o delle forze speciali di Prabowo, così come del suo esilio in Giordania.
Si tratta di una dinamica che inizia a essere una tendenza anche in Asia dove spesso dominano le dinastie politiche familiari. E non solo nella Corea del Nord dei Kim. Basti pensare alla Cambogia di Hun Sen (cfr MC luglio 2022), il leader eterno appena tornato presidente del Senato dopo aver lasciato il ruolo di premier al figlio Hun Manet. La strategia «prabowiana» sui social è stata un ingrediente anche del successo di Ferdinand Marcos Junior, figlio del dittatore filippino, alle elezioni presidenziali del 2022 (cfr MC agosto 2022). E anche in India il primo ministro Narendra Modi sta conducendo una campagna elettorale dove la priorità sul fronte comunicativo è data a canali come Instagram rispetto alle tradizionali interviste.
Discorsi moderati
Sul fronte più istituzionale, Prabowo ha assunto (quantomeno ufficialmente) una linea moderata con parole ben più calibrate rispetto al passato. Ha soprattutto promesso di portare avanti le politiche di Widodo sul fronte economico, lasciando aperte le porte agli investimenti esteri. Si tratta di un tema su cui c’è molta attenzione da parte delle grandi potenze, interessate a rafforzare la loro presenza in un mercato dinamico ed emergente come l’Indonesia, peraltro Paese ricco di risorse minerarie fondamentali per lo sviluppo di settori strategici sul fronte tecnologico. Su tutte, il nichel, un minerale fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici.
Nel 2014, le esportazioni di nichel ammontavano a un miliardo di dollari, oggi la cifra è arrivata a 30 miliardi. E gli investimenti esteri nel settore estrattivo sono altrettanto esplosi, raggiungendo i 16 miliardi nel 2022, in gran parte provenienti da aziende cinesi.
Politica estera
Gli Stati Uniti stanno provando a recuperare il terreno perduto. Lo scorso novembre Biden ha ricevuto Widodo alla Casa Bianca, cercando di raggiungere un accordo sull’estrazione congiunta delle terre rare. A separare Washington e Giacarta ci sono però visioni diverse sulla crisi in corso in Medio Oriente: il governo indonesiano, infatti, è molto critico con Israele, con cui peraltro non ha mai avviato relazioni diplomatiche ufficiali.
L’Indonesia ha tradizionalmente una politica estera non allineata e particolarmente cauta. Con Prabowo potrebbe però assumere un timbro più deciso, viste le posizioni su temi internazionali da lui espresse in passato, spesso molto lontane da quelle occidentali. Basti pensare alla proposta, avanzata a giugno 2023, di una pace alla coreana per la guerra in Ucraina: congelamento dei confini sulla situazione attuale e referendum nei territori occupati dai russi per far scegliere alla popolazione da che parte stare. Idea respinta con sdegno da Kiev, Bruxelles e Washington.
Eppure, quando il prossimo 20 ottobre Prabowo inizierà il suo incarico presidenziale, gli Stati Uniti, e non solo, dovranno costruire con lui un rapporto solido. Sulle relazioni con la Cina potrebbero parzialmente interferire le dispute sul mar Cinese meridionale, su cui Prabowo potrebbe assumere una linea meno conciliante di quella di Widodo. A Pechino si ricordano ancora il ruolo dell’ex generale nelle purghe anticomuniste di Suharto. Ma gli scheletri di Prabowo sembrano ormai destinati a restare ben sigillati nel suo armadio.
Lorenzo Lamperti
La valenza politica ed economica di Nusantara
In Borneo la nuova capitale
In lingua giavanese significa «arcipelago». Si trova nella remota regione orientale del Kalimantan sull’isola del Borneo. Per costruirla si prevede una spesa di circa 32 miliardi di dollari, ma anche un aumento del disboscamento di una delle foreste pluviali più antiche del mondo. È questo l’identikit di Nusantara, destinata a diventare la nuova capitale dell’Indonesia. Per completarla ci vorrà ancora diverso tempo, forse fino al 2045. Ma l’inaugurazione è prevista già per il prossimo 17 agosto, in occasione del 79simo anniversario dell’indipendenza del Paese dai Paesi Bassi. In prima fila ci sarà il presidente uscente Joko Widodo, che proprio in Nusantara identifica la sua eredità politica.
Il progetto è partito nel 2019, all’alba del secondo mandato di Widodo, quando è emersa la necessità di decongestionare Giacarta. L’attuale capitale soffre di inquinamento e traffico, e, secondo diversi studi, si sta persino parzialmente inabissando. Non a caso le alluvioni sono diventate sempre più frequenti. Il Borneo invece è meno esposto a disastri naturali e si trova geograficamente al centro del Paese. I lavori sono ufficialmente partiti nel 2022, rallentati all’inizio dalla pandemia da Covid-19, oggi proseguono in una sorta di corsa contro il tempo per consentire a Widodo di partecipare all’inaugurazione prima di lasciare la presidenza a Prabowo Subianto. Sul posto sono impiegati circa centomila operai, in un’area grande quattro volte quella di Giacarta.
Lo spostamento della capitale ha una valenza fortemente politica ed economica. L’obiettivo è infatti anche quello di favorire lo sviluppo di una regione rimasta meno popolata, diversificando la crescita interna e riducendo la centralizzazione che ha contraddistinto il modello di sviluppo indonesiano.
L’apertura di Nusantara significa anche lanciare una nuova rete di infrastrutture ed edifici pubblici, con la speranza di attrarre una pioggia di investimenti esteri. In realtà, su questo fronte i risultati sono stati meno brillanti del previsto.
Il colosso giapponese SoftBank ha ritirato la sua partecipazione a causa di preoccupazioni sulla sostenibilità economica del progetto e delle 300 aziende globali, citate dal governo come interessate, molte non hanno ancora firmato alcun accordo. Restano diversi dubbi anche sul fronte ambientale, dato il possibile contraccolpo sulla ricca biodiversità dell’area. C’è poi chi teme che Nusantara possa tramutarsi in una sorta di «cattedrale nel deserto», quasi un corpo estraneo rispetto al resto del Paese. Il tempo lo dirà. Ma intanto Widodo ha fretta per lasciare il suo marchio e tagliare il nastro.
L.L.
Le religioni in Indonesia
Il più grande paese musulmano
L’Indonesia è il più grande Paese musulmano al mondo per numero di credenti. I fedeli sono peraltro in costante crescita, visto che dal 2011 al 2022 sono passati da 202,9 milioni a 277,3. Si tratta dell’87,2% della popolazione totale. La quasi totalità dei musulmani indonesiani, pressoché il 99%, è sunnita. L’islam indonesiano è caratterizzato da una forte influenza della cultura locale, tanto da venire chiamato islam Nusantara. Nel giugno 2015, Joko Widodo ha espresso apertamente il suo sostegno a questa forma che molti giudicano più moderata di islam e secondo il presidente uscente «compatibile coi valori culturali indonesiani».
Ma nel Paese sono presenti anche altre religioni. Il 9,9% della popolazione è cristiano, con il 7% protestante e 2,9% cattolico. C’è poi un 1,7% di indù e uno 0,7% di buddhisti. Si stima che circa 20 milioni di persone, soprattutto a Giava, Kalimantan (Borneo) e Papua, pratichino vari sistemi di credenze tradizionali, spesso indicati collettivamente come aliran kepercayaan.
La Costituzione afferma che la nazione indonesiana «è basata sulla fede in un unico Dio supremo», ma garantisce a tutte le persone il diritto di praticare il culto secondo la propria religione e il proprio credo. Il decreto presidenziale del 1965 sulla prevenzione della blasfemia e dell’abuso delle religioni proibisce le «interpretazioni devianti» degli insegnamenti religiosi e qualsiasi organizzazione blasfema. Non mancano però i casi controversi. La provincia di Aceh prevede la sharia (legge islamica, ndr) applicata dai tribunali islamici, fino dal 2001, con la promulgazione della legge sull’autonomia speciale. Queste leggi, in alcuni casi, prevedono fino a 100 frustate come punizione. Negli ultimi anni alcuni gruppi islamisti, anche radicali, hanno guadagnato spazio nel dibattito politico e pubblico, tanto da essere corteggiati dal presidente eletto Prabowo Subianto.
L.L.
Taiwan. Vince Lai, ma perde il parlamento
Non è stato un voto radicale. Nonostante le interpretazioni che ne sono state date a livello internazionale, le elezioni presidenziali e legislative di Taiwan di sabato 13 gennaio non hanno segnato un punto di rottura, né una svolta definitiva. Forse, nemmeno decisiva per stabilire il futuro delle relazioni con la Cina continentale.
La vittoria di Lai Ching-tedel Partito progressista democratico (Dpp) è percepita dai taiwanesi come l‘esito di una dinamica prettamente interna, non inclusa dalle cornici retoriche da campagna elettorale scelte dai due partiti principali: scelta tra guidata dal Kuomintang (Kmt) e scelta tra «democrazia e autoritarismo»per il Dpp. La sensazione della maggior parte degli elettori è che, recandosi ai seggi, non stessero per decidere le sorti di un ipotetico conflitto, né stessero favorendo o impedendo una potenziale «unificazione» (o riunificazione come la chiamano a Pechino).
Sarà anche per questo che, in realtà, il risultato non è così netto come potrebbe sembrare a un primo sguardo. Lai ha vinto, ma raccogliendo il 17% in meno di quanto aveva ottenuto la presidente uscente Tsai Ing-wen alle presidenziali del 2020. In termini specifici, il suo 40% conta 5,5 milioni di voti contro gli oltre otto milioni di quattro anni fa. Abbastanza per battere il candidato del Kmt, l’ex poliziotto e attuale sindaco di Nuova Taipei Hou Yu-ih, che si è fermato al 33%.
A favorire il successo di Lai c’è stata anche la rottura dell’accordo per una candidatura unitaria nell’opposizione, che ha prodotto per la prima volta da tanto tempo una terza opzione forte per gli elettori taiwanesi: Ko Wen-je del Partito popolare di Taiwan (Tpp). Il suo 26% è un risultato più che ragguardevole, considerando che la scena politica taiwanese è tradizionalmente dominata dal bipolarismo tra Dpp e Kmt. In realtà, Ko non ha sottratto voti solo al Kmt, ma anche al Dpp. Soprattutto nel bacino dell’elettorato più giovane, spesso convinto da una proposta elettorale che si è autodefinita Se sulle presidenziali il netto calo del Dpp non si tramuta in problemi concreti, visto che nel sistema elettorale taiwanese per il ramo esecutivo il Tanto che l’ago della bilancia sarà proprio il Tpp di Ko, che coi suoi 8 seggi è l’unica altra forza politica ad aver superato lo sbarramento del 5%. Non ce l’ha fatta nemmeno il New power party, la formazione nata dal Movimento dei girasoli, il grande fenomeno di proteste del 2014 contro l’allora amministrazione Kmt di Ma Ying-jeou, molto dialogante con Pechino. Con il suo «responsabile» e provando a spolpare ulteriormente i partiti tradizionali in vista delle presidenziali del 2028, che, subito dopo la fine dello spoglio del 13 gennaio, Ko ha detto che vincerà sicuramente, di fronte ai suoi sostenitori delusi.
Questo frazionamento interno potrebbe incidere non solo sulle dinamiche politiche taiwanesi, ma anche sulla postura della Cina continentale. È interessante in tal senso un segnale arrivato dal comunicato dell’Ufficio degli Affari di Taiwan di Pechino, poche ore dopo la vittoria di Lai. Oltre a ribadire la storica posizione della ». Un modo per rivendicare una parziale vittoria, ma forse anche per esercitare pazienza nel breve termine, attendendo la nomina del presidente del parlamento (che si insedia il primo febbraio) e ancora di più il discorso di insediamento di Lai, prima di adottare una postura troppo aggressiva o comunque mandando segnali di discontinuità di fronte alla linea della pressione già adottata dal 2016, cioè da quando il Dpp è al potere.
Lai, dal canto suo, ha vinto anche riuscendo a convincere gli elettori che il suo obiettivo è tutelare lo status quo. Dunque niente unificazione ma nemmeno dichiarazione di indipendenza formale. Gli stessi Stati Uniti potrebbero chiedere delle garanzie in tal senso. Washington apprezza molto la leader uscente Tsai per la sua cautela ma anche per la sua prevedibilità. Caratteristica che sembra mancare al focoso Lai, a cui gli Usa potrebbero chiarire di voler mantenere le comunicazioni aperte con Pechino. In attesa quantomeno delle prossime elezioni per la Casa Bianca, l’altra variabile che potrebbe cambiare le regole di un gioco sempre più complicato.
Lorenzo Lamperti, da Taipei
Senegal. La democrazia può attendere
Oppositori politici incarcerati, manifestazioni represse, arresti arbitrari, restrizioni delle libertà. Il Paese vetrina dell’Africa occidentale perde colpi sul piano di diritti e democrazia. Mentre cerca di emergere come economia. Il gruppo al potere non sembra pronto a cederlo. Anche perché la torta da dividere sta aumentando.
Juliette è una giovane donna della Casamance, regione nel sud del Senegal. È un’attiva sostenitrice dell’oppositore politico Ousmane Sonko, impegnata sui social media e non solo. A metà marzo scorso era presente a una manifestazione a Dakar, nei pressi della casa del politico. La polizia aveva circondato l’abitazione e impediva a Sonko di uscire. A un certo punto gli agenti hanno caricato l’assembramento di manifestanti e lanciato lacrimogeni. Molti partecipanti, perlopiù giovani, sono stati arrestati. Anche Juliette è finita in prigione. Non ha avuto alcun processo, ma a ottobre, il presidente Macky Sall ha graziato un migliaio di detenuti e così anche lei è potuta tornare a casa dalla sua bimba di cinque anni e al suo lavoro.
Episodi di questo tipo, iniziati nel 2021, sono sempre più frequenti in un Senegal, vetrina dell’Africa dell’Ovest, che si avvicina alle elezioni presidenziali del 24 febbraio.
L’attuale presidente, Macky Sall, al potere dal 2012 (già primo ministro e presidente dell’Assemblea nazionale), ha inizialmente tentato di candidarsi per un terzo mandato (incostituzionale) ma, in seguito alle manifestazioni e alla pressione della Francia, ha desistito, e il partito al potere presenterà come candidato l’attuale primo ministro Amadou Ba.
Il Senegal di Macky Sall
Negli ultimi dieci anni il paese è cambiato, soprattutto nella capitale Dakar.
Gli investimenti della gestione Macky Sall si sono concentrati sulle infrastrutture: sono state costruite nuove strade, asfaltate alcune di quelle vecchie, costruiti impianti sportivi e il nuovo aeroporto Blaise Diange, ultimata l’autostrada Dakar-Tuba, elettrificate zone del Paese.
«Nel suo discorso di insediamento il presidente Macky Sall disse che il suo obiettivo principale sarebbe stato soddisfare i bisogni dei senegalesi ed elevare il loro livello di vita. Inoltre, le infrastrutture non funzionavano», ci racconta il giornalista senegalese Ama Dieng, contattato telefonicamente.
E continua: «Così Sall ha lavorato molto sulle infrastrutture. È stato anche realizzato il treno espresso dalla nuova città di Diamniadio a Dakar e una rete di bus rapidi. Ha molto investito nelle vie di comunicazione e risposto alle richieste del mondo sportivo. Questo occorre riconoscerlo». Diamniadio è diventato un polo urbano ed economico, ha tutti i moderni servizi, lo stadio, il nuovo aeroporto. Vi si sono trasferiti alcuni uffici amministrativi e ministeriali. Anche a Dakar ci sono molti cantieri, ma la città è concentrata sullo spazio limitato di una penisola per cui sta esplodendo.
Nel 2013 è stato lanciato il Plan Sénégal emergent (Pse, Piano Senegal emergente), ovvero una strategia decennale (2014-2024) che ha come obiettivo di portare il paese saheliano tra i paesi cosiddetti «emergenti» entro il 2035. È un programma che prevede grossi finanziamenti, anche da parte di multinazionali straniere, che ha spinto soprattutto sull’economia e sull’impresa privata.
«L’imprenditoria è molto favorita in città, ma anche a livello rurale. È chiaro che il contesto non è ricco. Ho visto tanta attività economica. Però lavoro non ce n’è abbastanza, così come la formazione. C’è molta precarietà e lavoro informale», ci dice Federico Perotti, ingegnere esperto di cooperazione e conoscitore del Paese.
Il sogno del benessere
Continua il giornalista: «Per quanto riguarda il livello di vita della popolazione, possiamo dire che il presidente non ha rispettato i suoi impegni. Aveva promesso di fare in modo che i senegalesi avessero il benessere. La povertà, invece, è aumentata e molte famiglie hanno difficoltà a comperare i beni di base.
Sall non è riuscito nella politica dell’impiego per la gioventù. Ha tentato di realizzare alcune strutture, ma i progetti non sono andati avanti. Così c’è stato un aumento del tasso di disoccupazione. Il che spiega la continua emigrazione dei giovani senegalesi». In Senegal circa la metà della popolazione ha meno di vent’anni.
«Le industrie senegalesi – agiunge Dieng – non hanno sentito l’appoggio dello stato, rispetto alla concorrenza del mercato mondiale. Le nostre industrie hanno una capacità di produzione debole e non c’è stata una protezione, per cui molte di loro hanno dovuto chiudere a causa della concorrenza estera». Un altro motivo per l’aumento della disoccupazione.
Parliamo di agricoltura con un esperto italiano (che ha chiesto l’anonimato) con un’esperienza ventennale nel Paese. «Dal punto di vista globale possiamo dire che il Senegal è avanzato, però non su basi solide. Infatti, tutto dipende dalla capitale, che concentra i servizi e l’economia. Il mondo rurale si spopola e la produttività agricola è sempre molto bassa. Secondo un recente studio, in un anno, quindi nel tempo di una campagna agricola, si arriva a guadagnare l’equivalente di circa 30 euro al mese. Questo nonostante ci siano progetti e miliardi di franchi cfa (milioni di euro) investiti nel settore ogni anno. Ma sono soldi mal gestiti, o usati per questioni politiche (fini elettorali, ndr)». Il Senegal è un paese prevalentemente rurale, dove coltivazione della terra e allevamento fanno parte della tradizione e dell’economia famigliare. «Ci sarebbero le potenzialità per sviluppare l’agricoltura, ma ci vorrebbe più organizzazione e infrastrutture migliori. Anche la congiuntura internazionale favorirebbe, perché il prezzo dei cereali sul mercato mondiale è aumentato». Così, ci spiega l’esperto, «i giovani rurali vanno a Dakar a fare lavori informali e guadagnano di più, mentre le campagne restano popolate da anziani. Occorrerebbe investire per rendere l’agricoltura un’attività interessante anche per i giovani. I modelli oramai sono quelli occidentali, non più i tradizionali, e i ragazzi non tornano in campagna se non vedono un interesse economico». E conclude: «Tutto questo ha portato molta frustrazione nei giovani, e ha spinto il fenomeno populista Ousmane Sonko».
L’oppositore
Ousmane Sonko, 49 anni, sindaco di Ziguinshor, capitale della Casamance, è di un’etnia della zona.
Da alcuni anni ha iniziato a presentare un discorso antifrancese (come molti nell’area dei paesi ex colonie della Francia), contro la casta al potere, «un approccio più distruttivo che propositivo», ci dicono.
Inizialmente si è opposto al terzo mandato di Macky Sall, e già nel 2021 le manifestazioni dei suoi sostenitori sono state violentemente represse. Ma da quando ha iniziato a diventare popolare, il regime ha montato una serie di accuse contro di lui, a partire da una condanna per abusi sessuali a una massaggiatrice, fino all’accusa di aver diffamato un ministro, e di aver istigato all’insurrezione. Sonko è oggi in prigione con una condanna a due anni.
«Abbiamo l’impressione che il presidente Macky Sall non sopporti l’opposizione – ci dice il giornalista – la tecnica delle incriminazioni giudiziarie era già stata usata con altri candidati, come Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade. Con il caso Sonko, si è visto che la volontà di non farlo partecipare alle elezioni è concreta».
Ma perché? Ci chiediamo. «Perché, bisogna riconoscerlo, Sonko è l’uomo politico più popolare del Senegal in questo momento, perfino più dello stesso presidente». Alcuni sondaggi lo danno addirittura al 58%. Di fatto la sua presa sui giovani e sulla loro frustrazione è elevata, ed essi lo vedono come il loro leader.
In ballo non c’è solo il potere, che questo gruppo è abituato ad avere da oltre un decennio, ma anche i nuovi giacimenti di petrolio offshore, al confine con la Mauritania, che inizieranno a essere sfruttati proprio quest’anno.
Repressione
Le manifestazioni del marzo 2023 sono state violentemente represse. Poi, i primi giorni di giugno, ci sono state altre manifestazioni contro la condanna di Sonko per «corruzione di giovani», in diverse città (Dakar, Ziguinchor, Kaolak) con arresti ma anche con numerosi morti. Secondo Amnesty International, durante due giorni sono stati almeno 23 i morti, tra i quali tre bambini, e 390 i feriti causati dalle forze di sicurezza. L’Ong chiede inoltre di fare luce sulla presenza di «uomini armati in abiti civili in appoggio alle forze di sicurezza, ampiamente documentata dalle immagini filmate». Inoltre, «nei giorni delle proteste e in quelli successivi, le autorità hanno sospeso l’accesso a internet e alle piattaforme social. È stato interrotto il segnale dell’emittente Walf Tv e il suo canale YouTube».
A causa della condanna, Sonko è stato rimosso dalle liste elettorali, e questo lo renderebbe non candidabile alle prossime elezioni. Usiamo il condizionale, perché ci dicono che il dossier giudiziario non ha finito il suo percorso.
Nel frattempo, il 23 novembre, il suo partito, il Pastef (Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità) ha presentato un altro possibile candidato, il vice Bassirou Diomaye Faye. Pure lui in carcere, ma non essendo giudicato, è candidabile.
Il partito stesso è stato sciolto per decreto il 31 luglio scorso. La motivazione data dal ministro dell’Interno, Antoine Diome, è l’accusa di frequenti chiamate all’insurrezione. Comportamento non consono a un partito politico. Lo stesso giorno Sonko era stato condannato per insurrezione e complotto, e nuovamente arrestato. Il fatto è stato seguito da manifestazioni a Dakar Ziguinchor, represse violentemente, con alcuni morti.
Diritti in bilico
Un militante dei diritti umani senegalese (che chiede l’anonimato) ci dice: «Le repressioni delle manifestazioni, che hanno provocato diversi morti, sono fatti che i senegalesi deplorano. Si è assistito a una grande violenza poliziesca. Il governo dice che ci sono infiltrazioni di terroristi, ma si tratta di senegalesi che manifestano per dire che non sono contenti del presidente, e questo fa parte della democrazia. Ma le dimostrazioni dell’opposizione sono sistematicamente proibite e la repressione è forte. Oggi le prigioni sono piene di questi giovani. Mentre il ministro dell’Interno dice che non ci sono prigionieri politici.
Oggi assistiamo a una regressione della democrazia in Senegal. Quello che il presidente Abdoulaye Wade ha accettato, il presidente Macky Sall non lo accetta».
Come abbiamo visto per Juliette, anche per quanto riguarda i diritti civili in generale, gli osservatori notano un certo arretramento. A livello della libertà di stampa ci sono molte pressioni, e sovente i giornalisti sono convocati o arrestati, soprattutto se scrivono sul presidente. Pratica che prima non era comune. Si contesta loro il reato di «offesa al capo dello stato» o quello di «false notizie». Inoltre il potere è riuscito ad avere molti giornali a lui favorevoli e ne ha creati di nuovi.
Il Senegal, che punta a raggiungere il club dei paesi emergenti entro il 2035, sta rischiando di uscire da quello dei paesi democratici e rispettosi dei diritti umani. Mentre la pagina delle elezioni di febbraio è tutta da scrivere.
Marco Bello
Il progetto
L’Ong Cisv di Torino, presente dal 1988 in Senegal, vi realizza oggi il progetto Provives, di promozione del lavoro e della piccola imprenditoria «verde». Si tratta di un’esperienza pilota di appoggio all’imprenditoria locale impegnata nella transizione ecologica e intende contribuire alla riduzione della povertà attraverso il sostegno di piccole e medie imprese sociali e ambientali nelle regioni di Dakar, Thiès, Louga e Saint-Louis. A tale scopo utilizza gli approcci della green economy, dell’innovazione digitale e dell’economia circolare (raccolta, riciclo, riutilizzo di rifiuti e scarti).
Il progetto risponde agli obiettivi 8 (lavoro dignitoso e crescita economica), 2 (fame zero) e 12 (produzione e consumo responsabile) dell’Agenda 2030. Sono partner del progetto anche le Ong Lvia e Rete, e le attività sono cofinanziate dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Questo progetto rientra in un approccio strategico dell’Ong Cisv su accompagnamento e appoggio delle micro imprese giovanili in Africa dell’Ovest.
www.cisvto.org
Taiwan. Campagna elettorale visitando i templi
In tempi di campagna elettorale, a Taiwan ci sono dei luoghi che sono costantemente affollati: i templi buddhisti e taoisti. Può sembrare strano, ma da quando i partiti ufficializzano i loro candidati parte immancabile la «processione».
Ogni giorno, quando i team delle campagne elettorali rilasciano l’agenda del giorno successivo, è un fatto acclarato: i candidati si presentano almeno in un tempio. Tanto per avere un’idea: nella campagna per le elezioni presidenziali del gennaio 2020, la presidente uscente Tsai Ing-wen ha visitato circa 180 templi per ottenere la conferma a un secondo mandato. Lo stesso sta accadendo in questa occasione. Tutti e tre i candidati alle elezioni di sabato 13 gennaio sono apparsi in templi in tutti gli angoli dell’isola principale di Taiwan, persino a quelli delle isole minori.
Il motivo? L’influenza di questi luoghi, che non sono solo un posto dedicato alla preghiera ma anche un polo di attrazione sociale fondamentale per le città e i villaggi di Taiwan, sfocia da quella religiosa e spirituale a quella politica. Anche perché sono praticamente ovunque: 33mila su tutto il territorio, in media quasi uno per ogni chilometro quadrato.
I candidati arrivano e stringono decine, centinaia di mani. Fanno decine, centinaia di selfie. Accendono l’incenso e pregano per la salute, la sicurezza e la pace di Taiwan. Lasciano offerte sugli altari dedicati agli dei locali. Infatti, ce ne sono tanti diversi, nella tradizione taoista, che a Taiwan si è profondamente intrecciata con quella buddhista tanto che alle volte diventa complicato capire dove stanno i confini tra l’una e l’altra. In cambio ricevono spesso grandi mazzi di germogli d’aglio. In dialetto taiwanese questo dono suona come «venire eletto», slogan ripetuto a lungo durante tutti i comizi.
In candidati, in maniera implicita, mirano al favore dei leader dei templi. Si tratta di figure molto spesso coinvolte nella politica locale, ma hanno anche una rilevanza economica. I templi sono infatti un grande ricettacolo di donazioni, fondi e spesso anche interessi economici. Tutti ingredienti che fanno immancabilmente gola a una campagna elettorale e a un candidato che punta a diventare presidente.
C’è anche una valenza simbolica: per la maggior parte dei taiwanesi recarsi al tempio è più una prassi sociale o un rituale, piuttosto che un modo per esprimere la propria fede. Mostrarsi nei templi, circondati dagli abitanti di quel villaggio o di quel quartiere di una città più grande, significa mostrarsi vicini alla gente comune.
Terry Gou, boss del colosso tecnologico Foxconn (principale fornitore di iPhone per Apple con enormi interessi anche in Cina continentale), ha visitato più volte i templi di Cihui e Jieyun a Banqiao, Nuova Taipei, per I templi sono stati spesso considerati anche un canale di promozione dei rapporti con la Repubblica popolare. Le autorità continentali consentono e incoraggiano i gruppi religiosi taiwanesi a viaggiare oltre lo Stretto. Pechino ritiene infatti che mantenere legami sul fronte religioso e rituale possa contribuire a rallentare la recisione dei rapporti con Taiwan, rafforzando il senso di appartenenza della sua popolazione alla affari di Taiwan) ha chiesto di estendere gli scambi religiosi e ha incontrato Zheng Mingkun, presidente dell’associazione taiwanese dedicata a Mazu, la dea dei mari della mitologia cinese amata soprattutto tra Fujian (Repubblica popolare), Kinmen e Matsu (isole di Taiwan).
Secondo alcune indiscrezioni, diversi templi e organizzazioni religiose riceverebbero fondi da Pechino. Accuse difficili da dimostrare, vista l’opacità dei rendiconti finanziari di questi luoghi, coi partiti che raramente osano sollevare il problema, temendo di mettersi contro una fetta non trascurabile di cittadini, dunque elettori. In passato ci sono state alcune controversie anche sulla Fo Guang Shan, grande organizzazione buddhista con un immenso centro nei pressi della città meridionale di Kaohsiung. Quando lo scorso febbraio il suo fondatore, Hsing Yun, è morto, diverse autorità continentali hanno espresso il desiderio di recarsi in visita a Taiwan.
Verrebbe da pensare che il candidato del Partito progressista democratico (Dpp), inviso a Pechino, si tenga alla larga dai templi. Non è così. Lai Ching-te ne ha visitati a decine, tanto quanto i rivali Hou Yu-ih del Kuomintang e Ko Wen-je del Partito popolare. Nessuno fa lo schizzinoso, quando si tratta d’imbracciare qualche mazzo di germogli d’aglio.