Somaliland. Le elezioni nel «non Stato»

 

Lo scorso 13 novembre, il Somaliland ha tenuto la sua quarta elezione presidenziale dal 1991. Cioè dall’anno in cui la regione – composta dai territori settentrionali della Somalia – ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza da Mogadiscio. Da quel momento, il Somaliland elegge un proprio Governo e si è dotato di un Parlamento. Emette una sua moneta (lo scellino del Somaliland) e ha propri passaporti. Ma, finora, nessuno Stato della comunità internazionale ne ha riconosciuto l’indipendenza. E, soprattutto, la Somalia continua a rivendicare la propria sovranità su questo territorio.

Le elezioni
Ciononostante, l’esercizio della democrazia in Somaliland continua. Addirittura, alcuni esperti lo annoverano tra gli Stati de facto «più stabili» al mondo. Quest’anno, a sfidarsi erano in tre. Ma era chiaro che a contendersi la massima carica dello Stato sarebbero stati il presidente uscente Muse Bihi Abdi, leader del Peace, unity and development, e l’ex speaker del Parlamento e capofila dell’opposizione Abdirahman «Irro» Mohamed Abdullahi del Somaliland national party. L’outsider era Faysal Ali Warabe del Justice and welfare party.

Alla fine, con il 64% dei consensi si è imposto Abdirahman, ex diplomatico di grande esperienza. La politica internazionale infatti è stata uno dei temi più caldi del dibattito pre elettorale, assieme alla preoccupazione per il crescente costo della vita. Molti elettori si sono interrogati sul peso internazionale dei candidati e su ciò che avrebbero potuto fare, una volta eletti, per promuovere il riconoscimento dell’indipendenza del Somaliland. Le posizioni erano molto diverse.

Da un lato, c’era Abdi che puntava sul memorandum d’intesa «port-for-recognition» (un porto per il riconoscimento) siglato a gennaio 2024 con il Primo ministro etiope Abiy Ahmed. Infatti, se l’Etiopia si è assicurata l’affitto del porto di Berbera, il Somaliland ha ottenuto che la sua richiesta di un riconoscimento internazionale venisse tenuta in «profonda considerazione». La firma del patto però ha causato un’escalation di tensioni diplomatiche con la Somalia, oltre al coinvolgimento (anche militare) di altri Stati della regione. E così, dall’altro lato, c’era «Irro» che dipingeva il presidente uscente come un attore profondamente divisivo.

Il memorandum
Alla fine ha vinto proprio lui, Abdirahman. Ma la situazione che si trova a gestire è decisamente complessa, con il Somaliland stretto tra Etiopia e Somalia. Il bagaglio diplomatico di «Irro» sarà fondamentale per tentare di sbrogliare la complessa matassa che è diventato il Corno d’Africa. Tentando, al contempo, di ottenere il tanto agognato riconoscimento internazionale.

Già nel 2019, l’Etiopia aveva acquistato una partecipazione del 19% nel porto di Berbera. Ora con il memorandum ne ha ottenuto l’affitto per cinquant’anni, garantendosi venti chilometri di costa sul Mar Rosso per le proprie operazioni commerciali e a una base navale. Si trattava di riavere quello sbocco sul mare che Addis Abeba aveva perso nel 1993 con l’indipendenza dell’Eritrea e che l’aveva costretta a dipendere per tre decenni dal porto di Gibuti (da cui, ancora oggi, transita il 95% del traffico commerciale marittimo etiope).

Per l’Etiopia, avere un accesso diretto al mare è fondamentale anche per affermare il proprio status di grande potenza regionale. Tant’è che Abiy Ahmed ha affermato: «L’Etiopia è un’isola circondata dall’acqua, ma è assetata. Il Mar Rosso e il Nilo ne determineranno il futuro. Sono profondamente interconnessi al nostro Paese e saranno le fondamenta del suo sviluppo o della sua scomparsa». Il riferimento, chiaro, era al dibattito sull’accesso al Mar Rosso. Ma anche alle tensioni con l’Egitto per la Grand renaissance dam, la diga che l’Etiopia ha innalzato sul Nilo blu e che, secondo Il Cairo, mina le sue risorse idriche.

Tensioni con l’Egitto, dunque. Ma anche con Gibuti che non apprezza un accordo che riduce i flussi commerciali nel suo porto. E, soprattutto, cresce il malcontento della Somalia, indispettita dalla promessa etiope di tenere in «profonda considerazione» la richiesta del Somaliland di un riconoscimento. Mogadiscio ha definito l’accordo «oltraggioso» e dichiarato che non avrebbe ceduto nemmeno «un millimetro» del proprio territorio. Il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud ha poi rincarato la dose, dicendo: «Non staremo a guardare, mentre la nostra sovranità viene compromessa».

Così in agosto, Somalia ed Egitto hanno firmato un patto di sicurezza: entrambi sono intenzionati a opporsi alla politica di potenza di Abiy Ahmed. Il Cairo ha inviato equipaggiamento militare pesante e diversi aerei a Mogadiscio. Una dimostrazione di forza che ha irritato l’Etiopia.

Decidere se andare avanti e rendere il memorandum un accordo definitivo – con il rischio, come lui stesso ha denunciato in campagna elettorale, di incendiare ulteriormente la regione – sarà ora una delle prime questioni scottanti nelle mani di «Irro».

Aurora Guainazzi




Venezuela. L’ultimo azzardo di Maduro

 

Nella notte di domenica 28 luglio, il Consejo nacional electoral (Cne) del Venezuela ha annunciato il vincitore delle elezioni presidenziali in anticipo, senza attendere tutti i conteggi e senza effettuare alcuna verifica. Nicolás Maduro avrebbe vinto con il 51,2% dei voti. Cina, Russia ed Iran, paesi notoriamente a digiuno di democrazia, hanno subito inviato messaggi di complimenti al (presunto) vincitore. Se le cose rimarranno tali, Maduro, ex autista e sindacalista di 61 anni, in carica dal 2013, sarà presidente del Venezuela per la terza volta, fino al 2031.

Opposto il risultato diffuso dalla Plataforma unitaria democrática (Pud), l’alleanza che riunisce i principali partiti dell’opposizione sotto la guida di María Corina Machado, la pasionaria inabilitata a partecipare alle elezioni. Secondo gli oppositori, il loro candidato, l’ex ambasciatore Edmundo González Urrutia, avrebbe vinto la consultazione con 7,2 milioni di voti pari al 67% dei voti. Tuttavia, anche sui dati della Pud è lecito nutrire qualche dubbio.

Dunque, le due posizioni appaiono inconciliabili e – purtroppo – foriere di violenze. Poco dopo la diffusione dei risultati del Cne, nelle strade di Caracas sono iniziate proteste popolari con le pentole (cacerolazos) o con le barricate (guarimbas), mentre Maduro ha sollecitato i propri sostenitori a scendere in piazza contro «fascisti e controrivoluzionari». In questo momento, cifre non verificabili parlano di una decina di morti e un migliaio di arresti.

Secondo l’opposizione, questi sarebbero i veri risultati delle elezioni di domenica 28 luglio. Dal sito: resultadosconvzla.com.

Già nelle ore successive alle elezioni, il governo venezuelano aveva interrotto le relazioni diplomatiche con ben sette paesi dell’America Latina – Argentina, Cile, Costa Rica, Perú, Panamá, Repubblica Dominicana e Uruguay -, rei di aver espresso dubbi sulla veridicità del risultato. Più cauti nei giudizi sono stati il Brasile, il Messico e la Colombia, come anche gli Stati Uniti e l’Unione europea.

Mai tenera con il governo bolivariano, la Chiesa cattolica venezuelana – che raccoglie circa il 90 per cento dei cittadini – ha chiesto una verifica dei risultati, raccomandandosi nel contempo di evitare qualsiasi azione violenta. Per parte sua, l’«Osservatorio per la democrazia in America Latina», appartenente all’associazione delle università gesuitiche latinoamericane (Ausjal), pur criticando fortemente le modalità del processo elettorale, ha concluso che le elezioni rimangono l’unico cammino per la pace. Raggiunto via WhatsApp, un missionario della Consolata che lavora tra i Warao ci ha detto: «In questo momento siamo pieni di parole, promesse,… Tanti sanno tanto… Io credo che sia il tempo di ascoltare, fare silenzio, accompagnare, rimanere con i poveri, con il popolo che soffre».

Una verifica importante del risultato potrebbe essere effettuata controllando i registri ufficiali (i cosiddetti «actas de escrutinio») di ciascun seggio elettorale. Tuttavia, a quasi una settimana dal voto, questa verifica non è ancora arrivata. Nel frattempo, il 30 luglio il Centro Carter – organizzazione indipendente (e autorevole) con alle spalle 124 elezioni in 43 paesi e la sola ammessa come osservatore dal Cne – ha rilasciato un duro comunicato in cui si dice nero su bianco che l’elezione non è stata democratica.

Elezioni a parte, la situazione generale rimane pesante. Stando alle statistiche più recenti (fonte Encovi), oltre metà della popolazione venezuelana (51,9 per cento) vive in povertà, mentre nel 2023 l’inflazione annuale è stata del 189,9 per cento (Banco Central de Venezuela). A causa della situazione economica e politica, dal 2014 circa otto milioni di cittadini (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr) hanno abbandonato il Paese. La maggioranza di essi vive (o, più sovente, sopravvive) in Colombia, Perú, Stati Uniti e Brasile.

Senza voler giustificare le carenze governative, va anche detto che le sanzioni (bloqueo e medidas coercitivas unilaterales) a cui è sottoposto il governo di Caracas sono una causa primaria della grave situazione economica del Paese latinoamericano. Secondo l’Observatorio venezolano antibloqueo, organismo ministeriale, dal marzo 2015 il Venezuela è sottoposto a 930 misure sanzionatorie, in gran parte imposte dagli Stati Uniti. Le sanzioni più pesanti sono quelle sul petrolio e il gas, vera ricchezza del Paese.

Paolo Moiola




Senegal. Il più giovane dei presidenti

 

È Bassirou Diomaye Faye, il nuovo presidente del Senegal. Ha prestato giuramento ed è entrato in carica lo scorso 2 aprile. A 44 anni è il più giovane presidente senegalese di sempre, non ha mai avuto cariche elettive ed era praticamente sconosciuto. Funzionario di alto livello del servizio delle imposte, antisistema e panafricanista è noto come persona rigorosa e gran lavoratore.

Faye ha passato gli ultimi undici mesi in prigione sotto l’accusa di oltraggio a un magistrato per un post su Facebook (alla quale si sono aggiunte quelle più gravi per attentato alla sicurezza dello Stato e incitamento all’insurrezione), per uscirne il 14 marzo, grazie all’amnistia pre elettorale. Come lui, anche molti altri oppositori, incarcerati con pretesti nei mesi scorsi, attraversati da tensioni per il processo elettorale, nel goffo tentativo del presidente Macky Sall di restare al potere. Primo fra tutti Ousmane Sonko, fondatore (insieme a Faye) e leader del partito Pastef (Patrioti africani del Senegal, per il lavoro, l’etica e la fraternità), principale oppositore del presidente uscente. Sonko, dato vincente da tutti i sondaggi, era stato condannato e il Pastef sciolto nel luglio dello scorso anno. Bassirou Diomaye Faye è quindi stato scelto come piano B, in sostituzione di Sonko, e ha vinto al primo turno con il 54,28% dei voti.

«Il nuovo presidente del Senegal è un uomo di sani principi, rigoroso, che non parla molto, ed è molto rispettoso delle leggi del paese. Speriamo che saprà fare del Senegal un paese emergente», ci dice il giornalista Ama Dieng, contattato telefonicamente, senza nascondere un certo entusiasmo.
Il giorno dell’investitura, il neo presidente ha subito nominato primo ministro lo stesso Ousmane Sonko. I due si trovano oggi ai vertici del paese: insieme avevano elaborato un programma di sviluppo per il Senegal, che ora hanno la possibilità di provare a realizzare.
Tale ambizioso programma prevede, ha ricordato Faye: più giustizia, meno corruzione, una migliore ripartizione delle ricchezze, più equità nelle relazioni internazionali, la lotta all’iper presidenzialismo, la sovranità economica e la riforma monetaria.

Sonko, dopo la nomina ha dichiarato, tra l’altro: «Alla testa della squadra che stiamo per formare, daremo tutto quello che abbiamo e non risparmieremo nessuno sforzo per raggiungere quello che abbiamo promesso al popolo senegalese, ovvero la rottura (con i governi del passato, ndr), il progresso e il cambiamento definitivo nel giusto senso».
E il primo ministro la squadra l’ha formata rapidamente. È composta di 25 ministri (dieci in meno del precedente governo) e cinque sottosegretari. Tra i punti critici della nuova compagine, si segnala la presenza di solo quattro donne, e ben due generali (alla difesa e all’interno). Il 9 aprile si è tenuto il primo Consiglio dei ministri, per una prima conoscenza, mentre il passaggio di consegne è ancora in corso nei diversi dicasteri.
Oltre ad alcuni membri del Pastef in ministeri di peso, fanno parte del nuovo governo diverse personalità della società civile poco conosciute, e quasi tutti ministri alle prime armi. Resta da capire se effettivamente si tratta di un governo di unità e vicino alla popolazione, come Sonko ha promesso.
«Abbiamo questo duo al potere, nel quale Faye è il capo di Sonko nel governo, ma nel partito è il contrario – ci ricorda Ama Dieng -. Un coppia sulla quale abbiamo molte speranze e pensiamo davvero che cambieranno le cose, perché la popolazione ha bisogno di cambiamento, e lo ha dimostrato con il voto, con la schiacciante vittoria al primo turno del candidato dell’opposizione».

Marco Bello




Senegal. Le elezioni che sfuggono

 

La nuova data del primo turno delle elezioni presidenziali in Senegal è stata fissata per il 2 giugno, anche se si aspetta la firma del decreto da parte del presidente Macky Sall. Dopo il Ramadan (10 marzo – 8 aprile), e prima della stagione delle piogge. Ma il mandato del presidente scade il 2 aprile, per cui occorrerà un periodo di interim.

Il presidente aveva rimandato sine die le elezioni previste per il 25 febbraio, ma il Consiglio costituzionale aveva invalidato il decreto. Fatto sta che le elezioni non si sono tenute, per ora. La gente, però, è scesa in piazza per reclamarle.
Il Senegal è uno dei pochi paesi saheliani che aveva ancora mantenuto una certa stabilità e un approccio democratico, ma gli ultimi segnali non sono rassicuranti (ne avevamo parlato qui).
Il tentativo di Sall di modificare la Costituzione per potersi candidare per la terza volta consecutiva, è fallito a causa delle proteste di piazza.
Così il presidente ha cercato di escludere dalla competizione gli oppositori più validi, tra tutto Ousmane Sonko, attualmente in prigione con una condanna a due anni, e di mandare avanti il suo candidato Amadou Ba, l’attuale premier.
Intanto la società civile, con il coordinamento Aar sunu élection (Proteggiamo le nostre elezioni), ha indetto una giornata di sciopero generale mercoledì 28 febbraio, per fare pressioni affinché la consultazione elettorale non sia ulteriormente rimandata.
Nel frattempo, il presidente Macky Sall ha realizzato quello che ha chiamato «Dialoghi nazionali», un incontro con le parti, ovvero società civile, partiti politici, leader religiosi, sindacati e patronato (ma molte organizzazioni e candidati già validati non hanno partecipato), per la ridefinizione del processo elettorale. All’apertura dei lavori, il 27 febbraio, Sall ha annunciato un progetto di legge di amnistia per tutti i fatti accaduti durante le manifestazioni a fini politici tra il 2021 e 2024. Questo potrebbe rimettere in campo Sonko e altri candidati esclusi. Anche Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade (2000-2012), escluso dalle liste, potrebbe essere ripescato.
Inoltre, quindici dei diciannove candidati validi, hanno depositato un ricorso al Consiglio costituzionale chiedendo che le elezioni si tengano prima del 2 aprile.

Marco Bello




Venezuela. Caracas e Mosca, amore interessato

La data delle elezioni presidenziali non è stata ancora ufficialmente annunciata, ma pare sia questione di poco. In quale direzione vada il Venezuela di Nicolás Maduro è, invece, piuttosto chiaro. Lo scorso 22 febbraio la Tass, l’agenzia di stampa del Cremlino, dava spazio all’entusiasmo del presidente venezuelano in occasione della nuova visita del ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov. Mentre si fanno sempre più stretti i rapporti con la Russia, quelli con la comunità internazionale dei paesi democratici rimangono molto tesi.

Il presidente Maduro ha preso misure forti contro due donne che avrebbero potuto causargli problemi: María Corina Machado prima e Rocío San Miguel poi.

Mentre cerca di riconfermarsi al potere, il presidente venezuelano Nicolás Maduro stringe rapporti sempre più stretti con la Russia di Vladimir Putin. (Foto Ciudadccd.info)

La prima è (sarebbe) la candidata scelta dall’opposizione dopo la consultazione popolare dello scorso ottobre (primarie vinte con oltre il 93 per cento delle preferenze), ma è stata inabilitata dal Tribunale supremo (addirittura per quindici anni) per aver appoggiato le sanzioni degli Stati Uniti contro il Venezuela e Juan Guaidó come presidente provvisorio. In base a questa decisione la Machado non potrà partecipare alle prossime elezioni nelle quali, in caso di svolgimento regolare, sarebbero alte le sue possibilità di vittoria. La seconda donna, avvocata e direttrice della Ong «Control ciudadano» (specializzata nel controllo delle azioni delle forze di sicurezza), è stata arrestata con la pesante accusa di essere parte di una cospirazione – nota come «brazalete blanco» – per assassinare il presidente Maduro. A metà febbraio, pochi giorni dopo l’arresto della San Miguel, Caracas ha ordinato la chiusura dell’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) e dato 72 ore al personale (tredici persone) per lasciare il paese. L’accusa è quella di essere di essere una centrale di supporto a un’estrema destra di golpisti e terroristi e di avere un’attitudine colonialista.

Questa serie di eventi mette in serio rischio gli accordi di Barbados tra governo e opposizione sulle regole della competizione elettorale, accordi faticosamente raggiunti lo scorso 17 ottobre con la mediazione di Norvegia e Messico.

Evidentemente Caracas preferisce rafforzare i legami con i paesi in cui la prassi democratica non è contemplata o è considerata un’inutile perdita di tempo. La cooperazione tra Venezuela e Russia è forte perché forti sono gli interessi reciproci. Caracas vuole rompere l’isolamento internazionale e risollevare la propria economia in perenne affanno. Per parte sua, Mosca vuole rafforzare la propria presenza – politica, militare ed economica – in America Latina, già solidissima con il Nicaragua della coppia presidenziale Daniel Ortega e Rosario Murillo. In un caso e nell’altro si conferma che i dittatori s’intendono a meraviglia.

Paolo Moiola




Argentina. «El maligno es santo»

«Il maligno è santo», «Javier Milei, ai piedi di papa Francesco», «Da maligno a benigno»: sono alcuni dei titoli con cui il sito di «Página|12» apriva i servizi sull’incontro tra il presidente Javier Milei e papa Francesco, avvenuto in Vaticano domenica 11 (durante la canonizzazione di Mama Antula, la prima santa argentina) e lunedì 12 febbraio (in forma privata). L’ironia del quotidiano argentino era giustificata, forse addirittura doverosa.

Nei mesi precedenti la sua elezione, il presidente argentino era stato, infatti, prodigo di insulti verso l’illustre connazionale. Papa Francesco era stato definito da Milei, tra l’altro, «il rappresentante del diavolo sulla Terra», mentre ora è diventato «l’argentino più importante del mondo».

Pur non avendo (ancora) visitato il suo Paese, papa Francesco ha sempre ricevuto i vari presidenti argentini: da Cristina Kirchner a Mauricio Macri fino ad Alberto Fernández. L’incontro di lunedì con Milei – senza la presenza di altri – si è protratto per 70 minuti, ben più del previsto. È stato definito cordiale, ma non è chiaro come le loro (opposte) visioni sull’economia e sul capitalismo abbiano trovato punti in comune.

Javier Milei – libertario e anarcocapitalista come lui ama autodefinirsi – è arrivato a Roma dopo una visita in Israele e proprio nei giorni in cui la sua (ambiziosissima) Ley ómnibus veniva affossata. La legge omnibus era la legge d’esordio del suo governo, un unico progetto di 664 articoli che includeva varie riforme in materia economica, fiscale, amministrativa, con una base ideologica fondata su liberalizzazioni e privatizzazioni. Si prevedeva, per esempio, di togliere le limitazioni attualmente in vigore sull’acquisto delle (preziosissime) terre agricole argentine da parte degli stranieri.

La «legge omnibus» del governo Milei prevedeva (tra l’altro) di eliminare i limiti alla vendita delle (preziosissime) terre argentine a soggetti stranieri. (Foto visiondailleurs1 – Pixabay)

Ospite più che apprezzato a una trasmissione di «Retequattro» (Nicola Porro) e sul quotidiano «Libero» (Mario Sechi), Milei ha rilasciato interviste che dipingono il personaggio. «Milei – ha scritto un entusiasta Sechi – ha l’aria di chi sta tessendo una tela, non solo per dare corpo e sostegno al suo piano per l’Argentina. La sua rivoluzione è quella di un uomo di pensiero che conduce una battaglia delle idee […]». Una di esse riguarda la concezione dello Stato: «Filosoficamente – ha spiegato il presidente – sono un anarcocapitalista e quindi nutro un profondo disprezzo per lo Stato. Credo che il nemico sia lo Stato, un’associazione per delinquere».

Sarebbe bello sapere se Milei abbia fatto le stesse osservazioni al cospetto del papa. Più personale ma comunque sorprendente un’altra affermazione fatta davanti alle telecamere di Retequattro: «Sono cattolico e pratico anche un po’ di ebraismo».

L’Argentina, potenzialmente molto ricca, è abbonata alle crisi economiche, che si ripresentano con la stessa puntualità con cui il paese sforna campioni di calcio, che poi costituisce la vera religione del paese. Peccato che il calcio non basti a risollevare le sorti dei 46 milioni di argentini. Vedremo se ci riuscirà Javier Milei, nuovo pifferaio magico del paese latinoamericano.

Paolo Moiola

 




El Salvador. Bukele, presidente e dittatore

Il nome di Nayib Bukele, appena rieletto presidente a furor di popolo (82 per cento dei suffragi), è molto popolare anche fuori del Salvador. È giovane (42 anni), ma non tanto quanto i suoi omologhi del Cile (Gabriel Boric ha 38 anni) e, ancora più, dell’Ecuador (Daniel Noboa, 36). Si è guadagnato fama e popolarità soprattutto per una cosa: l’aver sconfitto le «maras» (Mara salvatrucha e Barrio 18), le bande criminali che, fino a pochi anni fa, dominavano il piccolo paese centroamericano.

Per ottenere questo risultato Bukele non è andato per il sottile. Nel marzo del 2022 il presidente ha decretato lo stato d’emergenza (régimen de excepción), che consente di sospendere i diritti fondamentali della persona, una condizione che il prossimo mese compirà due anni. I risultati ottenuti sono stati eclatanti, in un verso e nell’altro. Secondo i dati governativi, il 2023 è stato l’anno più sicuro nella storia del paese: se nel 2015 il tasso di omicidi raggiungeva la cifra di 106,3 ogni centomila abitanti, oggi è caduto al 2,4. Un tasso questo che collocherebbe El Salvador al primo posto tra i paesi più sicuri in America Latina e al secondo nelle Americhe (subito dopo il Canada). L’altra faccia della medaglia racconta che, sotto lo stato d’emergenza, il governo ha arrestato circa 75mila persone, ovvero oltre l’uno per cento dell’intera popolazione (6,4 milioni). Le immagini dei detenuti seminudi e in catene hanno fatto il giro del mondo. Come quelle del Cecot (Centro de confinamiento del terrorismo), la mega prigione da 40mila posti, inaugurata dal presidente in persona nel gennaio 2023.

Un’impressionante immagine dei detenuti all’interno del mega carcere Cecot, inaugurato dal presidente Bukele nel gennaio 2023. (Foto Oficina de Prensa – Presidencia de la República de El Salvador)

Se la gestione della sicurezza ha dato risultati, la situazione economica rimane estremamente precaria, a cominciare dalla moneta in circolazione nel paese. Nel 2001 il colón è stato sostituito dal dollaro statunitense e, nel settembre 2021, questo è stato affiancato dal bitcoin, criptovaluta tutt’altro che stabile. Altro dato significativo è l’entità delle rimesse degli emigrati salvadoregni (oltre 1,4 milioni soltanto negli Stati Uniti) che raggiunge il 24,5 per cento (2023) del Prodotto interno lordo del paese, una percentuale tra le più alte del continente. Nel frattempo, si sono fatti sempre più stretti i rapporti con la Cina che sta finanziando molti progetti come l’avvenieristica Biblioteca nazionale, inaugurata nella capitale lo scorso novembre.

Tra le tante possibili domande, una in particolare risulta ostica: Nayib Bukele è un presidente populista o un dittatore populista? L’aggettivo è un dato di fatto, mentre il passaggio da presidente a dittatore è dibattuto. Certamente, la strada intrapresa pare quella. Ne è sicuro «El Faro», fondato nel 1998 a San Salvador, primo giornale su internet dell’America Latina, trasferitosi in Costa Rica nell’aprile 2023 a causa dello «smantellamento della nostra democrazia». D’altra parte, lo stesso Bukele in un post sui propri canali social si è autodefinito «El dictador más cool del mundo mundial» (Il dittatore più figo del mondo): la sua risposta – ironica ma non troppo – alla circostanza che la Costituzione del paese vieterebbe un secondo mandato consecutivo.

Paolo Moiola




Pakistan. Sotto scacco dei militari

Venerdì 5 gennaio, alla periferia di Islamabad, in pieno giorno, una motocicletta con due uomini dal volto coperto si avvicina a un’auto. Uno degli uomini spara una raffica di proiettili contro la vettura. L’ attacco uccide il passeggero e ferisce gravemente l’autista.

L’uomo deceduto si chiamava Masoodur Rehman Usmani, leader e portavoce del movimento Sunni ulema council (Suc), organizzazione sunnita molto attiva nella politica pachistana. Leader carismatico per i religiosi del suo Paese, terrorista per gli Stati confinanti, Usmani era stato più volte accusato di fomentare l’odio verso l’India. Rivalità, quella tra Pakistan e India, che sembra ben lontana da una soluzione.

Dopo questo ennesimo attentato, e in vista delle elezioni dell’8 febbraio, la tensione in Pakistan cresce giorno dopo giorno. Continui sono gli arresti. Il 13 gennaio, a Peshawar sono stati fermati due sospetti terroristi, mentre pianificavano un attacco suicida contro una scuola sciita. L’opinione comune, largamente condivisa, è che le elezioni non si potranno tenere a febbraio, ma verranno posticipate a data da destinarsi.

La Moschea di Masjid Baadshahi conosciuta anche come la Moschea Imperiale, è uno dei simboli religiosi del Pakistan. (Foto Angelo Calianno)

Adam (nome di fantasia) è un imam della moschea di una piccola comunità alle porte di Islamabad. Mi spiega il perché: «Se ci fossero davvero le elezioni, le strade sarebbero piene di manifesti elettorali e volantini. Ci sarebbero comizi e camion con bandiere ovunque. Non hai idea di quanto chiasso e fermento c’è nel Paese durante questi eventi. Non vedi nulla perché, anche se si dovesse votare, nessuno ha speranza che le cose possano cambiare. Chiunque andrà al potere, sarà sempre sotto il controllo militare, sono loro che comandano. Lo vedi quello che accade: omicidi, rapimenti, attacchi terroristici. Il Paese ha tante risorse, ma vengono tutte controllate dai militari. L’inflazione è altissima e la gente è arrivata al limite della sopportazione».

I principali candidati alle elezioni di febbraio saranno (o dovrebbero essere): Bilawal Bhutto Zardari, esponente del Partito popolare di centrosinistra (Ppp), e Nawaz Sharif, leader del Partito conservatore islamico (Pml-n). Nawas Sharif è stato già primo ministro, per tre volte. Si è ricandidato in Pakistan dopo quattro anni di autoesilio all’estero.

Nessun candidato, però, ha rimpiazzato nel cuore dei pachistani l’ex primo ministro Imran Khan. Il carismatico leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Movimento per la giustizia in Pakistan) dal 2023 si trova in carcere. Kahn è accusato di oltre 150 reati, tra cui quello di corruzione. Crimini da lui sempre negati.

A Lahore, incontriamo un giovane ricercatore universitario. Sostenitore di Kahn, mi racconta: «Non crediamo che possano esserci elezioni regolari. I militari, in diverse forme, sono ovunque: intelligence, polizia, esercito. Non può esserci una democrazia così. Ufficialmente possiamo anche avere un presidente, un primo ministro, un parlamento. Ma sono trent’anni che chi governa davvero il Paese è lo Stato maggiore militare. Controllando le forze armate e la sorveglianza, questi possono fare tutto quello che vogliono e nessuno ha il coraggio di andargli contro. Chi ci prova fa una brutta fine: guarda cosa è successo a Imran Kahn o a chi ha supportato la causa dell’indipendenza del Balocistan: la gente sparisce, senza lasciare traccia».

Il 2023, per il Pakistan, è stato l’anno record dei morti legati a terrorismo e conflitti interni. Un report del The Hindu, testata che monitora la geopolitica in Asia, riporta oltre 1.500 morti e 789 attacchi terroristici negli ultimi 12 mesi.

Nel frattempo, in questi giorni, un’enorme marcia è arrivata a Islamabad da Quetta. Migliaia di persone hanno camminato dal Balocistan, per protestare contro il governo per le violenze e le sparizioni, avvenute nella regione ai confini con l’Afghanistan. Oltre a quest’ultimo caso, lo Stato dovrà affrontare il problema di migliaia di profughi afghani che arrivano qui ogni giorno, il malcontento generale per l’economia in crisi e la presenza del terrorismo. Con questi presupposti, pochissimi credono nella possibilità di elezioni regolari e in sicurezza.

A Islamabad, sono lunghissime le file di persone fuori dalle ambasciate straniere. L’obiettivo di tantissimi, e unica soluzione per il loro futuro, sembra soltanto quella di cercare asilo in un altro Paese.

Angelo Calianno da Islamabad

 




Argentina. Un altro pifferaio magico?

In Argentina, il secondo turno delle elezioni presidenziali (19 novembre) ha sancito il trionfo di Javier Milei, il cinquantaseienne candidato de La Libertad Avanza, economista iperliberista, personaggio stravagante cui una larga maggioranza di argentini ha affidato le sorti del paese. Un paese allo sbando con un’inflazione al 140 per cento e 18,5 milioni di poveri (su 46 milioni di abitanti) di cui 4,3 milioni indigenti (proiezione su dati ufficiali dell’Instituto nacional de estadística y censos, Indec).

Quintas del Sol, un «barrio cerrado» (quartiere chiuso privato), nella provincia di Buenos Aires. L’interminabili cresi economica argentina ha accuito le differenze sociali nel paese. (Foto Infobae)

Abbiamo raccolto un paio di opinioni subito dopo il clamoroso risultato elettorale. Padre Luigi Inverardi, per molti anni missionario nel paese latinoamericano, si dice sorpreso della vittoria di Milei, ma giustifica gli argentini che lo hanno votato visto il disastro compiuto dal candidato presidenziale Sergio Massa, ministro dell’economia uscente. «La prima cosa da fare – aggiunge il missionario – è controllare l’inflazione e sanare l’economia. L’adozione del dollaro è una misura improponibile, ma la spesa pubblica si può ridurre perché ci sono troppi argentini che vivono di sussidi senza lavorare».

Padre José Auletta, 47 anni in Argentina, ci risponde di buon mattino da Yuto, provincia di Jujuy, nell’estremo nord ovest del paese. «Sia lo sfidante Massa che il vincitore Milei erano il peggio. Il popolo argentino ha votato spinto da un desiderio di cambiamento, ma soprattutto dalla rabbia. Oggi l’Argentina deve affrontare un impoverimento che è strutturale e una corruzione che è altrettanto».

Al Congresso nazionale (il parlamento) partito di Milei è minoranza: al Senato avrà 7 membri su 72, alla Camera 38 su 257. «E nessuno – aggiunge Auletta – dei 24 governatori delle province argentine. Milei ha vinto anche per aver gridato contro “la casta”. Quella stessa casta con cui dovrà però arrivare ad accordi per poter governare».

Quanto alla Chiesa argentina, il clima non è dei migliori. Dopo le accuse (tra cui comunista e rappresentante del maligno) e le offese di Milei a papa Francesco in più circostanze, in chiusura di campagna elettorale Alberto Benegas Lynch, economista e mentore del nuovo presidente, aveva proposto di «rompere le relazioni diplomatiche con il Vaticano». Gli aveva risposto (con classe) José María Di Paola detto Pepe, uno dei più noti curas villeros, i preti che vivono nelle villas miserias, le baraccopoli argentine. Il sacerdote sta preparando una campagna per invitare il papa a visitare il suo paese. Sotto lo slogan: «Vení Francisco, el pueblo te espera» (Vieni Francesco, la gente ti aspetta).

Padre José María Di Paola detto Pepe, noto «cura villero» e sostenitore del viaggio di papa Francesco in Argentina. (Foto David Agren)

Lo scorso ottobre, durante una lunga intervista concessa alla direttrice dell’agenzia argentina Télam, il papa aveva parlato dell’Argentina senza mai nominare Milei, ma facendovi riferimenti piuttosto espliciti. «Ho molta paura – aveva confessato – dei pifferai magici di Hamelin perché sono incantatori di serpenti. Se fossero incantatori di serpenti li lascerei, ma sono incantatori di persone… e finiscono per affogarle. Persone che credono di poter uscire dalla crisi ballando al suono del flauto, con redentori fatti da un giorno all’altro. […] Le grandi dittature nascono da un flauto, da un’illusione, da un fascino del momento. E poi diciamo “che peccato, stiamo annegando tutti”».

Il neoeletto Milei è un pifferaio magico? Aspettiamo per vedere come metterà mano ai problemi del paese che lo ha eletto. Come sempre, una cosa sono le parole dette in libertà durante le campagne elettorali, un’altra è la realtà quotidiana. E quella argentina è una realtà da brividi.

Paolo Moiola




Venezuela. Una distrazione chiamata Esequibo

L’oggetto del contendere si chiama Esequibo. È un territorio di 159mila chilometri quadrati ricchi di risorse naturali e forestali. Scarsamente abitato (125mila persone), ospita vari gruppi indigeni: Sarao, Arawako, Kariña, Patamuná, Arekuna, Akawaio, Wapishana, Makushi, Wai Wai e Warao. Costituisce due terzi della superficie della Guyana, paese che è stato una colonia britannica fino al 1966. Il Venezuela reclama l’Esequibo come proprio e per questo ha indetto un referendum consultivo per il prossimo 3 dicembre.

Un’immagine dell’Esequibo (oggi appartenente alla Guyana), grande territorio con risorse naturali (sopra e sotto), abitato da popoli indigeni. Il Venezuela lo reclama come proprio. Giusta rivendicazione o furba distrazione? (Immagine da cuatrof.net)

Quella dell’Esequibo è una disputa vecchia di quasi due secoli. Tuttavia, la sua recrudescenza proprio in questo periodo di grave crisi – economica, sociale, politica – per il paese venezuelano induce a ritenere che la questione sia utilizzata dal governo di Nicolás Maduro come «arma di distrazione di massa». Anche se gli ultimi eventi hanno aperto – o parevano aver aperto – piccoli ma significativi squarci di ottimismo nella complicata vicenda venezuelana.

Nicolás Maduro conduce un proprio programma – «Con Maduro+» – sulla televisione statale. (foto Prensa presidencial – Correo del Orinoco)

Infatti, lo scorso 17 ottobre, a Barbados e sotto gli auspici della Norvegia, governo di Caracas e opposizione hanno raggiunto un accordo sul percorso per garantire che le elezioni presidenziali del 2024 siano libere e democratiche. In risposta a questo passo, l’amministrazione Biden ha immediatamente allentato le sanzioni sul settore petrolifero venezuelano autorizzando il paese, membro dell’Opec, a produrre ed esportare petrolio nei mercati prescelti per i prossimi sei mesi e senza limitazioni. Una potenziale, enorme boccata d’ossigeno per le esangui casse pubbliche di Caracas.

Il 22 ottobre si sono poi tenute le primarie dell’opposizione, alle quali – secondo i dati degli organizzatori – avrebbero partecipato 2,5 milioni di venezuelani. Ne è risultata vincitrice la dama de hierro (la signora di ferro) Maria Corina Machado (56 anni, tre figli, ex deputata di destra, ingegnere) con quasi il 93 per cento dei voti.

Maria Corina Machado, vincitrice delle primarie dell’opposizione tenute lo scorso 22 ottobre. (Foto da diarioelregionaldelzulia.com)

Le cose si sono però subito complicate: prima con la conferma di una sentenza di inabilitazione per la Machado a ricoprire cariche pubbliche per 15 anni e la conseguente esclusione dalle elezioni del 2024 e poi (il 30 ottobre) con la sospensione del risultato delle primarie da parte del Supremo tribunale del Venezuela per violazioni elettorali, crimini finanziari e cospirazione. In questo quadro generale già confuso, è arrivata la deflagrazione della contesa con la Guyana per l’Esequibo.

I media venezuelani stanno dando molto rilievo alla questione Esequibo.

Come avviene per quasi tutte le questioni internazionali in questa difficile epoca storica, anche in Venezuela le situazioni paiono cristallizzate. Lo confermano anche le risposte ricevute da alcuni nostri interlocutori di Caracas, vicini al governo Maduro: «La vicenda della Guyana – ci hanno spiegato – è molto semplice: il territorio è nostro, però gli Occidentali se lo vogliono rubare (come hanno fatto in tutta la storia degli ultimi 600 anni). Le primarie dell’opposizione sono state annullate per un sacco di dati falsi. È realmente triste che questa gente sia tanto disonesta. Infine, con riferimento a Maria Corina Machado non può essere candidata alle elezioni presidenziali semplicemente perché è stata inabilitata a rivestire cariche pubbliche da una precedente sentenza».

Paolo Moiola