Terre rare. Corsa globale


Sulla Terra si moltiplicano le «zone di sacrificio» dove, in nome di un supposto bene comune (tecnologico), si calpestano persone e ambiente. Le terre rare, minerali cruciali per ogni prodotto, dagli smartphone ai missili, sono contese dai grandi del mondo.

Forse state leggendo questo articolo nella versione cartacea della rivista, oppure dallo smartphone, o da un computer. In ambedue i casi, lo leggete grazie alle tecnologie che fanno funzionare i nostri apparecchi elettronici e le loro batterie, oltre ai sistemi di stoccaggio di dati e ai vari cloud. Queste tecnologie utilizzano una grande varietà di materiali. Tra essi, fondamentali sono le cosiddette terre rare. Non le vediamo a occhio nudo, ma sono cruciali. Impiegate nelle auto elettriche, in apparecchi medici di precisione, laser, schermi, lampadine led. Persino nella raffinazione del petrolio.

La tecnologia fa passi da gigante, e ne abbiamo bisogno. Tuttavia, alcune domande dovremmo porcele. Soprattutto alla luce dei cambiamenti tecnologici promossi, ad esempio, dall’Unione europea. E, di questi tempi, anche alla luce degli enormi investimenti in armamenti e tecnologie nucleari.

Da dove provengono le terre rare? Quanto rare sono? Come si ottengono e come si processano? Chi lo fa, e dove?

Per provare a rispondere a queste domande, il gruppo di ricerca dell’EJAtlas (l’Atlante della giustizia ambientale), insieme alla catalana Observatori del deute en la globalització (Odg), allo statunitense Institute for policy studies e al Craad-oi del Madagascar, membri del Global rare earths element network, hanno condotto una ricerca e documentato i conflitti socio ambientali in relazione alla filiera delle terre rare. Dalla ricerca sono nati un rapporto e una mappa che documentano più di venticinque casi in Cina, Cile, Brasile, Finlandia, Groenlandia, India, Kenya, Madagascar, Malaysia, Malawi, Myanmar, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna e Svezia.

Ma cerchiamo di rispondere alle domande passo a passo.

Terre rare ovunque

Oggi, quasi tutta la tecnologia utilizza le terre rare. La loro pervasività è esemplificata dall’automobile, uno dei prodotti che ne consumano maggiori quantità. La sua parte elettronica, per esempio, così come gli altoparlanti del sistema audio che utilizzano magneti permanenti al neodimio-ferro-boro. I sensori elettronici che utilizzano zirconio stabilizzato con ittrio per misurare e controllare il contenuto di ossigeno nel carburante. I fosfori dei display ottici che contengono ossidi di ittrio, europio e terbio. Il parabrezza e gli specchietti sono lucidati con ossidi di cerio. Anche i carburanti sono raffinati utilizzando lantanio, cerio o ossidi misti di terre rare. Le automobili ibride sono alimentate da una batteria ricaricabile all’idruro metallico di nichel-lantanio e da un motore di trazione elettrico, con magneti permanenti.

Anche dispositivi come telefoni, televisori e computer impiegano terre rare per i magneti degli altoparlanti, i dischi rigidi, i display. Le quantità di terre rare utilizzate, pur ridotte (tra lo 0,1 e il 5 per cento del peso), sono essenziali per farli funzionare.

Cosa sono e dove si trovano?

Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi chimici. Il loro nome è piuttosto fuorviante perché non si tratta di «terre» e non sono neppure così rare.

I Ree – Rare earth elements – sono lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio, ittrio e scandio.

Siamo a conoscenza della loro esistenza dal 1787, quando il tenente dell’esercito svedese Carl Axel Arrhenius scoprì un minerale nero in una piccola cava di Ytterby (vicino a Stoccolma). Il minerale era una miscela di terre rare dalla quale il primo elemento isolato fu il cerio nel 1803. Allora sembravano degli ossidi rari. Da qui il loro nome. In seguito, invece, sono stati trovati in molti paesi.

Secondo l’Us geological survey (Usgs), nel 2022 la Cina ha fornito il 70% della produzione globale di Ree (210mila tonnellate metriche), seguita da Stati Uniti (14,3%), Australia (6%), Myanmar (4%), Thailandia (2,4%), Vietnam (1,4%), India (0,96%), Russia (0,86%), Madagascar (0,32%) e Brasile.

Le riserve sono invece documentate in oltre trentaquattro Paesi. Dopo la Cina (44 milioni di tonnellate), c’è il Vietnam (22 milioni), seguito da Russia e Brasile (21 milioni ciascuno).

La loro lavorazione avviene per l’87% in Cina, il 12% in Malaysia (dall’australiana Lynas rare earths) e l’1% in Estonia (dati della Agenzia internazionale dell’energia, Aie, del 2022).

Come abbiamo visto, le terre rare hanno proprietà magnetiche, ottiche ed elettroniche che le rendono cruciali per molti usi civili, tuttavia, esse sono strategiche anche per l’industria della difesa e aerospaziale: per produrre aerei, missili, satelliti e sistemi di comunicazione.

Infatti, la proposta della Commissione europea per la legge sulle materie prime critiche dell’Ue, pubblicata nella primavera del 2023, menziona la necessità strategica di questi minerali per la transizione verde e digitale, nonché per la difesa e l’industria aerospaziale.

L’Aie suggerisce che, per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero, l’estrazione di terre rare dovrebbe aumentare di dieci volte entro il 2030. In realtà, è già cresciuta di oltre l’85% tra il 2017 e il 2020, soprattutto per la domanda di magneti permanenti per la tecnologia eolica e i veicoli elettrici.

Tuttavia, serve sottolineare l’assurdità della speranza di arrivare a zero emissioni. Infatti, anche se le emissioni per combustione di gas o petrolio non avverranno nelle centrali elettriche o nei motori delle auto, ci saranno nelle miniere e nelle fabbriche di lavorazione di pannelli fotovoltaici o di turbine eoliche.

Se non in Europa o altri paesi opulenti, le emissioni avverranno laddove le imprese delocalizzano e producono con minori costi e controlli.

Come si estraggono?

Come già detto, le terre rare sono abbondanti. La loro disponibilità, però, è limitata, soprattutto perché i livelli di concentrazione sono bassi (meno del 5% in media).

Una fonte, per essere economicamente redditizia, dovrebbe contenere più del 5% di terre rare, a meno che non siano estratte assieme ad altri metalli, ad esempio zirconio, uranio o ferro. In questo caso avviene il recupero economico anche di corpi minerari con concentrazioni addirittura dello 0,5%.

La concentrazione bassa e spesso combinata rende l’estrazione delle terre rare molto costosa. Richiede grandi quantità di energia e acqua, e anche la generazione di molti rifiuti.

Inoltre, le terre rare sono spesso mescolate con diversi elementi pericolosi, come uranio, torio, arsenico e altri metalli pesanti che comportano elevati rischi per la salute e l’ambiente.

L’estrazione avviene a cielo aperto o in miniere sotterranee, tramite un processo chimico e fisico spesso attuato in situ.

Le terre rare non si possono riciclare da prodotti vecchi. Nonostante le grandi aspettative sul riciclo, esso rimane una fonte marginale (meno dell’1%): la difficoltà di separare i singoli elementi gli uni dagli altri è elevata. Inoltre, quella del riciclo è ben lontana dall’essere un’industria pulita, poiché richiede grandi quantità di energia e genera rifiuti pericolosi.

Le miniere di terre rare

I casi di conflitti socio ambientali per l’estrazione, lavorazione e riciclaggio delle terre rare documentati nel report citato, indicano tendenze preoccupanti per quanto riguarda gli impatti ambientali, sociali e sui diritti umani. Le preoccupazioni denunciate dalle comunità locali prossime a questi stabilimenti riguardano l’inquinamento dell’acqua, del suolo, dell’aria e il suo impatto sulla salute.

Le proteste sono generate anche dalla mancanza di trasparenza e di partecipazione alle procedure decisionali e ai controlli, compreso il mancato rispetto dei diritti delle popolazioni indigene.

Molti dei casi documentati dal report riguardano abusi dei diritti umani tramite diverse forme di violenza (repressione, persecuzione legale, criminalizzazione, violenza fisica) esercitate contro le comunità locali, i difensori dell’ambiente e dei diritti umani e le organizzazioni della società civile.

Cina, Usa e Malaysia

Il più grande sito di estrazione e lavorazione al mondo si trova in Cina, a Bayan Obo, nella provincia della Mongolia interna.

Decenni di attività hanno prodotto un massiccio inquinamento di terreni e acque con metalli pesanti, fluoro e arsenico che hanno avvelenato gli abitanti e gli ecosistemi locali.

L’inquinamento si è poi diffuso lungo il bacino idrografico del Fiume Giallo, da cui dipendono quasi 200 milioni di persone per l’acqua potabile, l’irrigazione, la pesca e l’industria.

In Cina sono anche attivi centri di riciclaggio dei rifiuti elettronici, come quello di Guiyu (Guangdong), nel cui territorio si sono registrati livelli preoccupanti d’inquinamento da metalli pesanti nel suolo, nell’acqua e persino nel sangue umano.

Negli Stati Uniti, la miniera Mountain Pass, chiusa negli anni 2000 per l’inquinamento (e per la concorrenza cinese), è stata recentemente riattivata per l’approvvigionamento di terre rare negli Stati Uniti.

In Malaysia, dal 2011, le comunità del distretto di Kuantan combattono contro lo stabilimento di Lynas Rare Earths Ltd e l’inquinamento associato, nonché i metodi di gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi.

Myanmar e Madagascar

In Myanmar, principale esportatore verso la Cina, la miniera è controllata dal regime militare che ne beneficia. Le violazioni dei diritti umani, i danni agli ecosistemi locali e alle condizioni di vita degli abitanti della regione sono grandi. Precedentemente rinomata per le sue foreste incontaminate, la ricca biodiversità e i corsi d’acqua puliti, la regione di Kachin si sta ora trasformando in un paesaggio segnato dalla deforestazione e dalla presenza di pozze turchesi tossiche. Le attività estrattive stanno contaminando i corsi d’acqua, causando la fuga degli animali selvatici, incidendo sui mezzi di sussistenza delle comunità locali e causando molteplici problemi di salute.

Quando i leader dei villaggi hanno cercato di denunciare l’impatto dell’estrazione di terre rare sulla loro terra e sui loro mezzi di sostentamento, hanno ricevuto minacce e intimidazioni da parte delle milizie, o hanno subito arresti e omicidi.

In Madagascar, dal 2016, le comunità locali si oppongono al progetto minerario Tantalus rare earths malagasy in quanto violerebbe molti dei loro diritti, compresi quello alla terra e ai mezzi di sostentamento, dato che la maggior parte di loro vive di pesca e agricoltura. Fin dall’inizio del progetto, acquisito da Reenova e poi da Harena resources Pty Ltd nel 2023, le comunità locali hanno denunciato la natura irregolare dei permessi di estrazione, la trascuratezza dei lavori di riabilitazione dei pozzi, la mancanza di partecipazione dei locali e del loro consenso libero, preventivo e informato, nonché la mancata considerazione degli impatti sociali, sui diritti umani e sull’ambiente.

Il caso Lynas in Malaysia

In Australia occidentale, Lynas Rare Earths Ltd estrae minerali di terre rare dalla miniera semiarida di Mt Weld e li trasporta per processarli nello stato di Pahang in Malaysia. Qui, dal 2011, le comunità di Kuatan hanno lottato contro l’inquinamento e i metodi di gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi della multinazionale. Le loro azioni hanno ottenuto il riconoscimento e il sostegno di alcune organizzazioni internazionali.

La Lynas ha promesso di rimuovere i rifiuti per ottenere la licenza dal governo, ma ha poi rinnegato l’impegno legale.

Mentre in Australia occidentale lo stesso tipo di rifiuti deve essere smaltito sottoterra, isolato dalla biosfera per mille anni, in Malaysia questo materiale radioattivo (ad oggi 1,5 milioni di tonnellate) è stato ammassato in una discarica priva di misure di sicurezza, vicino a complessi residenziali e località costiere.

La campagna «Stop Lynas», promossa dalla comunità, denuncia il green washing dell’azienda e la mancanza di applicazione della legge da parte dei governi, i rischi delle scorie radioattive, la riduzione di disponibilità di acqua e dei mezzi di sussistenza, e il rischio di cancro.

Svezia e India

Il continente europeo non è esente da simili preoccupazioni. È il caso di Norra Kärr, in Svezia. Nel progetto minerario vicino al lago Vättern, l’acido solforico viene utilizzato per separare le terre rare dagli altri minerali. I materiali di scarto vengono poi stoccati in bacini di decantazione. I gruppi ambientalisti temono che gli acidi e i minerali (tra cui uranio e torio) possano contaminare l’ambiente e in particolare il lago Vättern, inquinando l’acqua potabile di centinaia di migliaia di persone.

L’estrazione di terre rare è anche legata alla distruzione delle aree costiere e degli ecosistemi, ad esempio in India, dovuta all’estrazione intensiva di sabbia da cui vengono poi separate le terre rare, e ai potenziali impatti sugli oceani. In Nuova Zelanda e in Norvegia esistono progetti di estrazione in acque profonde, attualmente sospesi a causa degli incerti e gravi rischi ambientali e biologici che questa nuova frontiera mineraria comporta.

Le maggiori aziende

Le imprese estrattive hanno sede principalmente in Cina, Stati Uniti, Canada e Australia. La mega azienda China rare earths group controlla il 70% della produzione del Paese. Le altre principali società che estraggono terre rare a livello globale sono: Lynas Rare Earths Ltd (coinvolta nel più grande impianto di lavorazione delle terre rare al di fuori della Cina, in Malaysia e presto anche nel nuovo grosso impianto statunitense del Texas, con incarico diretto dal dipartimento di Difesa degli Stati Uniti), Iluka, Alkane resources (le tre con sede in Australia), Shenghe resources (con sede in Cina) e Molycorp (Stati Uniti).

Una corsa globale

Il dominio cinese del mercato suscita timori negli Stati Uniti e nell’Unione europea. Nel contesto delle crescenti tensioni tra Cina e Occidente, la guerra fredda dei minerali trasforma la geopolitica delle terre rare.

Negli ultimi anni, ad esempio, gli Stati Uniti hanno cercato di mettere in sicurezza le catene di approvvigionamento diversificando le proprie fonti. Ciò ha comportato un aumento dell’attività estrattiva nazionale – il rilancio del sito di Mountain Pass in California e la lavorazione del minerale in loco anziché in Cina – nonché l’esplorazione di nuovi giacimenti in luoghi come Bear Lodge nel Wyoming.

Anche l’Unione europea sta promuovendo lo sviluppo di progetti di estrazione in Svezia, Finlandia, Spagna e in Serbia.

Tra le altre politiche, l’Us inflation reduction act richiede che i produttori di auto elettriche si riforniscano dagli Stati Uniti o da paesi alleati (leggi: non dalla Cina) di almeno il 40% del contenuto minerale delle batterie. Questa percentuale dovrà salire all’80% entro il 2027.

Washington non sta solo cercando di assicurarsi i propri minerali critici, ma sta anche costringendo gli alleati a ridurre gli scambi con Pechino.

Allo stesso modo, la Commissione europea ha presentato la legge sulle materie prime critiche nel 2023. Essa ha obiettivi ambiziosi per il 2030: raggiungere il 10% dell’estrazione di minerali critici, il 40% della lavorazione in Paesi europei, un’importazione diversificata che preveda un tetto massimo di minerali provenienti da un unico Paese pari al 65%.

La Cina, nel frattempo si sta assicurando la fornitura tramite progetti di estrazione in Asia, Africa e America Latina e nell’estate del 2023 ha imposto controlli sulle esportazioni di gallio e germanio, componenti fondamentali delle celle solari, delle fibre ottiche e dei microchip utilizzati nei veicoli elettrici, nell’informatica quantistica e nelle telecomunicazioni.

Le esportazioni della Cina di questi minerali sono scese da quasi nove tonnellate metriche a zero. Questo sforzo per «garantire le catene di approvvigionamento» viene presentato ai Paesi del Sud globale come un’opportunità per loro di aumentare il proprio reddito e persino ottenere vantaggi nello sviluppo di ulteriori processi di lavorazione e produzione, cosa che permetterebbe loro di richiedere maggiori diritti di proprietà intellettuale nei futuri accordi. Tuttavia, gli impatti e i conflitti evidenziano un modello industriale basato su vecchie e nuove «zone di sacrificio», dove le comunità e gli ecosistemi sono distrutti per un supposto bene comune superiore.

Pensiamoci quando ci confortiamo con soluzioni, come la transizione energetica, basate su fonti che non mettono in discussione il livello di consumo e le priorità produttive.

Daniela Del Bene

 


Il rapporto e la mappa da cui sono ricavati i dati riportati in questo articolo sono disponibili al sito:
https://ejatlas.org/featured/rees-impacts-conflicts-map