L’autonomia dell’egoismo
La Costituzione italiana ha creato le Regioni come soggetti decentrati dello Stato. La questione è sempre stata: cosa possono fare e con quali soldi? E ancora: deve prevalere la solidarietà nazionale o l’egoismo regionale?
Secondo molti, la cosiddetta «autonomia differenziata» è un progetto che produrrà uno spezzatino legislativo e accrescerà le disuguaglianze fra territori. Il tema riguarda l’autonomia delle Regioni italiane, ossia quanto ognuna di esse possa fare per conto proprio nei vari ambiti che riguardano la vita dei cittadini.
Secondo la visione dei padri costituenti, le Regioni avevano essenzialmente il compito di attuare in ambito locale i servizi decisi dal governo centrale. Solo su materie molto ristrette a forte valenza locale potevano anche legiferare. Alcune di queste erano le fiere e i mercati, la caccia, l’artigianato, l’agricoltura, le foreste, la beneficenza e l’assistenza sanitaria. Ma era ben specificato che le leggi regionali dovevano rimanere dentro i limiti tracciati dai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, né potevano essere in contrasto con l’interesse nazionale o quello di altre Regioni. In conclusione, le Regioni erano concepite come strumenti di decentramento amministrativo in un progetto di avanzamento di tutta la nazione secondo logiche di solidarietà. Pertanto, i cittadini delle regioni più benestanti erano chiamati a contribuire anche per quelli residenti in regioni più disagiate in modo da garantire gli stessi servizi da un capo all’altro d’Italia.
Nord e Sud
La Costituzione italiana è stata emanata nel 1947 ed è entrata in vigore nel 1948, ma le regioni entrarono nel pieno delle loro funzioni solo nel 1970 quando si tennero le prime elezioni regionali. Per circa un ventennio la navigazione procedette senza eccessivi scossoni, ma sul finire degli anni Ottanta nel Nord Italia si sviluppò un movimento, poi battezzato Lega Nord, che arringava le folle sostenendo che il Nord era sfruttato dal Sud. La tesi era che il Nord laborioso produce ricchezza e il Sud parassita se ne appropria per mezzo dei travasi operati dal fisco e del salasso causato dalla macchina burocratica allestita dal governo centrale. La soluzione era l’autonomia regionale, compresa quella fiscale, affinché ogni Regione potesse utilizzare al proprio interno tutti i soldi versati dai propri cittadini modulando i propri servizi in base alla ricchezza disponibile. Un progetto, insomma, spudoratamente egoistico di cui non si faceva mistero. Dimenticando che la ricchezza del Nord era stata prodotta anche grazie al sudore di centinaia di migliaia di immigrati meridionali, al congresso della Lega Nord del 5 febbraio 1994, Gianfranco Miglio, ideologo del partito, tenne il suo discorso incentrato su pidocchi e parassiti: «Il Paese che siamo chiamati a cambiare è ammalato da un esercito di pidocchi. Centralismo e parassitismo sono due fenomeni strettamente legati fra loro. Senza mutare il sistema costituzionale centralizzato noi non riusciremo a sopravvivere». Che tradotto significava riformare la Costituzione affinché venisse riconosciuta alle Regioni la facoltà di trattenere il gettito fiscale generato nel proprio territorio da utilizzare a uso esclusivo dei propri cittadini.
La (brutta) riforma del Centrosinistra
Sulla scia dei successi elettorali dei leghisti, la «questione settentrionale» si era imposta al dibattito pubblico e un po’ tutti i partiti, sinistra compresa, si affrettavano a metterci sopra il cappello. L’Ulivo stesso, in occasione delle elezioni 1996, aveva inserito al terzo posto dei punti programmatici, la voce «Autogoverno locale e federalismo cooperativo», forse pensando che se fosse riuscito a introdurre il regionalismo prima della Lega, il responso elettorale si sarebbe spostato a proprio favore. Effettivamente quella tornata elettorale venne vinta dal Centrosinistra che nel 2001, sul finire della legislatura, varò una riforma costituzionale per garantire alle Regioni maggiori spazi di autonomia fiscale, amministrativa e legislativa. In tutto, gli articoli della Costituzione modificati furono dieci, mentre cinque furono addirittura abrogati. Ma quelli che subirono i cambiamenti più profondi furono il 116 e il 117 che definiscono i compiti delle Regioni e dello Stato. La riforma stabilì che alcune materie, come l’immigrazione, la difesa, l’ordine pubblico, sono di competenza esclusiva dello Stato, mentre altre, come sanità, trasporti, protezione civile, sono materie concorrenti, ossia di competenza congiunta di Stato e Regioni: lo Stato definisce i principi fondamentali, le Regioni gli aspetti di dettaglio. L’articolo 116, tuttavia, stabilisce che sulle materie concorrenti, le Regioni possono godere di «condizioni particolari di autonomia», ma non precisa quanto possa essere ampia. Dice solo che deve essere richiesta dalla Regione interessata e che sarà una legge specifica, approvata dal Parlamento, ad attribuirla. Dunque, ogni Regione avrà la propria autonomia, ciascuna con contenuti diversi a seconda di ciò che più le interessa. Per questo si parla di autonomia differenziata.
La legge Calderoli
Stabilito che il supplemento di autonomia non è né automatico né predeterminato, serviva una legge ordinaria per definire il percorso utile ad ottenerlo. Quella legge è arrivata ventitré anni dopo, nel giugno 2024 per iniziativa del ministro (leghista) per gli Affari regionali Roberto Calderoli. Ma è arrivata in un momento di ripensamento politico da parte della sinistra che ora vede l’autonomia differenziata come un pericolo, anziché una conquista. Per cui ha deciso di dare battaglia per mezzo di un referendum e, se tutto procederà secondo le previsioni dei promotori, nella primavera 2025 dovremmo essere chiamati a dire se vogliamo mantenere o abrogare la legge numero 86/2024, meglio nota come legge Calderoli.
Formata da 11 articoli, la legge definisce il percorso da seguire per ottenere l’autonomia supplementare e gli ambiti per la quale può essere richiesta. Ciò che colpisce in questa legge è il ruolo marginale previsto per il Parlamento. La procedura comincia con la richiesta di supplemento di autonomia da parte della Regione interessata con la precisazione delle materie su cui la richiede. Dopo di che si apre un tavolo di negoziato con il governo per dare forma concreta all’autonomia richiesta. L’accordo raggiunto sarà poi trasmesso al Parlamento che lo trasforma in legge senza possibilità concreta di modificarne il contenuto: l’accordo è accolto o rigettato in blocco.
Rispetto agli ambiti di gestione, la legge Calderoli fa una distinzione fra le materie che rientrano nei diritti civili e sociali (sanità, istruzione, tutela ambientale) e tutti gli altri (protezione civile, ricerca scientifica, previdenza sociale complementare). Le materie del secondo gruppo possono essere discusse subito. Quelle del primo gruppo debbono aspettare il varo di altri adempimenti legislativi prima di essere negoziati. La distinzione è d’obbligo perché l’articolo 117 della Costituzione stabilisce che non si può effettuare nessun intervento sulle materie inerenti i diritti sociali e civili se prima non sono stati definiti i livelli minimi da garantire su tutto il territorio nazionale. Si tratta dei famosi Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) che devono essere determinati dallo Stato. Il compito è stato attribuito al governo che legifererà non si sa quando, anche perché si attende il pronunciamento di una commissione appositamente costituita sotto la direzione del giurista Sabino Cassese.
In ogni caso è inutile fossilizzarsi su questa o quella tecnicalità: la legge Calderoli è presa di mira come strategia per congelare l’attuazione dell’autonomia differenziata, in attesa, forse, che un’altra maggioranza rimetta di nuovo mano alla Costituzione per ripristinare un testo simile a quello che avevamo prima della riforma del 2001.
Le criticità
Le principali obiezioni avanzate dagli oppositori dell’autonomia differenziata sono due. La prima è che, da un punto di vista normativo, l’Italia rischia di diventare uno spezzatino che metterà in difficoltà cittadini e operatori economici. Ad esempio, in materia ambientale si potrebbe avere una tale pluralità di assetti normativi rispetto a procedure, autorizzazioni e controlli, da mandare in confusione chi possiede attività economiche in più regioni. Per di più la libertà normativa può incitare le regioni a lanciarsi in una pericolosa gara di permissivismo per attirare in casa propria le imprese in cerca di siti produttivi. L’obiezione più rilevante, tuttavia, è che l’autonomia differenziata aumenterà le disuguaglianze fra regioni ricche e regioni povere. In materia finanziaria la riforma costituzionale del 2001 non introduce novità di rilievo rispetto alla versione originaria del 1947.
Entrambe le versioni affermano che le Regioni possono godere di tributi propri e partecipare a quelli erariali destinati allo Stato centrale. Ma la versione del 1947 precisava che l’autonomia finanziaria si attua «nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica». La versione del 2001 è più vaga lasciando la porta aperta a vie di definizione meno controllabili come il tavolo di negoziazione che il governo avvia con le singole regioni richiedenti il supplemento di autonomia. In effetti l’articolo 5 della legge Calderoli stabilisce che «l’intesa individua le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale».
Secondo la Corte dei Conti, nel 2021 le regioni a statuto ordinario si sono finanziate per il 35% con tributi propri come il bollo sull’auto, l’Irap, l’addizionale Irpef, e per il 65% attingendo al gettito Iva raccolto sul proprio territorio. Allo stato attuale le regioni possono trattenere una quota massima di Iva territoriale pari al 70% e debbono destinarla alla sanità che rappresenta il 62% della spesa regionale complessiva.
Attraverso un calcolo piuttosto complicato, ogni anno il governo definisce l’importo di Iva che ogni regione può effettivamente trattenere. Il calcolo avviene mettendo a confronto l’ammontare di Iva raccolto sul proprio territorio, limitatamente al 70%, con la parte di spesa sanitaria che la stessa deve finanziare. Se la spesa risulta più alta dell’ammontare raccolto, la regione riceverà dallo Stato dei soldi a compensazione; se risulta più bassa, la regione verserà l’eccesso a un apposito fondo definito «fondo di solidarietà interregionale», che lo Stato utilizza, assieme ad altre entrate, per sostenere la spesa sanitaria delle regioni in affanno. Nel 2019 le regioni che hanno contribuito al fondo di solidarietà sono state sette. In testa c’è la Lombardia con un contributo pari a 2 miliardi di euro, seguita da Lazio, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Toscana, Liguria, per un totale di 5 miliardi di euro. Fra quelle che hanno beneficiato del fondo c’è prima di tutto la Campania, che ha ricevuto 2,1 miliardi. A seguire la Puglia, la Calabria e altre cinque regioni.
Oggi, in nome dell’autonomia differenziata, le regioni più ricche possono chiedere di trattenere le loro eccedenze per fornire ai propri cittadini servizi aggiuntivi. Del resto, è per questo che hanno rivendicato il supplemento di autonomia. Sarà quindi il fondo di solidarietà a rimetterci, con il rischio che si prosciughi fino ad azzerarsi, mettendo in difficoltà lo Stato, prima ancora delle regioni più fragili, perché esso dovrà trovare altre forme di entrata per finanziare i servizi essenziali da garantire da un capo all’altro d’Italia. Se avessimo avuto una sinistra più attenta ai suoi valori storici piuttosto che alle convenienze elettorali, oggi non ci troveremmo in questo pasticcio che potrà essere risolto solo con un forte intervento popolare.
Francesco Gesualdi
Il Ssn e i livelli essenziali
L’acronimo Lea sta per «Livelli essenziali di assistenza» e indica le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket). I Lea vennero introdotti con una legge del 1992 sulla constatazione che c’erano zone d’Italia dove non si garantivano nemmeno i servizi sanitari più elementari. Pertanto, si sentì il bisogno di definire quei servizi che dovevano essere assicurati a tutti i cittadini d’Italia, ovunque essi vivessero. Il loro elenco è rivisto periodicamente ed è suddiviso in tre sezioni: prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera. L’ultimo aggiornamento risale al 2017.
Una legge del 2000 introdusse il Sistema di garanzia, un metodo di verifica che ha lo scopo dì appurare quanto sono effettivamente garantiti i servizi sanitari essenziali nelle diverse regioni d’Italia. L’indagine si basa sull’utilizzo di un centinaio di indicatori di qualità. L’ultima rilevazione relativa al 2018 certifica che esistono ancora differenze molto marcate fra le diverse regioni d’Italia. Quella più virtuosa è l’Emilia Romagna che garantisce i Lea al 98%. All’ultimo posto c’è la Calabria con un livello di adempimento del 44%.
L’acronimo Lep sta, invece, per «Livelli essenziali di prestazioni» e indica le prestazioni e i servizi che la collettività è tenuta a garantire a tutti i cittadini rispetto ai diritti civili e sociali. I Lep, dunque, sono un concetto più ampio dei Lea. I Lep sono stati introdotti dall’articolo 117 della Costituzione, per definire i servizi che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. L’articolo 117 si limita ad affermare il principio dei Lep, lasciando che sia una legge ordinaria a definirne le modalità d’attuazione. La legge Calderoli tratta i Lep all’articolo 3 indicando i settori interessati e l’organo che deve dettagliarli. Per quanto riguarda i settori ne individua quattordici, dall’istruzione ai trasporti passando per la sanità. Quanto a chi deve dettagliarli, la legge stabilisce che sarà il governo a farlo, previa consultazione di rappresentanze regionali e di alcune commissioni parlamentari. A molti è sembrato grave che non sia previsto nessun ruolo per il Parlamento come organo collegiale, perché i Lep non sono una questione formale, ma di grande sostanza politica e sociale. Dalla loro definizione dipendono i diritti dei cittadini, la qualità delle loro vite, perfino il livello di equità presente nella società italiana. Rimettere questioni tanto importanti alla sola valutazione del governo è davvero molto pericoloso. Ragione di più per chiedere l’abrogazione della legge Calderoli affinché sia dato, quanto meno, più potere al Parlamento.
F.G.