I Copti sono la comunità cristiana più ampia del Medio Oriente. Da sempre si devono difendere dalle persecuzioni. Ultimamente il dialogo ha portato miglioramenti. Le discriminazioni persistono, ma i semi di speranza cominciano a dare i primi frutti.
Sono trascorsi nove anni dal 15 febbraio 2015, giorno in cui fu scritta dall’Isis, il sedicente Stato islamico, una delle sue pagine più crudeli: venti egiziani e un ghanese che lavoravano in Libia furono sgozzati sulla spiaggia di Sirte. Erano cristiani e morirono sussurrando il nome di Gesù. La loro morte ha segnato profondamente la vita della Chiesa copta e non solo.
L’11 maggio del 2023, durante un incontro e un momento di preghiera comune tra papa Francesco e il capo della Chiesa ortodossa copta di Alessandria, Tawadros II, il papa ha annunciato che quei 21 cristiani decapitati sarebbero stati inseriti nel Martirologio romano come segno di comunione spirituale.
Erano cristiani copti, perseguitati e uccisi all’estero, come è accaduto anche a marzo di questo 2024, quando tre monaci egiziani copti ortodossi sono stati accoltellati durante un attacco nel monastero di San Marco apostolo e San Samuele il confessore a Cullinan, città a una cinquantina di chilometri da Pretoria, capitale del Sudafrica.
Una Chiesa bimillenaria
È da sempre su una strada in salita la testimonianza di fede per questa comunità cristiana, la più grande tra quelle antiche del Medio Oriente, con i suoi dieci milioni di fedeli stimati nel Paese (su centoundici milioni di abitanti) e altre centinaia di migliaia all’estero.
L’Egitto è la terra nella quale nacque il monachesimo con Sant’Antonio Abate, a cavallo tra il terzo e il quarto secolo dopo Cristo. La tradizione evangelica di Matteo racconta in queste stesse terre l’unica «uscita» di Gesù dalla Palestina, quando da bambino fu portato da Maria e Giuseppe nella terra del Nilo per sfuggire alla furia di Erode.
Qui, per la precisione ad Alessandria, che è ancora oggi la sede principale della Chiesa copto ortodossa, arrivò anche San Marco, uno dei quattro evangelisti che, con la sua predicazione e il suo martirio diede vita alla comunità.
Nella Chiesa copta, che vuol dire proprio «egiziana», la maggior parte dei fedeli è ortodossa, ma c’è anche una minoranza di cattolici: cristiani che seguono riti e liturgia orientale, ma legati alla Chiesa di Roma. I sacerdoti cattolici copti, come succede in altri casi di cattolici orientali, possono sposarsi. Le liturgie sono in lingua araba, quella parlata dalla popolazione, ma nei monasteri si studia e si coltiva l’antica lingua e cultura copta, che risale ai tempi degli antichi egizi.
Perseguitati fin dalle origini
È una comunità che fin dalle origini ha subito persecuzioni.
Può essere interessante constatare che diverse chiese, come quella dedicata a Maria Vergine, nella vecchia Cairo, o quella dedicata anch’essa alla Madonna lungo la sponda del Nilo nel distretto del Maadi, abbiano da sempre una via d’uscita segreta: un percorso di cunicoli e ponti grazie al quale è possibile fuggire in caso di attacchi, «portando via l’Eucarestia e le reliquie più importanti», come spiegano i leader religiosi locali.
Tuttavia, l’Egitto si pone oggi tra i Paesi dove il dialogo tra i rappresentanti delle diverse religioni sta producendo frutti importanti. Pensiamo, per esempio, alla sintonia tra papa Francesco e il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyebb che ha portato a documento sulla Fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi (Emirati arabi uniti) il 4 febbraio del 2019, che tanti semi di speranza sta spargendo nei Paesi vessati, negli anni passati, da persecuzioni e attentati.
Passi da fare
Se fino a qualche anno fa in Egitto si celebravano messe blindate, con esercito e finanche carri armati sulle porte delle chiese per difendere i cristiani dagli attacchi terroristici, oggi la situazione è migliorata, anche se un certo sentimento di discriminazione persiste. Meno morti, dunque, ma resta in alcuni ambienti l’aria di emarginazione (per i cristiani e le altre minoranze religiose) che si respirava negli anni passati.
Nel suo rapporto del 2023 sulla libertà religiosa, la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) spiega: «In effetti, sono stati compiuti passi positivi come l’incoraggiamento ad una maggiore unità nazionale tra musulmani e cristiani, il dialogo interreligioso e la tolleranza, la protezione dei siti appartenenti al patrimonio religioso e la legalizzazione di centinaia di chiese. Tuttavia, l’intolleranza sociale profondamente radicata e la discriminazione istituzionalizzata nei confronti dei non musulmani o di coloro che sono considerati musulmani devianti rimangono un grave problema sociale».
Acs sottolinea ancora che, «discriminati dalla legge e privi degli stessi diritti dei loro concittadini musulmani, i cristiani sono spesso oggetto di aggressioni e crimini. Le vittime riferiscono anche che, nella maggior parte dei casi, le forze di polizia non intervengono negli attacchi ai danni dei copti. Mentre i loro aggressori beneficiano dell’impunità legale, spesso sono i cristiani a essere incarcerati».
Nonostante alcuni miglioramenti, per la fondazione pontificia che si occupa di tutelare e sostenere i cristiani perseguitati nel mondo, «non è ancora dunque garantita la possibilità di godere di più aspetti relativi alla libertà religiosa».
Nella World watch list 2024 di Open doors, che ogni anno stila la classifica dei Paesi dove è più difficile la vita dei cristiani, l’Egitto si colloca al trentottesimo posto. È sceso di tre posizioni rispetto all’anno precedente, confermando dunque un miglioramento della situazione della libertà religiosa. Ma anche oggi «i cristiani affrontano regolarmente discriminazioni a causa della propria fede in Gesù: licenziamenti o mancanza di opportunità professionali per gli uomini, molestie lungo le strade per le donne, bullismo a scuola per i bambini», nota la stessa Ong.
Gli incidenti sono più comuni nella regione dell’Alto Egitto, ovvero al Sud del Paese, a causa della presenza di integralisti islamici, specialmente nelle comunità rurali. «Il presidente Al-Sisi e il suo governo parlano positivamente della comunità cristiana egiziana, la quale, attraverso la Chiesa copta, è presente da lungo tempo. Egli include di proposito, all’interno di un’unica identità egiziana, tanto i musulmani quanto i cristiani. Tale posizione, tuttavia – spiega ancora Open doors -, non sempre viene riconosciuta e condivisa nelle aree al di fuori dei centri urbani principali: le autorità sono note per ignorare o sminuire le preoccupazioni dei cristiani egiziani». Ad esempio, «i cristiani incontrano difficoltà nel ricevere i permessi necessari alla costruzione di nuove chiese».
Donne rapite
Una delle situazioni emergenti in questi ultimi anni è quella delle donne rapite e convertite. Scompaiono nel nulla e poi si scopre, anche dopo anni, che sono state rapite, violentate e costrette a sposarsi e convertirsi all’islam.
È quanto avviene nelle zone rurali, nel Sud del Paese: un fenomeno più volte denunciato da leader e associazioni cristiane ma, di fatto, ignorato dalla comunità internazionale.
Parla di «incubo inimmaginabile» il rapporto Jihad of the womb: trafficking of coptic women & girls in Egypt (La jihad dell’utero: traffico di donne e ragazze copte in Egitto), pubblicato a settembre del 2020 da Coptic solidarity, un’associazione che da oltre due decenni si batte per la tutela e il rispetto della minoranza copta in Egitto.
Il rapporto fu presentato all’ufficio del Relatore speciale delle Nazioni Unite per la libertà di religione e di credo e all’Ufficio per la tratta di persone del Dipartimento di stato degli Stati Uniti.
L’incubo è quello di non fare più ritorno a casa perché le donne cristiane vengono date in sposa a fondamentalisti islamici con l’obiettivo di partorire e crescere – questa l’accusa della Ong – bambini musulmani.
Le forze dell’ordine locali, anche in presenza di denunce da parte delle famiglie delle donne, quasi sempre derubricano le sparizioni a «fuga volontaria».
Per Coptic solidarity dal 2000 al 2020 sarebbero state almeno cinquecento le donne cadute in questa forma di tratta.
Uomini discriminati
Secondo Open doors, nella comunità cristiana d’Egitto, le persecuzioni non riguardano solo le donne, che comunque restano la fascia più fragile. «Molti uomini cristiani, in Egitto – si legge in uno dei più recenti rapporti della Ong -, affermano di sentirsi cittadini di seconda classe. La disoccupazione è in generale un grave problema in tutto il Paese, ma in alcune aree viene del tutto negato il lavoro ai giovani cristiani, il che li rende particolarmente vulnerabili allo sfruttamento. Gli uomini possono sperimentare questo tipo di discriminazione lavorativa semplicemente a motivo dei loro nomi, dal momento che da essi è possibile desumere l’appartenenza religiosa». Il nome di battesimo è, infatti, un segno di appartenenza forte per i membri della comunità cristiana, come anche la croce tatuata sul polso che, negli attacchi terroristici degli anni passati, aiutava i fondamentalisti a distinguere tra cristiani e non. I primi venivano trucidati, gli altri erano risparmiati.
Lo statuto personale
Sono oltre dieci anni che si parla in Egitto di una legge sullo statuto personale dei cristiani e delle altre minoranze religiose. La questione è legata soprattutto al diritto matrimoniale e a quello di famiglia. In un Paese a stragrande maggioranza musulmana si attende una regolazione che possa tenere conto anche dei valori cristiani all’interno di una relazione e nella costituzione di un nucleo familiare. Nonostante il confronto in corso e le tante commissioni e riunioni che si sono tenute negli ultimi dieci anni, volute dalla presidenza di Al-Sisi, questa legislazione non è mai arrivata ad approvazione.
Il testo sarebbe pronto ma manca sempre un tassello per quel via libera definitivo atteso dalle minoranze.
Il ruolo dei francescani
Il villaggio di Der Dronka, ventimila anime a una decina di chilometri da Assiut, Alto Egitto, è interamente cristiano, e rischiereb- be di sparire senza gli «abuna», come sono chiamati i padri francescani.
Tutto ruota intorno al piccolo convento di fra Paolo, fra Shenuda e fra Youssef: la scuola, il mulino, il panificio, la falegnameria, finanche la raccolta differenziata dei rifiuti.
Saio e Vangelo, breviario e croce, ma spesso anche scarpe comode al posto dei sandali, per percorrere in lungo e in largo le strade polverose d’Egitto.
I francescani, un centinaio di religiosi distribuiti in una trentina di conventi, sono un pezzo della storia di questo Paese. Sono qui da 800 anni, da quando Francesco d’Assisi nel 1219 prese la nave ad Ancona per sbarcare a Damietta e incontrare il Sultano Melek. Si sa poco di quel faccia a faccia, è noto però che da otto secoli i frati operano in questa terra a maggioranza musulmana, all’insegna del rispetto e del dialogo. E in molti casi offrono alla gente non solo messe e pane, ma anche qualcosa di più, a partire dalle loro venti scuole e dai presidi sanitari distribuiti ovunque.
Al Cairo, il quartier generale dei francescani è la chiesa di San Giuseppe. Un’entrata laterale conduce a un ambulatorio all’avanguardia nel quale si offrono diversi servizi: dalle analisi del sangue alle ecografie, dal dentista al pediatra.
C’è un grande cinema da 350 posti che ospita importanti rassegne. A Gyza, a due passi dalle piramidi, c’è il Centro culturale francescano, dove si studia coptologia, lingua, arte e liturgia dei cristiani.
Ma neanche i frati di san Francesco sono stati risparmiati dalla furia degli islamisti: il 14 agosto del 2013, una data che i cristiani d’Egitto hanno stampata nella memoria, infatti, in un solo giorno furono bruciate contemporaneamente oltre sessanta chiese, e toccò anche ai frati.
A Suez, per esempio, al convento dell’Immacolata concezione.
Lo stesso giorno bruciò una chiesa francescana anche ad Assiut, san Francesco stimmatizzato. Una stanza del convento oggi è dedicata alla memoria di quella giornata, ed espone talari e libri della preghiera con i segni delle bruciature.
Una storia dolorosa che non ha mai scoraggiato i frati. Continuano, infatti, a nascere vocazioni e la loro opera è un punto di riferimento in molti villaggi.
Il caso Zaki
In Italia si è parlato molto del caso di Patrick Zaki, il ricercatore e attivista per i diritti umani egiziano, che si è laureato all’Università di Bologna, incarcerato nel suo Paese per diverso tempo.
Nelle narrazioni che hanno riguardato il caso, molto spesso si è dimenticato che Zaki ha vissuto anni in carcere per avere scritto un articolo in difesa proprio dei cristiani copti.
«Non passa mese senza tragici episodi ai danni dei copti, dai tentativi di espatrio nell’Alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di chiese o agli attentati dinamitardi e simili», scrisse Zaki nell’articolo pubblicato sul sito Daraj nel 2019 sulla base del quale Patrick Zaki sarebbe stato rinviato a giudizio.
«Ogni mese si verificano tra gli otto e i dieci dolorosi incidenti a danno dei copti», sosteneva il cristiano Patrick prendendo spunto da «un gigantesco atto terroristico» che costò la vita a quattordici uomini delle forze di sicurezza egiziane: in quell’occasione gli abitanti di una città «protestarono contro la decisione dell’esercito» di intitolare una scuola a una recluta cristiana. «Un razzismo sistematico esercitato dagli abitanti del villaggio che i responsabili non hanno affrontato», cedendo alle pressioni della folla.
Zaki metteva a nudo uno dei problemi nel rapporto tra la maggioranza dei musulmani e le minoranze in Egitto: la debolezza delle autorità locali, soprattutto nelle zone rurali del Paese, di fronte alle pressioni degli islamisti.
Un atteggiamento di debolezza che il presidente Al-Sisi, forse anche per accreditarsi presso la comunità internazionale, ha cercato di smorzare.
La cattedrale della Natività nella nuova capitale amministrativa, la più grande chiesa cristiana del Medio Oriente capace di ospitare ottomila fedeli, inaugurata il 7 gennaio (data del Natale copto) 2019 proprio dal presidente egiziano con il capo della Chiesa copto ortodossa, Papa Tawadros II, ne è in qualche modo la prova.
La fratellanza umana
Un segnale di speranza arriva dai primi frutti concreti che, proprio al Cairo, stanno nascendo con la fondazione per la Fratellanza umana che si ispira all’accordo di Abu Dhabi e alla successiva enciclica Fratelli tutti di papa Francesco. Un lavoro condotto in prima persona da monsignor Gaid Yoannis Lazhi che per anni è stato segretario di Bergoglio e che ora, tornato nel suo Paese natale, è impegnato a tradurre in opere concrete lo spirito di fratellanza, con un’attenzione particolare per le fasce più deboli della società.
Si tratta di strutture caritative rivolte a tutti, senza distinzione di fede. C’è allora il ristorante «Fratello» che offre pasti ai più bisognosi, l’orfanotrofio «Oasi della pietà», ma soprattutto il progetto dell’ospedale Bambino Gesù del Cairo del quale monsignor Gaid è presidente: il sogno è quello di portare le cure di altissimo livello dell’ospedale pediatrico del Papa anche in Egitto. Opere che guardano alle persone, dunque, al di là di ogni appartenenza, e che costruiscono allo stesso tempo ponti, occasioni di dialogo, vie per una convivenza sempre più pacifica e rispettosa delle diverse anime che da sempre abitano nel Paese.
I copti sono i discendenti degli antichi egizi. Attorno alla metà del primo secolo dopo Cristo si convertirono al cristianesimo. Sei secoli dopo in Egitto arrivarono gli arabi e l’islam. Tra invasori e conversioni, la comunità copta si ritrovò minoranza. Oggi i copti sono 10-13 milioni su una popolazione egiziana complessiva di 90. Non hanno mai avuto un’esistenza facile: violenze e attentati contro di loro sono da sempre una costante. In questi anni, in particolare, prima la Fratellanza musulmana, poi l’Isis, ne hanno fatto l’obiettivo preferito.
In Egitto la shari’a è stata ufficialmente introdotta nell’ordinamento con un emendamento costituzionale del 1980, durante la presidenza di Sadat. Da allora sono cambiati i presidenti, ma l’articolo 2 della Costituzione recita sempre: «I principi della shari’a islamica sono la fonte principale della legge». Un macigno sulla testa di chiunque non sia musulmano.
Per ora pare impossibile prevedere un cambio: la shari’a, intollerabile in qualsiasi paese che abbia la democrazia e la laicità come pilastri della propria esistenza, rimarrà a decidere della vita e della libertà delle persone. Shari’a, Fratellanza musulmana, Isis, tutto sembra congiurare contro i copti. Eppure resistono. Nonostante tutto.
Paolo Moiola
La Chiesa copta ortodossa: Tra persecuzioni e inattese fioriture
Nata all’ombra delle piramidi attorno al 40 dopo Cristo in seguito alla predicazione dell’evangelista Marco, la Chiesa copta ha una lunga storia di persecuzioni e sofferenze, soprattutto in Egitto, paese islamico. Eppure, con 15 milioni di fedeli sparsi nel mondo, questa Chiesa è fiorente, viva e dinamica oltre ogni aspettativa.
Gli ultimi attentati e la recentissima storica visita in Egitto di papa Francesco hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale le vicende di una Chiesa antica che sconta secoli di discriminazioni e persecuzioni: la Chiesa copta ortodossa. Nata all’ombra delle piramidi dalla predicazione dell’evangelista Marco, rappresenta uno dei più grandi paradossi della Storia. Pur portando, infatti, tutto il peso di una eredità storica antica quanto il cristianesimo appare al contempo viva e dinamica come fosse nel fior fiore della gioventù. «Lo straordinario rinascimento della Chiesa copta ortodossa degli ultimi decenni – scriveva il coptologo tedesco Otto Meinardus – è uno dei grandi eventi storici della cristianità a livello mondiale. Mentre in altre parti del mondo, gli storici diagnosticano una certa stagnazione della testimonianza cristiana, i figli e le figlie dei faraoni sono pieni di un entusiasmo inaudito per il Regno di Dio e per l’evangelizzazione». Una Chiesa in piena fioritura, dunque, la più seguita nei territori dominati dall’islam, che dalla metà del secolo scorso ha scavalcato i suoi confini naturali. La migrazione dei copti, infatti, ha raggiunto praticamente ogni parte del globo. Nelle principali città italiane è ormai possibile conoscere da vicino questa realtà grazie a una comunità coesa e dinamica, capace di convivere e di integrarsi a livello sociale e lavorativo, che offre una testimonianza cristiana sempre discreta ma intensa. È guidata da un metropolita e da un vescovo ed è servita da numerose parrocchie. In Italia si parla, dunque, anche copto.
Tawadros II, il papa dei copti
Una fioritura, quella dei copti, avvenuta a prezzo di grandi sacrifici. Le cronache degli ultimi anni ci raccontano di cristiani egiziani cacciati dalle loro terre, che vedono le loro chiese distrutte, le loro case date alle fiamme. La stampa mondiale racconta di uomini e di donne pacifici trucidati dalla furia fondamentalista. Come dimenticare i martiri copti di Sirte, in Libia, che, nel 2015, fino al momento di essere sgozzati per la propria fede, non hanno smesso di invocare sui propri nemici il nome di colui «che ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi» (Gal 2,20), Gesù? La storia non è stata di certo clemente con questa Chiesa orientale. Si può dire che – tranne brevi periodi – i cristiani egiziani hanno vissuto grandi sofferenze. Recentemente un monaco del deserto egiziano, un abba, mi ha mostrato un’antica icona in cui era dipinta una croce fiorita. Poi mi ha consegnato una massima che sintetizza la storia di questa comunità: «Solo dall’albero della Croce nascono i fiori!». È tenendo bene in mente il paradosso della Croce che dobbiamo leggere il miracolo di questa Chiesa che fiorisce e cresce mentre, temprata nella fede, viene irrorata dal sangue dei suoi martiri. Non diceva già Tertulliano che «il sangue dei martiri è seme di cristiani»?
Malgrado i media parlino molto spesso delle tragedie dei copti, si fa sempre più urgente la necessità di conoscersi di più. Dopo secoli di estraniamento, è necessario incontrarsi faccia a faccia, ascoltarsi, comprendere le ragioni dell’altro. Basti pensare che non è scontato sapere che in queste terre è nata e si è sviluppata la scuola teologica probabilmente più importante del cristianesimo antico, quella di Alessandria, che ha conosciuto personaggi del calibro di Origene e Clemente. Qui il monachesimo ha mosso i suoi primi passi grazie all’ispirazione dei grandi padri del deserto Antonio, Macario, Pacomio per poi irradiarsi in tutto il Mediterraneo. Qui si prega ancora secondo una delle liturgie più antiche al mondo, quella alessandrina. La Chiesa copta è anche l’unica Chiesa che, insieme a quella romana, chiama il proprio patriarca «papa». L’attuale papa si chiama Tawadros II, un vero «dono di Dio» (questo significa il suo nome) alla Chiesa universale.
Monofisita? Il peso di un’etichetta eretica
Tra i cliché duri a morire c’è quello legato al monofisismo. Spesso si sente purtroppo ancora parlare di «chiesa monofisita». Questa etichetta, affibbiata per secoli ai copti, li ha di fatto bollati come eretici associandoli all’eresia di Eutiche (378-456), monaco di Costantinopoli, anatematizzato al Concilio ecumenico di Calcedonia (451), che paragonava l’umanità di Cristo a una goccia di vino in un oceano di acqua (divinità). Sarebbe quanto meno sorprendente che la Chiesa che ha generato un sant’Atanasio (ca. 296-373), campione del primo concilio ecumenico di Nicea (325) e autore di un’opera intitolata «L’incarnazione del Verbo», abbia potuto in pochi decenni deviare verso un’eresia che nega un mistero cristiano così fondamentale. I copti credono, invece, profondamente sia alla divinità che all’umanità di Gesù e quando parlano di ‘una natura’ riprendono un’espressione usata da Cirillo di Alessandria (ca. 375-444), dottore della Chiesa universale: «Una sola natura del Verbo di Dio incarnato» (mía phýsis, in greco). In Cristo esiste una sola natura composita, al contempo divina e umana, senza confusione (umanità e divinità, seppur unite, sono rimaste distinte) e senza cambiamento (Dio è rimasto Dio pur diventando uomo). Questa formula intende esprimere il mistero dell’unità insita nella persona del «Dio fattosi carne», dell’Emmanuele, mistero che è continuamente cantato dalla spiritualità copta. Data la taccia che è stata attribuita al termine «monofisismo» nel corso della storia, è bene non chiamare mai la Chiesa copta «chiesa monofisita» (da evitare anche l’infelice neologismo «miafisita»), anche perché la Chiesa egiziana non si autodefinisce mai così ma si chiama, semplicemente, «ortodossa». La famiglia ecclesiale della Chiesa copta ortodossa (detta «precalcedonese» o degli «ortodossi orientali») comprende anche la Chiesa siro-occidentale, l’etiopica, l’eritrea, la malankarese e l’armena e conta circa 85 milioni di fedeli.
Copto ovvero cristiano d’Egitto
Cosa significa «copto»? Semplicemente «egiziano». Il termine inizia a comparire in epoca islamica ma la sua origine è più antica ed è connessa a uno dei nomi sacri della città di Menfi, capitale dell’antico regno (dal 2700 a.C. al 2200 a.C.) che si trova a pochi chilometri dall’attuale Cairo: Hikaptah, cioè «la dimora del Ka (principio vitale per la religione egizia) di Ptah». Da questo nome derivò il nome greco Aigyptos da cui Egitto. La parola storpiata in arabo, «qibti», indicava quindi solamente un’origine etnica: «egiziano». Ma fu presto confuso con «cristiano» perché la maggioranza degli egiziani all’epoca dell’invasione islamica del VII secolo era cristiana. Oggi il termine indica un dato religioso ed etnico insieme e cioè «cristiano d’Egitto». Inoltre con «copto» si designano anche la lingua, l’arte e la civiltà dell’Egitto tra la fine dell’epoca tolemaica e l’islamizzazione del paese, cioè dal 30 a.C. fino al VII sec. all’incirca. Non è un caso che, profondamente egiziani e radicati nella cultura del proprio territorio, i copti si considerino discendenti degli antichi egizi e depositari della loro cultura.
Egitto, terra biblica
In principio, dunque, è l’Egitto. Terra misteriosa, ben presente nella storia della salvezza, è da sempre legata alle sorti del popolo di Israele. «Egitto» appare nella traduzione Cei ben 594 volte. Molti dei personaggi dell’Antico Testamento li troviamo di qui. Terra di rifugio per Abramo, Isacco e Giacobbe; terra di schiavitù per Giuseppe e Mosè. Proprio Mosè, prima di diventare capo e simbolo del popolo di Israele, si forma alla scuola della civiltà egizia tanto da venire descritto dalla Scrittura come «istruito in tutta la sapienza degli Egiziani» (At 7,22). Il popolo ebraico, liberato dalla schiavitù egizia in maniera miracolosa, mentre è nel deserto, si lamenta con Mosè di non poter più mangiare i succosi cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle e l’aglio d’Egitto (cf. Nm 11,5).
Ma l’Egitto non è stato solo il teatro di una storia «non sua». Al contrario, è stato esso stesso oggetto di molte profezie bibliche. Basta citarne soltanto una che i copti hanno sempre letto come profezia dell’evangelizzazione del paese. Si trova in Isaia 19, il cosiddetto «oracolo sull’Egitto»:
«Ecco, il Signore cavalca una nube leggera ed entra in Egitto […]. Il Signore si rivelerà agli Egiziani e gli Egiziani riconosceranno in quel giorno il Signore, lo serviranno con sacrifici e offerte, faranno voti al Signore e li adempiranno […]. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egitto mio popolo, l’Assiria opera delle mie mani e Israele mia eredità».
Quell’Egitto che aveva tenuto come schiavi gli ebrei, divenuto simbolo del male per eccellenza, diventerà «benedetto», diventerà «suo popolo».
Marco arriva ad Alessandria
Stando a Eusebio di Cesarea, pochi anni dopo la Resurrezione di Gesù, verso gli anni 40, san Marco Evangelista va ad annunciare la buona novella ad Alessandria. È in un’Alessandria cosmopolita e multireligiosa che giunge l’apostolo Marco che proveniva da Roma. Centro dell’Oriente ellenistico, Alessandria è testimone di un’intensa attività culturale. Qui esiste un’importante comunità ebraica che è stata protagonista della prima traduzione dell’Antico Testamento in greco, la cosiddetta versione dei Settanta, realizzata tra il III e il I sec. a.C.. Qui Filone, ebreo di Alessandria, nel tentativo di conciliare ellenismo e giudaismo, sviluppa un’esegesi della Bibbia che preferisce, all’interpretazione letterale, una allegorica che influenzerà molto il Didaskaleion, la prima «università» teologica cristiana, nata ad Alessandria verso la fine del II secolo d.C..
In realtà, i copti ritengono che il primo ad evangelizzare l’Egitto non sia san Marco (che pure considerano il «fondatore» della propria Chiesa) ma Gesù stesso. Bisogna risalire ad almeno una quarantina di anni prima quando la Sacra Famiglia scappa in Egitto per sottrarsi all’ira di Erode. Anche qui, una profezia veterotestamentaria sull’Egitto diceva: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1). Diversi testi apocrifi, tra cui il Vangelo arabo dell’infanzia (ca. V sec.), e numerose tradizioni copte, riferiscono i dettagli del soggiorno di Gesù, Maria e Giuseppe che fu ricco di eventi miracolosi e portò molti a credere in Cristo. Ancora oggi esistono delle chiese fondate sui luoghi delle tappe più importanti di questo passaggio. L’Egitto è quindi l’unica terra, oltre a quella di Palestina, ad essere stata calpestata dal Verbo incarnato.
Dall’imperatore Diocleziano alla spaccatura di Calcedonia
I copti chiamano affettuosamente la loro chiesa Umm al-shuhada’, la «Madre dei martiri». Iniziate nel III secolo, le discriminazioni nei confronti dei cristiani copti non si sono praticamente mai arrestate. Con l’arrivo di Diocleziano nel 284 la Chiesa egiziana vive una drammatica persecuzione che miete un gran numero di martiri. Quest’epoca terribile ha avuto un tale effetto che la Chiesa copta fa cominciare il suo calendario il 29 agosto (calendario giuliano) 284, data d’inizio dell’impero di Diocleziano. Il 2017 corrisponde al 1733 del calendario copto. La persecuzione, arrestatasi nel 313 con l’editto di Milano che decreta la libertà religiosa per i cristiani dell’impero romano, riprenderà in altre forme poco più tardi. Inizia l’epoca d’oro di questa Chiesa, IV e V secolo, stroncata dal disastro del 451. Al Concilio di Calcedonia si consuma una delle più dolorose spaccature all’interno dell’ecumene cristiana. Incomprensioni sulla natura di Cristo, mescolate a ragioni di tipo geoecclesiale, portano la Chiesa egiziana a essere estromessa dalla comunione con le altre Chiese. Il risultato è una nuova era di persecuzioni a opera dell’establishment ecclesiale appoggiato dall’imperatore, fino al momento all’avvento dell’islam nel VII secolo.
Vivere da cristiani in un paese islamico
Isolando i copti dagli altri cristiani, l’islam certifica definitivamente la definizione di «Chiesa di martiri». I nuovi dominatori islamici, infatti, fanno di tutto per favorire la conversione alla loro religione dei cristiani egiziani, spesso con metodi per nulla pacifici.
Considerati cittadini di seconda categoria, i cristiani devono aspettare un millennio, l’epoca moderna, per reclamare e ottenere alcuni diritti civili. Per esempio, è solo nel 1855 che i copti vengono esentati dal pagare la jizya, una pesante tassa pro-capite imposta dallo stato islamico ai non musulmani. Ma il movimento islamico radicale, che si rafforza in Egitto soprattutto a partire dagli anni Settanta, rimette nuovamente in discussione i diritti acquisiti nel XIX e XX secolo e i copti, con l’imposizione di una costituzione che fa della shari‘a la sua fonte legislativa, subiscono un’ondata di persecuzioni che continua a tutt’oggi in un paese profondamente islamizzato.
La visita di papa Francesco, molto amato dai cristiani egiziani, è giunta a infondere coraggio e speranza non solo ai copti ma a tutti gli abitanti di questa terra sofferente che, sequestrata dal fanatismo, cerca con fatica un po’ di pace, condizioni di vita migliori e, soprattutto, maggiore tolleranza. Oggi come ieri, la Chiesa di Alessandria continua a donare ai suoi vicini musulmani e al mondo una delle testimonianze cristiane più fedeli: dall’albero della Croce non possono che nascere fiori di riconciliazione e di pace.
Markos el Makari
Cronaca degli ultimi attacchi: Egiziani (eppure stranieri in patria)
Dallo stato egiziano ai Fratelli musulmani fino all’Isis. Ai copti non sono mai mancati i nemici, come dimostra la lunga sequela di fatti di sangue. Oggi sostengono il presidente al-Sisi. Più per questioni di sopravvivenza che per reale convinzione.
Un patrimonio culturale immenso, un ruolo cruciale nella storia del cristianesimo, una pietra miliare della spiritualità. Ma non è per nessuna di queste ragioni che oggi i copti sono così in voga.
L’11 dicembre 2016 un attentatore suicida entra nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo, e, non conoscendo bene l’anatomia di una chiesa copta (o forse perché la conosce fin troppo bene), si dirige nella navata nord, quella delle donne, e lì, dalle ultime file, si fa esplodere.
Al-Sisi non ha dubbi: l’autore dell’atroce atto sarebbe stato il giovane ventiduenne Mahmoud Shafiq Mohammed Mustafa, carico con 12 kg di tritolo. L’esplosione è fortissima, i morti sono 29, quasi tutte donne e bambine. La chiesa si trova nel complesso della cattedrale di San Marco, a pochi passi da Sua santità papa Tawadros II che rivendica: «Non è un disastro soltanto per la Chiesa, ma per tutta la Nazione». Pochi mesi dopo – nella domenica delle Palme – l’Isis colpisce di nuovo e in maniera devastante: in due attentati rimangono uccise 47 persone.
Tensioni quotidiane
La persecuzione dei copti in Egitto è un fenomeno peculiare e con forti componenti sociali dal carattere strisciante (difficile per un copto, ad esempio, diventare dirigente di una struttura pubblica).
I copti vivono nello strettissimo ghetto che si trova fra il potere militare e la teocrazia underground degli integralisti islamici. Fra l’incudine e il martello, impossibilitati ad avere una vita sociale aperta: amori, contenziosi o anche liti condominiali con la restante popolazione di fede islamica, ma solo cordialità di facciata, timidi e diffidenti rapporti di lavoro.
Un esempio è quello della settantenne di al-Minya che, nel maggio 2016, è stata denudata e portata in processione per le strade del villaggio perché accusata di avere una liaison sentimentale con un uomo musulmano sposato. E questo per non parlare degli esiti di vicende amorose analoghe, ma a parti invertite. Si tratta di un vissuto che però viene meno nel momento in cui attraversiamo il confine del benessere. È molto difficile, infatti, che gli egiziani dei ceti più alti vivano conflitti di questo genere.
Un altro caso simbolo è quello di Nag Hammadi, cittadina a 80 km da Luxor. Il primo dell’ultima serie di attacchi «natalizi» che si sono verificati in questi ultimi anni. È la vigilia di Natale, la notte fra 6 e 7 gennaio 2010, terminata la messa i fedeli si scambiano gli auguri in un clima a dir poco infuocato. Pochi giorni prima, il vescovo Kyrillos aveva già allertato le forze dell’ordine, che gli avevano consigliato di far anticipare la messa di mezzanotte di un’ora. Ma non basta a evitare il massacro. Uomini armati attraversano il cortile della chiesa in macchina sparando sui fedeli. Muoiono in nove, otto cristiani e un musulmano.
Nei giorni successivi viene fuori il movente (per altro già ben noto ai locali): una spedizione punitiva nei confronti della comunità per vendicare una ragazzina dodicenne vittima di abusi sessuali da parte di un copto. Non è né la prima né l’ultima volta che a pagare le spese degli errori e dei crimini (ma anche dei passi falsi e delle passioni) di un solo uomo, sia tutta la comunità dei fedeli.
Il caso di Nag Hammadi è uno dei primissimi ad avere un’ampia copertura mediatica, godendo anche di una diffusione virale sui social network.
Tutto ciò consente agli attivisti di organizzarsi in manifestazioni al Cairo contro l’assordante silenzio delle autorità egiziane. A ben due settimane (oggi impensabile) dall’evento, l’allora presidente Hosni Mubarak si esprimerà condannando per la prima volta il massacro, non senza una cospicua campagna di arresti nei confronti degli attivisti.
Sospetto, diffidenza, deferenza
È per tutti questi meccanismi sociali, che agli occhi dei comuni musulmani – quelli che noi definiremmo «moderati» – la popolazione dei copti è un po’ come se facesse vita a sé, sempre pronta a rimarcare il fatto di essere cristiana. A molti musulmani viene quindi da pensare: «Ma perché non si comportano normalmente? Come mai sono così chiusi?». E da qui a «Nascondono forse qualcosa?», il passo non è breve, di più. L’alone di mistero che circonda i copti non è quindi fonte di ammirazione, curiosità o fascino per gli egiziani, ma soltanto di sospetto e diffidenza ulteriore.
Lo stato, d’altro canto, non è mai stato un amico. E questo concetto è ben chiaro a molti copti, nonostante le accoglienze messianiche che hanno sempre riservato ad ogni visita di sua maestà al-Sisi.
Un occhio psicoanalitico sarebbe in grado di rivelare come i copti quasi si compiacciano della propria servilità dimostrata nei confronti del potere militare. Se a livello internazionale c’era da dimostrare che i diritti umani erano rispettati, i militari tiravano in mezzo la pacifica convivenza di cui godono i copti all’interno del paese; se serviva ridimensionare i copti per calmare i bollenti spiriti degli islamisti, venivano ridimensionati; e se serviva mobilitarli in massa per andare a «votare», venivano mobilitati tranquillamente. Il tutto con il soddisfatto consenso dei cristiani d’Egitto, come se questi si sentissero in qualche modo importanti. Una sorta di «sindrome di Stoccolma», ma anche un attaccamento fortissimo alla patria. La storia degli ultimi anni è quanto mai emblematica di tutto questo meccanismo.
Da un attentato all’altro
Siamo nel 2011. Un anno dopo il massacro di Nag Hammadi, più o meno lo stesso periodo dell’anno. È l’inizio dei rivolgimenti per tutta una serie di governi del Nord Africa e del Medio?Oriente sulla cui stabilità ci saremmo giocati tutto: è l’inizio delle cosiddette «Primavere arabe».
Chiesa dei Santi, Alessandria d’Egitto, notte di Capodanno: i fedeli sono tutti in chiesa per celebrare l’arrivo del 2011. Moriranno in ventitré. Si tratta di un attentato preso ad esempio per i successivi, quello del dicembre 2016 e quello della domenica delle Palme 2017. Un attentato suicida che arriva in un paese in fortissima crisi sociale, e c’è chi comincia a insinuare che ci possa essere anche la mano del governo… Sì, è l’inizio della fine.
Muhammad Hosni Mubarak cadrà qualche settimana più tardi in seguito a una rivoluzione popolare dalla portata faraonica.
Nessuno può dire esattamente quale sia stato il movente dell’attentato di Capodanno. Ma c’è uno scandalo (apparentemente davvero irrilevante) che, da qualche tempo, è sulla bocca di tutti: lo strano caso «Camelia Shehata e Wafaa Costantine». È la storia di due donne cristiane che, nel loro tentativo di convertirsi all’islam, sarebbero state rapite da membri del clero copto e tenute prigioniere in un monastero.
Non sapremo mai la verità, ma quello che sappiamo è che su internet sono stati diffusi dei video di queste due donne (velate con velo integrale) che si dichiaravano musulmane, libere e convinte.
Lo ricordiamo per un motivo ben preciso: questo «scandalo» sarà anche il movente che lo Stato islamico citerà nel video ufficiale della decapitazione dei ventuno giovani copti martiri rapiti in Libia nel 2015. Cinque anni dopo.
Le responsabilità della strage di Alessandria rimangono tutt’oggi poco chiare, anche dopo la rivoluzione. Ma esistono indagini molto nebulose che porterebbero addirittura al nome dello stesso ex ministro degli interni Habib Al-Adly, in carica al tempo dei fatti.
Quello di Alessandria è uno dei primissimi attentati ad avere una ripercussione anche in Europa. In particolare, nel 2011 tutte le comunità copte in Italia celebreranno la vigilia di Natale sotto la protezione degli uomini della Digos. Dalla più piccola e sperduta parrocchia, alla più grande cattedrale.
Gli attacchi dei Fratelli musulmani
Caduto Hosni Mubarak, i copti pensano che sia arrivato il momento per chiedere a gran voce la parità dei diritti. In particolare, il dibattito pubblico si sta concentrando sull’abolizione dell’articolo della Costituzione che prevede che la principale fonte per la legislazione sia la shari’a islamica, ma anche sulla semplificazione della procedura di ottenimento dei permessi per la costruzione di nuovi luoghi di culto cristiani.
L’illusione svanisce subito. Nell’ottobre 2011, in seguito alla demolizione dell’ennesima chiesa, i copti decidono di scendere in piazza a Maspero, sede della Tv di stato egiziana, per manifestare ancora una volta contro l’assordante silenzio dei media. È un vero massacro: ventotto morti letteralmente schiacciati dai blindati dell’esercito, mentre la cronista della Tv pubblica invita tutti gli «onorevoli cittadini» a proteggere i militari dalla violenza dei copti. All’esercito si aggiungono quindi gruppi di salafiti armati, tutti contro i copti.
Oggi la Chiesa copta ha ufficialmente «perdonato» ai militari questo massacro in nome dell’unità nazionale. Ed è stato proprio in nome dell’unità nazionale che papa Tawadros II ha sostenuto in primissima persona l’ascesa di al-Sisi, e la caduta di Morsi, il primo presidente egiziano democraticamente eletto, che però aveva il difetto di appartenere ai Fratelli musulmani. Una storia davvero tumultuosa che culmina in un golpe e violenze generalizzate.
Agosto 2013: un attacco su vasta scala da parte degli attivisti della Fratellanza prende di mira – immediatamente dopo l’annuncio del golpe – decine di chiese in tutto l’Egitto. Vengono colpiti anche siti archeologici, manoscritti antichi, icone, reliquie… Tutto bruciato.
I militari rispondono con una strage. A Rabi’a muoiono fra i seicento e gli ottocento (ancora non si sa con esattezza) attivisti dei Fratelli musulmani, e l’organizzazione viene ufficialmente definita come «terroristica». Mohammed Morsi è tutt’ora in carcere e sotto processo per accuse gravissime.
Costretti a sostenere al-Sisi
È su questo scenario che si è affacciato papa Francesco, il 28 e 29 aprile scorsi, nella sua prima visita ufficiale in Egitto. Fra la memoria di Giulio Regeni e il bene dei copti e del futuro dei cristiani in Medio Oriente, costretti a sostenere gli uomini forti per potersi garantire un’esistenza accettabile. Ma – lo abbiamo visto con gli attentati della domenica delle Palme – non scevra da pericoli mortali.
Andrea Boutros
Incontro con esponenti della comunità copta:
Al-Sisi (meglio degli altri)
Per gli oltre dieci milioni di egiziani di fede cristiana è difficile e rischioso vivere in un paese dove «tutto ciò che non è musulmano è considerato contro Dio».
«Con al-Sisi è cambiato tutto o, forse, non è cambiato nulla». Girgis è perplesso. Lui, cristiano, non riesce a sintetizzare la situazione in cui vive attualmente la Chiesa copta ortodossa in Egitto. «Certo – riprende – se guardiamo alla storia della nostra comunità, qualcosa di diverso c’è. Ed è un qualcosa di positivo. Se guardiamo alla cronaca, che parla di attentati, morti e feriti, non possiamo essere così ottimisti».
Da Mubarak a Morsi
Non si può comprendere l’attuale situazione se non si fa un passo indietro. I copti sono gli eredi degli antichi egizi che si convertirono al cristianesimo, a partire dal primo secolo, grazie alla predicazione di San Marco. La loro Chiesa è quindi antichissima e fino al VII secolo è stata maggioritaria in Egitto. Con l’arrivo degli arabi e dell’islam, per i copti è iniziata una difficile convivenza, fatta di periodi di relativa libertà alternati ad anni di dure repressioni.
La situazione non è migliorata con l’indipendenza dell’Egitto. Sotto i governi di Anwar Sadat e Hosni Mubarak, la Chiesa ha vissuto un periodo particolarmente difficile. «Ai tempi di Mubarak – osserva Awad, giornalista egiziano di fede cristiana -, la state security (un dipartimento speciale della polizia di stato, ndr) dominava la scena politica e religiosa. Per i copti era difficile, se non impossibile, costruire o anche ristrutturare una Chiesa perché era necessario il nullaosta della state security, che non lo rilasciava facilmente. La polizia arrestava i musulmani che si convertivano. Agenti erano coinvolti nei rapimenti di ragazze copte, organizzati per convertirle (andando contro la legge che prevedeva e prevede che qualsiasi conversione possa avvenire solo dopo i 18 anni). I musulmani che attaccavano le chiese rimanevano impuntiti».
Queste violenze contro la minoranza copta erano legate alla politica interna del raiss. Per rimanere al potere, Mubarak aveva bisogno del sostegno anche delle frange islamiche più estremiste. «Il presidente – osserva Girgis – lasciava quindi che i copti subissero le angherie e le discriminazioni più palesi. Sono stati anni molto duri».
La speranza di un cambiamento è arrivata nel 2011 con la caduta del regime. Musulmani e cristiani sono scesi in piazza insieme per invocare la caduta del raiss. «La parte migliore del mondo musulmano e di quello cristiano – ricorda Awad – lottava per un cambiamento reale della società egiziana. Volevano un paese in cui le componenti religiose convivessero senza dissidi, insieme come cittadini di un unico paese, l’Egitto. Ma è arrivata subito la doccia fredda». La strage nel quartiere Maspero, in cui nel 2011 la polizia ha represso con la violenza una manifestazione di cristiani (facendo 26 vittime tra i copti), e il governo della Fratellanza musulmana, guidato dal presidente Mohammed Morsi, hanno subito rimesso in un angolo la comunità cristiana. «Il progetto di riforma costituzionale promosso dalla Fratellanza musulmana – spiega Youssef, ingegnere egiziano di fede cristiana – era inaccettabile per la nostra comunità. Se fosse stato approvato ci avrebbe riportato indietro di secoli. I cristiani sarebbero diventati cittadini di serie B. Ma, va sottolineato, discriminava anche i laici e i musulmani che non si riconoscevano nella visione totalizzante dell’Islam della Fratellanza musulmana. È per questo motivo che la maggioranza degli egiziani è scesa in strada e ha iniziato a contestare Morsi, obbligandolo alle dimissioni».
Il fondamentalismo islamico e al-Sisi
Non è un caso che, quando Abdel Fattah al-Sisi è arrivato al potere nel 2013, è comparso in televisione con al fianco sia Tawadros II, papa dei copti, sia Ahmad Muhammad Ahmad al Tayyib, imam della moschea-università di al-Azhar (massima autorità dell’Islam sunnita). In al-Sisi, militare e musulmano devoto, i copti hanno subito visto un politico in grado di proteggere la comunità cristiana. «Al Sisi – osserva Girgis – ha certamente cambiato in meglio la situazione dei cristiani. Ha varato leggi, decreti e regolamenti per favorire la costruzione di chiese, luoghi di incontro, ecc. Ma, intendiamoci, la libertà religiosa non si impone per decreto. Costruire una chiesa è ancora oggi difficile, professarsi copto anche. Questo perché la società egiziana è fortemente permeata da una visione fondamentalista dell’islam. Tutto ciò che non è musulmano è considerato contro Dio».
Non è un caso che, solo nel primo anno di governo di al-Sisi, 85 chiese siano state attaccate, bruciate o demolite. L’11 dicembre 2016 un attentato alla cattedrale del Cairo ha fatto 25 morti. Il 9 aprile scorso due attentati, il primo davanti chiesa di Mar Girgis a Tanta e il secondo davanti alla chiesa di San Marco ad Alessandria, hanno provocato 45 vittime. «Ciò dimostra – osserva Awad – che la violenza nei nostri confronti non è sparita. E che, nonostante al-Sisi abbia promesso maggiori controlli e maggiore protezione, noi siamo ancora in balia dei fondamentalisti».
Al-Sisi però non sta lavorando solo sul piano della sicurezza. Sta facendo pressioni affinché gli studiosi dell’Islam recuperino la tradizione pluralista e dialogante della fede musulmana. «Il lavoro sul piano culturale – continua Awad – è fondamentale. Bisogna scardinare dalla società egiziana la visione wahabita dell’islam, che è a noi estranea (proviene dall’Arabia Saudita) ed è portatrice di intolleranza e violenza. Siamo coscienti che il cammino da percorrere per raggiungere una piena libertà religiosa è ancora lungo e la strada è tortuosa. Se non ci incamminiamo su questo sentiero culturale e teologico, però, difficilmente le cose potranno cambiare».
Le scelte di papa Tawadros II
La stessa Chiesa copta ortodossa sta cambiando pelle. Negli ultimi anni ha vissuto una profonda trasformazione in parte legata alla figura di papa Tawadros II e in parte alla progressiva secolarizzazione dei fedeli.
Tawadros II ha incarnato per i copti quella rivoluzione che Francesco ha rappresentato per i cattolici. «Il nuovo papa – osserva Girgis – ha portato una ventata di novità. Ha introdotto, in un ambiente un po’ ingessato, un modo informale di porsi. Non si è mai visto un patriarca di Alessandria che ama farsi i selfie con i giovani, che si fa abbracciare, che ha un modo spontaneo di parlare. Il fatto che tra lui e papa Francesco si sia instaurata una solida amicizia non è dovuto solo a una vicinanza teologico-dottrinale, ma anche a uno stile aperto, semplice, cordiale che esprime la serenità e la gioia della fede cristiana. Anche il suo modo di vivere è frugale, essenziale, senza sfarzo».
La vera novità però non è nello stile, ma nel suo modo di lavorare. «Shenouda III, il vecchio papa copto, era un accentratore – continua Girigis -. Non discuto se fosse o meno giusto il suo approccio. Tawadros ha instaurato un sistema diverso. Ama lavorare in gruppo, coinvolgere i collaboratori nel processo decisionale. In Europa, per esempio, ha riorganizzato la Chiesa copta e spesso viene in visita per parlare e confrontarsi con i vescovi che operano nel continente».
Per Tawadros, poi, assume un’importanza fondamentale la dimensione ecumenica. Con i cattolici il rapporto è ottimo, anche per quella sintonia personale con Francesco di cui abbiamo parlato. Ma dal 4 novembre 2012, giorno in cui è stato eletto dal sinodo, Tawadros ha iniziato a tessere rapporti sempre più stretti con le differenti Chiese ortodosse e, in particolare, con quella russa, quella greca e quella ecumenica di Costantinopoli. «Quelle ortodosse – spiega Girgis – sono Chiese “sorelle”, con le quali storicamente abbiamo rapporti. Ma con il nuovo papa queste relazioni sono diventate molto più strette. Tawadros ha avviato un confronto serrato con le Chiese protestanti. Lui crede nella fratellanza con i riformati, anche se una parte dei copti, i più tradizionalisti, hanno fatto numerose resistenze perché vedono i protestanti come i nemici dell’ortodossia».
Il clero e i fedeli
La Chiesa copta, però, sta subendo una profonda trasformazione nei suoi stessi fedeli. Da sempre i copti sono legati alla loro gerarchia (vescovi, monaci, sacerdoti). «È un legame solido, a volte fin troppo – sottolinea Youssef -. In passato, per i credenti, il clero era tutto. Dal clero dipendevano per qualsiasi cosa: chiedevano aiuti materiali, consigli e ascolto nei momenti difficili, direttive in campo politico ed economico. Oggi questo “totale affidamento” sta venendo meno. I copti partecipano ancora in massa alle funzioni religiose, ma molti di essi stanno tagliando il cordone ombelicale con la gerarchia. Soprattutto i giovani non ascoltano più le direttive ecclesiastiche in campo politico ed economico. Si muovono da soli, rivendicando il loro essere cittadini egiziani che lavorano nella società per farla crescere. Si ispirano ai valori cristiani, ma senza legami vincolanti con la chiesa. Stanno seguendo un processo di laicizzazione non dissimile a quello che è avvenuto in molti paesi europei».
Enrico Casale
Scheda 1: Matta el Meskin
Personaggio dallo straordinario carisma umano e spirituale, padre Matta el Meskin (1919-2006), al secolo Yusuf Iskandar, rappresenta una delle più luminose figure spirituali dei cristiani d’Egitto. È stato il fautore di una importante rinascita spirituale, monastica e culturale, all’interno della Chiesa copta ortodossa.
Farmacista in carriera, Yusuf, si avventura in un viaggio dello spirito che lo porterà in tre monasteri e a una lunga esperienza di vita eremitica. Monaco dal 1948, dal 1969 al 2006 è stato padre spirituale del monastero di San Macario nel deserto di Scete (Wadi el-Natrun). Alla sua morte nel 2006 questo monastero era diventato un piccolo Eden e il numero di monaci che lo abitavano era centotrenta. Oggi il monastero è guidato da un suo discepolo, il vescovo anba* Epiphanius.
L’anelito di questo monaco copto è stato sempre quello di vivere radicalmente il Vangelo. È a partire da ciò che Matta el Meskin ha creato attorno a sé una vera e propria scuola di spiritualità del deserto. Il Signore gli ha donato uno straordinario carisma, quello di parlare con la forza del linguaggio e della spiritualità degli antichi padri del deserto agli uomini contemporanei di ogni latitudine. Prova ne è il fatto che le sue opere sono state tradotte in ben sedici lingue. Il cuore della spiritualità meskiniana è la «grazia» dello Spirito Santo, l’ineffabile azione d’amore di Dio, che in Cristo ha realizzato la riconciliazione tra terra e Cielo. Essa è sempre più grande e più generosa della nostra miseria e pochezza ed è capace sempre di «trasformarci in quella medesima immagine, di gloria in gloria (cf. 2Cor 3,18)». L’azione dell’uomo è primariamente sinergia con lo Spirito Santo.
Instancabile sostenitore dell’unità dei cristiani, abuna* Matta è autore di un centinaio di scritti. La sua opera più conosciuta è certamente La vita di preghiera ortodossa tradotta in italiano con il titolo di L’esperienza di Dio nella preghiera (Qiqajon). È da qui che traiamo alcune parole sulla preghiera incessante.
«La preghiera – scrive Matta el Meskin – è quell’atto essenziale nel quale Dio stesso, senza che noi ce ne rendiamo conto, opera in noi il cambiamento, il rinnovamento e la crescita dell’anima. Né il benessere, né la pace interiore, né l’impressione di essere esauditi, né nessun altro buon sentimento possono eguagliare l’azione segreta dello Spirito Santo sull’anima e renderla degna della vita eterna. La preghiera è apertura all’energia attiva di Dio, forza invisibile, forza intangibile. Secondo la promessa di Cristo (Gv 6,37) l’uomo non può ritirarsi dalla presenza di Dio senza ottenere un cambiamento essenziale, un rinnovamento che non apparirà come improvvisa esplosione, bensì come costruzione minuziosa e lenta, quasi impercettibile.
Colui che persevera davanti a Dio e persiste nel confidare in lui per mezzo della preghiera, riceverà molto più di quanto sperava e molto più di quanto avrebbe meritato. Colui che vive nella preghiera accumula un immenso tesoro di fiducia in Dio. La forza e la certezza di questo sentimento superano l’ordine del visibile e del tangibile, poiché l’anima, in tutto il proprio essere, si impregna profondamente di Dio e l’uomo percepisce la presenza di Dio con grande certezza, tanto da sentirsi più grande e più forte di quanto non sia. Acquisisce allora la convinzione di un’altra esistenza, superiore alla sua vita temporale, pur non ignorando la propria debolezza, né dimenticando i propri limiti.
Dal momento in cui l’anima comincia a elevarsi nel mondo delle «luce vera» (Gv 1,9) che è in lei, comincia a porsi in armonia con Dio attraverso la preghiera continua fino a eliminare ogni divisione, ogni dubbio, ogni inquietudine, allora la Verità dirige il suo movimento e tutti i suoi sentimenti e il fuoco dell’amore divino fonde le sue esperienze passate e presenti, sopprimendo le parzialità e i timori dell’io, gli errori dell’egoismo e i suoi sospetti, cosicché in fondo all’anima non resta altro che la pienezza della sovranità dello Spirito e l’estrema felicità di sottomettersi alla sua volontà».
Markos el Makari
* «Anba» e «abuna» significano «padre». Il primo è usato per papi, vescovi e santi; il secondo per monaci e preti.
AA.VV., Matta el Meskin: un padre del deserto contemporaneo, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2017.
Scheda 2: Anche nel calcio
Tutti gli egiziani amano e seguono il calcio, specie quando a giocare è la leggendaria Nazionale dei Faraoni. Hassan Shehata (nato nel 1949) è stato uno dei Ct più amati in assoluto, capace di portare l’Egitto sulla vetta d’Africa per ben tre volte consecutive, un vero record.
Il mister ha sempre puntato sul gruppo, ma ha sempre avuto una caratteristica controversa che ha spesso suscitato polemiche (in primis fra i musulmani). Il suo criterio principe – diceva – per la selezione dei convocati era la pietas: va benissimo la tecnica, la qualità e la forza, ma se non sei un buon musulmano non farai mai parte del gruppo. Inutile dire che i copti sono esclusi a priori (un fenomeno che si sta sempre più allargando alle basi del calcio egiziano, con una progressiva esclusione delle giovani promesse cristiane dai principali club), così come i calciatori musulmani più laici.
È l’esempio di re Mido (Abdelamid Hossam Ahmed Hussein, nato nel 1983), personaggio al confine fra Bobo Vieri e Mario Balotelli, sia per temperamento che per i molteplici vizi, in eterno conflitto con Hassan Shehata, fino all’esonero definitivo dalla Nazionale.
È una tendenza relativamente nuova, ma degna di nota. Non esiste copto che non conosca Hany Ramzy (nella foto), uno dei più forti difensori dell’Egitto di sempre, classe 1969 e idolo per tutti gli egiziani. Calciatore di fede cristiana, oggi allenatore. All’epoca, nessun problema. Oggi non è più così, e a tante giovani promesse viene chiesto di convertirsi all’Islam, conditio sine qua non per fare carriera nel mondo del pallone.
Andrea Boutros
Scheda 3: La diaspora copta
La crisi economica persistente (che si è accentuata notevolmente dopo le Primavere arabe) e le discriminazioni subite in patria hanno portato molti copti a emigrare. La maggior parte si è trasferita in Nord America o in Australia. Molti, però, sono arrivati in Europa. In Italia, sono circa 45mila: 25mila nella diocesi di Milano e 15mila in quella di Roma. «Questo dato – osserva Girgis – si riferisce alle persone che frequentano la comunità religiosa. Credo quindi che sia sottostimato, probabilmente sono molti di più».
I copti sono molto bene integrati nel tessuto sociale italiano. Sono professionisti, dirigenti, impiegati, artigiani, commercianti. Molti giovani studiano nelle nostre università e, una volta laureati, entrano con facilità nel nostro sistema produttivo. «D’altra parte – continua Girgis – nulla impedisce ai copti di integrarsi. Non ci sono ostacoli evidenti alla loro integrazione: né la fede, né la cultura».
Dal 2013, in Parlamento siede un deputato di origine egiziana e di fede copta ortodossa. È Girgis Giorgio Sorial (nella foto), bresciano, appartenente al Movimento 5 Stelle. I suoi genitori si sono rifugiati in Italia perché in patria erano stati perseguitati da musulmani radicali.
«Dialogo con i musulmani? – conclude Youssef -. No, in Italia non c’è una relazione istituzionale con i musulmani. Molte famiglie egiziane cristiane e musulmane si frequentano, ma sono relazioni a livello personale. Il professor Farouq Wael Eissa dell’Università Cattolica di Milano ha dato vita a un gruppo di lavoro con ragazzi islamici e copti. Organizzano alcune iniziative insieme. È questa la strada giusta. Credo che per favorire l’integrazione non serva costruire moschee o chiese, ma luoghi di incontro dove sia possibile fare insieme attività culturali o sportive».
Enrico Casale
Scheda 4: La Chiesa copta cattolica
Esiste anche una Chiesa copta cattolica, il patriarcato cattolico di Alessandria, eretto nel 1824, ristabilito nel 1895 e governato da un patriarca. Comprende 6 diocesi con circa 200.000 fedeli. L’attuale patriarca è Abramo Isacco Sidrak (nella foto). Il 28 e 29 aprile si è incontrato con papa Francesco nella due giorni del pontefice in Egitto.
Scheda 5: Cronologia essenziale 2010-2017.
Una comunità sotto attacco
2010, 7 gennaio – La notte del Natale copto, a Nag’ Hammadi (vicino a Luxor), fedeli copti vengono attaccati da un gruppo di musulmani: 7 morti.
2011, 1 gennaio – Attentato alla chiesa copta dei Due Santi ad Alessandria: 23 morti e 97 feriti.
2011, 11 febbraio – Caduta di Hosni Mubarak. Era presidente dall’ottobre del 1981.
2011, 9 ottobre – Al Cairo, nella via Maspero, davanti al palazzo della radio e della televisione di stato, reparti dell’esercito egiziano uccidono 28 persone che partecipavano a una marcia di protesta dei cristiani copti.
2012, 18 novembre – Elezione di papa Tawadros II, 118° patriarca di Alessandria.
2013, 3 luglio – Un golpe militare guidato dal generale al-Sisi destituisce il presidente Mohamed Morsi dei Fratelli Musulmani (organizzazione islamista fondata nel 1928). Morsi era stato eletto nel giugno 2012. Il magistrato Mansur viene nominato presidente ad interim.
2013, 23 settembre – Al-Sisi dichiara fuorilegge i Fratelli musulmani.
2014, 8 giugno – Dopo la transizione di Mansur, viene eletto presidente il generale al-Sisi.
2015, 12 febbraio – A inizio gennaio l’Isis sequestra 21 copti che vengono uccisi un mese dopo in Libia. I terroristi islamici mettono in rete il video della decapitazione (foto a sinistra).
2016, 11 dicembre – Un attacco suicida uccide 25 persone nella chiesa copto ortodossa di San Pietro e Paolo al Cairo.
2017, febbraio – Nella penisola del Sinai jihadisti egiziani legati all’Isis attaccano ripetutamente le comunità copte.
2017, 9 aprile – Nella domenica della Palme due attentati dell’Isis contro chiese copte – a Tanta (delta del Nilo) e ad Alessandria – provocano 45 morti e 126 feriti. Il presidente al-Sisi decreta tre mesi di stato d’emergenza.
2017, 28-29 aprile – Viaggio di papa Francesco in Egitto. Incontri con il patriarca Tawadros II, il presidente al-Sisi e il grande imam al-Tayeb.
2017, 26 maggio – Un autobus che trasportava i fedeli copti è stato assalito da un commando di dieci uomini a Menyah, a 250 Km a sud dal Cairo. Bloccato il mezzo e saliti a bordo, hanno aperto il fuoco sui passeggeri. Almeno 28 i morti.
Paolo Moiola
PS:?oggi esiste un portale web – http://eshhad.timep.org/database -, aggiornato in tempo reale, che riporta ogni singolo atto di violenza a significato settario e persecutorio contro i copti in Egitto. Con tanto di data, luogo, vittime, feriti, danni a proprietà, negozi o abitazioni. Un rapido sguardo fornisce un’idea della portata del fenomeno.
Gli autori di questo dossier
Markos el Makari – Nato in Italia, bilingue italiano e arabo, attualmente è monaco novizio del monastero di San Macario il Grande a Wadi el-Natrun (l’antica Scetes) e del monastero di Bose (Biella).
Andrea Boutros – È nato a Genova da genitori egiziani nel 1993. Laureando in Medicina e Chirurgia, ha collaborato come giornalista per Il Secolo XIX e yallaitalia.it trattando la tematica migratoria e le problematiche sociali riguardanti le seconde generazioni. Parla italiano e arabo. È un membro attivo della comunità copta di Genova.
Enrico Casale – Giornalista freelance, si occupa di Africa. Laureato in Scienze politiche presso l’Università cattolica di Milano. È stato redattore del mensile Popoli. Attualmente collabora con Missioni Consolata, Africa, Combonifem, Nigrizia, Radio Vaticana e per le pubblicazioni dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) di Milano.
Paolo Moiola – giornalista redazione MC, ha curato il tutto.