Gatemala. Una zattera da due dollari


Un fiume separa la città guatemalteca di Tecún Umán dal confine messicano. Per attraversarlo, i migranti (diretti negli Usa) debbono pagare, ma non tutti se lo possono permettere. Chi non può, attende in città, magari confidando nell’aiuto offerto dalla «Casa del migrante». Nel frattempo, Donald Trump è tornato alla Casa Bianca.

Ciudad Tecún Umán. Le 7:30 di un mattino di ottobre. Un gruppo di cinque o sei balseros (traghettatori) stanno seduti sulla riva guatemalteca del fiume Suchiate, con le mani in mano e il viso torvo, intorpiditi da un intenso odore di marijuana. Sono nati e cresciuti in un posto dal nome suggestivo: El paso del coyote, dove ogni giorno passano centinaia di persone che dal Guatemala sperano di raggiungere il Messico, per dirigersi poi verso gli Stati Uniti.

All’improvviso, tutti si alzano, scrollandosi di dosso il torpore e a grandi passi si avvicinano a una quarantina di migranti, per lo più venezuelani, fermi sulla riva con borse in mano, zaini in spalla e bambini al collo.

«Per due dollari a testa vi porto io dall’altra parte del fiume», fischia e urla uno dei balseros improvvisamente sveglio e attivo, pronto per mettersi al lavoro.

I migranti che arrivano a Tecún Umán hanno alle spalle mesi di viaggi attraverso giungle, frontiere segnate da montagne e fiumi, fatiche fisiche e psicologiche.

Quando arrivano sul confine meridionale del Messico, semplicemente, non ne possono più. Sono stanchi, impoveriti, disincantati. Privati persino della speranza. L’unica emozione che riescono a vivere è la paura. Nelle tasche non hanno quasi nulla, e anche due dollari rappresentano un tesoro immenso. Questa somma crea una netta divisione: da un lato, chi può ancora permettersi di attraversare la frontiera; dall’altro, chi è costretto a restare in città, cercando lavoro in qualche cantiere per racimolare il necessario a proseguire il viaggio.

Chi ha due soldi, sale sulla balsa (zattera) nella speranza che quelle quattro assi appoggiate su pneumatici non cedano proprio in quel momento.

Linda e le sue due figlie di otto e dieci anni si fanno il segno della croce. Poi salgono sulla balsa con il volto contorto in una smorfia di disgusto e paura. Linda si siede velocemente per mantenere l’equilibrio, poi afferra gli zaini e si stringe le figlie al petto. Gli altri fanno lo stesso, accalcati uno sull’altro. Poi il balsero s’allontana dalla riva con il remo e in pochi secondi la zattera è in mezzo al fiume.

La «croce del migrante» su una sponda del rio Suchiate. Foto di Simona Carnino.

Il fiume

Il letto del Suchiate è di circa 140 metri di larghezza ed è poco profondo. Il 99% dei migranti di tutte le nazionalità attraversa il fiume in balsa. Chi non ha i due dollari necessari, ma comunque la volontà di superare la frontiera, prova a camminare o nuotare nelle acque fangose. Quasi nessuno, invece, attraversa il confine ufficiale sul ponte, a uso esclusivo di chi ha un visto turistico o lavorativo per il Messico.

«In questo fiume muore gente, ma… o pagano o camminano», dice un balsero scrollando le spalle e buttando giù l’ultimo sorso di birra calda e sgasata mentre guarda con occhio fisso il fiume melmoso davanti a sé.

Le acque scure del Suchiate costituiscono il confine più trafficato tra Guatemala e Messico.

Il business si vede a occhio nudo stando seduti per cinque minuti sulla frontiera. Dal Guatemala arriva il traffico di esseri umani che hanno l’intenzione di muoversi verso gli Stati Uniti, mentre dal Messico centinaia di zattere trasportano pacchi di latte in polvere, pannolini, latticini, medicinali e mais, che per il mercato guatemalteco risultano avere un prezzo davvero buono, grazie al cambio favorevole.  Fanno parte di questa informale struttura commerciale anche i risciò a pedali che tutti i giorni trasportano migranti verso la riva e ritornano indietro carichi di prodotti da contrabbandare nella stessa Tecún Umán o nei paesi vicini.

Ma, in fondo, non è tanto il Suchiate a preoccupare i migranti come Linda e le sue bambine, quanto il pensiero di mettere piede in Messico.

Migranti all’esterno della «Casa del migrante sin fronteras» di Tecún Umán. Foto di SImona Carnino.

La legge dei cartelli

Dall’autunno dell’anno scorso, il Cartel de Sinaloa e il Cartel de Jalisco nueva generación (Cjng) hanno messo sotto assedio il territorio del Chiapas, lo stato più meridionale del Messico.

I due gruppi criminali si contendono il traffico di droga, armi e persone lungo la frontiera Sud, compresa la Selva Lacandona e il confine di Comalapa, dove la violenza ha spinto centinaia di persone a lasciare le proprie case e migrare verso Cuilco, in Guatemala.

A Ciudad Hidalgo, la faccia messicana di Tecún Umán, c’è un tale caos che a nessuno è chiaro chi comanda. L’unica cosa certa è che gruppi criminali, affiliati ai due più grandi cartelli, si contendono il controllo del flusso migratorio dalla sponda messicana del Suchiate verso la cittadina di Tapachula, che si trova a soli venti chilometri dalla frontiera.

Le bande criminali hanno allestito quasi un check-point informale. Ogni giorno sequestrano interi gruppi di migranti che hanno due sole possibilità di scelta: o pagare o non farlo, a proprio rischio e pericolo. Eppure, neanche questa minaccia ferma le centinaia di persone che ogni giorno attraversano la frontiera affidandosi chi a Dio e chi al caso, «perché c’è sempre la speranza che non sequestrino proprio noi», sorride Linda.

Il sentimento che si prova prima di attraversare una frontiera come quello che sentirebbe chi andasse in moto senza casco, o scavalcasse un cancello dai pali affilati quando si è rimasti chiusi fuori casa. Il fatalismo mischiato alla necessità fanno pensare che non succederà alcun incidente. E se dovesse capitare, non capiterà proprio a noi e certamente non proprio oggi. Linda pensa così, prima di partire.

Con in mano i loro pochi averi, i migranti cercano un lavoro per finanziare il viaggio attraverso il Messico e fino agli Stati Uniti. Foto di SImona Carnino.

Alla «Casa del migrante sin fronteras»

La notte prima di attraversare il confine meridionale con il Messico, Linda si è seduta nel cortile della Casa del migrante sin fronteras di Tecún Umán, con la Bibbia in mano, recitando sottovoce il Salmo 121: «Alzerò gli occhi verso i monti; da dove verrà il mio aiuto? Il Signore custodirà la tua uscita e il tuo ingresso, d’ora in poi e per sempre».

Linda ha imparato questo salmo a memoria. Lo legge ogni sera da quando ha iniziato il suo grande viaggio dal Venezuela verso gli Stati Uniti. Lo leggeva anche quando era nella selva del Darién e ora le sembra più appropriato che mai. «Prego il Signore che domani non ci sequestrino i narcos», dice con fede.

Josué, un ragazzo honduregno di circa 25 anni, annuisce. «Ieri ho attraversato il fiume, ma quando sono sceso ho visto un gruppo di narcos rapire tutte le persone sull’altra zattera. Chiedono un riscatto fino a 150 dollari per andare a Tapachula, e se non glieli dai…», borbotta senza finire la frase, in modo che Linda e le sue bambine non lo sentano e non si spaventino ulteriormente.

Però lo sente Jairo, 51 anni, venezuelano, e d’improvviso gli si riempiono gli occhi di lacrime. «Sono qui con mia moglie e mio figlio di 14 anni e non ho un soldo. Rimarrò a Tecún Umán a lavorare perché non voglio che ci uccidano appena mettiamo piede in Messico solamente perché non possiamo pagare. Da una parte vorrei che nessuno mi raccontasse storie macabre, ma dall’altra credo sia importante sapere cosa aspettarsi», dice Jairo, stanco e avvilito.

All’ora di cena, la sala da pranzo della Casa del migrante è piena. Ogni giorno passano da questo punto di accoglienza temporanea almeno 200 persone.

È così da anni e da quando Donald Trump ha vinto nuovamen-te elezioni ancora di più. Il suo programma elettorale è, se possibile, più violento (e probabilmente anche irrealizzabile) di quello messo in atto nella sua prima amministrazione.

Il tycoon ha cercato di rafforzare il consenso promettendo l’America agli americani, sotto lo slogan Make America great again, attraverso la realizzazione di una deportazione massiva di oltre un milione di persone (su un totale stimato di undici milioni) presenti negli Stati Uniti senza un visto regolare.

Il nuovo presidente americano, inoltre, ha promesso una riduzione degli ingressi, limitando la possibilità di fare richiesta di asilo politico.

Di fronte a questo panorama, la maggior parte di chi migra, cerca di arrivare negli Stati Uniti prima che prendano forma nuove direttive migratorie.

Tuttavia, un duro giro di vite è già stato dato durante l’amministrazione Biden che, nell’ultimo anno, ha imposto ai migranti di accedere al sistema d’asilo solamente attraverso l’app Cbp One (sospesa il 20 gennaio da un ordine esecutivo di Trump, ndr) e solo una volta arrivati in Messico.

Questa manovra, in contrasto con le normative internazionali in termini di diritto di asilo, obbliga chi chiede protezione a rimanere in balia delle bande criminali presenti sulla frontiera e in vaste zone del Messico.

Lo sa bene Jaqueline, 43 anni, di Jutiapa e di etnia Xinca, un popolo indigeno del Guatemala orientale. È seduta fuori dalla cucina della Casa del migrante, ma non ha fame. «Ho lo stomaco sottosopra perché ho paura che domani i narcos violentino mia figlia di 16 anni – dice Jaqueline, con la mano sulla pancia -. Abbiamo provato ad attraversare la frontiera ieri pagando 300 dollari ai narcos, ma poi la polizia messicana ci ha respinto in Guatemala e ora siamo al verde. Vorrei restare qui».

Nella Casa del migrante è possibile rimanere al massimo tre giorni, ma molti vorrebbero rimanere più a lungo. «Questo è l’ultimo posto in cui le persone in transito possono mangiare un pasto caldo, usare internet, riposarsi e lavarsi prima di arrivare in Messico – spiega Óscar Pelicó di Ayuda en acción, Ong spagnola specializzata in progetti di sostegno alle donne e ai bambini sulla frontiera -. In Messico, le case per migranti sono solo a uso dei richiedenti asilo. Per chi vuole andare negli Stati Uniti non c’è nessun supporto».

El rio Suchiate tiene un promedio de 140 metros de ancho y la frontera de Mexico es visibile por el otro lado de la orilla_Tecún Umán, 09.10.24

Con la paura addosso

Alle 7 del mattino successivo, ci sono 40 tazze di caffè e 40 panini sul tavolo della sala da pranzo della Casa del migrante. Nessuno ha fatto colazione. Neppure Linda e le sue figlie. Al mattino si sono svegliati tutti con un’agitazione sottopelle e un unico obiettivo: «Arrivare a Tapachula senza essere sequestrati». Appena arrivati dall’altra parte del Suchiate, Linda, le bambine e tutti gli altri hanno iniziato a camminare sulla riva destra. Dopo 5 minuti, sono stati braccati dai narcos.

«Ci hanno detto che dovevamo pagare o non ci avrebbero lasciati andare – racconta Linda attraverso un messaggio vocale di WhatsApp il giorno dopo -. Ho pagato 200 dollari per me e le bambine. Ci hanno messo un timbro a forma di “gallo” o qualcosa del genere sul braccio e ci hanno lasciate andare. Non so cosa sia successo a chi non ha pagato».

I sequestri express sulla riva del Suchiate sono frequenti quanto casuali. Jonathan, un migrante venezuelano, per esempio, non è stato rapito. «Ho camminato lungo la riva sinistra e sono arrivato a Tapachula senza pagare – racconta telefonicamente da Tuxtla Gutiérrez -. Poi la migrazione messicana mi ha portato qui e ormai da quasi sei mesi vivo per strada».

Un migrante mostra la schermata dell’applicazione Cbp One delle autorità di frontiera statunitensi. Foto di Simona Carnino.

La speranza svanita

Jonathan è uno dei tanti migranti portati a forza dall’Istituto messicano per le migrazioni a Tuxtla Gutiérrez. Qui si guadagna da vivere vendendo frutta, in attesa dell’appuntamento per la richiesta di asilo negli Stati Uniti. Ha prenotato sull’app Cbp One, ma per ora non ha ricevuto una data di convocazione. Se questo succederà (molto improbabile visto il blocco dell’app decretato da Trump, ndr), un bus dell’istituto di migrazione lo porterà sul confine Sud degli Stati Uniti dove potrà provare a raccontare la sua storia e se avrà suerte, ricevere un visto in attesa del processo in cui verrà sentenziato se ha diritto o meno all’asilo politico negli Stati Uniti. Restare in Messico nel limbo dell’attesa è estremamente pericoloso, e Jonathan lo sa bene, ma per lui questa è l’unica possibilità. Chi se lo può permettere cerca di attraversare la frontiera solamente quando ha la certezza dell’appuntamento. «Pare che alcune organizzazioni criminali vendano “date di appuntamenti” per circa seimila dollari – dice Gemayel Fuentes, responsabile della Casa del migrante -. Alla fine è comunque più economico che pagare un coyote (trafficante di esseri umani, ndr) quindicimila dollari per arrivare negli Stati Uniti irregolarmente. Molti migranti stanno quindi scegliendo questa nuova soluzione».

Per chi non può pagare, non resta che aspettare, bloccati a quattromila chilometri dal confine settentrionale.

«Prego solo che il mio appuntamento arrivi presto, perché qui ci sono i narcos, tutto è molto costoso e in più c’è un’epidemia di dengue in corso in città e non c’è nessuna organizzazione che ci aiuti con cibo o farmaci», conclude Jonathan in un messaggio vocale via WhatsApp.

Simona Carnino

 




Il mondo secondo Trump


Dallo scorso 20 gennaio, Donald Trump siede di nuovo alla Casa Bianca. Prima del suo insediamento, il neo presidente statunitense ha tenuto una conferenza stampa dalla quale non sono arrivati segnali confortanti per il mondo e per l’economia.

Il 7 gennaio 2025, tredici giorni prima del suo insediamento ufficiale come 47° presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump ha tenuto una lunga conferenza stampa nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida.

Trump ha illustrato gli aspetti strategici del programma che intende realizzare nei prossimi quattro anni. Ebbene, in vari passaggi del suo discorso, i giornalisti presenti hanno stentato a credere alle proprie orecchie. Ad esempio, quando Trump ha dichiarato di volersi riprendere il canale di Panama e impadronirsi della Groenlandia.

Un mondo di nazioni in lotta

L’essenza della politica di Trump era già stata anticipata in campagna elettorale sotto l’acronimo «Maga», ovvero Make America great again, che tradotto significa «Facciamo di nuovo grande l’America».

Un credo politico che si iscrive fra le dottrine cosiddette «nazionaliste». Concependo il mondo come nazioni in lotta fra loro per l’egemonia, queste si pongono come obiettivo primario quello di garantire forza, prestigio e ricchezza al proprio paese contro tutti gli altri. Quanto alle divisioni sociali interne a ogni nazione, i nazionalisti fingono che non esistano e, giurando fedeltà al modello capitalista, pretendono che ricchi e poveri, lavoratori e imprenditori formino un corpo unico accomunato dal fatto di appartenere alla stessa nazione.

Al contrario, gli stranieri sono guardati tutti con sospetto, anche se, alla fine, sono divisi in due categorie: quella dei nemici, con politiche contrarie ai propri interessi, e quella degli amici, con comportamenti favorevoli al proprio arricchimento.

Non a caso la succitata conferenza stampa di Donald Trump si è aperta cantando le lodi di tale Hussain Sajwani, imprenditore miliardario degli Emirati arabi uniti che ha promesso di investire negli Stati Uniti 20 miliardi di dollari per l’apertura di centri informatici dedicati alla gestione dati.

In cima alla lista dei paesi nemici compilata da Trump, compare senz’altro la Cina, alla quale già nel precedente periodo di presidenza (dal 2016 al 2020), erano stati applicati numerosi dazi doganali come tentativo di limitare le sue esportazioni verso gli Stati Uniti e, quindi, la sua espansione economica.

Un agricoltore Usa con la bandiera trumpiana. Foto Laura Seaman – Unsplash.

Panama e il canale

Durante la conferenza stampa di Mar-a-Lago, il primo paese verso il quale Trump si è scagliato è stato Panama, accusato di danneggiare gli Stati Uniti in combutta con la Cina.

Oggetto del contendere è il canale che collega l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico. Un canale da sempre di importanza strategica per gli Stati Uniti, tant’è che nel 1902, prima ancora che esso venisse costruito, l’esercito Usa occupò militarmente l’area da scavare per assicurarsi la possibilità di controllare l’opera. Il canale entrò in funzione nel 1914 e rimase sotto gestione statunitense fino al 1999, allorché diventò di proprietà del governo panamense in virtù di accordi di cessione firmati nel 1977 dall’allora presidente Jimmy Carter (recentemente scomparso).

Per una ventina di anni l’amministrazione del canale da parte del governo panamense è proceduta senza particolari attriti con gli Stati Uniti, con grande vantaggio per Panama sia in termini economici che occupazionali. In effetti le attività del canale contribuiscono al 7% del Pil e al 23% delle entrate governative del paese centroamericano. Da un paio di anni, però, un problema di carattere ambientale sta mettendo in crisi la via di comunicazione.

Il problema si chiama siccità da cambiamenti climatici che riduce l’apporto di acqua al canale fino a imporre la limitazione del traffico di navi che possono attraversarlo. Tant’è che oggi, ai due imbocchi del canale, ci sono lunghe file di portacontainer in attesa di poterlo attraversare.

Le conseguenze sono negative soprattutto per gli Stati Uniti, che sono i principali destinatari delle merci che attraversano il canale. Le imprese statunitensi lamentano che i ritardi nelle consegne stanno facendo aumentare i prezzi e rallentano i loro processi produttivi. E, quasi fosse una congiura internazionale, Trump se la prende con la Cina: «Il canale di Panama è gestito dai cinesi, ma noi abbiamo regalato il canale a Panama e non alla Cina che ne sta abusando: quel regalo non si sarebbe mai dovuto fare».

Incalzato dai giornalisti che chiedevano cosa pensasse di fare, Trump non ha escluso l’uso della forza militare per fare tornare il canale di Panama sotto il controllo degli Stati Uniti affinché possa essere gestito a loro uso e consumo.

Una loro presenza militare nel mezzo dell’America Centrale permetterebbe agli Usa di combattere anche un altro fenomeno, quello delle migrazioni, tema posto anch’esso ai primi posti dell’agenda di Trump. Considerato che Panama è un passaggio obbligato per tutte le rotte migratorie provenienti dall’America Meridionale, uno sbarramento militare in quel territorio ridurrebbe di molto gli arrivi al confine tra Stati Uniti e Messico.

La Groenlandia

L’aspetto sorprendente è che Trump ha ipotizzato l’uso della forza militare per annettere anche la Groenlandia. Giuridicamente una regione autonoma facente parte del Regno di Danimarca, la Groenlandia è un’immensa isola, la più grande non continente, situata in zona artica. Vi abitano soltanto 56mila persone concentrate soprattutto nella parte sud, essendo la restante parte del paese coperta da una calotta glaciale che si estende sull’80% della superficie.

Gli Stati Uniti sono già presenti in Groenlandia fin dalla seconda guerra mondiale con una base aeronautica, la Pituffik Space Base, che si trova a 1.500 chilometri dal Polo Nord. Ma oltre che per motivi militari, la Groenlandia sta diventando appetibile anche per ragioni economiche da quando la tempera-

tura terrestre ha cominciato a salire.

Nel suo sottosuolo, infatti, si trovano non solo gas e petrolio, ma anche numerosi minerali molto ricercati dalle moderne tecnologie come litio, grafite e anche uranio. Fino a ora era impensabile cercare di estrarli a causa dell’enorme strato di ghiaccio che ricopre i giacimenti, ma con l’innalzamento delle temperature questo scoglio si va riducendo.

Per la stessa ragione sta assumendo importanza strategica anche il Mar Artico, il mare del Polo Nord, su cui la Groenlandia si affaccia assieme alla Russia, al Canada e all’Alaska. Se il mare si libera dal ghiaccio, può diventare navigabile per gran parte dell’anno, accorciando le distanze fra America del Nord, Asia ed Europa.

Per la verità già durante il precedente mandato presidenziale Trump aveva avanzato l’offerta di comprare la Groenlandia in linea con quanto aveva già tentato di fare Truman nel 1946.

La Danimarca, però, ha sempre opposto un fermo rifiuto e ora Trump minaccia non solo l’occupazione militare, ma anche potenti ritorsioni doganali pur di piegare la volontà del piccolo stato europeo.

Donald Trump. Foto TheDigitalArtist – Pixabay.

Il Canada

Nel suo discorso di Mar-a-Lago Trump ha scagliato la propria ira nazionalcapitalista anche contro Canada e Messico, paesi con i quali fino al 2020 aveva un accordo di libero scambio (il Nafta), poi trasformato, proprio durante la sua prima presidenza, in accordo di collaborazione (noto come Usmca) su punti specifici come agricoltura, flusso di lavoratori e brevetti. Temi tutti rigorosamente normati a principale vantaggio degli Stati Uniti.

Ciò non di meno, Trump rimprovera al Canada di continuare a vendere troppi prodotti agli Stati Uniti, contribuendo a rafforzare il debito commerciale che il paese a stelle e strisce ha verso il resto del mondo. Nel 2023, le merci canadesi hanno rappresentato circa un settimo del disavanzo commerciale statunitense, che complessivamente ammonta a 773 miliardi di dollari (dati Bea-U.S.Department of commerce).

«Ci mandano centinaia di migliaia di auto facendo un sacco di soldi. Ci mandano un sacco di altre cose di cui non abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno delle loro auto, né di altri prodotti. Non abbiamo bisogno del loro latte», ha detto Trump ai giornalisti riferendosi al vicino nordamericano.

Quindi, invece di chiedersi perché gli statunitensi comprano le merci canadesi, Trump ha partorito l’idea di risolvere il problema contabile facendo diventare il Canada un territorio statunitense.

Non a caso il giorno dopo la conferenza stampa di Mar-a-Lago, Trump ha pubblicato su una sua pagina social la cartina degli Usa comprendente anche il Canada ormai definito come 51° stato degli Stati Uniti d’America. Bontà sua, Trump ha escluso di voler piegare il Canada con l’esercito, dichiarando di volersi limitare all’impiego delle armi economiche.

Il Messico

Passando al Messico, Trump ha detto: «Abbiamo un grande deficit commerciale con il Messico, motivo per cui lo aiutiamo tantissimo».

«Il paese – ha spiegato il neo presidente – è gestito essenzialmente da cartelli criminali e noi non possiamo permetterlo. Il Messico è davvero nei guai, un sacco di guai». Poi si è buttato su una rivincita di tipo lessicale: «Cambieremo il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America».

Lanciando – infine – la stoccata finale: «Il Messico deve smetterla di permettere a milioni di migranti di penetrare nel nostro paese».

La Nato e le spese militari

Durante la conferenza stampa Trump ne ha avuto anche per gli alleati Nato, essenzialmente i paesi europei. Dichiarandosi di nuovo stufo di farsi carico della loro difesa, Trump è tornato a dire che gli alleati devono innalzare le loro spese militari. E se durante il suo primo mandato aveva chiesto che fossero portate al 2% del Pil, nel discorso di Mar-a-Lago ha spostato l’asticella ancora più in alto: «Io penso che la Nato si meriti il 5%. Non ce la può fare se rimane al 2%. […] Tutti i paesi Nato […] devono attestarsi al 5%».

Al momento, tuttavia, neppure gli Stati Uniti dedicano agli armamenti una quota di Pil tanto alta, arrivando al 3,4%. Fra i paesi Nato, solo la Polonia va più su con il 4,1%, seguita dall’Estonia con il 3,43%. Allora sorge il dubbio che la vera intenzione di Trump sia quella di annunciare al mondo l’intendimento di voler alzare ulteriormente la spesa militare degli Stati Uniti incurante del fatto che già oggi rappresenta il 38% dell’intera spesa mondiale (dati Sipri).

Dove sta andando

la democrazia? Nel complesso a Mar-a-Lago molti hanno visto un Trump ancora nelle vesti del candidato sguaiato che voleva aumentare il proprio consenso tra un popolo becero, piuttosto che un uomo di Stato che dal 20 gennaio governa il Paese più potente del mondo. Certi discorsi, tuttavia, non andrebbero fatti sotto nessun tipo di veste e il fatto che tanta gente vada dietro a chi le spara più grosse lascia molti dubbi su cosa, al giorno d’oggi, sia diventata la democrazia.

Francesco Gesualdi