Brasile: l’aquila sul tetto


Padre Pietro Parcelli ha lasciato il Brasile nel 2014 dopo lunghi anni di servizio missionario. Per gli amici la parola «lasciato» è un eufemismo, perché di fatto il suo cuore è ancora là, più precisamente a Salvador, capitale dello stato di Bahia, dove, nella zona di Novos Alagados, anni fa ha aiutato a nascere il progetto «Kilombo do kioiô». Qui condivide alcuni ricordi di un viaggio compiuto nell’agosto 2015.

Quella mattina del 5 agosto, appena entrato a Kilombo, sono rimasto colpito da un uccello grande e robusto che dal tetto osservava ogni cosa con occhio sicuro e senza timore. Ho subito pensato che fosse un uccello rapace proveniente dal bosco vicino, parte del parco di San Bartolomeo, uno dei pochi resti della famosa «Mata Atlantica» (la foresta atlantica di cui si parla su MC 4/2016, pag. 22, ndr). Denys, la direttrice del Kilombo, che mi stava vicina, ha detto: «Vedi, è un’aquila». «Un’aquila? Da dove viene? – ho domandato io – È rara un’aquila da queste parti». «Sì, è un’aquila che viene dalla Mata Atlantica».

Dopo diversi mesi, l’immagine dell’aquila mi torna alla mente come una specie di simbolo che rappresenta in modo particolare gli ultimi 15 anni della mia vita.

Il cammino del Kilombo

È stato nel 1999 che sono sbarcato nella favela di Novos Alagados, nel territorio della parrocchia di São Brás, come un «estranho no ninho», un «uccello fuori dal nido». Accompagnato da un gruppo di giovani parrocchiani visitavo le famiglie. In mezzo alle palafitte, ponti di legno, viuzze, ho visto la fame. Nello sguardo timido delle matriarche, molte abbandonate dai mariti, scorgevo il pianto nascosto suscitato dalla notte che veniva senza aver niente da dare da mangiare ai bambini.

La povertà, la mancanza di strutture sanitarie e la fame mi hanno fatto alzare in volo, come l’aquila della Mata Atlantica, in cerca di soluzioni. E nel piccolo salone in fondo alla chiesa di Aparecida, in riva al mare, abbiamo cominciato a riunire il primo gruppo di mamme. Potevamo fare poco, ma quel poco doveva essere immediato e concreto: consegnavamo mensilmente una consistente cesta di alimenti e, allo stesso tempo, alimentavamo la fede delle famiglie invitandole alla celebrazione domenicale e a una riunione settimanale. È stato così che la Consolata ci ha mostrato che potevamo fare la differenza nella vita di quelle persone, con l’aiuto di amici e benefattori. Col sostegno a distanza di molte generose famiglie italiane abbiamo cominciato ad aiutare uno, due, anche fino a cinque dei figli di quelle mamme che non avevano mezzi per saziare le loro creature.

Siamo andati avanti così con entusiasmo. Ma il problema era enorme e il 2000 fu particolarmente duro. C’era il dubbio di non avere le ali adatte per un volo così alto.

Spiccare il volo

Il 2001 ha invece portato nuova energia. Il progetto cominciava a spiccare il volo: nasceva in un piccolo spazio il «Kilombo do kioiô».

I kilombos erano le comunità in cui si rifugiavano gli schiavi africani che fuggivano dai loro padroni quando il Brasile era dominio portoghese. Il kioiô è una pianta tipica della regione, usata nella medicina e nella cucina locale. In fondo al giardino della casa che avevano comprato per il progetto, c’era proprio una pianta di kioiô. Ecco battezzato il rifugio dove realizzare la nostra missione: offrire un destino differente a chi vive schiavo della fame, dell’abbandono, dell’ignoranza e della mancanza di prospettive.

La cesta di alimenti che offrivamo a molte famiglie era per loro una consolazione, e questo l’abbiamo potuto constatare in diversi momenti. Una mattina ero in macchina con due giovani, dopo aver consegnato la cesta a una mamma ammalata. A un certo punto, quattro giovani armati di pistola ci hanno fermati gridando di scendere dalla macchina. Sentivo le urla delle persone: «È il padre missionario, lasciatelo stare, è il missionario». I giovani che erano con me, pieni di spavento, mi hanno detto di uscire dall’auto e di buttare la borsa a terra. «Che c’è là dentro?», mi ha urlato uno degli assalitori. «Ci sono le cose per la Messa», ho risposto. Dopo aver dato un calcio alla borsa si sono dileguati.

Insegnare a volare

Quando il governo brasiliano ha iniziato il progetto «Fame zero», abbiamo capito che era arrivato il tempo di cambiare: non più distribuire cibo, ma insegnare a procurarsene. È nato così il gruppo di alimentazione che oggi conta quarantacinque mamme. Esse vengono nel Kilombo per imparare a cucinare e a fare pane, a confezionare torte dolci e salate. Il ricavato della vendita dei prodotti aiuta a mantenere le attività del Kilombo. È un’iniziativa che insegna un mestiere queste donne che guadagnano anche un po’ di soldini per mantenere la famiglia. Le spese delle materie prime e del centro sono in parte coperte da un contributo delle mamme, che ogni mese versano parte dei loro guadagni, e dalla generosità di benefattori e istituzioni che ci aiutano a portare avanti il lento cammino di formazione umana e professionale che coniuga rendimento e dignità.

Sotto le ali

Quasi tutte le donne con cui lavoriamo abitano in zone dominate dal traffico della droga. Da loro è venuta la richiesta di fare qualcosa per togliere i figli dalla strada. È così che nel 2011 abbiamo spiccato un altro volo, senza poter prevedere dove saremmo arrivati. È nato il doposcuola del Kilombo. Rispetto alla scuola statale, qui ogni attività è preceduta dalla preghiera e si svolge in un clima più dinamico e alternativo, stimolando la creatività. La preghiera è sempre rivolta alla patrona del Kilombo: Nossa Senhora Consolata.

La missione del doposcuola è di migliorare le conoscenze acquisite dai ragazzi nella scuola statale, perché il livello educativo nella zona è molto basso. È facile incontrare bambini che a dieci anni non sanno leggere né scrivere. E per evitare che la fame fosse un ostacolo alla resa nell’aula scolastica, abbiamo cominciato a offrire una merenda abbondante.

Il Kilombo segue direttamente 66 bambini divisi in cinque classi. Al mattino sono 32 ragazzi dagli otto ai tredici anni, divisi in due classi. Al pomeriggio sono 34 dai sette ai quattordici anni, distribuiti in tre classi. Ogni classe è accompagnata da un’insegnante e una vice. Le attività sono molto diversificate: mensilmente i bambini hanno lezioni di salute dentaria; sono visitati regolarmente da narratori di fiabe e storielle, importanti per i bambini; ricevono formazione su alimentazione, igiene e salute; sono addestrati al primo soccorso da volontari dell’Università Federale della Bahia; mentre gli insegnanti partecipano a corsi di aggioamento finanziati dalla Fondazione Roberto Marinho, sostenuta della Rede Globo, il più grande gruppo di radio e televisione del Brasile.

La capoeira

La capoeira è praticata con entusiasmo nel Kilombo. È un’arte marziale con un sistema di attacco e difesa di carattere individuale, molto simile a una danza. Bambini, adolescenti e giovani sono aiutati dalla pratica di questo sport a sfuggire alla droga e alla criminalità.

Durante la mia visita dello scorso agosto, guidato dal suono del berimbau, strumento a corda che è utilizzato per segnare il ritmo della danza, ho camminato con i ragazzi fino al parco S. Bartolomeo, un’area ricca di ricordi della cultura afrobrasiliana, localizzata a 500 metri dal Kilombo. Siamo arrivati alla cascata di Oxum (Oxum è un orixa, cioè una delle divinità del Candomblé, religione afro brasiliana), e là è iniziata la ruota della capoeira. Il canto degli uccelli si è sintonizzato con le battute dei tamburi, mentre i movimenti acceleravano in una sincronia perfetta. Per loro il cielo non sembra avere limiti.

Anche le nonne volano

Nel 2014 è arrivata una nuova ispirazione: coinvolgere nelle attività del Kilombo anche le nonne della comunità. Si è cominciato con una settimana di attività nel mese di luglio, mese dedicato alle nonne qui in Brasile. Il risultato è stato così entusiasmante che, nonostante la difficile situazione economica, abbiamo deciso di aprire le porte alle donne anziane. Sono quindici signore con più di 50 anni di età, che sono invitate a partecipare al progetto di alimentazione del Kilombo. È un tempo di terapia e socializzazione, attività molto importanti nella situazione di abbandono in cui vivono. Così abbiamo spiccato un altro volo.

Durante la mia visita della scorsa estate, in una casetta vicino al Kilombo, ho conosciuto Luzia, una giovane di 22 anni, cieca, con deficienza mentale e un solo polmone. Sua madre, donna Val, aveva preso la varicella quando era incinta della bambina. Nonostante il consiglio medico di abortire, ella aveva voluto aprire le ali e accogliere Luzia. Lo sforzo di accudire la figlia è immenso, ma l’amore vince ogni barriera. Val prepara la merenda per i bambini del Kilombo. A volte arriva un po’ in ritardo, ma nulla le toglie il sorriso e la sua volontà di vincere.

In un’altra visita sono andato a casa di Marta, una delle mamme del Kilombo. Il figlio Jomarley di dieci anni, con paralisi celebrale, è stato abbandonato dal padre. Marta si fa in quattro per dar da mangiare a Jomarley e Taiana di dodici anni.

I rapaci

Tutte queste attività, prima di realizzarle, sembravano un sogno davanti alla realtà in cui si trovava il Kilombo. E ancora di più oggi, davanti alla crisi del Brasile di questi ultimi mesi. Una nonna del progetto mi ha detto: «Prima con un real (moneta brasiliana) compravi sei panini, ora due». Ma nonostante i rapaci della crisi e dell’inflazione, vogliamo continuare a sognare nuovi voli.

Padre Pietro Parcelli, missionario della Consolata,
in collaborazione con Diniz Vieira, giornalista,
e Adenilza Cruz,  direttrice e cofondatrice del  Kilombo do kioiô.




Ecuador. Microfoni appassionanti

 


Diritti, cittadinanza, dignità, diversità, sviluppo sostenibile sono le principali parole d’ordine di «Radialistas Apasionadas y Apasionados». I «Radialistas» non sono un’emittente, ma un centro di produzione di programmi radiofonici a contenuto sociale ed educativo, distribuiti – gratuitamente – in tutta l’America Latina. Siamo andati a trovarli nella loro sede di Quito.

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Quito. La prima cosa che si nota all’apertura della porta è una folta barba sale e pepe. Appartiene a José Ignacio López Vigil, cubano dalle molte esistenze. Siamo nella sede di Radialistas, un’associazione senza scopo di lucro nata nel 2001 per produrre e distribuire programmi radiofonici su tematiche sociali ed educative.

«Radialistas, sì – ci fa subito notare il padrone di casa -, ma anche Apasionadas y Apasionados». «Quando presentammo il nome ci dissero che era troppo lungo. Noi rispondemmo che era lungo come la nostra passione e i nostri obiettivi». Una passione che per José Ignacio nasce e cresce negli anni successivi all’abbandono di Cuba da parte della sua famiglia.

Restituire la parola

«Al terzo anno della rivoluzione castrista – racconta -, le cose iniziarono ad avvelenarsi. Venivano dette nefandezze di ogni tipo sul futuro della gente e del paese. Mio padre, che era giornalista, come tanti altri cattolici entrò in panico e ci portò tutti in Spagna».

Qui José decide di entrare nella Compagnia di Gesù. Va in Repubblica Dominicana, in Venezuela, in Ecuador. Nel 1973 diviene sacerdote gesuita. A Santo Domingo chiede e ottiene di lavorare in una radio, che da tempo è divenuta una sua passione.

«Un giorno alcuni contadini vennero a domandarmi di essere intervistati perché un latifondista aveva rubato loro la terra. Lo feci e il giorno seguente mandai in onda il servizio, che mi costò l’immediata cacciata dall’emittente. Quell’esperienza costituì per me il punto di svolta. Mi accorsi del potere della parola popolare quando si fa forte. Restituire la parola alla gente comune è senza dubbio la missione più importante di qualsiasi radio che si definisca comunitaria».

José Ignacio si sente stretto nelle vesti di sacerdote. Esce dalla congregazione e torna a casa in Spagna. «Lì, assieme a mia sorella Maria, anche lei uscita dal proprio ordine religioso (e oggi caporedattore a Envío, la rivista dell’Università Centroamericana di Managua), scrivemmo Un tal Jesús, uno sceneggiato radiofonico sulla vita di Gesù di Nazaret nell’ottica della teologia della liberazione». La radionovela, scritta nel 1979 e registrata nel 1980, è una bomba. Una bomba di critiche e di successi.

«La mandammo in onda – racconta José Ignacio – per la prima volta nel 1981, in Costa Rica. Ben presto il presidente della conferenza episcopale latinoamericana, Alfonso López Trujillo, inviò un prete domenicano per investigarla. Venne stroncata. A quel punto, tutte le conferenze episcopali, dal Messico in giù, condannarono l’opera, senza averla ascoltata né letta. Eravamo accusati di aver fatto un danno alla fede e soprattutto alla gioventù latinoamericana».

L’ostracismo dei vertici ecclesiastici non ferma però la diffusione della radionovela. Tanto che, ancora oggi, a distanza di 35 anni, Un tal Jesús viene trasmessa da emittenti di molti paesi. O viene scaricata (con audio e testi) dai siti di Radialistas.

La «passione» costa

José Ignacio lavora in vari paesi latinoamericani, sempre al seguito della sua passione per la radio. Nel 2001, assieme ad altre tre persone, fonda Radialistas Apasionadas y Apasionados, divenendone il cornordinatore.

«Produciamo micros – noti anche come radio clips – di 4-5-6 minuti. Alcuni più drammatici, altri più umoristici. Poi, attraverso internet, li inviamo a emittenti dell’America Latina e del Caribe. In pratica, siamo un centro di produzione che alimenta la programmazione di moltissime radio».

I temi trattati vanno dai diritti di cittadinanza alle relazioni di genere, dallo sviluppo sostenibile alle tecniche di abilitazione radiofonica. Scorrendo il vasto archivio di Radialistas, si scoprono lavori di altissima valenza educativa. Ad esempio, i 10 capitoli sul tema degli abusi sessuali ai danni dei minori (No al abuso sexual infantil). Oppure i 5 di Sueños rotos (Sogni infranti), sceneggiato radiofonico dedicato al problema della gravidanza delle bambine. La vicenda di Jessica e Roni – drammatica, ma molto comune in tutti i paesi latinoamericani – viene raccontata con delicatezza e partecipazione emotiva.

Né viene dimenticata la storia latinoamericana. Come i 20 capitoli di 500 años, basati su «Le vene aperte dell’America Latina», il capolavoro di Eduardo Galeano.

Se affrontare queste tematiche è difficile, ancora più complicato è trovare i soldi per portare avanti i progetti. «Sì, i costi sono alti – conferma José Ignacio -. Per fortuna, quasi la metà del nostro bilancio è coperto dai finanziamenti di Cafod, un’organizzazione cattolica inglese, che fa parte di Caritas Inteational e che mai ha cercato di condizionare il nostro lavoro. Il resto lo dobbiamo trovare noi attraverso la vendita di alcuni servizi: seminari di formazione, corsi online, pubblicazione di guide, sempre con riferimento alla comunicazione radiofonica».

Tra le guide sul «fare radio» e sull’«insegnare a fare radio» ci sono quelle firmate da José Ignacio, come Manual urgente para radialistas apasionados e Pasión por la radio. Libri posti in vendita per l’autofinanziamento, ma al tempo stesso scaricabili gratuitamente da internet.

Lavorando per molti paesi, lo sforzo di Radialistas non poteva limitarsi alla lingua spagnola. E così la maggior parte dei testi sono tradotti anche in portoghese. «E?poi – precisa José Ignacio -, nella nostra piattaforma internet chiamata “Radioteca”, nata nel 2006, si trovano gli audio di moltissime produzioni, che sono quindi ascoltabili in vari idiomi, dal portoghese all’inglese, fino ad alcune lingue indigene, come quechua, aymara, guarani, mazteco e altre ancora».

Da donne a protagoniste

La produzione più recente di Radialistas riguarda la trasformazione in radionovela di «Laudato si’», l’enciclica di papa Francesco dedicata al dissesto ecologico del pianeta. Una realizzazione che ha coinvolto molte persone: soltanto gli interpreti che hanno dato la loro voce ai protagonisti (uomini, animali, piante, elementi naturali) sono stati una trentina. A dirigere il tutto è stata Tachi Arriola, una peruviana di Iquitos, tutta verve e sorrisi, che lavora a Radialistas fin dalla fondazione, occupandosi principalmente di diritti della donna.

«Io credo – ci spiega con un ampio sorriso – che la comunicazione, per essere democratica, non soltanto debba comprendere le donne, ma anche il loro protagonismo. Le donne, cioè, sia come fonti d’informazione che come attrici. Dato che la comunicazione è potere, noi cerchiamo di utilizzare questo potere per diffondere i diritti». Anche quelli più controversi e dibattuti come i diritti sessuali e riproduttivi.

Sul tema, Tachi ha da poco terminato Comunicación de colores, una guida multimediale, con testi e video, sul come trattare, dal punto di vista giornalistico, le diversità sessuali. Una scelta molto coraggiosa in paesi dove il sentimento machista è ancora una solida realtà e l’omofobia assume spesso connotati violenti. Il primo capitolo inizia così: «Siamo diversi, valiamo allo stesso modo» (Somos diferentes, valemos igual).

«Io credo – commenta Tachi – che se le donne sono escluse e violentate, lo sono ancora di più le persone omosessuali e transessuali».

Liberare la cultura

José Ignacio ci accompagna a vedere lo studio di registrazione, che sta nello stesso appartamento: è una sala insonorizzata con alcuni microfoni, un computer e un mixer. «Ecco, in questa piccola stanza facciamo le registrazioni.  Tutte le nostre produzioni le mettiamo poi in internet con derechos compartidos. Perché noi non crediamo nel copyright, brutta invenzione del capitalismo. La cultura non deve essere confinata, ma liberamente distribuita».

È, questa, una delle tante sfide che ogni giorno Radialistas si trova ad affrontare. Con molta fatica, ma sempre con un’enorme passione.

 

Paolo Moiola
(fine 6.a puntata – continua)